BORBONE

Enciclopedia Italiana (1930)

BORBONE (Bourbon)

Michelangelo SCHIPA
* * Omero MASNOVO

Famiglia Borbone si chiamò, dal 1327 in poi, quel ramo della dinastia dei Capetingi che nel 1589 ascese al trono di Francia, mantenendovisi ininterrottamente per due secoli (1589-1792; poi 1814-1830). Segnò del suo nome l'età più splendida della monarchia francese, occupando altresì, attraverso varie vicende e matrimonî, varî altri troni (Spagna, Parma, Napoli) e acquistando così un'importanza quale forse solo gli Asburgo, suoi rivali del resto, ebbero in Europa.

I primi signori di Borbone. - Il nome di B. era portato da una famiglia feudale di Francia ben prima ch'esso passasse a un ramo della famiglia reale. Secondo una compiacente tradizione, il capostipite di questi signori di B. non capetingi sarebbe stato un Childeprando, fratello di Carlo Martello; in realtà, le origini, o almeno quelle documentate, dalla famiglia sono assai più modeste e meno remote; erano i signori di B. vassalli del conte di Bourges e il nome veniva loro dal castello di Bourbon (oggi Bourbon-l'Archambault), primo nucleo dei loro possessi. La prima menzione della famiglia non risale più addietro del sec. X, oltre un Aimar, fondatore del monastero di Souvigny (presso Moulins), che nell'atto di fondazione, tra il 916 e il 922, è designato come "miles clarissimus". In altro atto, forse del 936, figura come teste Guido, conte di Borbone, fratello, forse, di Aimar. In un terzo atto, del 953, compare infine Aimone I, figlio di Aimar, che dopo lunga contestazione, restituisce al monastero di Souvigny i beni usurpati. In questo tempo la famiglia è già abbastanza forte per considerarsi indipendente dai conti di Bourges e per tenere, per abuso ereditario, il feudo Lhe le aveva dato il nome. Si passa così dal figlio di Simone, Archembalud I (9807-1031?), a suo figlio Archembaud II, detto il Giovane o il Bianco o du Mortet (1034?-1078?), che s'intitolò principe e conte di B.; e ad Archembaud III (1078-1105), violento contro Ugo di Diè, arcivescovo di Lione e legato pontificio, che fece prigione in un agguato, incorrendo perciò nella scomunica, e contro il monastero di Souvigny, nonostante l'intervento di Urbano II. Gli doveva succedere il figlio, ma il fratello Aimone II (1105-1116) riuscì ad usurpare l'eredità al nipote e a trasmetterla al proprio figlio Archembaud V (1116-1171). Con costui la famiglia strinse vincoli di parentela con potenti famiglie, e, per la prima volta, con la famiglia reale di Francia; infatti egli sposò Agnese contessa di Savoia e sorella di Alice, moglie del re di Francia Luigi VI. Prese parte alla crociata ed ebbe modo di illustrarvisi, ché a lui e al conte di Fiandra - e l'accostamento con costui è già un indizio della potenza raggiunta dai B. - fu affidato dal re l'incarico di ricondurre le truppe francesi ad Antiochia. Con lui si estinse la linea maschile; titoli e possessi passarono a Matilde (1171-1215), figlia dell'unico figlio di Archembaud, premorto al padre, e di Alice di Borgogna. Dopo un primo infelice matrimonio con Gaucher de Vienne, signore di Salins, ella passò a seconde nozze con Guy de Dampierre, generale di Filippo Augusto. La fedeltà del generale fu largamente premiata dal re; onde il figlio di Matilde e di Guy, Archembaud VI, detto il Grande (1215-1243), col quale s'inizia la famiglia dei Borbone-Dampierre, ebbe l'eredità accresciuta con l'acquisto di Monluçon, del castello di Tournoël, e pose buoni pretesti per tenere definitivamente le terre e città tolte dal padre, in nome del re, al conte di Alvernia. Con il figlio Anchembaud VII (1243-1249), si ripresentò il problema della successione; poiché egli, morto crociato a Cipro, lasciò solo due figlie, tutte e due spose di figli del duca di Borgogna. Ereditò i titoli paterni prima Matilde II (1249-1262), poi la sorella Agnese (1262-1288), la quale, rimasta vedova e passata a seconde nozze, nel 1277 lasciò le terre dei B. alla figlia Beatrice (1277-1310), che l'anno prima aveva sposato Roberto di Clermont, sesto figlio di re Luigi IX il Santo.

I Borbone principi del sangue. - Già con la prima Matilde si era, in realtà, spenta la linea maschile di questa prima famiglia di B., non capetingia. Con Beatrice II si estinse anche la linea maschile dei Borbone-Dampierre; ma appunto ora la famiglia, che, per quanto potente, non aveva superata la mediocre importanza di molte altre case feudali di Francia, per il matrimonio di Beatrice con il figlio del re, acquista non solo gran lustro, trasmettendo il suo nome a un ramo della famiglia reale, ma intravvede anche la possibilità di salire un giorno sul trono di Francia. Per ora le speranze sono poche: la casa reale di Francia è ancora fiorente di giovani rampolli. Già nel 1310, sette anni avanti la sua morte, Roberto di Clermont, sposo di Beatrice di B., colto di tanto in tanto da accessi di follia, trasmise ogni potere nel Bourbonnais al figlio Luigi I (1310-1341). Questi, nel 1327, ottenne dal re Carlo IV che al Bourbonnais fosse annesso, in luogo del titolo di sire, il titolo ereditario di duca, con l'aggiunta di Issoudun, di Saint-Pierre-Le-Moûtier, di Montferrand e della contea di La Marche, avuta in cambio della ceduta contea di Clermont.

1. La linea di La Marche e di Vendôme. - Il titolo ducale fu ereditato dal primogenito di Luigi I (v. oltre: Linea ducale), ma non fu questa primogenita linea dei B., quella che salì poi al trono di Francia. I destini più splendidi dovevano essere riserbati alla linea uscita dal terzogenito di Luigi I, Giacomo I (1342-1361), che ereditò il titolo più modesto di conte di La Marche, con altri feudi, ch'egli accrebbe per il suo matrimonio con Giovanna di Châtillon-Saint-Paul, e con la contea di Ponthieu, che egli ebbe in dono dal re per il suo valoroso contegno nelle guerre della Linguadoca, poi come connestabile di Francia. Egli morì in battaglia, a Brignais, insieme col suo primogenito; perciò tutti i possessi dei Borbone-La Marche passarono all'unico figlio superstite, Giovanni (1361-1393), che fu, come il padre, valoroso uomo d'arme in Ispagna e nelle Fiandre e continuatore della fortunata politica matrimoniale della famiglia. Sposò infatti (1364) l'ereditiera della contea di Vendôme, che egli assegnò al suo secondogenito Luigi (1393-1446), iniziatore della linea dei Borbone-Vendôme. Col primogenito, Giacomo II, proseguì e si estinse (1438) la linea dei Borbone-La Marche. Ebbe costui vita avventurosissima, necessaria conseguenza di quella sua irrefrenabile irrequietezza che lo portò a combattere contro i Turchi a Nicopoli, a sciupare in feste e giuochi i denari avuti per allestire una spedizione contro gl'Inglesi, a farsi partigiano dei Borgognoni, a cadere prigioniero innumerevoli volte, a correre il mondo, a sposare (1415) Giovanna II regina di Napoli; prigioniero a Castel dell'Ovo, scappò, tornò in Francia, s'immischiò in mille faccende e finì frate francescano nel convento di Besançon. L'eredità dei conti di La Marche passò, per il matrimonio di sua figlia Eleonora, a Bernardo, figlio del famoso Bernardo VII d'Armagnac (v.).

