BONIFACIO VIII

Enciclopedia dei Papi (2000)

Bonifacio VIII

Eugenio Dupré Theseider

Non si conosce la data di nascita di Benedetto Caetani, il futuro B.: forse è da situare nel quarto decennio del Duecento (1235?). Nacque quasi certamente in Anagni, da una famiglia della piccola nobiltà della Campagna: il padre Roffredo e la madre Emilia dei signori di Guarcino (detti anche "di Patrasso"), imparentata con i conti di Segni, ebbero vari figli dopo il primogenito Roffredo: Benedetto era forse tra i più giovani.

Di lui non abbiamo notizia prima del 1260, quando Alessandro IV gli permise di assumere un canonicato nella cattedrale di Todi (un altro ne aveva già in Anagni), dove Benedetto deve essersi portato allorché (1252) suo zio paterno Pietro Caetani ne divenne vescovo. Ebbe allora inizio una sua lunga e affettuosa consuetudine con quella città umbra, di cui il fratello Roffredo (1283-1284) e quindi egli stesso (1297) vennero eletti podestà. Presso Todi gli appartenne il piccolo castello di Sismano, forse lasciatogli dallo zio vescovo. Può darsi che in Todi abbia iniziato privatamente lo studio del diritto, continuandolo a Spoleto e Perugia. Ipotesi abbastanza plausibile è che vi si dedicasse in modo più profondo e sistematico all'Università di Bologna, dove fu certamente, ma in data non precisabile. Assai dubbio è invece che abbia frequentato anche lo Studio di Parigi. Comunque, la sua eccezionale cultura giuridica, particolarmente nel campo del diritto canonico, dovette completarsi negli anni in cui fu alla Curia romana, impareggiabile scuola, che lo formò anche come diplomatico e statista, durante un trentennio di attività, in cui ebbe spesso incarichi di fiducia.

Le sue grandi missioni in Francia e in Inghilterra gli permisero di formarsi una vasta esperienza e lo fecero apprezzare da parte dei capimissione e futuri papi; non è un caso se durante i loro pontificati percorse rapidamente la carriera curiale, come avvocato concistoriale, notaio, cancelliere e infine cardinale.

Nel 1264 andava a Parigi, come segretario del cardinale legato Simon de Brie (poi Martino IV). Di là, nell'anno successivo, e fino al 1268, accompagnava in Inghilterra un altro cardinale legato, Ottobono Fieschi (il futuro Adriano V). Benedetto ricorderà, più tardi, di esser stato assediato allora nella torre di Londra e liberato dal futuro Edoardo I. Da quel tempo ebbe sempre simpatia per quel re, e ne può esser derivato, di riflesso, un certo pregiudizio verso il re di Francia, Filippo IV il Bello. Durante il suo brevissimo pontificato (1276) Adriano V lo inviava in Francia per sopraintendere alla raccolta delle decime della crociata, e fu anche questa una utile esperienza nel campo finanziario. Insieme col cardinale Matteo Rosso Orsini e per incarico di Niccolò III condusse nel 1280 le trattative fra Rodolfo d'Asburgo e Carlo I d'Angiò.

Martino IV lo faceva cardinale diacono di S. Nicola in Carcere (12 aprile 1281), autorizzandolo a conservare i molti benefici di cui godeva (diciassette, dei quali otto in Francia). Una missione di scarso rilievo (presso Carlo d'Angiò, per dissuaderlo dal duello con Pietro III d'Aragona) lo metteva a contatto con il grave problema delle conseguenze del Vespro siciliano, questione destinata a influire profondamente su tutto il suo pontificato. Fin da allora dovette simpatizzare con l'Angioino, tanto che (come più tardi ricorderà) lo rimproveravano di essere "gallicus", cioè filofrancese e antiromano. Di positivo c'è che protesse ed aiutò sempre casa d'Angiò. Nel 1289, essendo papa Niccolò IV, suo grande protettore, unitamente al cardinale Latino Malabranca ed altri cardinali si occupava di una intricata questione giurisdizionale fra il re di Portogallo e quella Chiesa, a proposito di appropriazioni ed ingerenze indebite da parte dell'autorità laica, affrontando nella relazione conclusiva, forse opera sua, il problema dei rapporti fra i due poteri: un precedente d'indubbia importanza per gli altri più gravi conflitti che impegneranno poi Benedetto da pontefice. Ebbe subito dopo a occuparsi del problema siciliano. Essendo Carlo II d'Angiò assediato in Gaeta da Giacomo II d'Aragona, da Roma partivano in legazione i cardinali Gerardo di Sabina e Benedetto Caetani. Ma Carlo non volle neppure riceverli, finendo invece per accettare la mediazione inglese per una tregua. Più tardi Caetani, da papa, gli rimprovererà questo passo, troppo affrettato e non autorizzato dalla Chiesa.

Speciale interesse presenta la grande legazione in Francia dei medesimi cardinali (primavera del 1290). Fu l'occasione in cui Benedetto si affermò veramente come abile negoziatore, ma anche come battagliero assertore del punto di vista della Curia romana. Varie e delicate erano le questioni da trattare, sia sul piano internazionale sia interno della Francia. Tra queste, e non riguardava solo la Francia, v'era il grosso dissidio fra clero secolare e clero regolare, provocato dalla bolla di Niccolò III (Exiit qui seminat) a favore degli Ordini mendicanti. Nel novembre del 1290 si adunava per dirimere tale questione, in Parigi, un sinodo, nel quale Caetani, dimostrando una perfetta conoscenza e padronanza del problema, assunse una netta posizione, destinata a suscitare nel mondo francese vive ostilità e antipatie, che si sarebbero protratte assai a lungo. In quell'occasione Benedetto apparve per la prima volta nella sua piena personalità di duro polemista, beffardo, anzi mordace parlatore, altero formulatore di ordini. Durante tutto il 1290 i legati restarono in Francia, per condurre in porto due importanti accordi internazionali, tra Francia ed Aragona, e fra Aragonesi e Angioini (convegno di Tarascona, febbraio 1291).

Al suo ritorno a Roma, Caetani venne promosso cardinale prete di S. Martino ai Monti (22 settembre 1291), anche questa volta senza perdere gli altri canonicati e prebende. Così, grazie all'ascendente che aveva e che veniva consolidando sempre più, poté favorire la fortuna della propria famiglia. Il fratello Roffredo diveniva senatore di Roma per il 1291-1292. Alla sua morte l'affetto del cardinale (e poi del papa) si concentrò tutto sui nipoti, specie su Pietro, che egli fece marchese di Ancona. L'ingente capitale accumulato con i redditi delle sue varie prebende gli permise di accarezzare e poi tradurre in atto, valendosi senza scrupoli della sua alta posizione ufficiale, un vasto e organico piano di azione, inteso a costituire per la sua famiglia un solido patrimonio fondiario. Non soltanto gli premeva di mettere i Caetani in grado di reggere al confronto con le grandi casate dell'aristocrazia baronale romana, già illustri per aver fornito alla Chiesa papi e cardinali, ma voleva anche costituirsi in tal modo una sicura piattaforma di potenza.

Per tali acquisti patrimoniali Benedetto procedeva in modo sistematico, in genere preferendo località che avessero valore di chiave o di capisaldi per ulteriori acquisizioni, sì da accerchiare e costringere poi alla cessione un numero sempre maggiore di altri proprietari. Dopo i primi sporadici inizi (in Anagni, 1278), i suoi acquisti divenivano considerevoli con la compera del castello di Selvamolle presso Ferentino e si allargarono rapidamente nella zona fra Anagni, Alatri e Ferentino. È stato assai bene rilevato da G. Falco (Sulla formazione e la costituzione della signoria dei Caetani) che, fin dall'inizio di tali acquisti, si manifestò una sorda rivalità fra Caetani e i Colonna. Da principio ciò avvenne in clima di accordo: insieme, Giacomo Colonna e Benedetto condussero le trattative di pace fra Roma e Viterbo (1291) ed a questa città fecero un cospicuo prestito; nel 1293 Benedetto aiutava Pietro Colonna a comprare il dominio feudale su Nepi. Allo scontro palese fra Colonna e Caetani si giunse per due località della Marittima, dove stava disgregandosi il patrimonio degli Annibaldi: Norma e Ninfa. Sembra che Caetani arrivasse per primo ad acquistare Norma (per 26.500 fiorini, nel 1292), al che i Colonna rispondevano con l'acquisto di Ninfa, che però nel 1297, dopo la loro rovina, sarebbe passata ai Caetani. In due altre zone Benedetto, prima da cardinale poi da papa, provvedeva ad acquistare terre e titoli feudali per i propri parenti: in Terra di Lavoro, dove s'avvalse del favore di Carlo II per ottenere al nipote Roffredo (II) l'investitura delle località di Vairano e di Calvi, e poi (27 febbraio 1295) della Contea di Caserta; e nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, dove per qualche tempo procurò a un suo nipote la grande Contea aldobrandesca, attraverso un matrimonio veramente mal assortito e anche poco duraturo. Un altro sposalizio, ma con durevoli e positive conseguenze patrimoniali, assicurò ai Caetani la Contea di Fondi. Da notare è che, dove poté, Caetani fu attento a che le varie acquisizioni avvenissero in modo giuridicamente ineccepibile e fossero garantite da validi titoli di proprietà o di possesso: tale, la bolla di investitura feudale che rilasciò nel 1300 al nipote Pietro Caetani per tutti i suoi acquisti. In questo modo, alla sua morte la fortuna territoriale di casa Caetani era assicurata perché fondata su un complesso omogeneo di terre e di località, anche se andrà perduto quello che proveniva dal favore del re angioino. L'accusa dei Colonna, che Caetani per questo scopo avesse attinto senza scrupoli alle casse della Chiesa, è probabilmente infondata. Piuttosto resta dubbia la correttezza del suo agire. I papi precedenti (Martino IV e Niccolò IV) avevano vietato che si alienassero a baroni romani le terre della Campagna e della Marittima, ma Caetani giustificò l'infrazione commessa, allegando la particolare devozione che la sua famiglia aveva ed avrebbe sempre avuto per la Chiesa.

Il lungo conclave del 1292-1293, succeduto alla morte di Niccolò IV, doveva vedere i cardinali discordi, e poi in fuga da Roma e dai calori estivi. Caetani si ridusse alla sua Anagni e poi al castello di Sismano, sempre solo e facente parte per se stesso, non essendo legato ad alcuno dei due schieramenti contrapposti dei Colonna e degli Orsini. Era in buoni rapporti con ambedue le famiglie, anzi imparentato con loro alla lontana: caso mai, li aveva migliori con i Colonna. Si seppe comportare a ogni modo con molta abilità (sì che fu allora giudicato "quasi dominus Curie"). Quando, alla ripresa del conclave (Perugia, 1294), dai cardinali, non senza la pressione di Carlo II, venne scelto l'eremita Pietro del Morrone, papa Celestino V, Benedetto gli diede senza esitazione il suo voto.

L'abdicazione o rinuncia del papa, tanto discussa allora ed ancor oggi, va strettamente unita alla leggenda, "su piano di novellistica" (A. Frugoni), della parte che Caetani vi avrebbe avuto nell'indurre con subdola abilità e nel proprio interesse Celestino V alla grave decisione. La cosa va esclusa, essendo invece assai probabile che l'idea del "gran rifiuto" sia sorta e cresciuta nell'animo stesso di Celestino V, e può darsi benissimo che Caetani, ormai noto e stimato come una vera autorità nel campo del diritto canonico, sia stato interpellato dal papa circa l'ammissibilità e validità della rinuncia; ed è da credere che il suo parere, dato però in piena scienza e coscienza, sia stato determinante. Può infine darsi che egli stesso abbia redatto il testo dell'atto di abdicazione che Celestino lesse in Concistoro.

Brevissimo, in Napoli, il nuovo conclave; il 24 dicembre 1294 i cardinali, al terzo scrutinio, elessero Benedetto Caetani pontefice, non proprio unanimi; ma poi i dissenzienti "accedettero" all'elezione. Erano questi probabilmente i cardinali francesi e non i Colonna, i quali dovettero comprendere, non meno dei loro rivali Orsini, che occorreva sfuggire all'oppressiva tutela del re Carlo II. E sembra che anche questi rimanesse contento della scelta. Tutto quel che Benedetto aveva fatto sino allora per casa d'Angiò deponeva a suo favore.

Dell'energia del nuovo pontefice, che prese per sé il nome di Bonifacio, si ebbe subito la prova. Come egli stesso afferma nella bolla Olim Celestinus (8 aprile 1295), il suo predecessore in persona, rendendosi conto del caos che lasciava in tutti i campi della amministrazione curiale, lo aveva pregato di rimediarvi; fatto sta che egli in parte abolì, in parte sottopose a sospensiva i provvedimenti presi da Celestino V, tutti sospetti di esser stati estorti alla sua "sancta simplicitas". Fu riconosciuta valida soltanto la sua creazione di dodici cardinali, e sarebbe stato impossibile (oltre che imprudente) revocarla in dubbio. Queste disposizioni del nuovo papa, non arbitrarie, ma prese per necessità di governo, e comunque indizio di un dinamismo inconsueto, non poterono mancar di suscitare i primi malumori fra gli interessati e negli ambienti di Curia. Sembra che si diffondessero anche tra il popolo napoletano: si dice che qualche tempo appresso, essendosi sparsa la voce della morte subitanea in Roma di B., a Napoli si esultasse pubblicamente. Assai malcontento dovette essere anche il re, allorquando il papa decideva di abbandonare Napoli per portarsi a Roma.

