BOSCO

Enciclopedia Italiana (1930)

BOSCO (fr. bois; sp. bosque; ted. Wald; ingl. wood)

Giorgio Stara Tedde

È quel terreno in cui predomina la vegetazione di specie legnose selvatiche - arboree o fruticose - riunite in associazioni spontanee o d'origine artificiale, diretta o indiretta. A chiarire quest'ultima distinzione, diremo che nelle regioni civilizzate, accanto a estensioni relativamente piccole di boschi impiantati artificialmente, esistono grandi estensioni di boschi che sono spontanei, ma la cui costituzione, per effetto dell'influenza dell'uomo, diverge più o meno da quella. che le condizioni ambientali potrebbero consentire e determinare: infatti noi vediamo che vi sono una o poche specie arboree assolutamente dominanti il resto della vegetazione.

Nel bosco si distingue il terreno dal "soprasuolo" (fr. peuplement; ted. Bestand), intendendosi per quest'ultimo l'insieme delle piante legnose che coprono il terreno boschivo.

I rapporti del soprasuolo col terreno sono però così stretti ed intimi, che la silvicoltura deve tenerne il massimo conto e deve perciò considerare il bosco nel suo insieme. È qui opportuno rilevare che il bosco è un complesso e armonico edificio nel quale gli alberi, arbusti, frutici, erbe e vegetali inferiori intrecciano e associano le loro vite. E perciò, mentre in passato la silvicoltura considerava esclusivamente, o quasi, i diversi modi di trattare e coltivare il soprasuolo, oggi cerca invece d'individuare con maggior possibile precisione i tipi di foresta, intesi nel loro significato fitogeografico e biologico, cioè come associazioni più o meno complesse, nelle quali, a un determinato soprasuolo, si accompagna una determinata flora del terreno boschivo. È sorta così la tipologia forestale quale fondamento e guida di una silvicoltura naturalistica.

Il bosco, come formazione spontanea nell'optimum delle condizioni ambientali, è costituito sempre da alberi di alto fusto con un sottobosco di arbusti, frutici o suffrutici; mentre nelle zone tropicali la formazione boschiva si arricchisce di liane e di epifite, nelle zone fredde o in quelle aride diviene sempre più povera e allora si riduce, fino a scomparire, il sottobosco (per es. nelle foreste subpolari o alpine) oppure gli alberi del soprasuolo divengono sempre più radi (foreste steppiche o steppe arborate), oppure ancora gli alberi di alto fusto non possono vegetare e si hanno formazioni boschive quali la macchia, il cespuglieto, la gariga ecc. (v. boscaglia), fino ad arrivare alle formazioni steppose o desertiche nelle zone troppo secche o alle formazioni glaciali nelle zone troppo fredde.

Pur uniformando le sue norme tecniche a questi fondamentali tipi di foresta, determinati dalle leggi ecologiche, il silvicoltore distingue varie forme di governo e di trattamento in conformità di principî prettamente colturali, e aventi un fine economico.

La fustaia, o bosco d'alto fusto, è la forma che più si avvicina al tipo delle foreste spontanee. Soltanto alla maestosa e solenne fustaia ben si addice il nome di foresta. Le fustaie possono essere formate da alberi di una sola specie (fustaie pure) ovvero da alberi di specie diverse (fustaie miste). Vi sono infatti specie forestali socievoli che possono formare bosco a sé (p. es. i faggi, gli abeti e i pini), e altre che invece sono sporadiche, cioè che, anche nelle foreste naturali, si trovano disseminate o raggruppate in piccoli boschetti (p. es. tigli, olmi, frassini, aceri, ecc.).

Nelle regioni temperate le fustaie naturali sono raramente pure, ma per ragioni tecnico-finanziarie il silvicoltore riduce allo stato puro le foreste miste o impianta artificialmente le foreste pure. Questa tendenza economica della silvicoltura non può però spingersi eccessivamente: infatti i boschi puri sono più facilmente soggetti di quelli misti agli attacchi di diverse cause nemiche.