Luigi di Borbone-Vendôme ebbe due figli: Giovanni (1446-1478) e un altro Giovanni natogli in Inghilterra e noto col nome di "bastardo di Vendôme"); il primo ereditò i titoli e i beni paterni e li trasmise al proprio figlio Francesco (1478-1495), e questo al proprio primogenito Carlo (1495-1537), il quale nel 1515 ebbe dal re Francesco I il titolo, trasmissibile agli eredi, di duca di Vendôme. Dal suo matrimonio con Francesca d'Alençon, egli ebbe sette figli e sette figlie; dei primi vanno ricordati il primogenito, Antonio (nato nel 1518, morto nel 1562; v. sotto), erede del ducato e, per il matrimonio con Giovanna d'Albret, re di Navarra; e il terzogenito Carlo (v. sotto), il famoso cardinale di Borbone. Per questa unione dei Borbone-Vendôme con la casa d'Albret, per lo spegnersi di altre linee dei B., i Borbone-Vendôme acquistavano un'importanza grandissima nella politica francese; benché, in questa prima metà del sec. XVI, nulla facesse supporre che la linea dovesse spegnersi prossimamente, tuttavia nei B. sono già deste le speranze, e anche le volontà, di soppiantare la linea reale sul trono. I dissidî religiosi aiutano. Dei tre figli di Antonio re di Navarra, due morirono in giovane età; col terzogenito Enrico IV (v.) i B. poterono finalmente salire al trono di Francia; infatti, essendosi spenta con Enrico III l'ultima linea dei Valois, l'eredità al trono di Francia spettava alla casa di Borbone, come discendente da Roberto di Clermont, sestogenito di Luigi IX il Santo. E nel 1589 Enrico IV era appunto il capo della famiglia B., in quanto che si erano spente nel frattempo tutte le linee, principali e laterali, uscite da Roberto di Clermont, e cioè:

2. La linea ducale. - Essa fu la linea principale, uscita dal primogenito di Roberto di Clermont, Luigi I (1310-1341). Egli lasciò due figli, dei quali il primogenito Pietro I (1342-1356) proseguì la linea ducale; il terzogenito (il secondogenito era premorto al padre) iniziò, come si è detto, la linea dei conti di La Marche. Pietro I, per la vastità dei suoi possessi e per la sua parentela (era cognato del re Filippo VI, suocero di Carlo V, di Amedeo VI di Savoia e di Pietro il Crudele re di Castiglia), ebbe gran nome. Ereditò il titolo ducale il figlio Luigi II (1356-1410), uno dei principi più notevoli di questo ramo. I suoi primi decennî di governo furono occupati nello scacciare gl'Inglesi dalle terre avite e nel riparare, con una saggia amministrazione, i mali di quelle interminabili guerre. Poté così lasciare in buono stato le terre, aumentate della contea di Forez e della baronia di Beaujolais, al figlio Giovanni I (1410-1434), il quale peraltro poté soggiornare solo cinque anni in Francia; ché, fatto prigioniero ad Azincourt (1415), non fu più rilasciato dagl'Inglesi e morì in Inghilterra, mentre i possessi familiari erano governati dalla moglie, Maria di Berry, che aveva portato in dote ai B. la contea di Alvernia e la contea di Montpensier. Alla morte di Giovanni, gli successe il figlio Carlo I (1434-1456), a questo, l'uno dopo l'altro, tre suoi figli, Giovanni II (1456-1488), Carlo II (1488), che, essendo arcivescovo e cardinale di Lione, dopo pochi mesi di governo venne a una transazione, per cui il ducato passò al terzo fratello Pietro II (1488-1503), che, come sire di Beaujeu, aveva sposato Anna di Francia. La moglie non gli lasciò che una figlia, Susanna; con Pietro II, quindi, si sarebbe estinta la linea ducale dei B., e tutti i diritti sarebbero passati alle linee cadette, se il re Luigi XII, in via d'eccezione, non avesse permesso (1498) che Susanna ereditasse tutti i diritti della linea primogenita e li trasmettesse a suo marito, Carlo di Borbone conte di Montpensier (1505-1527), il famoso connestabile (v.). Ma quello che non era avvenuto alla morte di Pietro II, avvenne alla morte del connestabile, che non lasciò eredi, e quindi tutti i diritti della linea primogenita passarono all'unico ramo superstite, quello di Borbone-Vendôme.

3. La linea di Montpensier. - Con la morte del connestabile di Borbone (1527) venne a spegnersi non solo la linea primogenita, ma anche quella dei Borbone conti di Montpensier. La contea di Montpensier era stata portata alla linea ducale da Maria di Berry, sposa di Giovanni I di Borbone (v. sopra). Il titolo passò al loro terzogenito Luigi (morto nel 1486) e da questo a suo figlio Gilberto, morto nel 1496, che dalla moglie Chiara Gonzaga ebbe tre figli e due figlie: dei figli, due morirono in giovane età, onde il titolo passò al secondogenito, Carlo, connestabile di B., che per il suo matrimonio con Susanna di B. unì questa linea cadetta con la linea ducale; ma con la sua morte le due linee si estinsero. Il titolo di conte di Montpensier fu proseguito dagli eredi di una sorella del connestabile, Luisa, sposa pure ad un B.; fu elevato poi al grado di ducato (1539) e passò poi (1626) ai Borbone-Orléans.

4. La linea di Borbone-Busset. - È considerata illegittima, perché sorta dall'unione di Luigi di B. (1428-1482), quartogenito del duca Carlo I di B. e principe vescovo di Liegi, con Caterina d'Egmont, principessa di Gheldria. Il primogenito, Pietro, sposò l'erede della signoria di Busset. Questa linea vive tuttora.

I Borboni sul trono di Francia.