Partiva il 1° o il 2 gennaio 1295, e nel suo seguito era, sotto stretta sorveglianza, l'ex papa, che poco prima aveva tentato di fuggire ma era stato catturato dai militi angioini e consegnato a B., il quale finì per rinchiuderlo nella rocca di Fumone (la leggenda che lo facesse uccidere non merita credito). Il 17 gennaio entrava trionfalmente in Roma. Veniva consacrato in S. Pietro e incoronato in Laterano il 23 gennaio.

L'avvenuta intronizzazione veniva da B. annunciata alla cristianità con l'enciclica Gloriosus et mirabilis (25 gennaio 1295), in cui, con linguaggio fortemente retorico, si svolge il tema dell'unità della Chiesa. Non appena pontefice, B. continuava a mostrare il suo "stile", togliendo di mezzo altri abusi che, oltre ad essere dannosi e disdicevoli per la Chiesa, offendevano la sua sensibilità di giurista. Così come aveva fatto con i provvedimenti di papa Celestino, annullava (aprile 1295) tutte le "aspettative", purché non ancora perfezionate, che erano state concesse da Onorio IV e da Niccolò IV. Parimenti indicativa fu la radicale sostituzione di tutto il personale della Curia e della Cancelleria con persone a lui devote, in quasi tutti i posti e gradi. In tal modo spezzava tutte le antiche clientele, e preparava naturalmente la propria.

Così dunque, nell'aprile del 1295, egli dava inizio a una prodigiosa attività di governo, che non avrebbe avuto mai sosta, se non a causa di malattia; e per vero da questo punto di vista il papa fu duramente provato: soffriva di gravi disturbi del ricambio, specie di gotta e di calcoli renali.

Unico giovamento era il consumo dell'acqua di Anticoli (odierna Fiuggi), che gli veniva portata espressamente a Roma con carovane di muli. Solo qualche anno più tardi il papa doveva trovare nel medico catalano Arnaldo da Villanova colui che seppe alleviare i suoi mali.

Il riacquisto dell'isola di Sicilia all'obbedienza della Chiesa ed a favore degli Angioini fu il problema che occupò quasi interamente il pontificato di B., il quale vi si dedicò sempre di persona, con un incessante impegno, valendosi della sua arte diplomatica e dispiegandovi una tenacia, una pazienza che in lui erano veramente insolite. Eppure dovette finire per rassegnarsi alla vittoria aragonese.

Non risulta che, da cardinale, avesse avuto parte negli accordi di Figueras (1293), con i quali Carlo II e Giacomo II si erano intesi circa un cambio fra la Sicilia e la Sardegna, da conquistare questa con le forze congiunte dei due re. Fu però la soluzione che poi B. doveva far sua. Ve n'era poi un'altra, anch'essa avviata prima ch'egli divenisse papa: indurre il luogotenente e fratello di Giacomo, Federico, a rinunciare all'isola. Quando, già nel febbraio 1295, i Siciliani gli inviarono una propria ambasceria d'omaggio, B. rispose che avrebbe trattato direttamente con il luogotenente, in presenza tuttavia di rappresentanti dell'isola muniti di pieni poteri. L'Aragonese accettò d'incontrarsi con il papa a Velletri, nel giugno 1295. Allora questi, per meglio convincere Federico, gli propose, sempre in cambio della rinuncia alla Sicilia, di procurargli la mano di Caterina di Courtenay, nipote dell'ultimo titolare dell'Impero latino d'Oriente e ambitissima erede di quella Corona; gli promise anche un cospicuo sussidio in denaro per la conquista di quel trono. Poiché Federico non si mostrò a priori contrario a tale prospettiva, B. poté illudersi di aver già risolto il problema siciliano, tanto più che contemporaneamente aveva mandato avanti le trattative anche con Giacomo II. Vi fu una serie di accordi che si usa raggruppare sotto il titolo di "pace d'Anagni" (20 giugno 1295). Lieto com'era del suo primo successo in politica estera, B. lo celebrò in due bolle, Splendor glorie e Dilecta pax. Ma s'ingannava. Federico aveva posto come precisa condizione che la Courtenay accettasse entro una data scadenza; quanto a Giacomo II, non si era impegnato formalmente alla restituzione dell'isola. Il papa si adoperò instancabilmente per tradurre in atto le sue speranze. Sapendo del loro ascendente su Federico, volle rendersi favorevoli i due maggiori esponenti della popolazione isolana e fedeli suoi consiglieri: Giovanni da Procida (al quale fece restituire da Carlo II certe terre che gli erano state confiscate) e Ruggero di Lauria, cui concesse in feudo le isole di Gerba e di Cherchen nella Grande Sirte. Cercava inoltre di procurarsi simpatie fra gli stessi Siciliani: offriva loro il passaggio dell'isola sotto il diretto dominio della Chiesa e la facoltà di scegliere da soli un cardinale che li avesse a governare; e, poiché gli isolani affermavano che "non volebant esse francigenas dominos suos", ecco il papa prometter loro che non avrebbe inviato a reggerli "gallicos sive provinciales sive ultramontanos", bensì "regnicolas seu alios italicos vel etiam de ipsa insula oriundos".

Quali che fossero, i progetti e le speranze del papa furono resi vani, dapprima dal rifiuto opposto da Caterina al matrimonio con Federico (che pertanto restava libero dal suo impegno), e poi soprattutto dall'iniziativa dei Siciliani, che in un loro parlamento a Palermo dichiaravano Federico "signore" dell'isola (11 dicembre 1295); poi, il 15 gennaio 1296, un altro parlamento a Catania lo acclamava "re di Sicilia", col nome di Federico III. Naturalmente il pontefice dichiarava nulla questa iniziativa e abusivo il titolo regio di Federico, al quale ingiungeva di presentarsi subito a Roma. Vi invitava anche Giacomo II, che vi giunse ai primi del 1297, ma non ottenne di convincere il fratello. Allora B. si decideva per l'azione di conquista militare della Sicilia, che volle affidare per l'appunto a Giacomo II.

Con la bolla Redemptor mundi (20 gennaio 1297) instaurava con lui nuovi e interessanti rapporti, collegati in modo tipico sia con la questione siciliana sia con il proposito di riconquista della Terrasanta. Gli conferiva le cariche di gonfaloniere, capitano e ammiraglio generale delle forze della Chiesa, titolo quest'ultimo del tutto nuovo, e che si accompagnava al proposito di formare una flotta papale di sessanta triremi, che effettivamente si incominciò subito a costruire nei cantieri catalani, con enorme spesa per Bonifacio VIII. È probabile che l'idea di far sventolare nel Mediterraneo lo stendardo papale su una flotta della Chiesa sia venuta in mente a lui stesso; e rispondeva ai suoi propositi di magnificenza. Ma la flotta non venne mai in essere, e del resto assai più positivo era l'impegno, che Giacomo II si assumeva, di porre la potente marineria del Regno aragonese a disposizione della Chiesa per combatterne i "rebelles atque inobedientes".

Così Giacomo II veniva a Roma, dove si trovavano già, su invito o meglio ingiunzione del papa, la madre Costanza e la sorella Violante, promessa sposa a Roberto d'Angiò. Poi, con la bolla Super reges et regna (4 aprile 1297), B. gli conferiva il titolo di re di Sardegna e Corsica, e il 5 gliene imponeva la corona di propria mano.

Non sappiamo fino a qual punto il papa contasse effettivamente sulla efficienza militare del re d'Aragona, o sulla sua buona volontà di combattere veramente contro il proprio fratello. Allo scontro armato poi si venne in effetti, con la battaglia navale di Capo d'Orlando (4 luglio 1299), in cui Federico venne nettamente sconfitto, ma riuscì a salvarsi, benché ferito, e Giacomo non sfruttò la vittoria ma, subito dopo, se ne tornò in Aragona, accampando come ragione o pretesto la mancanza di sussidi da parte del papa, il quale se ne dolse assai e lo accusò apertamente di aver tradito la Chiesa.

Oltre a questa sequela di eventi ve ne furono in quel tempo altri, che procedettero in parallelo fra loro ma si influenzarono anche reciprocamente, e condizionarono tutto il comportamento e le decisioni del papa. Vi è anzitutto da considerare la rottura fra lui ed i due cardinali Colonna, Giacomo e Pietro (nipote del primo), strana e penosa vicenda, che, pur essendo in sé limitata al mondo curiale e romano, ben presto passò sul piano internazionale.

Confluirono in essa vari motivi: quello familiare e locale, che si collegava alle reazioni determinate dal delinearsi della nuova potenza di casa Caetani; un motivo politico connesso con lo stretto rapporto che vi era fra i Colonna e gli Aragonesi; e infine un motivo religioso, in quanto i due cardinali erano molto legati all'ambiente celestiniano e degli Spirituali, saturo di aspettazioni gioachimitiche, portato a condannare come corrotta la Chiesa del tempo ed a giudicare B. papa illegittimo. Quest'ultimo motivo si cambiò assai per tempo in un problema di natura ecclesiologica, di vasta portata e molto pericoloso: quello dei rapporti fra il papa e il Collegio cardinalizio, che ormai da decenni era avvezzo ad un'assai ampia autonomia ed ora si trovava di fronte a una personalità estremamente autoritaria, con la quale non erano possibili che la sottomissione o l'opposizione radicale. Quanto al comportamento del pontefice, senza alcun dubbio vi ebbe molta parte la sua naturale e intollerante volontà di imperio, ma si ha l'impressione che vi entrasse anche una sorta di paradossale complesso di inferiorità di fronte all'accusa di illegittima successione, onde la rigidezza e ostinazione, a volte addirittura inumana, della sua condotta.

La questione della legittimità venne discussa fin dal primo anno di pontificato, quando sembra che i Colonna, d'accordo con altri cardinali, la sottoponessero al giudizio dei professori della Sorbona. Ma apparentemente i rapporti col papa restarono corretti. Poi si ebbe un episodio clamoroso: il 3 maggio 1297 uno di casa Colonna, probabilmente Stefano, con un colpo di mano che non si comprende a che mirasse (e si penserebbe anche a una sorta di beffa), s'impadroniva di un ingente tesoro, sembra di 200.000 fiorini, appartenente a B., che Pietro Caetani trasportava a Roma da Anagni e che era forse destinato all'acquisto di Ninfa. Profondamente irritato, il giorno dopo B. ingiungeva ai due cardinali di presentarsi a lui immediatamente. Subito dopo il tesoro veniva restituito, ma i due cardinali rifiutarono la consegna del colpevole e quella - richiesta a titolo di garanzia - dei castelli di Palestrina, Zagarolo e Colonna.

Da quel momento la lotta divenne aperta e fu condotta senza alcun scrupolo o riguardo. Per B., oltre ai risentimenti personali e familiari, era in giuoco la sua stessa dignità di pontefice e, attraverso l'accusa di illegittimità, appariva minacciata anche l'unità della Chiesa, ché vi era il pericolo di uno scisma. Sapeva assai bene a chi erano legati i Colonna: non è senza significato che il 7 maggio 1297 egli incaricasse l'inquisitore dell'Umbria di perseguitare i "bizochi" (cioè i Celestini e gli Spirituali). Subito dopo, il 9, teneva in un'adunanza pubblica, davanti a S. Pietro, un forte discorso contro i Colonna. "Come possiamo presumere [vi diceva fra l'altro] di giudicare re e principi della terra se non osassimo nemmeno di eliminare un simile vermiciattolo? Periscano dunque [i Colonna] nei secoli dei secoli, sì che conoscano che il nome del romano pontefice è noto per ogni dove e che egli è il solo che siede altissimo sopra tutti".

Convocava poi un Concistoro per il 10 maggio. Poiché i Colonna sapevano quel che vi si sarebbe discusso, vollero battere il papa in velocità, redigendo, mentre si trovavano rifugiati nel castello di Lunghezza presso Palestrina, un documento o manifesto (firmato anche da Iacopone da Todi), nel quale si elencavano le prove dell'illegittimità del papa e si faceva appello a un concilio che avesse a giudicarne. Nel Concistoro (al quale naturalmente i due Colonna non si presentarono) B. faceva dar lettura della bolla Preteritorum temporum, nella quale faceva nuovamente la storia di tutti i misfatti e torti di casa Colonna, e specificamente dei due porporati verso i loro parenti, li dichiarava decaduti dalla loro dignità e sopprimeva inoltre tutti i benefici goduti dagli ecclesiastici della famiglia, che così era posta virtualmente al bando come pericolosa. Senza dubbio anche la mossa dei due cardinali lo era e costituiva una formidabile minaccia contro tutto l'organismo monarchico e assoluto della Chiesa, quale B. la concepiva. Ma non tutti i torti erano dalla parte dei cardinali, e tanto meno era giusto coinvolgere nella condanna l'intera famiglia. Era la prima volta che B. scatenava da papa la sua scintillante e furibonda vena polemica. La sviluppava subito appresso nella bolla In excelso throno (10 maggio 1297), in cui veniva ufficialmente sancita la deposizione dei due cardinali, assai grave provvedimento, non più preso da molto tempo. La (seconda) risposta dei Colonna (11 e 16 maggio), che ribadiva le accuse già fatte, provocava la bolla Lapis abscisus (23 maggio), con la quale i cardinali vennero scomunicati e i loro beni confiscati. Non mancò la replica colonnese ("terzo manifesto": 15 giugno), che - fatto nuovo e importante - venne inviata anche alla Sorbona e divulgata ovunque. Conteneva nuove e anche più dure accuse: di assolutismo, di tirannico comportamento verso il Sacro Collegio, di esoso fiscalismo verso tutto il mondo.