Per assicurare alla fustaia la continuità nel tempo e nello spazio, occorre provvedere alla sua rinnovazione, il che si fa per via naturale o artificiale. La rinnovazione naturale è basata sul criterio di favorire e utilizzare la disseminazione degli alberi e la nascita del novellame. Tagliando gli alberi isolatamente, oppure a gruppi, a strisce, o su superficie più o meno estese, si utilizza a un tempo il soprasuolo e si favorisce la rinnovazione naturale. Si hanno così le fustaie a taglio saltuario o a sterzo o da dirado, nelle quali a periodi determinati si percorre il bosco e si tagliano qua e là, a salto, gli alberi maturi o che devono essere eliminati per altre ragioni; le fustaie a taglio successivo nelle quali si eseguiscono - entro un determinato periodo che chiamasi di rinnovazione - un certo numero di tagli, o a gruppi, o a strisce o su tutta la superficie del bosco, che favoriscono la produzione del seme sulle piante madri, la disseminazione, la nascita e lo sviluppo del novellame. Finalmente si hanno le fustaie a taglio raso nelle quali si abbatte l'intero soprasuolo, su superficie più o meno estese, quando ha raggiunto la maturità. Talvolta per la rinnovazione di queste fustaie tagliate acaso si può fare assegnamento sulla riproduzione naturale, p. es. per specie facilmente disseminabili come il pino marittimo; generalmente però la rinnovazione di esse avviene per via artificiale, cioè mediante la semina o la piantagione.

In conseguenza dei suddetti diversi metodi di utilizzare o rinnovare le fustaie, queste risultano da alberi di età diversa o della stessa età; si hanno così le fustaie disetanee come sono tipicamente quelle a taglio saltuario; le fustaie praticamente, se non assolutamente, coetanee quali quelle originate dai tagli successivi; e finalmente le fustaie nettamente coetanee, come possono originarsi dai tagli rasi, dove si rinnova il bosco naturalmente o artificialmente.

Quando i fusti degli alberi si sottopongono a periodiche amputazioni con lo scopo di determinare l'emissione di nuovi rampolli, detti comunemente polloni, si hanno i boschi cedui. Questa forma di governo è dunque basata sulla facoltà di propagazione vegetativa in contrapposto alla fustaia che si rinnova per seme cioè per via sessuale. I boschi cedui, a seconda del punto dove si eseguisce il taglio periodico, si distinguono in cedui a ceppaia o a ceppata, nei quali il taglio si fa alla base del fusto cioè a fior di terra (talvolta anche sotto terra o tra le due terre e in tal caso si fa la succisione o tramarratura); in cedui a capitozza nei quali si scapezza la pianta nel punto ove incomincia a ramificarsi, e cedui a sgamollo quando si lascia intatto il fusto e si tagliano solo i rami, o tutt'al più la cima. Le capitozze e gli sgamolli sono molto comuni, più che nei boschi, nelle piantagioni di salici, pioppi, noci, ecc. che in Italia, e specialmente nella Valle Padana, fiancheggiano i campi coltivati.

Analogamente alle fustaie, i cedui possono essere puri, cioè formati da una sola specie legnosa, o misti, quando risultano da più specie. Vi sono poi i cedui coetanei e disetanei a seconda che i polloni delle ceppaie hanno la medesima età oppure sono di età differenti. Accade infatti che, stabilito un dato turno per l'utilizzazione dei polloni, alcuni di essi si riservano in piedi ancora per 1-2 o più turni; fatto questo frequentissimo nei cedui di castagno. Tipico esempio di ceduo disetaneo è quello a sterzo, che corrisponde alle fustaie da dirado; questi cedui si percorrono col taglio a periodi determinati (detti di curazione) e si taglia solo, in ogni ceppaia, qualche pollone tra i più sviluppati, lasciando tutti gli altri. Questo trattamento del ceduo, ottimo per i cedui di faggio in alta montagna, si chiama volgarmente taglio della formica.

Il ceduo composto è quella forma di governo boschivo che risulta dall'unione della fustaia e del ceduo: al disopra delle ceppaie del ceduo si ergono gli alberi della fustaia che prendono in questo caso il nome di matricine, o riserve, o salve. Diffusissima in Francia, dove ha raggiunto un alto grado di perfezione, questa forma di trattamento è rappresentata anche in Italia, specialmente nei querceti dell'Appennino e delle colline dell'Italia centrale.