Per due secoli, dall'avvento di Enrico IV di B. al trono di Francia (1589), i B. riempiono di sé la storia d'Europa. L'unificazione e la pacificazione della Francia n'ebbe subito un poderoso impulso. È vero che un profondo dissidio si era scavato entro la stessa famiglia di B., poiché la Ligue contrapponeva a Enrico IV il cardinale di B. come legittimo sovrano. Ma con la conversione di Enrico IV al cattolicismo, fu tolta ai nemici l'arma più forte; la Francia poteva avere di nuovo un re cattolico e, ad un tempo, un re che aveva a suo favore - elemento importantissimo - tutte le ragioni della più rigorosa successione legittima mascolina, sempre osservata nella monarchia francese. Con Enrico IV, venne alla corona di Francia, unendosi alle terre degli estinti Valois, anche quell'immenso complesso di terre (Navarra, Béarn, Alvernia, ecc.) che era quasi uno stato entro lo stato. Con l'avvento al trono dei Borbone-Vendôme la successione in linea maschile era largamente assicurata; infatti non solo Enrico IV ebbe dal suo secondo matrimonio, con Maria de' Medici, due eredi maschi, Luigi XIII e Gastone, duca d'Orléans, e tre femmine, Elisabetta, sposa di Filippo IV di Spagna; Cristina, sposa di Vittorio Amedeo di Savoia; ed Enrichetta Maria, sposa di Carlo I d'Inghilterra; ma ad assicurare l'eventuale successione c'era una linea laterale uscita dalla linea di Vendôme, quella dei principi di Condé (v.), e da quest'ultima, a lor volta, le due linee di Soissons (v.) e di Conti (v.) Ma non ci fu bisogno di ricorrere alle linee secondarie, sebbene anche queste, come un tempo i Borbone-Vendôme, non dissimulassero, specie al tempo della seconda Fronda, qualche velleità di sovrapporsi alla corona. Luigi XIII ebbe da Anna d'Austria due figli, Luigi XIV e Filippo, che iniziò la linea dei duchi d'Orléans (v.); ma il problema poteva risorgere alla morte di Luigi XIV, che nel suo lunghissimo regno aveva sepolto due figli, Luigi, il Gran delfino (1661-1711) e Filippo duca d'Angiò (1668-1671), e due figli del suo primogenito: Luigi, duca di Borgogna e Carlo, duca di Berry. Il terzo, Filippo, duca d'Angiò, dal 1700 era re di Spagna e aveva dovuto rinunziare ai suoi diritti sul trono di Francia. Nel '700 rampolli borbonici formicolano sui troni europei; in Spagna, a Parma, a Napoli; grande splendore, certamente, ma esteriore e che non si ripercuote sulla famiglia nella sua unità. Del resto quest'unità non esiste, o esiste solo per i genealogisti e, come sentimento di superiorità, nel ceppo francese. Ma via via che i Borboni si sono sparsi su troni europei, le ragioni d'esistenza dei loro stati sono state più forti dei legami famigliari; e, anche se tentata, un'intesa borbonica europea non c'è stata, o non è stata vitale. A succedere a Luigi XIV venne il pronipote, figlio di Luigi duca di Borgogna, Luigi XV. E con questo pare si ripeta la stessa vicenda: Luigi XV ebbe sì dieci figli, ma di questi i due maschi gli premorirono; onde la successione venne al figlio del suo primogenito (Luigi) e della di lui seconda moglie Maria Giuseppina di Sassonia, Luigi Augusto, che divenne re col nome di Luigi XVI (1774-1793) e finì, com'è notissimo, sulla ghigliottina, interrompendo, per 21 anni, la monarchia borbonica in Francia. La Rivoluzione disperse i Borboni di Francia in tutti gli angoli d'Europa, profughi a Coblenza, a Verona, a Trieste, in Inghilterra, in Russia; molti scendono in armi contro la patria, mentre la linea d'Orléans, che più o meno aveva sempre tenuto a far la fronda contro la linea reale, mantiene un contegno spesso equivoco, o anche ostile verso i consanguinei. Quando nel 1814, dopo la bufera rivoluzionaria e l'avventura napoleonica, la dinastia borbonica poté ritornare sul trono di Francia, il figlio di Luigi XVI, quello che fu, idealmente, Luigi XVII (1785-1795?), ex-duca di Normandia, era certamente già morto, nonostante le pretese dei molti mistificatori. Onde il trono di Francia fu occupato dal fratello di Luigi XVI, ed ex-conte di Provenza, Luigi XVIII (1814-1824), poi alla sua morte, non avendo figlioli, dall'altro fratello, già conte di Artois, Carlo X (1824-1830). Sbalzato questo dalla rivoluzione di luglio, il trono di Francia venne ai Borboni del ramo d'Orléans cadetto. L'ormai aperta inimicizia fra i due rami borbonici non poteva avere più chiara manifestazione. Il ramo primogenito, non si estingueva però con Carlo X; questi dal suo matrimonio con Maria Teresa di Savoia (1773) aveva avuto due figli: Luigi Antonio duca di Angoulême (1775-1846), che sposò la figlia primogenita dello zio Luigi XVI, Maria Teresa Carlotta (Madame Royale) e Carlo Ferdinando duca di Berry (1778-1820), che morì assassinato. Questo ultimo lasciava la moglie, Maria Carolina di Napoli, incinta d'un figlio, "il figlio del miracolo", che fu Enrico duca di Bordeaux e poi conte di Chambord (1810-1883), in favore del quale il padre e Carlo X, fuggendo da Parigi, avevano fatta cessione platonica della corona; e che perciò i legittimisti chiamarono Enrico V. Egli sposò (1846) Maria Luisa di Modena, ma morì senza lasciare posterità, onde tutti gli eventuali diritti alla corona di Francia passarono da allora (1883) al ramo degli Orléans.

Bibl.: Huillard-Bréholles e Lecoy de la Marche, Titres de la maison ducale de Bourbon, voll. 2, Parigi 1867-74; J. B. Béraud, Histoire des sires et des ducs de Bourbon, voll. 4, Parigi 1835-36; Désormeaux, Histoire de la maison de Bourbon, voll. 5, Parigi 1772-88; De La Mure, Histoire des Èducs de Bourbon et des comtes de Forez, voll. 4, Lione 1860-97; Chazaud, Étude sur la chronologie des sires de Bourbon (X-XIIIe siècle), Moulins 1865; L. Dussieux, Généalogie de la maison de Bourbon de 1256 à 1869, 2ª ed., 1872; Ch. Nauroy, Les derniers Bourbons, Parigi 1883; H. Lehec, Généalogie des Bourbons de France, d'Espagne, de Naples et de Parme depuis les temps plus reculés, jusqu'à nos jours, Châteauroux 1880; V. Dumax, Grand album généalogique et biographique des princes de la maison de Bourbon ecc., Parigi 1880, 2ª ediz., 1808; G. Depeyre, Les ducs de Bourbon, Parigi 1897.

Borboni di Spagna.

La famiglia reale francese dei Borboni stese un suo ramo sul trono di Spagna nel 1700 con il nipote di Luigi XIV, Filippo V (1700-1746), figlio terzogenito di Luigi, il gran Delfino, che era premorto al padre Luigi XIV. Questo trapiantamento era stato preparato di lunga mano e con una serie complicatissima d'intrighi, di trattati segreti o palesi, di velate minacce, di soprusi. I primi tentativi risalgono al tempo di Luigi XIII e del Richelieu. Infatti, mentre Filippo II di Spagna, con l'aiuto della lega cattolica, aveva potuto ad un certo momento (1589) sperare di vedere la sua casa (Asburgo) assidersi anche sul trono di Francia, con Luigi XIII le speranze s'invertono: sono i Borboni di Francia che sperano di vedere un loro ramo sul trono di Spagna. Luigi XIII sposa una infanta spagnola, Anna d'Austria figlia di Filippo III. Per ora le speranze sono molto modeste: gli Asburgo spagnoli sono ancora numerosi, anche se non hanno la prepotente vitalità dei Borboni di Francia. Il gioco diventa più serrato con Luigi XIV: egli nel 1659 sposa Maria Teresa, figlia primogenita di Filippo IV, ma essa, come del resto anche Anna d'Austria, prima di lasciare Madrid, deve fare solenne rinunzia a tutti i suoi eventuali diritti al trono spagnolo. Luigi XIV, via via che il ramo spagnolo degli Asburgo sembrerà spegnersi, lotterà sempre più forte per abrogare questa clausola; ma Carlo II, sempre malato e senza prole, non moriva così presto come speravano i numerosi pretendenti: il Delfino di Francia, come figlio di Maria Teresa; l'elettore di Baviera, come nipote di una sorella di Carlo II e di Maria Teresa; e l'arciduca Carlo d'Austria, il futuro imperatore Carlo VI, come nipote di Maria, figlia di Filippo III.