In questo punto la vicenda colonnese si innestò su quella dei rapporti fra il papa e i re di Francia e d'Inghilterra. Fra i molti e gravi problemi di politica internazionale che aveva ereditati, B. ebbe in modo particolare a cuore la pacificazione tra quei due re e la sistemazione del problema siciliano. Nel suo proposito avrebbero poi - terzo scopo - dovuto render possibile, una volta che fossero stati risolti, la riconquista della Terrasanta, effettivamente impensabile senza il concorde volere delle due maggiori potenze europee. Assai scarsa importanza invece dovette dare, in questo giuoco di rapporti e di sviluppi politici, all'Impero, che era anche malamente rappresentato dalla scialba figura del re dei Romani Adolfo di Nassau, candidato dal 1292 alla Corona imperiale. B. non aveva mancato, a ogni modo, di partecipare anche a lui il suo avvento al trono di Pietro, ma Adolfo non gli inviò la tradizionale ambasceria di omaggio, onde nel maggio 1295 gli giunse dal papa una vera e propria reprimenda, nella quale gli si rimproverava - era vero - di essersi messo al soldo del re d'Inghilterra come semplice cavaliere di ventura e lo si ammoniva a non combattere contro il re di Francia. Nel medesimo tempo il papa invitava uno dei principali elettori (e con lui gli altri) a far del tutto per evitare lo scoppio delle ostilità; se non fosse stato possibile, gli ordinava di rifiutare ad Adolfo il suo aiuto (23 maggio 1295).

È stata fatta la plausibile ipotesi (Otto) che fin dal 1296 il papa meditasse di togliergli la dignità di re trasferendola a un principe francese: il 18 agosto invitava il re di Francia a mandargli a Roma (e in forma non ufficiale, anzi segreta) il fratello Carlo di Valois perché potesse comunicargli un suo progetto, "ad promovendam persone tue exaltacionem honoris et regni tui stabile fulcimentum" (e rinnovò tale invito, anzi in forma urgente, nel dicembre 1298 e nel dicembre 1300). Doveva aver pensato a una particolare sistemazione per Carlo, e può darsi che intendesse "di farlo imperadore de' Romani" (G. Villani VIII, 43). Una nuova "translatio imperii" dunque (non a caso questa tipica formula della "translatio" ricorre spesso nelle lettere del papa), la quale però, più che intesa a favorire la casa di Francia, avrebbe dovuto soprattutto esaltare la pienezza del potere papale.

Comunque, B. non dovette stimare granché il Nassau: un cronista inglese afferma che nel 1297 egli invitò gli elettori a contrastarlo. Fatto sta che, quando poi essi deposero Adolfo (23 giugno 1298), il papa non protestò affatto contro tale iniziativa, in sé arbitraria. Proprio al tempo dei suoi primi contatti con Adolfo, il papa ebbe anche l'occasione di intromettersi negli affari interni di Firenze e quindi della Toscana: è possibile che pensasse alla attuazione di un progetto che era già stato accarezzato da Innocenzo III, una sorta di "recuperazione" di quella regione, in nome dei diritti che vi accampava la Sede apostolica. Gliene offrì il destro l'episodio di Giano della Bella.

Prima ancora che questi venisse posto al bando (marzo 1295), i magnati fiorentini si erano rivolti, per cacciarlo da Firenze, a un cavaliere borgognone, Giovanni di Châlon, al quale Adolfo di Nassau affidava anche il vicariato generale dell'Impero in Toscana e il compito di rivendicare i diritti imperiali usurpati da quei Comuni. Questi fecero lega e si tassarono per liberarsene; la cospicua somma che misero insieme venne affidata al papa, il quale però, invece di versarla allo Châlon, decise, con indubbia disinvoltura, di tenersela, in quanto, essendo vacante l'Impero, era lui e non quel cavaliere che lo rappresentava. Quando poi una parte del popolo fiorentino tramò per richiamare Giano della Bella, B., d'accordo con i magnati e le sfere dell'alta banca, scrisse (gennaio 1296) una lettera per ammonire il Comune perché, sotto pena d'interdetto, vietasse all'ex tribuno il ritorno in città o nel contado. A tale intervento nelle questioni fiorentine fece seguire altre iniziative: si offrì a Prato come arbitro di pace e volle ricondurvi i fuorusciti (e fu motivo di allarme per Firenze); e in Firenze stessa attese abilmente a crearsi un ambiente favorevole, mediante concessioni a diverse importanti famiglie della città e del contado. Si preparava così all'acquisto della Toscana attraverso l'invio di Carlo di Valois.

Se B. aveva così poca considerazione per Adolfo di Nassau, molta ne doveva ai due più potenti sovrani di allora, Edoardo I d'Inghilterra e Filippo IV il Bello di Francia. Questi erano in urto, a causa soprattutto di quel singolare rapporto feudale che li univa. Nel 1294 a Edoardo I era stato tolto il Ducato di Guienna dal re Filippo, che per di più lo aveva citato davanti alla propria Curia, come vassallo inadempiente. Il papa ne era preoccupato, perché la loro discordia rendeva impossibile la crociata in Oriente. Ancora stando in Napoli e continuando una iniziativa del suo predecessore, si era adoperato per rappacificarli ed evitare un conflitto, al quale del resto nessuno dei due teneva molto. Perciò accettarono la tregua che, nel maggio 1295, il papa impose attraverso l'invio di due cardinali legati. Ma intanto quei re continuavano a preparare la guerra, e, avendo bisogno ambedue di denaro, si misero a tassare i loro sudditi e non ebbero ritegno di farlo anche con gli ecclesiastici. Orbene, proprio la considerazione finanziaria, strettamente collegata ad essenziali questioni di principio, cioè all'esercizio della "sovranità fiscale" ed all'osservanza o meno della corrispondente immunità ecclesiastica, doveva portare il papa ad urtarsi, anche se non di proposito, con quei due sovrani. Con Edoardo I i rapporti erano stati inizialmente buoni; si guastarono però quando l'arcivescovo di Canterbury, Robert Winchelsea, apertamente negò al re il diritto di tassare il clero e protestò presso il papa. Poiché anche dalla Francia giungevano analoghe lagnanze di ecclesiastici, B. ne colse l'occasione per emanare, il 24 febbraio 1296, l'enciclica Clericis laicos.

Questa prende le mosse dalla constatazione che, se fin da antichi tempi i laici sono stati infesti ai chierici, oggi, non contenti di stare entro i propri limiti, vogliono invadere un campo a loro vietato e non considerano che ad essi è interdetta ogni potestà sugli ecclesiastici, e che le contribuzioni che vengono loro imposte non sono altro che un modo per ridurli in servitù. Purtroppo però molti dei chierici finiscono per rassegnarsi e subire tali abusive tassazioni. Ora il papa, non volendo che passi sotto silenzio "tam horrendum secularium potestatum abusum", vieta a tutti gli ecclesiastici di pagare tali imposte, a qualsiasi titolo, senza l'autorizzazione della Sede apostolica; ed a qualsiasi autorità civile di imporle, o di confiscare o detenere beni della Chiesa; commina scomuniche, interdetti o deposizioni a tutti i contravvenenti. La presa di posizione nel campo dell'immunità fiscale del clero non era una cosa nuova. Era già stata fatta da papi precedenti e del resto tale immunità non era granché rispettata in Italia (per es. non a Pisa ed a Firenze). B. poteva ben dire, come poi disse, di essersi limitato a riprendere e rafforzare le sanzioni già esistenti contro ogni attacco al tradizionale privilegio ecclesiastico. È anche probabile che non volesse affatto mettersi in urto con i reggitori degli Stati europei. Non si rendeva però conto delle inevitabili conseguenze della sua iniziativa. Poiché la tassazione del clero non veniva da lui categoricamente vietata, ma solo si chiedeva che, volta per volta, se ne ottenesse l'autorizzazione, era chiaro che in questo modo egli si arrogava il diritto di sindacare la legittimità e anche la necessità della tassazione stessa, e con ciò veniva a ledere i diritti sovrani in campo fiscale.

La bolla venne applicata senza particolari difficoltà nella maggior parte dei paesi europei, ma destò scalpore e recriminazioni in Francia e in Inghilterra. In questo Regno si ebbe la prima opposizione alla Clericis laicos da parte del re, che venne scomunicato dal Winchelsea (luglio 1297). Assai più energica fu la reazione francese. Il re, con un'ordinanza del 17 agosto 1296, poneva, motivandolo come indispensabile "ad statum prosperum et defensionem necessariam regno nostri", il blocco sulla esportazione dal Regno di tutta una serie di prodotti e valori. Poiché vi si aggiungeva il divieto agli stranieri di vivere e commerciare in Francia, veniva ad esserne colpito e paralizzato tutto il sistema delle esazioni e dei trasferimenti di denaro dalle chiese di Francia alla Sede apostolica attraverso le grandi case bancarie toscane, che non mancarono di esprimere il loro più vivo allarme al papa. E questi non tardava a prender posizione, emanando la bolla Ineffabilis amoris (20 settembre 1296), il primo dei suoi grandi scritti polemici nei riguardi della Francia.

Poiché ogni attacco contro la libertà della Chiesa, specialissima sua prerogativa, rappresenta un'offesa a Dio, è un insano agire codesto del re, di stendere temerariamente la mano su cose sulle quali non ha alcun potere. B. osserva ancora di non aver formulato alcun divieto assoluto a proposito della tassazione del clero, ma chiesto che si ricercasse in precedenza il benestare della Chiesa. Consideri il re che non gli conviene suscitare l'ira di essa, in quanto la Francia è circondata da Stati che le sono ostili a causa delle sue arbitrarie iniziative (all'Impero ha strappato città e territori, come la Contea di Borgogna; al re inglese ha tolto il feudo di Guienna). Fiera e dignitosa la chiusa: per difendere la proprietà ecclesiastica il papa è disposto a sostenere non solo "damna rerum et exilia, sed et corporalem mortem". È stato osservato (T.S.R. Boase) che, nel difendere il proprio agire, il papa non si fondava su un motivo tecnico-pratico (la protesta per il provvedimento di blocco), ma chiamava in causa un principio giuridico (il privilegio ecclesiastico) e preannunciava il grande tema della "plenitudo potestatis". Ma è pure da ritenersi giustificata la presa di posizione dei due re quando reclamavano la pienezza della giurisdizione entro il proprio Regno, dal che derivava il diritto di tassare anche gli ecclesiastici così come lo era ogni altro ordine di sudditi.

Ignoriamo se il papa abbia saputo degli scritti che allora furono redatti in Francia per rispondere alle sue prese di posizione (la Antequam essent clerici e la Disputatio inter clericum et militem). Ma gli pervenne il testo autentico dell'ordinanza reale, e allora reagì, scrivendo a Filippo IV la lettera De temporum spatiis (7 febbraio 1297), in cui ebbe a giudicare tali misure eccessive e di rischioso impiego, soprattutto se applicate non ai nemici, ma alle Chiese. Nel medesimo giorno gli inviava la Romana Mater Ecclesia, una sorta di interpretazione autentica e in senso attenuativo della Clericis laicos, che, a suo dire, era stata male e falsamente interpretata. Nel complesso B. continuò insomma a mostrarsi conciliante. Per parte sua Filippo non volle nemmeno lui spinger le cose all'estremo, e lasciò inapplicato il suo editto. Ma non rinunciò ad esprimere in vario modo il proprio malcontento. Vista l'ostinazione del re, considerato che vi erano ancora da risolvere la questione siciliana, la colonnese, il problema degli Spirituali e dei Fraticelli, e constatato che i vescovi francesi dopo qualche esitazione si venivano schierando col re, B. finì col cedere.

La via da seguire, se non voleva del tutto perdere il suo prestigio, era di continuare nell'attenuazione progressiva della portata della famosa bolla. Lo desideravano anche altri: ad esempio Giacomo II d'Aragona chiedeva esplicitamente che essa gli venisse "dichiarata e interpretata, come lo fu per il re di Francia". E così B. nel luglio 1297 emanava due altre declaratorie (la Etsi de statu e la Ab olim ante), con le quali lasciava il re di Francia padrone di decidere se una tassa potesse o no esser imposta, anche senza informarne il papa. Tuttavia, l'anno appresso, 1298, inseriva la Clericis laicos nel Liber sextus delle Decretali, e con ciò la ribadiva e confermava, sul piano delle affermazioni di principio, come uno strumento che un giorno avrebbe potuto riuscir utile per controllare nel modo più efficace l'operato dei sovrani. Così si chiudeva il primo e meno aspro dissidio tra il re di Francia e il pontefice. Ma si trattava di una pausa soltanto, in un lungo e faticoso discutere, e, senza il serio intralcio della questione colonnese in pieno sviluppo (e di quella siciliana, che non accennava a concludersi), B. non avrebbe forse ceduto, o almeno non così presto. Con tutto l'irrisolto conflitto con Filippo il Bello, B. non esitò a intervenire di nuovo nella lotta tra Inghilterra e Francia, offrendo nel 1297 il proprio arbitrato per la pace, con un linguaggio molto conciliante, che pare prendere spunto dalla definizione che Innocenzo IV aveva dato del papa, come "iudex omnium", giudice ordinario di tutti i re e principi.