Il prodotto più caratteristico o generalmente il più importante che si trae dai boschi è il legname, ma nei paesi mediterranei e specialmente nelle regioni più calde e aride, avviene spesso che questo passi in seconda linea di fronte al valore di altri prodotti normalmente considerati come secondarî (frutti, corteccia, foglie, ecc.). Basti pensare alle sugherete, nelle quali il sughero è il prodotto principale; ai cedui di frassino dai quali si estrae la manna; alle pinete di Pinus pinea, coltivate per la produzione dei pinoli; infine ai querceti da ghianda. Si può anzi dire che, di mano in mano che si passa dai paesi nordici a quelli mediterranei, decresce l'importanza del legno come prodotto forestale e aumenta quella dei frutti, delle cortecce, dei succhi, delle resine, del pascolo. Di qui la necessità di ben diversi orientamenti tecnico-economici della silvicoltura mediterranea in confronto a quella dell'Europa centrale e settentrionale.

Per il diboscamento e il rimboscamento, v. queste voci.

I boschi sacri.

Il culto dei boschi è connesso con quello degli alberi sacri (v. alla voce albero: Gli alberi nelle religioni). Di questo culto si è voluta trovare l'origine nell'animismo (v.), ma questa teoria, se può ancora spiegare il culto prestato ad alberi isolati, non spiega forse il fatto per tutto un gruppo di alberi costituenti un bosco sacro. Seneca (Ep., V, 4) e Plinio (Nat. Hist., XII, 3) credono di trovare l'origine dei luci in quella specie di terrore che i profondi silenzî delle selve e la loro impenetrabile oscurità sogliono destare nell'animo dell'uomo. Pur senza negare che questa spiegazione di carattere psicologico abbia un certo fondamento, l'origine dei boschi sacri va forse storicamente ricercata nel fatto che, come le arae gramineae, formate cioè da zolle erbose, furono i primi altari, così le foreste furono i primi templi. Ciò è espressamente affermato da Plinio (Nat. Hist., XII, 3) e si ricava da un antico scoliaste di Pindaro (ad Olymp., III, 31), il quale dice che la parola greca indicava qualunque luogo sacro alla divinità, anche se privo di alberi. Tanto l'idea di luogo di culto era connessa con quella di bosco sacro. È del resto ovvio che in un'epoca in cui non esistevano ancora templi fabbricati, le radure delle foreste si presentassero come sede quanto mai opportuna ai sacrifici ed agli altri atti di culto.

Ammessa questa origine, è agevole comprendere come gli antichi abbiano popolato le selve di esseri divini e soprannaturali (Pane e Panischi, Driadi e Amadriadi presso i Greci, Silvano e Fauni presso i Latini, Waldgeister presso i Germani, Troller o Trolder presso gli Scandinavi), ché nella mente dell'uomo primitivo il luogo di culto d'una divinità facilmente s'identifica con il luogo d'abitazione della medesima, se pure in qualche caso gli strani abitatori delle foreste non rappresentino un ricordo vago e confuso di antichissime razze ch'abbiano trovato rifugio nelle selve.

A diffondere il culto dei boschi contribuirono da una parte le religioni a base agraria, che nei boschi sacri trovavano materia affine al loro contenuto, e dall'altra il diffondersi di pratiche magiche, che, ammantandosi di mistero, trovavano nel fitto delle boscaglie sede adattissima.

Qualora poi si pensi che il conservatorismo è un carattere peculiare di tutte le religioni, nessuna meraviglia che, pur quando i templi fabbricati divennero d'uso generale presso i popoli civili, i boschi sacri abbiano continuato ad esistere, benché ridotti in più ristretti limiti, spesso a pochissimi alberi, secondo era imposto dalle esigenze dell'agricoltura nelle campagne e dal progresso edilizio nelle città.