Per sventare il pericolo che i possessi della monarchia spagnola andassero suddivisi fra i troppi pretendenti, Carlo II si lasciò convincere a proclamare erede universale il nipote di Luigi XIV, Filippo duca d'Angiò (Filippo V). Non fu facile cosa per Filippo V sostenersi sul nuovo trono contro la coalizione dei pretendenti delusi (v. successione, guerre di). Anche l'aiuto da parte dei Borboni di Francia - aiuto che si poteva pagare solo con un'umiliante soggezione - non fu poi così valido e costante, dopo le prove dei primi anni. Già nel 1706 l'alleanza fra le due case di Borbone s'intiepidisce, nel 1709 è rotta addirittura; poi riallacciata, fra intrighi continui che approfittano della debolezza, fisica e morale, del re. Unico atto chiarificatore, fra tante debolezze, la legge sulla successione del 10 maggio 1713, che assicura la preferenza alla linea mascolina. Filippo V dal primo matrimonio con Maria Luisa Gabriella di Savoia ebbe, per non dire dei figli premortigli, Luigi I, che fu re per pochi mesi nel 1724, dopo la provvisoria abdicazione del padre e morì l'anno seguente; e Ferdinando VI (1746-59), che venne al trono dopo la morte del padre; ma entrambi non lasciarono prole, onde la successione venne al figlio di secondo letto, natogli da Elisabetta Farnese: Carlo III (1759-88), che era già stato duca di Pamna e, fra il 1735-1759, re delle Due Sicilie, mentre il fratello di questo, don Filippo, iniziava il ramo dei Borboni di Parma. Con Carlo III il sentimento dei comuni legami familiari con i Borboni di Francia s'è già molto allentato; diventa un ricordo araldico. Dal suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia Carlo III ebbe numerosi figli, tra i quali il successore Carlo IV (1788-1808). Questi dovette fionteggiare avvenimenti troppo gravi per lui e dimostrò nei fatti che quel nuovo vigor di vita, che sembrava entrato nella famiglia con l'ambiziosa Elisabetta Farnese e di cui suo padre Carlo III aveva dato qualche buona prova, s'era già spento: nel 1808 abdicò in favore del figlio Ferdinando VII (1808-1833), natogli da Luisa Maria di Parma, figlia di don Filippo; quindi sua cugina: caratteristica questa, dei Borboni spagnoli, di perpetuare e moltiplicare troppo le parentele entro i varî rami della famiglia.

Ma alla morte di Ferdinando VII, che non lasciava figli maschi, le opinioni sui diritti di successione andarono divise: una parte degli Spagnoli, accettando la prammatica presentata alle Cortes da Carlo IV nel 1789 e promulgata da Ferdinando VII nel 1830, riconobbe erede la figlia di Ferdinando, Isabella II (1833-1870), una bambina treenne, sotto la reggenza della madre Maria Cristina, una Borbone di Napoli; un'altra, non volendo riconoscere la discendenza femminile, il fratello di Ferdinando Don Carlos duca di Molina. Di qui l'aspra guerra fra i parigiani di don Carlos (Carlisti), e di Isabella, che rimase vincitrice (1839) e che per alcuni anni riuscì veramente a dare una larga popolarità e fervore di consensi alla dinastia; ma la politica estera, troppo inclinata ad interessi stranieri, e la politica interna reazionaria, provocarono pronunciamenti militari e la caduta della monarchia (30 settembre 1868). La regina riparò a Parigi, in attesa che si chiudesse la parentesi antiborbonica. Infatti il figlio che aveva avuto dal cugino Francesco d'Assisi duca di Cadice, Alfonso XII, fu richiamato sul trono nel 1874 e vi rimase fino alla morte (1885). Pochi mesi dopo la sua morte, nasceva alla seconda moglie, Maria Cristina d'Austria, il figlio Alfonso XIII, attualmente regnante. Dalla moglie Vittoria Eugenia di Battenberg egli ha avuto sei figli: Alfonso, principe delle Asturie (nato 1907), Jaime (n. 1908), Beatrice (n. 1909). Maria Cristina (n. 1911), Juan Carlos (n. 1913) e Gonzalo (n. 1914). I discendenti di don Carlos hanno mantenuto le loro pretese sul trono spagnolo, attraverso Carlo Luigi, conte di Montemolín (morto nel 1861), che si fece chiamare Carlo VI; le pretese furono tenute deste da don Carlos (1848-1909), figlio di suo fratello Giovanni; e ora da don Jaime (n. 1870), duca di Madrid, figlio di don Carlos e di Margherita principessa di Borbone-Parma.

Bibl.: A. Viollet, Hist. des Bourbons d'Espagne, Parigi 1843; Kirpatrick de Closeburn, Les renonciations des B. et la succession d'Espagne, Parigi 1908.

I Borboni di Napoli.

Primo della serie potrebbe considerarsi Filippo V, in quanto re della Spagna, signora del regno di Napoli. Ma, contesagli da Carlo VI d'Austria la successione in quella monarchia, tra le vicende della guerra che ne derivò, perdette il regno di Napoli, toltogli dagli Austriaci nel 1707 e dalle potenze riconosciuto dominio di Carlo d'Austria nei successivi trattati di pace. Vedovo d'una Savoia, Filippo V si riammogliò con Elisabetta Farnese, che nel 1716 gli generò Carlo e due anni dopo ottenne per il suo bambino il riconoscimento internazionale del suo diritto a succedere agli avi materni nei ducati di Parma e di Piacenza e nel granducato di Toscana. Quando nel 1731 venne a morte Antonio Farnese, il giovane Carlo fu messo in possesso di quei ducati. Ma, prima dell'estinzione della casa de' Medici, sopraggiunse la guerra per la successione polacca, e la regina di Spagna mandò un esercito alla riconquista del regno di Napoli. Comandante nominale di quell'esercito era il duca di Parma, comandante effettivo il conte di Montemar; questi con la vittoria di Bitonto (25 maggio 1734) assicurò la riconquista. Interamente dominato come era dalla consorte, il re di Spagna fece del regno ricuperato cessione al duca di Parma suo figlio. Ma Carlo VI imperatore non s'indusse a riconoscere il dominio di Carlo nel regno se non contro la rinunzia ai ducati farnesiani e al granducato mediceo. Malgrado le contestazioni, i beni allodiali dei Farnesi e dei Medici vennero in possesso del nuovo re delle Due Sicilie.

Il pontefice Clemente XII nella bolla d'investitura, che gli inviò nel 1738, lo chiamò Carlo VII, in grazia di sei sovrani omonimi che Napoli aveva avuto in passato. Ma, in verità, Carlo Borbone nel regno delle Due Sicilie fino al 1759 preferì non darsi alcun numero. In quello stesso anno 1738 gli giunse sposa di appena quattordici anni Amalia di Sassonia. Dopo parecchie femmine nacque Filippo; poi Carlo, poi Ferdinando, poi altri ancora. Re e padre, Carlo si mantenne sempre ossequente ai genitori; sicché il regno fu ancora mezzo dipendente dalla Spagna finché visse Filippo V e finché Ferdinando VI, suo successore, non tolse ogni potere alla matrigna (1746).

Solo dopo d'allora Carlo si può considerare re d'un regno davvero indipendente. Ma quando senza prole morì Ferdinando VI (15 agosto 1759) e re delle Due Sicilie divenne Carlo III di Spagna, al collo di Napoli fu rimessa la catena spagnola. Escluso dalla successione il primogenito Filippo, perché idiota; essendo principe delle Asturie, cioè erede di Spagna il secondogenito; a Carlo sul regno di Napoli successe Ferdinando, di soli otto anni, sotto la guida di otto reggenti, fra cui il marchese Tanucci, primo ministro, ossia ministro degli Esteri. Ma espressa volontà del re, partito per sempre da Napoli l'8 ottobre 1759, fu che la reggenza, governando in nome del suo figliuolo, si tenesse obbediente agli ordini di Spagna.