La sua iniziativa venne accolta favorevolmente. Edoardo I aveva tutto l'interesse ad accettarla, date le sue difficoltà interne ed esterne. Nelle istruzioni che diede ai suoi ambasciatori presso il papa - che dal giugno 1297 si trovava in Orvieto - si dichiarava pronto ad accettare quel che avesse deciso il "sovrano pontefice di Roma e della Chiesa universale". Invece gli inviati di Filippo IV, con a capo il suo cancelliere Pietro Flote, dichiararono che arbitrato e lodo li avrebbero accettati, ma come emessi non dal papa in quanto tale, bensì dalla "privata persona" di Benedetto Caetani. Con questa tipica distinzione legalistica è possibile che si volesse evitare di riconoscere ufficialmente B. come papa legittimo, oppure si contasse sulla sua morte a breve scadenza e non ci si volesse impegnare con il suo successore. Anche il conte di Fiandra, Guido di Dampierre, in difficile situazione tra Francia e Inghilterra, avrebbe voluto esser compreso nel lodo. I suoi inviati però si rimisero del tutto al volere del papa, che venne da loro esaltato addirittura come sovrano del re di Francia, sia nel temporale sia nello spirituale. Per certo non autorevole riconoscimento, questo, ma tale da far piacere a B. che, per il resto, non dovette esser molto contento della formula adottata dai Francesi per designarlo, anche se dovette accettarla: può esserne un indizio il non aver egli incluso il lodo nel registro delle lettere curiali, e cioè fra i documenti ufficiali della Sede apostolica. Però tenne a farne leggere il testo nel Concistoro del 27 giugno 1298 e alla presenza dei cardinali: era pur sempre lui, il papa, che si era imposto. Così si giunse alla "pace perpetua" del 30 giugno, nettamente favorevole alla Francia. Ma il re d'Inghilterra riebbe in feudo il Ducato di Guienna. Il riavvicinamento fra il papa e il re di Francia venne coronato dalla cerimonia di canonizzazione di Luigi IX (11 agosto 1297).

Poco tempo dopo, sempre stando in Orvieto, B. decideva di affrontare i Colonna sul terreno militare. Invano il romano Pandolfo Savelli tentava di placarlo. Nel settembre venivano assaliti e presi, l'uno dopo l'altro, i fortilizi colonnesi, iniziando da Nepi, l'acquisto più recente dei Colonna ed il più lontano dalla Campagna, dove era il centro della loro potenza. Nepi si trovava anche nel settore per il quale fu facile al papa di trovare truppe, fornitegli dalle città toscane ma anche da Orvieto. È tramandato che i Colonna, disperando di tener Nepi, la donassero al Comune di Roma. Sta di fatto che i Romani chiesero al papa che riaccogliesse i Colonna in grazia e ritornasse a Roma. Ma B. rispose (con la lettera Romanum populum, indirizzata al Savelli, 29 settembre 1297) che prima voleva avere prove concrete della devozione dei Romani. Quanto ai Colonna, rifiutarono loro stessi di sottomettersi senza condizioni.

Rientrato in Roma ai primi di novembre, B. volle dare un nuovo impulso alla guerra, presentandola in altro e per noi, oggi, inconcepibile modo: come crociata (ma anche Dante espresse la sua indignazione, certamente condivisa da molti) e trovò per essa un fervido banditore in Matteo d'Acquasparta, a lui fedelissimo. La relativa bolla venne pubblicata il 14 dicembre, con annesse indulgenze e imposizioni di decime; e un esercito crociato, con provenienza da luoghi anche lontani (come da Bologna), riuscì a mettersi insieme. L'estrema resistenza si concentrò in Palestrina, che infine fu presa, e non a forza ma per trattative (ma ormai non si ritiene più che vi contribuisse il "consiglio frodolento" di Guido da Montefeltro). Fra le persone che vi furono trovate era Iacopone da Todi, che venne gettato in prigione e non ne sarebbe uscito che dopo la morte del papa. B. si concedette poi la soddisfazione di metter su in Rieti (settembre 1298) una piuttosto teatrale cerimonia conclusiva, nella quale i due cardinali, insieme ai loro congiunti Agapito e Sciarra, si dovettero umiliare a chiedergli perdono. Vennero riassunti nella loro dignità, ma mandati al confino in Tivoli. Nel luglio del 1299 però ne fuggirono, per andare a finire poi, dopo altre vicende, in Francia. Il papa si vendicò distruggendo Palestrina; volle cancellarne perfino il nome, creando nella pianura sottostante la nuova ma effimera Città Papale e trasferendovi il titolo vescovile e cardinalizio. Procedette poi alla liquidazione dei beni colonnesi: ebbe però la saggezza o prudenza di non assegnarli alla propria famiglia, ma di cederli, in parte all'altro ramo dei Colonna, in parte agli Orsini.

L'accennata sentenza arbitrale di "Benedetto Caetani" tra Francia e Inghilterra doveva però esser messa in esecuzione. Si suggerì al papa di portarsi a questo scopo in Francia; ma egli se ne scusò con l'età avanzata, i connessi incomodi e le conseguenze d'una sua infermità (novembre 1299). Allora re Edoardo inviò suoi ambasciatori a incontrarsi con lui alla Sgurgola presso Anagni (aprile 1300). Dovevano anche parlare della questione della Scozia.

Già nel giugno 1299 Edoardo, rivendicando i suoi diritti su quel Regno, lo aveva assalito in armi, nonostante il monito di B. (che "ab antiquis temporibus regnum Scotie pieno iure pertinuit et adhuc pertinere dinoscitur" alla Sede apostolica); si era anche interessato perché fosse liberato il re scozzese John Baliol, caduto prigioniero in battaglia. Per loro conto anche gli Scozzesi inviarono una ambasceria al papa, affermando che il Regno di Scozia "in temporalibus immediate sit subditum Romane Ecclesie"; e che, mentre l'Inghilterra aveva un tempo pagato tributo a Roma, la Scozia era stata invece sempre "precipuum et peculiare allodium" della Chiesa. Contro queste affermazioni il re sostenne che la Scozia gli apparteneva di pieno diritto ed a duplice titolo, sia come "proprietas" sia come "possessio", e B. finì per accedere alla sua tesi.

In quell'incontro alla Sgurgola B. ebbe a dire agli inviati inglesi, con finezza di giurista (ma ripetendo il già detto nella Ineffabilis), che Edoardo avrebbe dovuto denunciare a lui il re di Francia, per essersi ripreso ingiustamente il feudo di Guienna. È vero che il papa non può costringere quel re ad applicare il lodo, e neppure gli è lecito entrare nelle questioni di diritto connesse con i feudi laici, ma può sempre giudicare "ratione peccati" su una ingiustizia o un torto fatto o ricevuto.

Allora si lasciò anche andare ad affermazioni nettamente ierocratiche: riprendendo una nota immagine della Apocalisse, egli affermò che disponeva di una spada dal doppio taglio, e identificò il potere spirituale nell'autorità apostolica e il potere temporale nella sua qualità di giudice e arbitro. Né all'uno né all'altro intendeva rinunciare: anzi, assicurò, a suo tempo e luogo ne avrebbe fatto uso.

Nella sua tempestosa e tormentata vita il giubileo del 1300 rappresentò una breve ma felice parentesi di pace ed un motivo, per lui, di altissima soddisfazione. Capitando esso dopo il buon esito dell'arbitrato tra Francia e Inghilterra e dopo il trionfo sui Colonna, poté sembrargli che consolidasse definitivamente la sua posizione di arbitro ideale dell'Europa cristiana. Il giubileo è senza dubbio il suo più bel titolo di merito, come pontefice e guidatore di anime; ma se ne travisa il carattere, quando lo si considera prevalentemente (o addirittura in modo esclusivo) come una astutamente predisposta affermazione di potenza, o, peggio, come una geniale operazione finanziaria, anch'essa più o meno prevista nei suoi risultati. Queste ipotesi, troppo semplificanti, cadono se si tien conto del fatto, ampiamente accertato, che la prima idea del "grande perdono" non nacque (o non soltanto) nella pur fertile mente del pontefice, ma gli fu suggerita da una vera e propria "ondata di fondo" della devozione popolare.

Sul finire del 1299 e sul limitare del nuovo secolo erano venuti a Roma, particolarmente numerosi, i pellegrini, e tra essi dominava uno stato d'animo escatologico, saturo di aspettazione, indeterminata ma pur viva, che si polarizzava appunto sul trapasso secolare dal quale si attendevano miracolose grazie. B. - anche se, a quanto pare, era personalmente alieno da simili stati d'animo - si rese conto immediatamente della portata religiosa e spirituale di quella attesa, e la appagò incentrandola su Roma, città santa, con quel sincero senso della grandezza di essa che lo accompagnò sempre. Seppe anche nel medesimo tempo instradare tale indistinto stato d'animo sui binari della ortodossia. Poiché era fama pubblica che ad ogni capodanno secolare si usasse proclamare una specialissima indulgenza, B. aveva fatto indagare, anche prima di quel particolare momento, circa l'efficacia assolutrice dell'"anno centesimo": ricerca dei "precedenti", tipica per il papa giurista, la quale si condensò nella bolla Antiquorum habet (22 febbraio 1300), con cui era proclamata l'indulgenza giubilare, resa però retroattiva al 25 dicembre 1299 (e con durata al 24 dicembre 1300); essa si estendeva altresì a coloro che s'erano messi in cammino per lucrarla, ma erano "mortui in via", e pare che, così, sia stata anche la prima indulgenza per i defunti, e cioè un'innovazione "teologicamente rivoluzionaria" (A. Frugoni). Ma contemporaneamente il papa ne escludeva sia coloro che trafficavano con i Saraceni, sia Federico III e i Siciliani, sia infine i Colonnesi e tutti coloro che li ospitavano.

Una volta avviato il giubileo, non sembra che B. se ne occupasse più che tanto, forse perché la sua cattiva salute lo costrinse a starsene in Anagni per la maggior parte di quell'anno.

Non occorre parlare del modo in cui si svolse l'anno giubilare e delle sue imponenti ripercussioni sulla vita cittadina di Roma, dal lato sia demico sia economico. Non ne vanno peraltro esagerati gli aspetti finanziari, che pur ebbero qualche rilevanza: afferma lo Stefaneschi che il giubileo abbia fruttato in tutto circa 50.000 fiorini, somma non proprio iperbolica (le sole spese annue della Camera apostolica fra il 1299 e il 1300 superarono i 100.000 fiorini). Piuttosto va rilevata l'oculatezza, caratteristica di B., con cui quel denaro venne poi investito, soprattutto in acquisti di beni immobili e fondi rustici, a favore del Capitolo della basilica di S. Pietro. Ancora nel corso dell'anno giubilare il papa fece costruire, sul fronte settentrionale del palazzo apostolico al Laterano, un grande avancorpo, la loggia "della benedizione", dalla quale è ragionevole supporre che qualche volta abbia benedetto la folla. Il giubileo significò per B. anche una tangibile e apparentemente unanime conferma della sua pienezza di potere. Proprio alla fine dell'anno 1299, in un "memorandum" degli inviati fiamminghi, è detto a chiare note che il papa "iudex est omnium, tam in spiritualibus quam in temporalibus", ed ha la giurisdizione universale, in quanto gli è conferita la "piena vicaria" da Cristo onnipotente. Ed il 6 gennaio 1300, predicando in S. Giovanni in Laterano, Matteo d'Acquasparta affermava (ne abbiamo soltanto notizia da quei medesimi Fiamminghi) "che solo il papa è sovrano temporale e spirituale, al di sopra di chiunque si sia, in luogo di Dio".

All'incirca in quel tempo si presentò a B. l'unica - ma assai vaga - possibilità di attuare anche il suo proposito di crociata. Salito al soglio pontificio a sì breve distanza di tempo dalla caduta di San Giovanni d'Acri (1291) e della totale perdita della Terrasanta, egli dovette portarne il cruccio per tutto il suo pontificato. Era un dovere, quello della crociata di riconquista, al quale sentiva di non potersi sottrarre. Ma come attuarla? Ne parlò continuamente, ma dovette sempre subordinarla a scopi più urgenti, il raggiungimento dei quali era in effetti anche il presupposto della spedizione Oltremare: la pacificazione in Europa e anche in Italia (fra Genova e Venezia), la risoluzione del problema siciliano, la sistemazione della questione dell'Impero. Ma l'orizzonte internazionale non si schiarì mai del tutto e così l'andata in Oriente venne ripetutamente rinviata a tempi migliori.

Alieno da mistiche esaltazioni e fantasticherie, B. non poté che prestare un distratto ascolto alle enfatiche proposte di Raimondo Lullo, che nel 1296 venne a presentargli la sua idea di risolvere pacificamente la questione della Terrasanta mediante la conversione dei Saraceni. Più che alla crociata, il papa può aver pensato allora alla necessità di portare aiuto ai Regni cristiani d'Oriente, dai quali (specie dalla Piccola Armenia) gli giungevano accorati appelli, che non poteva ignorare. Così, nel 1298, in clima di distensione internazionale, scriveva ai due re, inglese e francese, che occorreva aiutare quel Regno, tanto più che esso, "a quanto si dice", si trova nelle vicinanze della Terrasanta e potrà costituire un buon punto d'appoggio per la riconquista.

Questa gli dovette apparire possibile quando, in felice coincidenza col giubileo, gli giunsero insperate notizie. Il sovrano tartaro della Persia, Ghāzān (Cassano, nelle fonti del tempo), avendo battuto il sultano d'Egitto, mandava a dire al papa che, se si fosse presentato un esercito cristiano, gli avrebbe ceduto la Palestina. Era un inatteso "rilancio" delle possibilità di crociata, e B. non volle trascurarlo. Partono così le sue esortazioni alla santa impresa. Ma né i due maggiori re (nemmeno Edoardo, direttamente esortato nel 1301) né altri si muovono e poco appresso il khan tartaro subisce dei rovesci e se ne rivà.