Generalmente, pur nei luoghi in cui l'agricoltura contese meno spazio alla selva, non tutta una foresta, ma solo una parte di essa era sacra, di modo che in una medesima selva vi potevano essere più boschi sacri, come appunto accadeva nella celebre selva Ercinia in Germania. E forse in origine la parola latina lucus servì a designare quella radura del bosco nella quale gli abitanti di una data regione si adunavano a compiere gli atti di culto. Ciò si ricava da un passo di Livio in cui si parla di un lucus... proceris abietis arboribus saeptus (XXIV, 3). Dunque lucus denotava propriamente non tanto gli alberi, quanto lo spazio sacro da essi delimitato, il templum, insomma, nel senso primitivo della parola.

Il culto dei boschi sacri fiorì presso quasi tutti i popoli dell'antichità. Cominciando da quella parte dell'Oriente che ebbe relazione col mondo classico, lo troviamo presso le popolazioni assiro-babilonesi. Ce ne offre sicura testimonianza un rilievo dell'edificio scoperto a Khorsābād da P.E. Botta, che rappresenta un tempietto sopra un'altura, in mezzo ad una selvetta di cipressi (v. P.E. Botta e M.E. Flandin, Monum. de Ninive, Parigi 1849, tav. CVII, n. 3 e tav. CXIV).

Del resto, che in Oriente fossero comuni i boschi sacri lo si ricava dai numerosi testi della Bibbia, nei quali si fa rimprovero agli Ebrei di avere adottato dai popoli idolatrici, con altri culti vietati, anche quello dei boschi sacri, e si fa loro obbligo di distruggerli e di bruciarli (Deut., XII, 2; Gerem., II, 20). E lo si deduce altresì dalla parte che gli alberi hanno in taluni culti orientali, p. es. il pino nel culto della dea frigia Cibele e il cipresso nella religione zoroastriana.

Gli scrittori greci menzionano parecchi boschi sacri nella Fenicia, nella Siria, nell'Armenia e perfino nella lontana India ed in altre regioni d'Oriente. Di questi la maggior parte appaiono dedicati a divinità elleniche. Rimane perciò dubbio se si debbano riferire alle antiche religioni locali, o non piuttosto alle nuove correnti religiose penetrate in Oriente con la cultura greca per opera specialmente dei successori di Alessandro Magno. Questo è certamente il caso dell'ἅλσος νικηϕόριον che Eumene II re di Pergamo dedicò alla Vittoria (cfr. Strabone, XIII, 4, 2). In molti luoghi però tutto fa credere che le divinità orientali, alle quali in origine quei boschi erano dedicati, siano state in seguito sostituite da divinità elleniche aventi con le prime una qualche analogia, almeno agli occhi dei Greci. Questo è forse il caso del lucus Daphnensis, che nel sobborgo di Antiochia di Siria chiamato Dafne circondava un tempio di Apollo, nume che i Greci debbono aver sostituito a un Ba‛al (v.) o ad altra divinità solare della Siria. Questo bosco si mantenne fino agli ultimi tempi dell'Impero, dopo avere peraltro già da tempo perduto il carattere di sacro. Anche l'Egitto aveva i suoi boschi sacri; basterà ricordare quello di Osiride ad Acanto e quello che circondava il celebre tempio di Giove Ammone.

In Grecia, a non tener conto dei mitici boschi menzionati da Omero, quali il bosco sacro ad Atena nell'isola dei Feaci (Odiss., VI, 291) e di Apollo a Ismaro (ivi, IX, 200), si può affermare che i boschi sacri vi furono così numerosi che non vi era, si può dire, santuario di qualche importanza che ne fosse privo; e se ne piantavano altresì presso le tombe. Accenneremo di sfuggita a quello di Zeus a Dodona in Epiro, famoso per i presagi che se ne traevano dal vario stormire delle querce.

Nelle regioni barbariche dell'Europa, foreste sacre si ritrovano presso le popolazioni finniche e presso gli Scandinavi, che le consacravano per lo più a Odino e le chiamavano Lund (v. Olaus Magnus, De rebus septentrionalibus, III, c.1). Dei Germani Tacito, (Germ., IX) afferma espressamente che lucos ac nemora consecrant, e ricorda un antiquae religionis lucus presso i Nahanarvali (ivi, XLIII) e un lucus Baduhennae nella Frisia (Ann., IV, 73).