Ferdinando IV, maggiorenne a sedici anni (12 giugno 1767), a diciassette sposò Maria Carolina, sedicenne, e continuò a lasciarsi guidare dal genitore lontano. Ma all'altera figlia di Maria Teresa quella tutela finì per riuscire insopportabile; ed ella se ne liberò: non solo il Tanucci fu allontanato (1777), ma, quel che è più importante, quasi tutti i poteri furono concentrati nelle mani dell'Acton (1779-80). Da ciò trae origine il lungo dissidio tra i due re, padre e figlio, e il conseguente abbandono delle sorti del regno al volere della regina e del suo favorito.

Nondimeno l'acquisto di un re proprio nel 1734, l'indipendenza ambita e raggiunta, quando era in pieno sviluppo la nuova cultura nata nella metà del secolo precedente e si veniva formando quella che Eleonora Pimentel chiamò "una nuova nazione", segnarono veramente nel mezzogiorno d'Italia un'era nuova. Questa è rappresentata dal regno di Carlo e anche più dal primo periodo del lunghissimo regno di Ferdinando. E la caratterizza l'armonia e la collaborazione della classe intellettuale col governo del re, che si esplicò in un vasto complesso di utili riforme riguardo al clero, alla feudalità, all'economia, alla finanza, alla milizia; onde fu specialmente celebrata l'"età di Ferdinando". Ma anche nel Napoletano non tardò a ripercuotersi la Rivoluzione francese, suscitando nuove aspirazioni negl'intellettuali, mutando i riformisti in giacobini, bramosi di libertà politica, e in cospiratori. La scoperta delle congiure aprì la serie dei processi di maestà o di stato; e l'armonia fra il trono e la classe intellettuale si ruppe per sempre. Gl'intellettuali, nobili, borghesi, ecclesiastici, favorirono nel 1799 l'invasione francese, davanti alla quale la famiglia reale si rifugiò in Sicilia. Le plebi di campagna e di città insorsero a difesa della monarchia; i "lazzaroni" di Napoli avevano contrastato da eroi ai Francesi la conquista della capitale; le "masse" sanfediste vi ricondussero i sovrani fuggitine. E gli uni e le altre applaudirono alla reazione feroce del governo, che mandò alla morte, all'ergastolo, all'esilio tutto il fiore intellettuale e morale del paese.

Da allora la dinastia sentì, riconobbe e dimostrò d'avere contro di sé l'intelligenza, la dottrina e l'altezza d'animo; e come ad unico sostegno si appoggiò alla plebe: alla plebe di nascita e a quanti altri elementi ebbero della plebe l'ignoranza e gl'istinti. Tra i quali elementi, del resto, primeggiava lo stesso re, educato da un aio, che riteneva sconveniente a un gentiluomo e al sovrano dei gentiluomini ogni altro esercizio che non fosse di corpo: equitazione, guida di cocchi, caccia, festini: il "re lazzarone", come meritò d'essere chiamato col suo linguaggio schiettamente e sguaiatamente dialettale, coi suoi modi e gusti plebei, che non mancò di trasmettere in retaggio ai successori.

Quando, pochi anni dopo il 1799, all'Acton, sazio di fortune, vecchio, marito e padre, mancò il prestigio sull'animo della regina, nelle sole mani di lei rimase il timone dello stato e soprattutto della politica estera. Di qui derivò la seconda invasione francese e la nuova fuga dei reali nell'isola (1806). Ma qui tramontò anche l'astro di Maria Carolina. Espulsa dalla Sicilia dagl'Inglesi, morì improvvisamente nel castello di Hertzendorf la sera del 7 settembre 1814. Due mesi dopo, Ferdinando IV creò principessa di Partanna Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, e la tolse in moglie, vecchio di sessantaquattro anni.

Re costituzionale nell'isola, mal suo grado, per volontà dell'Inghilterra, tale si offrì Ferdinando anche ai Napoletani, per guadagnarli alla sua causa. Ma quando, dopo la caduta del Murat (giugno 1818), fece ritorno a Napoli e si chiamò Ferdinando I, non concesse la costituzione promessa. Costretto a darla dal moto carbonaro del luglio 1820, nominò suo vicario il primogenito Francesco, duca di Calabria, giurò solennemente nella reggia la costituzione (13 luglio), tornò a giurarla più solennemente in chiesa (1° ottobre), e dopo due mesi e mezzo partì alla volta di Lubiana (14 dicembre), per ritornarne con un esercito austriaco, distruggere il regime giurato (marzo 1821), aprire un nuovo martirologio contro quanti lo avevano procurato, coadiuvato o consentito, e chiudere tra quelle condanne la lunga vita, la notte del 3 gennaio 1825.

A Ferdinando I successe Francesco I a quarantasette anni di età, ma già rammollito di mente. In lui venne a mancare il tipo fisico della famiglia. Dalla prima consorte, Clementina d'Austria, aveva avuto una figliuola, che fu duchessa di Berry. Numerosa prole gli diede Isabella, figlia di Carlo IV di Spagna, sua seconda consorte. Le figliuole andarono spose a Ferdinando VII, al granduca di Toscana, a don Sebastiano di Spagna, al conte di Montemolín. E soltanto un così largo parentado poté dare una qualche importanza a questo terzo re Borbone, il quale rimase sul trono non più di sei anni.

Francesco I morì l'8 novembre 1830, lasciando sul trono Ferdinando II, ventenne (era nato il 12 gennaio 1810), e, accanto a lui, altri cinque figli: don Carlo, principe di Capua; don Leopoldo, conte di Siracusa; don Antonio, conte di Lecce; don Luigi, conte d'Aquila (v.), don Francesco di Paola, conte di Trapani, che allora aveva solamente tre anni.

L'alba del nuovo regno parve arridere agli elementi migliori della popolazione. Il giovane re mostrò di volersi riattaccare alla tradizione amministrativa e militare dei Napoleonidi, più che a quella del padre e dell'avo. E i primi suoi atti gli progurarono il soprannome di "novello Tito".