Da rilevare, in questa connessione, è il particolare e più personale interessamento che B. sembra aver avuto per l'azione missionaria, invero di più facile attuazione. Sappiamo di vari frati, sia francescani sia soprattutto domenicani, che da lui ricevono istruzioni per la missione in Oriente; si è conservato uno scritto, di data incerta, i Capitula fidei christiane, che il trattatista Egidio Romano avrebbe composto ed inviato "de mandato domini pape Bonifacii octavi ad Tartarum maiorem, volentem christianam colere fidem": un tentativo di evangelizzazione che all'incirca riprendeva le idee del Lullo.

Tra il 1297-1298 e il 1301, fra i due veri protagonisti del primo contrasto, B. e Filippo il Bello, vi fu dunque una specie di tregua, durante la quale il papa, pur non rinunciando alle sue convinzioni, si mostrò assai condiscendente e disposto a venir incontro al re. Fu però anche costretto a passar sopra ad una serie di irritanti atteggiamenti di Filippo e di sue iniziative, nel campo ecclesiastico, perlomeno poco riguardose. In genere si limitò ad esortazioni e rimproveri più o meno energici, e che di rado sortirono effetto. Il re sfidava il papa anche nel campo politico, accogliendo a corte i Colonna (luglio 1299), e poi (dicembre) concludendo a Vaucouleurs (l'incontro va anche sotto il nome della vicina località di Quatrevaux) un accordo col nuovo re dei Romani, Alberto d'Austria, nonostante che B. lo avesse pregato di non farlo. Come indiretta conseguenza dell'accordo, l'ambasceria d'omaggio che Alberto inviò al papa venne accompagnata da alcuni Francesi, mandati da Filippo il Bello, tra i quali erano un legista del Consiglio reale, Guglielmo di Nogaret, già professore di diritto a Montpellier, e un intrigante banchiere fiorentino, Musciatto de' Franzesi. Questi dovevano proporre al papa che si facesse finalmente la crociata e che il fratello del re, Carlo di Valois, ne fosse il capo. B., che, come abbiamo visto, aveva già una volta pensato di ricorrere a quel principe, tra i più brillanti cavalieri francesi, deve essersi allora deciso, invece, di servirsene per la spedizione militare in Sicilia (ove la guerra veniva mandata avanti fiaccamente da Roberto duca di Calabria), e anche per difendere lo Stato della Chiesa da una possibile calata in forze dell'Asburgo in Italia.

Nel ricevere l'ambasceria di Alberto, non nascose il suo malumore per l'accordo da lui stretto con la Francia, e, in cambio del suo riconoscimento a re dei Romani, pretese la cessione della Toscana, con la motivazione, molto significativa, che tutti i beni e diritti dell'Impero derivavano da concessione papale, e che la Chiesa poteva riprendersi quelle terre, se malgovernate. Agli ambasciatori di Alberto B. consegnava addirittura una bozza dell'atto di cessione della Toscana: non ottenne però nulla, ché quelli fecero presente di non aver avuto istruzioni al riguardo. Il fatto è che, a parte l'interesse che il papa poteva avere nel non coprire ancora la sede imperiale (continuò a chiamare Alberto "duca d'Austria" e non re dei Romani), non vedeva di buon occhio l'Asburgo, perché questi appoggiava in Ungheria un pretendente a quella Corona a lui non gradito e perseguitava l'arcivescovo di Salisburgo.

Altri motivi di irritazione e di preoccupazione vi erano per il papa: dalla Fiandra giungevano notizie di continui soprusi di Filippo il Bello; dalla Francia lagnanze di ecclesiastici, specie dei Cisterciensi, perché le continue esazioni regie li conducevano alla rovina.

Due lettere inviate dal papa, proprio quando Alberto si adoperava per essere riconosciuto, offrono molto interesse in quanto ne documentano le intenzioni nettamente ierocratiche. Una è diretta per l'appunto ai principi elettori (Apostolica sedes, 13 maggio 1300). Vi si afferma che la Sede apostolica è stabilita da Dio stesso sopra i re ed i Regni e deve avere la preminenza ed il dominio su tutta la terra e su ogni anima. Quanto all'Impero, la Sede apostolica lo ha trasferito a suo tempo dai Greci nei Germani ed ha concesso ai principi elettori il diritto di scegliere il futuro imperatore. Ma ogni onore, preminenza e dignità dell'Impero derivano sempre e soltanto dalla grazia e dalla benigna concessione del papa. Significativa è anche una lettera, la Perlata pridem (15 maggio 1300), che il papa indirizzava al vescovo ed all'inquisitore di Firenze, anticipando in alcune espressioni la Unam sanctam.

Siccome Alberto non reagì alla richiesta cessione della Toscana, B. si schierò con i principi elettori, che intanto si erano ribellati anche all'Asburgo e pensavano di deporlo. Con la bolla Romano pontifici (13 aprile 1301) lo accusò di ribellione contro il suo legittimo sovrano (Adolfo di Nassau), di crimine di lesa maestà (per aver combattuto contro di lui, che era anche il suo superiore feudale) e di persecuzione contro la Chiesa. Lo invitava a presentarsi a Roma, entro sei mesi, altrimenti avrebbe sciolto elettori e sudditi dal giuramento di fedeltà; provvedeva anche in altro modo a creargli ostacoli, facendo vescovi persone che gli erano ostili. Ma il fronte degli elettori venne spezzato da Alberto con le armi.

Intanto si era svolta quella che può dirsi l'avventura italiana di Carlo di Valois, chiamato dal papa "con oscuri disegni e magnifiche promesse" (G. Falco), una delle quali fu subito attuata: la concessione della dispensa per sposare Caterina di Courtenay (1° febbraio 1301) e assicurarsene le pretese sul trono di Costantinopoli. Venuto il principe in Italia, si ebbe in Anagni, in pubblico Concistoro (5 settembre), la sua presentazione ufficiale. Il papa stesso ne tessé iperboliche lodi e gli conferì un cumulo di titoli: di rettore della Romagna, della Marca e del Ducato (tentativo d'unificare il governo di quelle province?) e la qualifica di capitano generale "su tutte le terre della Chiesa". In più gliene diede con apposita bolla un'altra, di particolare significato, quella di "paciaro" in Toscana. Da rilevare tale ripresa della qualifica che a suo tempo era stata conferita a Carlo I d'Angiò e che in certo modo equivaleva alla funzione di vicario secolare del papa, in quanto rappresentante in terra di Gesù Cristo, "rex pacificus"; B. escluse invece espressamente che Carlo assumesse le funzioni e il titolo di vicario imperiale. Probabilmente preferì non ricorrere a quel titolo perché non era troppo convinto della sua validità. Dunque Carlo di Valois avrebbe dovuto fungere da spada temporale del papa, sia contro i ribelli alla Chiesa (i Siciliani), sia per rimetter ordine nella Toscana, e, possiamo aggiungerlo, per prepararne l'annessione allo Stato della Chiesa. Il clamoroso episodio poi dei tre fiorentini residenti alla corte del papa, che erano stati accusati di aver tramato contro la libertà della patria e di cui B. prese risolutamente le difese, significò una presa di posizione inequivocabile in una delicata questione giurisdizionale.

Di lì a poco si aveva il diretto intervento papale in Firenze, motivato, e non era solo un pretesto, dal dissidio fra Bianchi e Neri, pericoloso per il guelfismo fiorentino (ma è anche vero che lo stesso B. favoriva questa scissione, appoggiando i magnati contro i popolari ed i Donati contro i Cerchi). Gli era stato detto (almeno stando a Dino Compagni) che era imminente il ritorno dei ghibellini nella città, e inoltre - sottile ed abile insinuazione - che così essa sarebbe divenuta "ritegno" (rifugio) dei Colonnesi. Si ebbero poi i disordini del Calendimaggio 1300 e la messa al bando di Corso Donati, il quale venne però subito aiutato dal papa e in maniera palese: dapprima facendolo chiamare come suo successore nella carica di podestà di Orvieto, e poi creandolo rettore della Massa Trabaria.

Alla fine del maggio 1300 il papa inviava a Firenze, con amplissimi poteri e affinché intensificasse l'iniziata politica di penetrazione in quella città, il cardinale Matteo d'Acquasparta, il quale però non concluse molto e poi, fatto segno ad un attentato, se ne partiva (29 settembre 1300), lanciando la scomunica sulle persone al governo e su vari cittadini, e l'interdetto sulla città. Allarmati, i Bianchi cercarono di ammansire B. mediante un'ambasceria (11 novembre 1300), ed è incerto se ne abbia fatto parte Dante Alighieri. Il papa effettivamente sospendeva l'interdetto, ma poco più tardi inviava a Firenze Carlo di Valois, che vi entrava il 1° novembre 1301, e anche, un mese dopo, Matteo d'Acquasparta, come esperto e fidato consigliere. Carlo ne aveva bisogno, perché stava rapidamente rendendosi inviso, e forse B. temeva anche che, in mano sua, la città potesse divenire un punto d'appoggio francese. Breve fu il soggiorno fiorentino del Valois e bastò a dimostrare il fallimento della sua "missione di pace"; il papa dovette rinunciare alla sua tanto accarezzata idea di annettersi la Toscana.

Mandava poi Carlo in Sicilia, per attuare la seconda parte del proprio programma. Ormai si era deciso per la maniera forte. Alla evidente cattiva volontà dell'Aragonese corrispondeva però l'inettitudine del Valois come comandante e forse anche la sua poca intenzione di combattere. Dall'altra parte Federico si dimostrò più bravo del previsto e fu efficacemente aiutato dai Genovesi, nonostante lo sdegno del papa. Forse Federico avrebbe potuto esser vinto, se la situazione internazionale non si fosse bruscamente modificata con la sconfitta francese di Courtrai (11 luglio 1302). Carlo di Valois, desideroso di ritornare in Francia, iniziò trattative con Federico. Si ebbero i preliminari di Castelnuovo (10 agosto 1302) e poi la pace di Caltabellotta (31 agosto), ambedue discussi e firmati all'insaputa del pontefice.

Nell'ottobre gli inviati di Federico vennero accolti piuttosto malamente da B., scontento per la soluzione inattesa. Ma non gli restava che accettarla, dato che intanto si era acuito il dissidio con Filippo il Bello, che indubbiamente lo preoccupava assai di più. Tenne soltanto a introdurre alcune modifiche e clausole, a salvaguardia dei diritti della Chiesa. L'Aragonese, che veniva assolto da ogni censura ecclesiastica, accettava la Sicilia in feudo dalla Chiesa e si sarebbe chiamato "rex Trinacrie". Ma restava inteso che nessun diritto, oltre al semplice possesso ("preter tenutam"), gliene sarebbe venuto sull'isola restando lo "honor" del titolo "de toto regno Sicilie" presso il re Carlo II, al quale tutto sarebbe ritornato alla morte di Federico. Avendo questi accettato tali condizioni, veniva con la bolla Rex pacificus (21 maggio 1303) riconosciuto come re. Poiché poco appresso B. sarebbe morto, Federico aveva vinto la partita su tutta la linea.

Quella specie di tregua che divise il primo dal secondo dissidio stava per chiudersi. Ancora nel settembre 1301 vi è chi scrive da Roma che i desideri del re di Francia sono ordini per il papa. Ma poco dopo si ha la nuova e definitiva rottura, sul piano della più intransigente affermazione di principi e dall'una e dall'altra parte. L'occasione per il nuovo urto fu offerta dal caso di Bernardo Saisset, l'abate di un monastero di Pamiers (Ariège), del quale cenobio, a suo tempo e ancora da cardinale, B. era stato fatto protettore da Niccolò IV. Aveva allora preso a stimare quel monaco, forse anche per una certa affinità di carattere, e lo aveva aiutato nei suoi continui attriti con il conte di Foix, signore del luogo.

Per rafforzarne la posizione, il papa, senza intendersi prima né con il vescovo di Tolosa, né con il re (e del resto attuando un proposito di Clemente IV), elevava Pamiers al grado di sede diocesana, e il Saisset ne fu nominato il primo vescovo. Ma insieme conferiva a quel centro la qualifica di città, stabilendo anche, con un provvedimento tipico per lui, uomo di molta cultura, che vi sorgesse uno Studio generale. Per qualche tempo non accadde nulla, ma poi il re fece arrestare il Saisset e ne confiscò il patrimonio. Allora B. perdeva la pazienza e mandava al re un'energica lettera, con una recisa presa di posizione (la Secundum divina, del 5 dicembre 1301), nella quale, ricordatogli che i laici non avevano potestà sugli ecclesiastici, lo esortava a liberare immediatamente il vescovo e a restituirgli i beni confiscati, per non offendere "maiestatem divinam nec sedis apostolice dignitatem".

In quel medesimo giorno il papa formulava un intero programma d'azione. E precisamente: a) nella Nuper ex rationalibus causis (la quale ne riporta inclusa un'altra, la Salvator mundi del 4 dicembre), comunica di avere, in forza della pienezza di potere della Sede apostolica, sospeso, ma tuttavia non con effetto immediato, i privilegi che, in deroga della Clericis laicos, aveva accordati per la guerra contro l'Inghilterra; b) con la Ante promotionem nostram convoca a Roma per il 10 novembre 1302 tutti i vescovi di Francia, i rappresentanti dei Capitoli, i grandi abati e molti dottori in teologia e in diritto canonico, e prevede anche la presenza di inviati del re. Scopo: la tutela della libertà ecclesiastica, la riforma "del re e del Regno", la correzione degli eccessi trascorsi e in genere "ciò che può giovare al buon governo del Regno". Insomma, un autentico piano di intervento nelle più gelose questioni interne della monarchia francese; ed è da notare anche la manifesta e irregolare novità di questo vero e proprio sinodo nazionale francese, convocato però a Roma; c) nella Ausculta fili, innegabile requisitoria, dal tono cortese e senza personalismi ma fermissimo, richiama il re ai suoi doveri di principe cristiano, così come il papa li intendeva.