Nei paesi abitati da popolazioni di stirpe celtica la religione dei boschi ebbe grandissima importanza. A ciò contribuì il druidismo (vedi druidi) col diffondere il culto degli alberi, specialmente della quercia. Di alcune di queste selve sacre, nelle quali i Galli non soltanto celebravano gli atti di culto, ma tenevano altresì le adunanze politiche e giudiziarie, è rimasta memoria negli antichi scrittori. Basti citare il lucus Vocontiorum nella Gallia Narbonese (Tac., Hist., I, 66) e quello presso Marsiglia descritto da Lucano (Phars., III, 397 segg.).

Nella Spagna troviamo il lucus Augusti in Galizia (cfr. Corp. Inscr. Lat., II, p. 359) e il lucus Asturum presso Oviedo (Ptol., II, 6, 28).

In Italia, dato il carattere prevalentemente agricolo dell'antica civiltà e religione italica, i boschi sacri furono come in Grecia numerosissimi. Fra i più importanti si ricordano il lucus di Giunone Lacinia a Crotone; di Angizia sulle rive del lago Fucino, ai confini del Lazio col paese dei Marsi; di Giunone Sospita a Lanuvio; di Diana Nemorense ad Ariccia: di Tiburno a Tivoli; di Marte presso Crustumerio, ecc. Nella stessa città di Roma boschetti sacri verdeggiavano presso i templi di Vesta al Foro Romano, di Giunone Lucina sull'Esquilino, di Bellona nel Campo Marzio, di Furina al Gianicolo, ecc., nonché attorno agli antichissimi sacelli compitalicî (Corp. Inscr. Lat., VI, 32455). Merita speciale menzione il celebre lucus deae Diae, al quinto miglio della via Campana, sede ufficiale del rinomato collegium dei Fratelli Arvali (v.).

Molti altri luci erano sparsi per le campagne, specialmente là dove convergevano due o più vie, o i confini di due o più fondi rustici (cfr. Gromatici Veteres, ed. Lachmann, in Die Schriften der römischen Feldmesser, I, 57). Essi erano spesso dedicati a Silvano, tutor finium, e recinti per proteggerli dai danni.

Della grandissima cura posta dai Romani nella conservazione dei boschi sacri ci offrono ampia e sicura testimonianza numerosi testi letterarî ed epigrafici, ma specialmente gli Acta degli Arvali e le due arcaiche Leges Lucorum, la Spoletina cioè e la Lucerina (Corp. Inscr. Latinarum, IX, 782; I, 2ª ed., 366), scoperte rispettivamente non lontano da Spoleto e nei pressi di Lucera. In queste leggi si fa divieto di gettare cadaveri o immondezze entro il bosco sacro, di tagliarne o asportarne alberi, salvo il caso in cui servisse legna per i sacrifizî, e si stabiliscono multe ai trasgressori. Dato tale rigore non meraviglia che i boschi sacri si siano conservati, soprattutto nelle campagne, fino agli ultimi tempi del paganesimo, e che Simmaco alla fine del sec. IV, parli del lucus Camenarum di Roma come di cosa tuttora esistente (Epist., I, 21).

Quelle prescrizioni peraltro, se riuscirono a ritardare la completa distruzione dei boschi sacri, non ne poterono impedire il progressivo impiccolimento. Già Varrone (De lingua lat., V, 49) si lagnava che per l'avidità dei privati ciò fosse accaduto in Roma a quelli di Mefite e di Giunone Lucina. Ma un nemico ben più potente ebbero i luci quando all'avidità dei privati si unì lo zelo religioso dei cristiani (cfr. i commenti di Agennio Urbico a Frontino, in Die Schriften der römischen Feldmesser, I, 22-23; Vita S. Ambrosii a Paulino conscripta, XXII, in Migne, Patr. Lat., XIV, p. 36). Ben presto alla privata iniziativa dei cristiani si aggiunsero le esortazioni dei vescovi e le tassative disposizioni delle autorità ecclesiastiche e civili, che imponevano la distruzione degli alberi e dei boschi sacri sotto pene abbastanza gravi.