Nel secondo compleanno del suo avvento al trono partì alla volta di Genova, e in Voltri (il 20 novembre 1832) s'unì in matrimonio con Maria Cristina, figlia di Vittorio Emanuele I, che, ammalatasi nel dare alla luce Francesco d'Assisi (16 gennaio 1836), spirò dopo due settimane (31 gennaio). Il re ne liquidò l'eredità, nulla volendo possedere in Piemonte, e alienando anche il palazzo Salviati, che la defunta possedeva in Roma. Dopo men d'un anno di vedovanza il re celebrò in Trento le sue nuove nozze con Maria Teresa, figlia dell'arciduca Carlo d'Austria (9 gennaio 1837). Onesto nei costumi privati, come re desiderò il benessere dei suoi sudditi e ne promosse le industrie e i commerci. Oltre ad avere richiamato gli esuli, scemò le imposte, fu geloso della sua indipendenza tanto di fronte all'Austria quanto di fronte all'Inghilterra. Ma la ripresa dei moti liberali, incalzanti a brevi intervalli ora in uno, ora in un altro punto del regno, risvegliarono in lui l'odio di famiglia per ogni libertà politica. Dovette cedere alla rivoluzione del 1848, e primo fra i principi d'Italia accordò una costituzione (29 gennaio). Ma l'acuirsi dell'agitazione provocò l'eccidio del 15 maggio, e sospinse il re verso quella politica di reazione antinazionale, che virtualmente segnò già sotto di lui la fine della sua dinastia e del regno delle Due Sicilie. Una crescente avarizia si accoppiò anche a questo spirito reazionario. Ma su tale via non tutti i fratelli lo seguirono. L'esempio loro era di una famiglia tutt'altro che concorde. Il principe di Capua viveva lontano, in una specie di esilio, di cui non si seppe mai la cagione. Il conte d'Aquila, ammiraglio, che non navigò se non nel 1844 per prendersi la sposa, sorella di don Pedro II del Brasile, con qualche tendenza per la pittura, era un reazionario anche più intransigente e feroce del re; e non ritenne mai sufficienti le più rigorose misure contro i liberali. Per l'opposto, liberaleggiava frondisticamente il conte di Siracusa. Simpatico, artista, scultore di non scarso valore e protettore di artisti, fastoso, napoletanamente buontempone, scettico e superstizioso, impressionabile e donnaiolo, contrasse un matrimonio infelice con Maria Vittoria Filiberta, sorella di Eugenio di Savoia-Carignano, che, ascetica, ritrosa, retriva, diffidente, nemica del fasto, non lo amò e non ne fu amata. Il conte di Siracusa fu il solo della famiglia reale, nel quale confidassero i liberali; ed egli li accoglieva nel suo splendido palazzo alla Riviera di Chiaia (ora palazzo Sirignano, abbattuto da uno dei lati). Amico loro, strettosi in intimità col giovane conte di Gropello, rappresentante diplomatico del Piemonte in Napoli, manifestava egualmente così la sua simpatia per il Piemonte come la sua antipatia per gli uomini che godevano la fiducia di Ferdinando II. Come altri liberali e intellettuali del tempo, egli sognava una stretta alleanza fra i due regni italiani, che sopprimesse gli staterelli frapposti e scacciasse gli stranieri dall'Italia. Mezzo al conseguimento di questo ideale egli vagheggiò il matrimonio di Francesco, duca di Calabria, con la principessa Clotilde di Savoia, di sei anni più giovane. E per indurre il re a tal partito rimase famosa una magnifica rappresentazione drammatica ch'egli dette nel teatrino del suo palazzo la sera del 15 marzo 1858. Ma ben diversi erano i propositi di Ferdinando II; capì l'antifona e lasciò la festa malsoddisfatto. Il più insulso e insignificante fra i fratelli del re era il conte di Trapani, che nel 1850 sposò Maria Isabella di Toscana. Ma fu anche il più sinceramente affettuoso così col re suo fratello come poi col re suo nipote.

Quanto alla famiglia propria del sovrano, dopo la morte di Maria Cristina, essa fu l'immagine d'una famiglia puramente borghese. Maria Teresa, che gli generò non meno di nove figli, adottò facilmente e presto gli usi e i gusti del consorte: non parlò che il dialetto napoletano, s'intende a modo suo; si adattò volentieri alla parsimonia della mensa, e come il marito preferì i maccheroni e i cibi più grossolani. Né punto si diede pensiero di dare ai figlioli un'istruzione e un'educazione convenienti a principi reali, lasciandoli sbizzarrire in monellerie volgari, che lo stesso re talora ebbe a rampognare come scherzi e' lazzaro. Maggiori erano, oltre quattro femmine, Gaetano, conte di Girgenti, Luigi, conte di Trani, e Alfonso, conte di Caserta. Pasquale, conte di Bari, nacque nel 1852; Gennaro, conte di Caltagirone, solo nel 1857. Questa famiglia il re usava condurre in phaeton, da lui stesso guidato, fino alla magnifica villa Caposele, tra Formia e Gaeta, ch'egli acquistò per pubblico incanto nel 1852 e ampliò e abbellì e fece meta delle sue passeggiate. Il suo patrimonio privato, costituito da rendite napoletane, siciliane e straniere, da oggetti preziosi del valore di circa 60 mila ducati e da più di 40 mila ducati di doppie d'oro, superava i 60 milioni e mezzo di questa moneta. A ciascuno dei quattro fratelli lasciò in dono nel testamento 20 mila ducati; alla moglie e al principe ereditario 566.256 ducati per uno; a Luigi, conte di Trani, 756.521 e poco meno agli altri figli in ragione dell'età; a ciascuna delle figliuole 377.504 ducati. Ma Francesco primogenito, oltre la villa Caposele avuta in legato speciale, quando giunse a maggiorità, ricevette anche in dono un borderò di 4 milioni, confiscato dal governo dittatoriale nel settembre 1860.

Per procura in Monaco, l'8 gennaio 1859, di persona in Bari, il 3 febbraio, Francesco sposò Maria Sofia, nata il 4 ottobre 1841 da Massimiliano, cugino del re di Baviera, sorella dell'imperatrice d'Austria, che recò non più di 25 mila ducati di dote (50 mila fiorini bavaresi) ed ebbe dal suocero costituita una controdote di 36 mila ducati. Ma Ferdinando II allora giaceva mortalmente infermo a Bari; e la lunga permanenza colà degli arciduchi austriaci destò nei liberali di Napoli e nel conte di Siracusa il sospetto e il timore ch'essi non tramassero un'alleanza fra Napoli e l'Austria contro la lega franco-piemontese. Onde il conte di Siracusa, che s'era impegnato a disporre a sentimenti liberali il nipote, prossimo futuro re, accorse a Bari, l'11 febbraio, e ne ripartì dopo sette giorni. Trasportato a Caserta, quivi Ferdinando II, fra sofferenze atroci, chiuse la vita a 49 anni e 4 mesi la domenica 22 maggio 1859, due giorni dopo la battaglia di Montebello.

Gli successe Francesco II, assolutamente impreparato al grave compito, incapace di comprendere il torrente ch'era per travolgerlo. La matrigna fu dalla fama accusata d'aver promosso una congiura pugliese intesa a sostituirgli sul trono il fratellastro Luigi, conte di Trani, che, taciturno, impenetrabile, senza la bonarietà di Francesco, senza la festosità di Alfonso e di Gaetano, era il figlio più somigliante alla regina austriaca. Lo zio, conte di Siracusa, in una lettera famosa esortò il giovane re ad entrare nella via liberale (aprile 1860). Al gran consiglio di stato del 30 maggio 1860 intervennero i conti d'Aquila e di Trapani, zii del re, e il conte di Trani. Messa ai voti la proposta Filangieri di un'alleanza con la Francia, gli ultimi due si astennero, l'approvò il conte d'Aquila, che, fin'allora reazionario intransigente, d'un tratto si atteggiò a liberale e col fratello conte di Trapani, malgrado l'ira di Maria Teresa che tentò di farlo arrestare, fece firmare dal re, il 25 giugno, l'atto concedente la costituzione. Disgustata, la regina madre coi figli si ritirò a Gaeta, divenuta da allora covo della reazione. Nella reggia tutti furono atterriti dall'amnistia dei condannati politici, meno la giovane regina Maria Sofia, che si mantenne serena, e il conte con la contessa di Trapani, che rimasero attaccati al re. Il patriziato legittimista, messo da parte, ostentò indifferenza o si sfogò in sarcasmi. E, fin d'allora, non pochi di esso, un po' alla volta o raggiunsero Maria Teresa a Gaeta o emigrarono a Roma e a Parigi. Lo stesso conte d'Aquila, mutato nuovamente contegno, si agitò in modo nella sua irrequietezza da far credere che cospirasse per soppiantare il nipote. Qualche indizio non mancò. Fu esiliato (14 agosto) e protestando s'imbarcò per Marsiglia. Molto più tardi ritornò in Italia, chiese danaro al governo italiano e al re Umberto; non l'ebbe e finì oscuramente.