Da sottolineare ancora alcuni punti. Nella Ausculta fili si ricorda al re che, a suo tempo, poté entrare nell'arca di Noè, "extra quam nemo salvatur, catholicam scilicet Ecclesiam, unam columbam, immaculatam unici Christi sponsam, in qua Christi vicarius Petrique successor primatum noscitur obtinere" (espressioni che ritorneranno nella Unam sanctam); si dice poi: "constituit nos Deus super reges et regna [...] quare, fili carissime, nemo tibi suadeat quod superiorem non habeas et non subsis summo ierarche ecclesiastice ierarchie". È manifesto, e si legge nel diritto, che, nel conferire le cariche ecclesiastiche, il papa "summam et potiorem obtinet dignitatem", e perciò il re non può farne la collazione, né gli è lecito porre le mani sui beni ecclesiastici. La lettera chiude con l'invito perentorio a venire a Roma di persona o a mandare a udire ciò che Dio dirà attraverso la bocca del papa, e con l'annuncio della decisa convocazione dei prelati francesi a Roma.

Ormai ci si trovava nel pieno della seconda fase del contrasto. In una assemblea appositamente convocata, in presenza del re, a Senlis (ottobre 1301), il guardasigilli Flote accusava il Saisset di eresia, tradimento e ingiurie verso il re. Di tali accuse (non però documentate) Filippo IV dava comunicazione al papa, pregandolo di provvedere a degradare il vescovo perché potesse esser punito. L'autorizzazione a procedere contro il vescovo venne naturalmente negata. Deciso allora a crearsi un'opinione pubblica favorevole a sé e contraria al papa, Filippo IV procedette con indubbia abilità, ma certamente seguendo i consigli del Flote e di altri. La Ausculta fili, nota a poche persone perché portata chiusa da un inviato papale, il romano Iacopo de Normannis, era troppo lunga perché fosse utilizzabile a scopo propagandistico. L'originale fu, a quanto pare, bruciato, ma non in pubblico; venne invece messa in circolazione una specie di riassunto di essa, la Scire te volumus, ammirevole per brevità ed efficacia, che conteneva le proposizioni più importanti della bolla, ma tendenziosamente adattate, come ad esempio l'affermazione "quod in spiritualibus et in temporalibus nobis subes", che non c'era nella bolla. Presentata al pubblico come lettera autentica del papa, destò vasta indignazione, venne studiata e commentata da teologi e giuristi dell'Università di Parigi e dal pubblicista Pierre Dubois, mentre probabilmente veniva diffusa anche un'insolente risposta attribuita al re e fatta passare, ma solo in Francia, come lettera effettivamente inviata al papa: "sappia la tua grandissima stoltezza che nelle cose temporali non siamo soggetti ad alcuno". Con questi due falsi, che sintetizzavano la viva essenza della questione, il re ed i suoi abili consiglieri riuscirono a eccitare in senso nazionale l'opinione pubblica. Il Saisset venne liberato e affidato all'inviato papale, e furono invitati ambedue a lasciare subito il Regno. Il re vietava a tutti di ricevere, anche privatamente, bolle o lettere papali, e ai posti di frontiera venne dato l'ordine di non farle passare.

Seguirono altri intelligenti provvedimenti, che fecero epoca nella storia istituzionale della Francia: la convocazione, nei giardini del Louvre (12 marzo 1302), di un certo numero di alti prelati e di nobili, in presenza dei quali il vicecancelliere del re, Guglielmo di Nogaret, accusò il papa di eresia ed auspicò un concilio che avesse a giudicarlo; e poi, in Notre-Dame di Parigi, la prima riunione degli Stati generali (10 aprile 1302), nella quale i baroni espressero la loro piena devozione al re ed i vescovi francesi manifestarono il loro dissenso dal papa.

Ma questi non poteva e non voleva più ritornare indietro. Lo dimostrò in un Concistoro pubblico (25 giugno 1302), nel quale anzitutto Matteo d'Acquasparta giustificò il comportamento del papa e finì con l'esaltarne la "plena, immo plenissima potestas" e la posizione unica al mondo (altra anticipazione della Unam sanctam). Prese poi la parola lo stesso B., con uno spiccato tono di acrimonia personale, accusando soprattutto il Flote di aver falsato la bolla Ausculta fili.

"Sono quaranta anni [disse il papa] che siamo nel diritto, e sappiamo che due sono le potestà ordinate da Dio; non intendiamo usurpare la giurisdizione regia, ma si ricordi il re che, al pari di ogni altro fedele, è a noi soggetto ratione peccati". Poiché altri papi per ben tre volte hanno deposto un re di Francia, B., se costretto, deporrà Filippo IV. Il concilio non è rinviato: si terrà, e chi non verrà sarà deposto.

A indurre Filippo il Bello a più miti consigli valse la già citata, avvilente sconfitta di Courtrai (vi moriva il Flote). Il re tentò ancora di ottenere il rinvio del concilio romano, poi vi si adattò, se non altro per guadagnar tempo e lasciò che i prelati francesi vi intervenissero, in limitato numero. In questo concilio, di cui peraltro non abbiamo notizie certe e precise, venne forse letta e discussa la bolla Unam sanctam, promulgata il 18 novembre 1302.

È un testo piuttosto insolito nella sua struttura e presentazione, e per nulla affatto "originale" (secondo i nostri criteri odierni), in quanto i singoli argomenti svoltivi appartengono al tradizionale armamentario di "auctoritates", familiare a tutto il pensiero ierocratico e frequentemente usato da B. stesso. Certamente vi contribuirono, più o meno direttamente, Matteo d'Acquasparta e il trattatista Egidio Romano. La bolla rispecchia però in sintesi felice e con grandioso linguaggio il pensiero del papa. Consta di una prima parte, ecclesiologica, circa la costituzione e natura della Chiesa, della quale si afferma insistentemente la fondamentale unità e unicità; e di una seconda parte, in cui si analizzano i poteri che ne derivano al papa, al quale si attribuisce in modo categorico la "plenitudo potestatis", espressione della superiorità gerarchica dello spirituale sul temporale. Riappare naturalmente il simbolo delle due spade (quella materiale da impugnare dai laici, ma "pro Ecclesia" e "ad nutum et patientiam sacerdotis"). Alla potestà spirituale spetta di "instituere et iudicare" quella terrena, ma il papa non può esser giudicato che dal solo Dio. Non due sono i principi ma uno solo, e "de necessitate salutis" ogni creatura deve sottostare al papa.

La Unam sanctam venne recapitata al re dal cardinale Giovanni Monaco o Lemoine, francese e giurista, uno dei migliori collaboratori del papa, ma che allora e poi fece, a quanto pare, il doppio giuoco fra i due contendenti. In una lettera-istruzione a lui diretta B. riassumeva in dodici punti, con un tono fra il perentorio e l'amichevole, tutto ciò ch'era in sospeso fra la Sede apostolica e il Regno di Francia. A sua volta il re, nel gennaio 1303, mandava al papa una serie di "responsiones" sui punti in questione e si mostrava anche disposto a discuterne, ma lo faceva nuovamente per guadagnar tempo. B. dovette cercare di procurarsi un appoggio sicuro. Era ovvio che pensasse al candidato all'Impero, Alberto d'Austria, con il quale aveva in comune gli interessi nella politica verso la Boemia e l'Ungheria. Alberto continuava a insistere per un accordo: il 30 aprile 1303 si presentava a Roma una sua solenne ambasceria, che il papa ricevette non meno onorevolmente in Concistoro, nel quale pronunciò egli stesso un discorso, finendo per approvare e confermare l'elezione dell'Asburgo a re dei Romani, e cogliendo l'occasione per dichiarare che il re di Francia era soggetto "in temporalibus" all'Impero. Gli ambasciatori di Alberto gli prestarono a suo nome un giuramento, sulla portata del quale gli storici hanno molto discusso.

La bolla Patris eterni filius (30 aprile 1303) sanzionava il definitivo accostamento fra il papa e l'Asburgo. Ma a un apparente trionfo del primo (che s'illudeva fors'anche di essersi assicurato l'aiuto di un condottiero contro il re di Francia) corrispondeva, per l'altro, un assai più concreto risultato sul piano politico. Era chiaro che ormai il papato, staccatosi dalla Francia, non avrebbe avuto altra scelta che l'accostamento all'Impero; e Alberto se ne riprometteva molti vantaggi.

È opportuno accennare in questo punto alla politica svolta da B. in un settore che era strettamente congiunto agli interessi dell'Impero: il Regno d'Ungheria. Egli ebbe ad occuparsene in varie riprese e a vantaggio dell'espansionismo degli Angioini di Napoli. Ma v'era anche direttamente interessato, in quanto si trattava di un Regno considerato vassallo della Chiesa.

Si tratta di una vicenda piuttosto complicata, che aveva avuto inizio quando, morto Andrea II della dinastia degli Árpád (1290), era riuscito ad affermarsi in Ungheria un illegittimo, Andrea "il veneziano". Ma la sorella del defunto, Maria, che aveva sposato Carlo II di Sicilia, faceva proclamare re il figlio Carlo Martello. Morto questi nel 1295, qualche tempo appresso B. attribuiva il diritto di successione al minorenne figlio di lui Caroberto, non riconoscendo Andrea come re, ma solo come amministratore del Regno. Defunto anche Andrea nel 1301, una parte degli Ungheresi offrì la Corona al re Venceslao II di Boemia, il quale l'accettò per il figlio, che venne in Ungheria e fu incoronato come re Ladislao V.

Allora B. inviava come legato il cardinale Niccolò da Treviso (il futuro Benedetto XI) e gli indirizzava la Romanus pontifex (16 ottobre 1301), in cui sosteneva che la Corona di quel Regno dipendeva dalla Sede apostolica, perché a suo tempo il re Stefano gliel'aveva offerta "cum omni eius iure ac potestate"; vietava che Ladislao si dicesse re di Boemia e di Polonia, perché anche questo ultimo Regno era di pertinenza della Santa Sede. Poiché nel 1303 la situazione non si era mutata, citava a Roma i due contendenti "de regnandi iure" e, siccome il Boemo non si presentava, con la bolla Spectator omnium (31 maggio 1303) riconosceva a Maria il diritto di primogenitura nella successione, decidendo che tanto ella quanto Caroberto fossero re d'Ungheria.

B. tenne ad affermare la sua funzione di arbitro di Regni e di Corone anche nei rapporti con la Polonia, dove nel 1295 appoggiò la candidatura di Przemys´law, duca di Posnania, e gli inviò anche la corona; e con il re Erik VIII di Danimarca (1286-1319), che aveva imprigionato l'arcivescovo di Lund, metropolitano di Danimarca e Svezia. Nel medesimo programma di controllo e riordinamento del mondo politico dal punto di vista papale rientra anche il definitivo riconoscimento di Federico III d'Aragona a re di Trinacria (21 maggio 1303), e vanno almeno menzionate certe misteriose trattative che vi sarebbero state in quel torno di tempo fra B. e l'Aragonese. Anzi, da parte francese si denunciò a chiare note che il papa aveva cercato d'indurre Federico a rompere la pace di Caltabellotta e ad attaccare Carlo II d'Angiò.

Si riapriva intanto l'offensiva francese, che avrebbe assunto due diversi aspetti: anzitutto l'intensificarsi della campagna di opinione pubblica, magistralmente manipolata dai consiglieri del re, dal fiorentino Musciatto, e, dopo la morte del Flote, che non li aveva mai appoggiati, con la collaborazione dei Colonna, stabilitisi ormai in Francia e molto legati al Nogaret; dall'altro lato, l'audace iniziativa di quest'ultimo, di procedere direttamente contro la persona del papa. Il re deve essersi reso conto immediatamente della minaccia implicita nella cerimonia romana per il riconoscimento dell'Asburgo. Restò poi irritato per un episodio: in Francia era stato intercettato un messo del papa, latore di nuove istruzioni al cardinale Monaco e di due bolle di scomunica per il re ed i prelati renitenti alla convocazione. Allora, sotto l'influsso dei suoi consiglieri, Guglielmo di Nogaret e Guglielmo de Plaisian, convocava nuovamente (13-14 giugno 1303) un'assemblea al Louvre.