Il fatto però che fino a tutto il sec. X non vi ha, si può dire, concilio o raccolta di leggi ecclesiastiche e civili, nelle quali tali disposizioni non siano ripetute, dimostra che il culto in parola, sia pure ridotto a pratica superstiziosa, durò assai più a lungo di quanto si potrebbe credere.

Dopo il sec. XI le testimonianze sul culto degli alberi e dei boschi sacri divengono sempre più rade, fino a sparire del tutto, almeno in Italia. Ma a età assai più inoltrata si giungerebbe se volessimo tener conto di quelle che si riferiscono ai popoli della Germania e dell'Europa settentrionale. Né ciò deve recar sorpresa quando si pensi che in quelle regioni il cristianesimo penetrò assai tardi. Deve piuttosto stupire il fatto che qualche traccia del culto del quale parliamo si mantenne perfino in Italia, se nel giugno 1425 S. Bernardino da Siena fece con grande solennità distruggere in Arezzo una fonte ed abbattere alcuni alberi, che la superstizione popolare riguardava come sacri (v. F. Alessio, Storia di S. Bernardino da Siena e del suo tempo, Mondovì 1899, p. 214 e segg.).

Ma, non bastando le ammende e le punizioni a far sparire un culto così radicato specialmente tra la gente del contado, le autorità ecclesiastiche si servirono anche di un altro mezzo, quello cioè di sostituire il culto della Madonna o di qualche santo (specialmente S. Silvano e S. Silvestro) al preesistente culto reso nei boschi sacri a divinità pagane. Tale origine va attribuita a molti dei numerosi santuarî e cappelle dedicati alla Madonna, che prende nome da qualche albero, p. es. Madonna della Quercia, dell'Olmo, del Platano ecc.; ed i santuarî che frequentemente s'incontrano dedicati a S. Silvestro sulle cime boscose delle montagne.

L'ultima traccia, quasi lontana eco del culto dei boschi sacri giunta sino a noi, la troviamo nella toponomastica, e cioè nei nomi di luogo derivati dal latino lucus. Ne addurremo pochissimi come esempio dei molti che si potrebbero citare: nella Spagna, Lugo, che risale al lucus Augusti; in Francia, Luc-en-Diois che si riconnette al lucus Vocontiorum, in Italia Lugo di Romagna, Monte Luco presso Spoleto, Luco in provincia di Siena, Luco in provincia d'Aquila, che risale certamente al famoso lucus Angitiae, Lucoli in prov. di Genova, ed infine i numerosi fondi rustici denominati Lucus e Luculus, dei quali è menzione nei documenti medievali della provincia di Roma.

Bibl.: L. F. Alfred Maury, Histoire des grandes forêts de la Gaule et de l'ancienne France, Parigi 1850, p. 157 segg.; C. Bötticher, Der Baumkultus der Hellenen nach den gottesdienstlichen Gebräuchen, ecc., Berlino 1856; A. De Gubernatis, La mythologie des plantes, Parigi 1878-82; E. Caetani-Lovatelli, Il culto degli alberi, in Nuova Antologia, 16 agosto 1899, ripubblicato con aggiunte nel volume Attraverso il mondo antico, Roma 1901, pp. 167-203 (articolo divulgativo); W. Mannhardt, Wald- und Feldkulte, 2ª ed. in 2 voll., Berlino 1904-1905; l'articolo Lucus di Henry Thédenat, nel Dictionnaire des antiquités grecques et romaines di Daremberg e Saglio. Per i Fratres Arvales, cfr.: W. Henzen, Acta Fratrum Arvalium quae supersunt, Berlino 1874. Per le tracce del culto degli alberi nel Basso Impero, Medioevo ed Età moderna, cfr. L. A. Muratori: Dissertatio de superstitionum semine in obscuris Italiae saeculis, in Antiquitates Italicae medii aevi, V, pp. 66-77; G. Stara Tedde, Ricerche sulla evoluzione del culto degli alberi dal principio del secolo V in poi, in Bull. della Commissione arch. comunale di Roma, 1907, pp. 129-181.

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