Ma, fattasi largo nella parte più eletta del liberalismo l'idea unitaria, uno statuto per Napoli non rispondeva più al bisogno dell'età nuova. "Era destino (ripeteva tra i liberali il conte di Siracusa) che la dinastia di Carlo III dovesse finire con un imbecille". Il 24 agosto il conte scrisse una lettera al re, consigliandolo a seguire l'esempio della duchessa di Parma: sciogliere dall'obbedienza i sudditi perché disponessero liberamente della propria sorte. Non esaudito, dopo sette giorni s'imbarcò sopra una nave piemontese per Genova e Torino; e nel marzo del 1861 fu ucciso a Pisa da un colpo d'apoplessia, a quarantotto anni di età.

Avanzando invincibile Garibaldi in nome di Vittorio Emanuele e passato in Calabria, tra la costernazione e confusione generale della reggia di Napoli, mentre i conti di Trapani e di Trani si dimettevano dai loro gradi militari, Maria Sofia insistette perché il re si ponesse a capo dell'esercito e si offrì di seguirlo. Il re dicendosi deciso a far ciò, per i mezzi finanziarî occorrenti, nella notte sopra il 3 settembre, chiese un'anticipazione al direttore delle finanze; e, negatagli, suggerì che si sopperisse coi depositi del banco. Fattogli notare che quei depositi erano cosa sacra, egli non replicò. La partenza fu decisa, non per il campo contro Garibaldi, ma per la piazza di Gaeta, ed ebbe luogo il 6 settembre con un enorme seguito di bagagli trasportati per terra e per mare. Con quella partenza ebbe termine il regno dei Borboni nelle Due Sicilie, durato centoventisei anni. Quella parte del loro esercito che non si unì alla rivoluzione e che non si sbandò, salvò al Volturno e nella difesa di Gaeta il proprio onore e l'onore del paese. L'onore della dinastia che Elisabetta Farnese aveva dato a Napoli non ebbe tavola di salvezza che in un'altra donna: nel contegno di Maria Sofia durante l'assedio di Gaeta. Di qua Francesco II, il 2 dicembre 1860, diresse ai suoi passati sudditi quel proclama, tra mistico e polemico, che, promettendo prossimi tempi migliori, aizzando le peggiori passioni contro gli stranieri e i venturieri del Piemonte, poté giustificare ogni iniquità, reazionaria prima, brigantesca poi.

Passato a Roma (14 febbraio 1861) dopo la capitolazione di Gaeta, vi si atteggiò non a re spodestato o a pretendente, ma a vero sovrano; con un intero ministero, con tutto un corpo diplomatico, con la corte. Invece degli aiuti sperati, l'imperatore francese consigliò l'ex-re a partire da Roma, donde non si cessava d'indirizzare proteste alle potenze contro gli "oppressori"; dove, non ignaro Francesco, i suoi zii e fratelli organizzavano spedizioni armate, che, se per qualche tempo ebbero carattere politico di reazione, finirono per essere brigantaggio della peggiore specie.

Il conte di Trani, che nel giugno 1861 s'ammogliò con Matilde, sorella di Maria Sofia, e la condusse a Roma, si dichiarava pronto a partire per la frontiera. E così gli altri principi. Ma, in verità, nessuno era disposto a rischiar la pelle, trovando comoda quella vita romana di corte, di saloni, di teatri e di chiesa.

In quello stesso anno 1861 partirono da Roma due sorelle dell'ex-re: prima, Maria Immacolata, andata sposa a Carlo Salvatore di Toscana; poi, Maria Annunziata, sposa all'arciduca Carlo Ludovico, fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe. Nel maggio dell'anno seguente ne partì per la sua Baviera anche Maria Sofia, disgustata di Roma e sempre più in disaccordo con Maria Teresa. Decisa a non più ritornarvi, per consiglio della sorella Elisabetta imperatrice e per le insistenze del marito vi ritornò nell'aprile del '63, quando già le corti borboniche dal Quirinale, prima tutto intero occupato da loro, s'erano trasferite al palazzo Farnese; e l'ex-regina vecchia coi conti minori di Caserta, di Girgenti e di Bari, s'era appartata altrove, in un palazzetto di piazza Venezia, dopo un breve viaggio in Austria.

Ma allora erano anche cominciate a svanire le speranze della restaurazione con le conseguenti congiure, che di Roma avevan fatto una nuova Coblenza. Francesco II venne sempre più disponendosi alla rassegnazione e accentuando il suo bigottismo, a mano a mano che le potenze, dietr0 l'Inghilterra, riconobbero il regno d'Italia: ultime l'Austria e la Spagna. Tra la fine del '65 e la fine del '66 Roma fu sgombrata dai Francesi; ma seguì Mentana, e qui il conte di Caserta meritò il grado di colonnello dell'esercito papale.

Nuovamente Maria Sofia con la sorella Matilde si era recata in Baviera. Infierendo in Roma il colera, tutti gli altri Borboni si erano ritirati in Albano. Qui, il 5 luglio, il morbo si attaccò al conte dì Caltagirone. Maria Teresa, curandolo amorosamente, ne fu colpita violentemente e uccisa. Il figlio, guarito dal colera, si ammalò di tifo e morì anche lui. A quelle morti, cessato il lutto, seguirono nel nuovo anno 1868 le nozze del conte di Caserta con la cugina Maria Antonietta; nel 1869 quelle della sorella Maria Pia delle Grazie con Roberto, duca di Parma, che con la sposa e con la cognata Immacolata andò poi a stabilirsi a Bohen; la venuta, in viaggio nuziale, di Gaetano conte di Girgenti, sposatosi con Maria Isabella, figlia d'Isabella II di Spagna, e quella dell'imperatrice Elisabetta d'Austria e, infine, l'evento più importante, il parto di Maria Sofia, dopo dieci anni di sterilità, nella notte di Natale. La nascita di Cristina Maria Pia valse a rompere con una gioia inattesa la cupa esistenza dell'ultimo re di Napoli. Ma fu gioia di breve durata. La bronchite distrusse quella piccola vita (28 marzo 1870), e i genitori ne rimasero desolati per sempre. Francesco II ne incanutì precocenente ed ebbe noia di tutto. Partito da Roma con la consorte per l'Austria e la Baviera, si ritirò nel modesto castello di Staremberg, donatogli dalla zia Marianna d'Austria. Quivi, nel 1871, andò a visitarlo una dama da lui platonicamente amata a Roma. E quando ella, entrando, volle esclamare: "Dove s'è ridotto il re di Napoli!" egli le chiuse la bocca, ammonendola: "Taci, non darmi il titolo che Iddio mi ha tolto". Così, rassegnato, visse fino al termine del 1894.

A palazzo Farnese era rimasto il conte di Caserta col fratello conte di Bari. Il 20 settembre 1870 vi sventolava la bandiera prussiana con ordine che non fosse aperto a nessuno. Ma il 23 i due principi dovettero partirne per Civitavecchia, scortati da un picchetto di soldati italiani. Dell'abbondante prole di Ferdinando II non sopravvissero che il conte di Caserta coi suoi numerosi figli e l'unica figliola del conte di Trani, con la quale egli divise in parti eguali le rendite di Caprarola e del palazzo Farnese, dato in fitto all'ambasciata di Francia. In Napoli, nella chiesa dei Bianchi allo Spirito Santo, nel gennaio 1895, si celebrarono solenni funerali per Francesco II. V'intervenne tutto il patriziato mantenutosi borbonico: cavalieri di S. Gennaro, balì di Malta, principi, duchi, marchesi, conti; il fior fiore di quello che si chiamò "partito borbonico" o "legittimista", di cui erano state primo nucleo le famiglie che avevano preceduto, accompagnato o raggiunto nell'esilio la dinastia caduta e poi, un po' alla volta, fatto ritorno in patria. Ad essi si aggregarono altri nobili, ex-militari, ex-impiegati, preti, servitori, altra gente di plebe, faccendieri e spostati: quali per cavalleresca fedeltà, quali, per ingenua illusione, quali a procaccio di compensi inconseguibili per altra via, quali infine, per sincerità di passione. Fin quasi al termine del secolo questo "partito" visse e tenne a far sapere che c'era. Nel conte di Caserta riconobbe "Sua Maestà Alfonso I"; ebbe corrispondenza con lui e con Maria Sofia; costituì società, tra cui anche un' "associazione operaia monarchica". Stampò anche giornali pieni d'ingiurie, di lamenti, di esaltazioni, di promesse vuote. Ma, scomparsi via via i più vecchi, i figli, i giovani, presero a noia quel vivere fuori della nuova vita e un po' alla volta si sono adattati al fatto compiuto.