Riapparvero, ma più accuratamente documentate e svolte, le accuse contro il papa, ed è più che probabile che in esse, specie là dove assumono un tono personale o si riferiscono a minuziosi particolari locali, siano stati elaborati i suggerimenti colonnesi. Le accuse erano condensate in ventinove punti (il papa non crede alla resurrezione dei corpi e alla vita eterna; afferma che il commercio sessuale non è peccato; si compiace di mangiar carne nei giorni di digiuno; ama farsi effigiare in statue, che vengono venerate come idoli). Fra ridicole e futili e odiose, le accuse di eresia investivano anche il piano politico, a condanna di atti o propositi del papa; per es. l'aver intralciato in tutti i modi la pace franco-inglese; l'aver tentato di far fallire la pace di Caltabellotta, merito di Carlo di Valois; l'aver sobillato Alberto contro la "superbia gallicana"; l'aver dissipato in guerre tra cristiani e nell'interesse dei suoi parenti il denaro che avrebbe dovuto servire alla Terrasanta, ormai perduta senza rimedio. B. aveva inoltre fatto morire Celestino V, avvilito la dignità dei cardinali, perseguitato i Frati Mendicanti e li aveva più volte vituperati. Tutto questo, secondo il Plaisian, che presiedeva l'assemblea, era sufficiente "ad probandum ipsum perfectum hereticum". Ne derivava la conclusione che ormai la Chiesa dovesse considerarsi vacante e si formulava nuovamente l'appello ad un concilio generale (che già era stato fatto dai Colonna, e questo precedente non è senza importanza), a un nuovo papa e alla Chiesa in genere, contro ogni iniziativa che B. fosse per prendere. Ciò che venne detto in quel convegno, e soprattutto quelle tali pseudoaffermazioni attribuite al papa, fu largamente diffuso, per una sempre migliore orchestrazione dell'opinione pubblica e si giunse a una nuova convocazione popolare nel giardino del Louvre, il 24 giugno, che ebbe un puro carattere propagandistico. Appositi messaggeri portarono queste conturbanti notizie in Italia, dove il Nogaret già si trovava in missione non specificata. R. Fawtier ritiene che egli avesse solo l'incombenza di notificare al papa in persona la convocazione del concilio e l'invito a comparirvi per essere giudicato. Altri, con più verisimiglianza forse, pensa che s'intendesse forzarlo ad emanare l'ordine di convocazione del concilio, ciò che soltanto il papa poteva fare. L'ipotesi meno probabile è che si volesse catturarlo e condurlo in Francia; non è nemmeno escluso che il Nogaret fosse lasciato libero di agire come meglio credeva.

Quando B. seppe della nuova adunanza di Parigi e di ciò che sul suo conto era stato detto, reagì indignato, con la Nuper ad audientiam (15 agosto 1303), respingendo sdegnoso ogni accusa di eresia, e appellandosi ai precedenti offerti dalla storia della Chiesa per minacciare di agire contro il re, nel caso che si volesse tenere il concilio generale: avrebbe dato un esempio tale che nessun re o altro potente avrebbe mai più osato ingiuriare il sommo pontefice. Nel medesimo giorno (che è l'ultimo in cui lo vediamo ancora in piena attività) emana ben quattro altri documenti ufficiali, il che prova anche che non aveva alcun sospetto di ciò che gli sovrastava né si sentiva ormai vinto. Tra essi, un'altra bolla, la Super Petri solio, che intendeva pubblicare l'8 settembre.

Essa non manca d'una certa grandiosità. Il papa parla severo, dall'alto del soglio di Pietro, ai grandi della terra. Elenca le colpe del re di Francia, per cui questi - sempre irretito dai cattivi consiglieri, dalle "sirene" - è incorso automaticamente nella scomunica: fra le quali colpe, gravissima, quella d'aver accolto a corte Stefano Colonna. Per questo motivo ha perduto ogni facoltà di concedere benefici, e il papa lo avverte che scioglierà i sudditi dal giuramento di fedeltà e annullerà tutte le alleanze che il re avrà stretto.

La bolla avrebbe dovuto esser affissa sulla porta della cattedrale di Anagni. Nogaret, non appena ne ebbe notizia, il 2 settembre, si mise in moto verso quel luogo. Così la grande contesa veniva riducendosi dalle misure europee all'angusto orizzonte della città del papa, dove questi soggiornava con pochissimo seguito.

All'episodio finale concorsero due distinte iniziative, che non è detto fossero state previste e coordinate, almeno non a lunga scadenza. Da un lato dunque l'iniziativa francese: Guglielmo di Nogaret veniva senza forze armate a compiere la sua missione quale che essa fosse. Dall'altro lato vi era un'azione di carattere prettamente locale, tipica da guerra privata fra signorotti di contado, che si fuse con quella francese e, con il suo andamento violento, la snaturò totalmente: un vero colpo di mano, organizzato e diretto da Sciarra Colonna ed ispirato naturalmente a sentimenti di rancore e odio. E quelli che erano con lui, piccola nobiltà del territorio, non pensavano ad altro: si trattava in maggior parte di famiglie che il papa aveva danneggiato con i suoi acquisti di terre e castelli.

Il 7 settembre "fu per tutti i nemici il giorno della vendetta" (G. Falco). Il Nogaret ed il Colonna (questo con un piccolo esercito), che si erano incontrati e accordati a poca distanza da Anagni, vi entravano senza trovare resistenza nella popolazione. Si combatté attorno al palazzo papale. Durante una tregua, Sciarra fece sapere al papa le sue condizioni: la consegna del tesoro papale ai cardinali presenti in Anagni; la reintegrazione dei due cardinali Colonna nella loro dignità; la rinuncia di B. alla tiara papale e il suo arresto. Nel tumultuoso assalto finale, mentre altri mettevano le mani sul tesoro, Sciarra penetrava nella sala dove il papa sedeva, solo, in trono, nella maestà del pieno ornato pontificale, e lo minacciò di morte se non abdicava subito. Al che B., con coraggiosa dignità, non avrebbe risposto (in volgare) altro che "ec le col, ec le cape" (ecco il collo, ecco il capo): si dichiarò insomma pronto a morire, come un giorno aveva promesso, per la sua fede. Non sembra che Sciarra passasse a vie di fatto (il famoso "schiaffo"), e del resto il Nogaret intervenne energicamente e prese il papa sotto la propria custodia. Finiva così il tumulto, e il terzo giorno la popolazione anagnina finalmente si mosse, cacciò gli assalitori, liberò il papa. B. si trattenne là ancora qualche giorno per riprender le forze, poi venne accompagnato sotto buona scorta fino a Roma (18 settembre), e, dopo breve sosta al Laterano, passava in Vaticano, dove si sentiva più sicuro, perché era la zona controllata dagli Orsini. Non attendibile è l'affermazione del cronista Ferreto, che questi lo tenessero addirittura prigioniero. Ormai crollato, fisicamente e moralmente, B. moriva l'11 ottobre 1303 e veniva seppellito nella tomba che s'era preparato in S. Pietro. Tre secoli dopo (11 ottobre 1605) il sepolcro venne aperto e il cadavere apparve ben conservato, sì che si poté misurarne l'altezza (m 1,70 circa) e individuare anche le fattezze del papa.

Come pontefice e capo della cristianità B. ebbe un altissimo concetto di sé e sentì la missione di affermare, senza alcuna incertezza, la "plenitudo potestatis" come il fondamentale, essenziale connotato della sovranità pontificia sul mondo. La condusse fino alla più superba, "totale" espressione, e nel suo dramma personale ne presentì il rapido crollo. Il suo modo grandioso ed altero di comportarsi non mancò di destare opposizioni e resistenze entro la Curia stessa e diede ricco alimento a narrazioni romanzesche e ad accese critiche nel mondo laicale. B. ebbe pochissimi veri amici fra i cardinali: tra essi, Matteo Rosso Orsini e Matteo d'Acquasparta. Certo, era troppo esperto nel diritto canonico per non tener conto della consuetudine per cui i cardinali dovevano esser considerati dal pontefice come suoi "fratres". Difatti, quando sospese le nomine fatte da Celestino V, lo fece con la motivazione che erano avvenute "sine consilio fratrum" e non regolarmente in Concistoro. Ai suoi cardinali però riserbava soltanto una posizione subordinata: disse una volta che erano "membra capitis nostri", ma senza avere il suo "status eminens", né stare al suo livello. Formalmente li rispettava (e non sempre), e Matteo d'Acquasparta poté tracciare un quadro idillico dei loro rapporti con il papa. Ma la realtà era un'altra, fatta di palesi e frequenti urti, nei quali il papa non seppe tutte le volte frenare la sua lingua mordace, suscitando tenaci rancori e segrete opposizioni.

Possiamo chiederci come B. abbia governato la Chiesa, della quale si sentiva il "pontifex proprius", il "pontifex summus, omnibus aliis pontificibus superior [...] pater summus et papa sine determinacione loci". La serie ben ricca delle sue lettere, costituzioni e bolle ci dimostra l'attenzione con la quale, pur fra le incessanti complicazioni politiche, egli teneva appresso ai più minuti come ai più importanti aspetti della vita della Chiesa. Quel che con inesauribile spirito combattivo fece per la difesa della libertà ecclesiastica non ha, per vero, bisogno di esser ulteriormente documentato, ed i suoi interventi in questo senso si hanno non solo nei paesi d'Oltralpe, ma anche in Italia (Lucca, Pisa, Orvieto). Importante questione fu per lui quella dei rapporti fra il clero secolare e quello regolare. Ne abbiamo visto gli inizi nell'episodio parigino del 1290. Ma se allora difese i privilegi dei Mendicanti, poi mutò parere, assumendo una posizione accentratrice, quindi contraria a tali privilegi, e che corrispondeva in pieno al suo assolutismo. Alla questione diede poi una sistemazione definitiva nella bolla Super cathedram (18 febbraio 1300), frutto non solo di una attenta considerazione della cosa, ma anche di consulti tenuti con i cardinali e soprattutto con quei due suoi fidi, il minorita Matteo d'Acquasparta e Matteo Rosso Orsini, protettore del medesimo Ordine.

Con quella costituzione si stabiliscono norme precise circa i tre punti più importanti sui quali verteva il dissidio fra secolari e regolari: cioè sui limiti entro i quali i Mendicanti potevano ricevere le confessioni, predicare e celebrare funerali. I più danneggiati furono i Minoriti, avvezzi da tempo a una libertà quasi illimitata, ma a nulla valsero le loro proteste, di fronte alla energia del papa. A parte questa disposizione restrittiva, B. prese vari provvedimenti ad essi favorevoli, disponendo che non si potesse da altri Ordini passare nel loro senza espressa licenza dei superiori, e che altri conventi non potessero esser costruiti se non a una certa distanza dalle dimore dei Minoriti. Vietò poi che questi si stabilissero in nuovi luoghi senza la sua autorizzazione. Fu altresì favorevole ai Domenicani, anche perché lo avevano fedelmente sostenuto contro gli attacchi degli Spirituali; favorì inoltre due altri Ordini mendicanti, di più limitata importanza, i Carmelitani e gli Eremitani. Dalle loro file provengono tre dei più vigorosi assertori del centralismo papale: Egidio Romano (che B. fece vescovo di Bourges, ma volle tener sempre presso di sé), Giacomo da Viterbo, Agostino Trionfo. Non trascurò di occuparsi anche degli Ordini più antichi: se Celestino V aveva scacciato da Montecassino i Benedettini perché non volevano adottare la sua Regola, B. li restituì alla loro secolare sede. Contro le disposizioni di Gregorio X, avverse alla fondazione di nuovi Ordini, approvò quello dei Frati o Canonici di S. Antonio, sorto in Provenza. Fu contrario ai Francescani estremisti (Bizzochi, Poveri eremiti, Spirituali, Fraticelli), specialmente perché si diceva di loro che negassero ogni legittimità alla Chiesa ed al papa (e proprio su questo punto B. non poteva transigere). Sembra che nel 1298 li abbia esplicitamente condannati (ma la relativa bolla è scomparsa).

B. non mancò di occuparsi anche della lotta contro le eresie, sia in Italia, sia in Francia, sia in Ungheria e specie in Schiavonia. Ma non fece molto, né prese decisioni notevoli. Vero è che i grandi tempi della eresia medievale erano passati, con la quasi totale estinzione del catarismo; e le nuove eresie dei Valdesi e degli Apostolici non apparivano particolarmente pericolose, almeno al suo tempo.

Meritano breve menzione alcune disposizioni da lui prese circa singoli punti della vita ecclesiastica. Nel 1295 istituiva feste "doppie", e cioè solenni, in onore degli apostoli, degli evangelisti e dei quattro dottori della Chiesa (e nel decreto istitutivo B. si sofferma specialmente a celebrare i meriti di questi). Nel 1299 emetteva la decretale Detestande feritatis abusum, con la quale venne proibita l'usanza, veramente orrenda, di bollire i cadaveri per ricavarne le ossa per il seppellimento. Nel 1301 rivendicava alla Chiesa di Roma (che "super alias ordinarie potestatis obtinet principatum a Deo") il diritto a provvedere ai quattro patriarcati orientali. Vietava inoltre che da autorità minori, quali i rettori provinciali ed i loro ufficiali, venissero irrogate pene canoniche, soprattutto la scomunica, e tanto meno per motivi fiscali (morosità di contribuenti).

Un cenno particolare merita (sulla traccia della ricerca di S. Gagner) l'attività di B. come legislatore, creatore e interprete della legge, tutore della giustizia; e ciò si accompagna e coordina con quello che è il suo scopo principe, l'affermazione della pienezza di potere. Nel pubblicare la propria raccolta di decretali, il famoso Liber sextus, lo introduce con la bolla Sacrosancte (3 marzo 1298), nella quale esprime la sua dottrina circa la creazione del diritto. Di fronte alla natura umana, sempre disposta a trovare nuovi motivi di contesa, il legislatore, che da un lato raduna vecchie disposizioni, dall'altro ne crea delle nuove, ha per scopo sia la "correctio morum" e l'eliminazione degli scandali, sia la tutela della "subditorum quies". Tipico è il modo con cui B. si valse delle decretali dei predecessori, modificandole, correggendole, accorciandole o aggiungendovi altre disposizioni, "prout expedire vidimus": in sostanza, gli servirono come pretesto per formulare leggi in astratto. Il Liber sextus venne inviato a varie università, come si usava fare, e parimenti tradizionale è la disposizione che avesse a servire "in iudiciis et in scholis".