Bibl.: B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925. Per la bibliografia, v. pp. 284-287; id., Gli ultimi borbonici, in Atti della R. Accademia di scienze morali di Napoli, 1927; L. R. De Cesare, La fine di un regno, Città di Castello 1908; id., Roma e lo Stato del Papa, Roma 1907, II; G. Doria, Un re in esilio (diario di C. Ulloa), Bari 1928.

I Borboni di Parma e di Lucca.

Estintasi il 20 gennaio 1731 la casa Farnese col duca Antonio, il ducato di Parma, come era stato previsto in caso di estinzione della famiglia regnante, passava a don Carlo di Borbone, figlio di Filippo V, re di Spagna, e di Elisabetta Farnese.

Antonio, persuaso della gravidanza della moglie, aveva, morendo, istituito erede "il ventre pregnante della serenissima signora duchessa Enrichetta d'Este". Svanita la supposta gravidanza, la successione spettava alla prole maschile di Elisabetta, a tenore dell'articolo V del trattato di Londra del 1718. Secondo esso, mancando la prole maschile nella casa Farnese e nella casa medicea, doveva succedere negli stati di Parma e nel granducato di Toscana il primogenito di Elisabetta e i di lui discendenti maschi; in mancanza di questi, il secondogenito o qualsiasi cadetto nato da Elisabetta, discendendo essi tanto dalla famiglia che si estingueva in Parma, quanto da quella che si estingueva in Toscana (Margherita di Cosimo II de' Medici era stata moglie di Odoardo Farnese, 5° duca di Parma).

Carlo si stabiliva a Parma verso la fine del 1732. Ma con la guerra di successione polacca egli otteneva il regno di Napoli (1738); e, dopo un breve periodo di dominio austriaco, Parma e Piacenza, in virtù dell'art. 4 del trattato di Aquisgrana del 1748, erano cedute insieme con Guastalla (che dopo la morte del duca Giuseppe Gonzaga, avvenuta il 15 agosto 1746, era passata a far parte dei dominî di Maria Teresa), al reale infante don Filippo, fratello di don Carlo, "per servire di stabilimento sia a lui che a' suoi eredi maschi". C'era però la clausola del regresso alla casa d'Austria nel caso d'estinzione della stirpe di don Filippo o del suo passaggio al trono delle Due Sicilie o a quello di Spagna.

Il governo di Filippo di B. a Parma, che durò sino al 1765, si segnala per le varie riforme compiute, in tutti i campi, dal duca coadiuvato dal ministro Guglielmo Du Tillot.

Le riforme continuano nel primo periodo di regno del successore di Filippo, Ferdinando. Ed è un'opera veramente notevole, specie nei riguardi del clero, contro i cui privilegi il Du Tillot lottò accanitamente, ponendosi apertamente contro la curia romana. Sennonché la lotta parmense contro Roma non era che un episodio della lotta delle case borboniche contro la Santa Sede, voleva dire quindi anche il predominio dell'influenza francese e spagnola sulla politica del ramo parmense dei Borboni, il minore della famiglia. Qualora pertanto i Borboni si fossero riconciliati col papa, il propugnatore parmense della politica anti-ecclesiastica doveva necessariamente cedere il posto ad altri.

Ora, il riavvicinamento tra Roma e i Borboni incominciò con le trattative per le nozze di don Ferdinando con Maria Amalia d'Austria. A Parma dal giorno di queste nozze incomincia (27 giugno 1769), la lotta contro il Du Tillot, ossia contro l'influenza francese e spagnola predominanti. In questa lotta per una maggiore autonomia, si distingue Maria Amalia. facile all'insulto, franca fino alla grossolanità, di scorretti costumi, ma animata da un grande orgoglio di indipendenza, anche da Vienna. La lotta termina col licenziamento del Du Tillot (14 novembre 1771) e col rovesciamento della politica ecclesiastica: continua però la protezione alle scienze, alle lettere e alle arti, verso le quali don Ferdinando, colto e studioso, fu sempre largo della sua generosiià.

Il ducato sotto di lui visse tranquillamente fino allo scoppio della Rivoluzione francese e all'invasione napoleonica. La politica paziente, non priva di abilità e di energia, di don Ferdinando, riuscì a salvare il ducato dall'ingordigia francese e dalle pretese che la Repubblica Cisalpina accampava su di esso per ragioni storiche e geografiche; finché, contro le garanzie del trattato di Parigi, la Cisalpina occupava, il 10 novembre 1797, l'Oltrepò piacentino e parmigiano, senza tener conto delle proteste del duca. Questi poté conservare il resto delle sue terre solo fino alla pace di Lunéville (9 febbraio 1801), la quale (art. 5) assegnava a don Ferdinando la Toscana, e al trattato di Aranjuez, del 21 marzo successivo, che lo spogliava del ducato a favore della Francia, assegnando a suo figlio l'Etruria col titolo di re. Il 9 ottobre 1802, alla motte di don Ferdinando, i Francesi finalmente s'impadronirono del ducato.

I Borboni di Parma passarono allora in Etruria con Lodovico, figlio di Ferdinando e re d'Etruria (1801-1803). Gli successe il figlio che si chiamò Lodovico II come re d'Etruria (1803-1807), sotto la reggenza della madre Maria Luisa; ma, spodestato del trono da Napoleone, si vide ricompensato nel 1815 col ducato di Lucca; e prese allora il nome di Carlo-Lodovico (1815-1847). Nel 1847, dopo la morte di Maria Luisa d'Asburgo, ritornò sul trono dì Parma e fece l'ultima incarnazione come Carlo II. Ma due anni dopo abdicava in favore del figlio Carlo III (1849-1854).

L'ultimo duca regnante della casa fu Roberto (1854-59), nato il 9 luglio 1848 (da Carlo III, assassinato in Parma il 27 marzo 1854, e dalla principessa Luisa Borbone-Artois) e morto nel 1907 nel castello delle Pianore, presso Viareggio. Vivono il figlio di Roberto, il duca Enrico (nato nel 1873) e altri sedici figli di primo e secondo letto; da ricordare tra questi ultimi il principe Sisto (v.; nato nel 1886) e l'ex-imperatrice Zita (nata nel 1892) vedova di Carlo I, ultimo imperatore d'Austria-Ungheria.

Bibl.: C. Fano, I primi Borboni a Parma, Parma 1890; F. Casa, Memorie storiche di Parma dalla morte del duca Antonio Farnese alla dominazione dei Borboni di Spagna (1731-49), in Archivio storico delle provincie Parmensi, II (1893); H. Bédarida, Les premiers Bourbon de Parme et l'Espagne, Parigi 1928; id., Parma dans la politique française au XVIIIe siècle, Parigi 1930; O. Masnovo, Parma e la Francia nella seconda metà del secolo XVIII, in Nuova rivista storica, XIV (1930).

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