Il momento giuridico domina evidente anche nella maggior parte dei testi cui il papa affida l'espressione della sua volontà. Egli si comporta sempre come "iudex omnium", secondo la formula di Innocenzo IV. Nella Ineffabilis dice di se stesso che è "in summo militantis Ecclesie iustitie solio presidens"; analogamente nella Apostolica sedes afferma che soltanto grazie alla Santa Sede "principes imperant et potentes decernunt iustitiam ac reges regnant et legum conditores iusta decernunt", e presenta sé come quegli che "sedens in solio iudicii cum tranquillitate iudicat". Importanti affermazioni troviamo, inattesamente, in una lettera di dispensa matrimoniale (Sancta Romana Ecclesia, 11 ottobre 1298): la Sede romana "mater est fidei, sola auctoritatem, ab ipsis exceptam, prestat conciliis, iura statuit et omnibus legem ponit". E definisce se stesso come "ille solus summus pontifex, qui canones condere potest, quive legibus est solutus, cuiusque auctoritas in ipsis semper intelligitur exceptata". Si può anche citare una sua curiosa ma espressiva affermazione: in una certa occasione avrebbe detto "se uni abbatisse [!] caput solummodo inclinare, hoc est iustitie". Va considerata qui anche una meditata presa di posizione di G. Le Bras, che vorrebbe corretto il tradizionale ritratto del papa come persona violenta e implacabile, e propugna una interpretazione di lui come un "sinfonista e moderatore": portato dunque piuttosto ad alleviare le durezze della legge, accordandone fra loro le norme e moderandone l'applicazione; ad usare indulgenza (e sia pure con le note contraddizioni); a presentarsi, offrirsi, imporsi come arbitro. È un punto di vista sostenuto con fiducia manifestamente eccessiva, ma che ha del buono: si veda infatti come B. prende le difese del "fedele qualsiasi" contro gli arbitri di rettori e inquisitori; come rende obbligatoria la pubblicità dei nomi sia dei testimoni sia degli accusatori nel processo contro gli ebrei in Roma; come molto umanamente dispone che le donne siano esentate dall'obbligo di presentarsi di persona davanti al tribunale, o che, in genere, non si possa esser convenuti in giudizio fuori della propria diocesi e comunque non oltre i due giorni di viaggio (è però disposizione di Gregorio IX). Ad ogni modo si tratta di particolari significativi, che completano in modo positivo il ritratto del papa giurista.

B. tenne a far valere la sua pienezza di poteri anche nel settore della cultura universitaria, continuando e assodando un diritto d'intervento papale che aveva già precedenti. Già si è visto come la modesta località di Pamiers venisse beneficiata dalla concessione di uno Studio generale (che però non entrò mai in funzione). La tradizione che altrettanto abbia fatto per Fermo non ha alcuna consistenza (in quanto lo Studio vi fu creato da Bonifacio IX, nel 1398). Fu B. però realmente il fondatore dello Studio generale di Roma (In supreme preheminentia, 20 aprile 1303) - a favore del quale concesse parecchi privilegi - e il riordinatore di quello di Avignone (Conditoris omnium, 1° luglio 1303), che sottopose all'autorità papale.

Sempre in quel tempo (Sedes apostolica, 15 agosto 1303), il papa, considerato che Filippo il Bello cerca di trascinare nella sua ribellione anche i maestri, dottori, baccellieri e scolari dello Studio parigino, per evitare che in tale occasione gente non idonea possa "cathedram ascendere magistralem", sospende "omnes de regno potestatem habentes dandi licentiam regendi seu docendi ac approbandi", sia nella facoltà teologica sia in quella di diritto, e ciò fino a che il re non ritorni all'obbedienza.

Data la sua solida preparazione giuridica, la consumata esperienza del fatto politico, la pratica visione dei problemi di governo e il suo senso della giustizia, B. avrebbe potuto essere un esemplare reggitore dello Stato della Chiesa, all'amministrazione del quale avrebbe potuto dare un assetto ragionato e durevole. Purtroppo però, nel proposito di affermare sempre e dovunque le sue convinzioni ierocratiche, fu attirato senza rimedio dalla grande politica internazionale; d'altra parte, con singolare contrasto, si impigliò volutamente - e ingloriosamente - nella più angusta politica familiare, limitandosi così ai ristretti orizzonti romano-municipali e "campanini". Ciò spiega come il suo pontificato, che nei riguardi dello Stato avrebbe potuto essere, pur nella sua brevità, costruttivo, non possa giudicarsi quasi altro che come un'occasione mancata. Vediamone ad ogni modo gli aspetti positivi. Sono essenzialmente affidati alle tre costituzioni che egli emise per la Campagna e Marittima (Romana mater, 28 settembre 1295), per la Tuscia romana (Licet merum, 20 gennaio 1300), per la Marca (Celestis patrisfamilias, 6 settembre 1303), tutte ispirate al criterio di difendere le comunità contro ogni possibile arbitrio o abuso degli ufficiali pontifici (rettori, tesorieri, giudici). Nell'ultima dispose addirittura che quei funzionari, in ogni loro grado, allo scadere dell'ufficio dovessero esser posti sotto sindacato (ed è facile comprendere che tale disposizione non venne applicata se non fintanto che visse il papa). Le tre costituzioni danno chiara testimonianza della saggezza del loro autore, e sono ricche di intelligenti disposizioni, relative all'autogoverno comunale, alla facoltà di darsi statuti, alla responsabilità per delitti o reati, alle imposte; toccano specialmente questioni di procedura (lentezza nei processi, eccessività di ammende, arresti senza motivazioni, pressioni contro chi volesse appellare a una istanza superiore). Costante linea di condotta di B. fu quella d'instaurare diretti e più rapidi rapporti con i sudditi (così, già nel 1296 convocò a Roma i signori e i rappresentanti delle comunità di Romagna, per esser informato sulle loro necessità), a discapito, inevitabilmente, dell'autorità degli organi di governo periferici, le rettorie provinciali: contrario dunque al decentramento, perseguì un programma di accentramento mirante a ridurre tutto nelle mani sue o di poche persone di sua fiducia, inviate in legazioni o missioni speciali. Governo personalistico in alto grado, che si esplicava attraverso il clientelismo, e non poteva non portare a un indebolimento dell'organizzazione statale. Non mancava però di una sua giustificazione: B. seguiva con preoccupata attenzione il diffondersi del fenomeno della signoria nelle terre ecclesiastiche e riteneva, non senza ragione, che il governo rettorale non fosse il più adatto per frenarlo, ma che meglio convenisse rafforzare il sistema democratico comunale mediante concessioni dell'esercizio dei poteri giudiziari, spesso a titolo di premio per la fedeltà di questo o quel centro urbano. Se prima di lui era stato disposto che i Comuni non potessero valersi dei loro Statuti ove in precedenza non li avesse approvati il rettore, ora B. rende facoltativo tale controllo. Nelle questioni interne delle città comunali dispone che il rettore non abbia il diritto di intromettersi; quando vi sia un conflitto di giurisdizione fra la curia (tribunale) del Comune e quella del rettore, deve entrare in funzione l'istituto della "praeventio", per il quale, quello dei due che abbia per primo preso cognizione del reato acquista anche l'esclusivo diritto di giudicarlo.

B. abbondò, sempre a titolo di speciale concessione, nel dare ai Comuni il permesso di scegliersi il podestà da soli. Ma faceva divieto che lo chiamassero dal di fuori: contrariamente alla prassi generalmente invalsa in Italia, doveva essere uno del luogo. Ciò sempre per evitare l'instaurazione di un dominio signorile. Nel medesimo ordine di idee rientra ovviamente anche la consuetudine (non iniziata con lui, ma da lui favorita su larga scala) di affidare al papa stesso la carica di podestà o di capitano del popolo e del Comune: B. venne in tutta forma chiamato a queste cariche, ora a tempo, ora a vita, da Orvieto (in più riprese), Corneto (Tarquinia), Velletri, Toscanella, Terracina, Veroli. Si deve spiegare con la grande fama che B. aveva conseguita, se nel 1296 anche Pisa gli affidò tale carica, e il papa la fece esercitare in suo nome dal conte della Valdelsa. Ma se, fin dal primo momento, Roma gli conferì la dignità di senatore, ciò rientrava invece in una prassi ormai assodata. Per completare il quadro, va fatto un rapido accenno all'aspetto fiscale dell'amministrazione dello Stato. B. perfezionò il sistema della esazione dei tributi, non ricorrendo più ad appositi legati apostolici, ma affidandola ai vescovi locali, indubbiamente più a contatto con il mondo locale e meglio esperti delle sue reali possibilità. Quanto alla collettoria delle decime, venne da lui affidata con maggiore sistematicità ai banchieri toscani, che ne perfezionarono il meccanismo con la loro esperienza professionale.

La personalità di B. è indubbiamente fra le più rilevanti nella storia del papato medievale. Come suo connotato predominante possiamo forse individuare la "magnanimità", nel senso del "veder grande", più che come generosità nel perdono. Figura di sanguigna umanità, ebbe meriti e demeriti ugualmente spiccati, e fu ricco di contraddizioni. Fra i lati positivi è da rilevare l'incrollabile fede nella Chiesa, nella fondazione divina e la santità di essa, e la profonda convinzione che essa si impersoni nel papa e che al papa spetti nel mondo una posizione unica e preminente. Da tale fermo convincimento derivano quelle sue prese di posizione, estremamente recise e sostenute con eccezionale coerenza e costanza, cui ci siamo spesso riferiti. Come sovrano e capo di Stato, lo distingue una visione essenzialmente "politica" del mondo e una pronta decisione nell'affrontarne i problemi, accompagnata a molta dignità di comportamento e sostenuta da una intelligenza fuori del comune. Valuteremo positivamente anche il suo evidentissimo amor di gloria: con Arnaldo da Villanova ebbe un giorno a vantarsi che, avendo accresciuto la gloria della Chiesa romana, anche la sua personale memoria sarebbe restata gloriosa "nel secolo del secolo". Tale amor di gloria si esplica in modo che potremmo definire "prerinascimentale", attraverso una spiccata predilezione per i segni esteriori di essa: non gli si può far piacere più grande che innalzandogli statue (ve ne sono ad Orvieto, Bologna, Anagni, Roma; è discussa l'identificazione della statua di Firenze; a Padova si decise di dedicargliene una), ed egli stesso curò in modo particolare tutto ciò che poteva dar risalto alla sua magnificenza, come paramenti, arredi preziosi e soprattutto la tiara pontificale. Contrassegnò con il proprio stemma familiare gli edifici e perfino oggetti e ornamenti di cui si circondava; fu forse il primo papa a valersi di esso come stemma e insegna della Chiesa.

Passando agli aspetti meno simpatici della sua personalità, ne rileveremo il carattere assai difficile: altero fino alla superbia, imperioso, duro e intollerante di critiche o anche di consigli; il temperamento collerico lo portava a scatti violenti e incontrollati, nei quali affiorava anche la sua origine dalla Campagna. Aveva un suo modo assai sarcastico di giudicare le persone, colpendole senza pietà né riguardi nei loro lati negativi o ridicoli. La sua abilità di uomo d'affari tornò certamente anche a vantaggio della Chiesa. Ma era altresì avidità di denaro, giustificabile però, data la continua necessità di introiti sempre crescenti, dovuta ai molteplici e ambiziosi fini che perseguì. F. Baethgen fa notare che il suo pontificato significò per la Chiesa un carico finanziario che difficilmente era stato raggiunto in precedenza, e che resta eccezionale anche se paragonato alle spese dei successivi papi avignonesi. Osserva inoltre che l'odiosità che accompagnò B. da vivo e da morto si spiega in massima parte proprio con la sua politica finanziaria.

Nonostante tutte le accuse e insinuazioni che gli vennero rivolte, anche lui vivente, e con intenti nettamente polemici e denigratori, la sua ortodossia appare fuori di discussione. Non è da fargli addebito se gli mancò la sensibilità per il momento mistico-escatologico che caratterizzava gli aspetti più vivi della religiosità del suo tempo: evidentemente non rispondeva alla sua "forma mentis" religiosa. Ma nemmeno da parte dei pochi e poco convinti suoi difensori ci viene fornita alcuna prova di autentica "pietas", di vero afflato religioso: da questo punto di vista B. scade alquanto nei riguardi di altri grandi papi. Dovette però esser ben fondato in teologia, come dimostrano le sue grandi bolle (che sono probabilmente per la massima parte scritte da lui stesso). Arnaldo da Villanova ricorda come, cercando egli di convincere il papa con le sue elucubrazioni escatologiche, questi gli dicesse rudemente che si occupasse di medicina e non di teologia; e si vale anche di una bella immagine: nel campo della teologia B. voleva trovarsi solo "cum gigantibus", assieme con i grandi del pensiero teologico.

Certamente la maggior parte delle "eresie" che gli vengono attribuite sono frutto di malevola invenzione, come le favole circa il suo commercio con i demoni; altre, più verisimili sue affermazioni derivano in sostanza da una retta interpretazione di fatti naturali, come quando, nel terremoto di Rieti del 1298, a chi, terrorizzato, esclamava che era la fine del mondo, rispose, probabilmente in tono beffardo, che il mondo sempre è stato e sempre sarà, e che non finisce se non per chi muore. Vera battuta da "spirito forte", come B. può esser qualificato; ma non è da meravigliarsi che i suoi contemporanei se ne adontassero e formulassero su di lui strane e pesanti accuse, e soprattutto i molti che lo odiarono.

Ci piace chiudere con un giudizio di G. Falco: "fu di grande animo, avido, ambizioso, superbo, tutto versato nell'azione: fra coloro che lo avvicinarono non distinse che amici o nemici, con gli uni nepotisticamente generoso, con gli altri inesorabile. In un mondo mutato fece l'ultimo esperimento di un'inflessibile teocrazia papale: i suoi stessi errori, le sue stesse energie valsero a precipitare la crisi ed a promuovere la nuova coscienza europea".

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