BRONZO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1992)

BRONZO

M. Bernardini

Il b. è una lega di rame con stagno o zinco (calamina), che è possibile fondere e colare in ogni tipo di forma. Gli altri componenti, la cui presenza può essere individuata mediante specifiche analisi (piombo, ferro, nichel, argento), corrispondono di norma a residui di impurità dei metalli affini; solo occasionalmente venne aggiunto alla lega anche piombo. Per le campane veniva utilizzata unicamente una lega rame-stagno - con il 20-25 % ca. di quest'ultimo - al fine di ottenere un materiale duro, fragile, dal suono argentino, usato anche per i Grapen (recipienti per la cottura a tre gambe) e per i mortai. Per altre realizzazioni venivano utilizzate sia la lega rame-stagno sia quella rame-zinco. Talora è possibile individuare la qualità di tali leghe attraverso l'esame del colore; tuttavia, le analisi dei materiali hanno dimostrato la prevalenza della lega contenente zinco. La proporzione delle quote di stagno e di zinco è variabile; a volte si possono individuare in ciò precise consuetudini di specifiche epoche o regioni e, occasionalmente, rigide regole di bottega. Per quanto riguarda la lavorazione del modello, è irrilevante se il metallo in lega sia lo zinco o lo stagno; fondamentale è invece che il risultato sia un metallo fuso di buona fluidità. Nella Diversarum artium schedula di Teofilo (Colonia, 1100 ca.) entrambe le leghe vengono indicate come aes, mentre la speciale lega di zinco con rame purificato (cioè senza piombo), consigliata per prodotti di fusione dalla cromia aurea, viene chiamata auricalcum (oricalco); vengono utilizzati inoltre in maniera prevalente i termini generali di aes, cuprum, metallum. Una differenziazione linguistica quale quella attuale, per cui la lega rame-stagno viene denominata b. e quella rame-zinco ottone, non esisteva nel Medioevo. In questi secoli, comunque, il b. conobbe ampia diffusione e molteplici utilizzazioni nell'arte così sacra come profana: dall'applicazione all'architettura monumentale all'oggetto di piccolo formato. In ogni caso venne considerato e trattato sempre quale materiale prezioso, se non altro perché la sua lavorazione mediante fusione (secondo sistemi che, tramite esempi forniti dal mondo bizantino e islamico, discendono dalla tradizione classica) era dispendiosa e non priva di difficoltà. È a partire dal 1400 ca. che anche per pezzi fusi si usa indicare il materiale impiegato come 'ottone', termine altrimenti utilizzato soprattutto per i recipienti a sbalzo di lamiera e per i piatti. Nella terminologia specialistica, è oggi consuetudine adoperare i termini b. e metallo per i prodotti di fusione del Medioevo, indipendentemente dal tipo di lega di rame corrispondente.La Diversarum artium schedula di Teofilo, la più importante fonte scritta per la tecnologia del b. nel Medioevo, descrive dettagliatamente il procedimento della fusione con un modello effimero in cera (a cera persa) in tutti i suoi passaggi: la plasmatura del modello in cera su un nucleo di argilla, la realizzazione della forma in argilla, la cottura della forma e la fusione della cera, la sistemazione delle fosse di colata e dei forni, la fusione, la preparazione della lega e la colata del metallo, la frantumazione della forma di colata, il ritocco, la rinettatura e infine la cesellatura e doratura del pezzo finito. Come esempi di applicazione, Teofilo cita la fusione di turiboli, campane e cimbali. Per il turibolo, che viene successivamente dorato, quale metallo di fusione viene prescritto l'auricalcum, mentre per campane e cimbali si preferisce la lega rame-stagno e, almeno per le campane, l'utilizzo di un modello in sego, anziché in cera. La fusione a cera persa rimase il metodo più consueto durante tutto il Medioevo. Dopo Teofilo si ebbe un ulteriore sviluppo della tecnica di fusione; in tal senso, nel corso del sec. 12°, per la fusione di campane e Grapen si passò all'uso di modelli d'argilla.Con il procedimento medievale della cera persa, nel quale sia il modello sia la forma andavano distrutti, potevano essere prodotti oggetti solo parzialmente simili dal punto di vista formale. Con l'aiuto di stampi, determinati modelli di cera potevano essere duplicati; erano in uso forme in un sol pezzo per rilievi relativamente bassi, in due pezzi per oggetti non complessi, suppellettili e statuette (ciascuna parte senza sottosquadri) e solo sul finire del Medioevo si ebbero occasionalmente forme in più pezzi. Poiché ciascun modello in cera veniva rilavorato prima della fusione, ne risultavano comunque differenze peculiari. Un simile utilizzo di stampi si può osservare nella decorazione a rilievo di campane, mortai, fonti battesimali e occasionalmente anche su porte, nonché su basi di candelabri o sui telamoni a tutto tondo dei fonti battesimali della Germania settentrionale. Gli stampi furono fondamentali per tutto il Medioevo ed erano conosciuti già in epoca carolingia, ma certamente non furono usati in tutte le botteghe.Nella lavorazione del b. la doratura a fuoco non sembra essere la norma, ma piuttosto l'eccezione, quale ricca decorazione aggiuntiva, destinata, in epoca preromanica e romanica, soprattutto a suppellettili di uso liturgico. Mediante la continua pulitura, il metallo stesso poteva essere mantenuto lucido e brillante come l'oro. In caso contrario, si formava una patina naturale, differente a seconda della lega metallica e anche della diversa collocazione dell'opera, che all'aperto assumeva una coloritura verdastra, all'interno bruna o giallo-bruna. A quanto pare, nel Medioevo non esistevano patinature artificiali; casi sporadici di patina pittorica sono noti in epoca tardogotica in Germania meridionale e a Norimberga. Dispendiose combinazioni di materiali (b. dorato con placcatura argentea, niello e smalto) venivano impiegate già nel sec. 12°, soprattutto per le suppellettili d'altare, nel contesto di pregevoli lavori di oreficeria, come è attestato nella regione della Mosa e nella cerchia e tra i seguaci di Roger di Helmarshausen. Un arricchimento della superficie, in uso ovunque, era costituito da decorazioni grafiche e a motivi ripetuti, ottenute con scalpelli e punzoni o, più raramente, con il bulino.La plasmatura e la fusione vera e propria - cioè la modellatura e la trasformazione della forma modellata in metallo - sono due diverse fasi della realizzazione di un'opera in bronzo. Nel caso di oggetti e suppellettili relativamente semplici entrambe le fasi erano affidate a una sola persona; nel caso invece di lavori di mole e costo maggiori, si assisteva per lo più a una divisione del lavoro tra scultore (modellatore) e fonditore. Ciò risulta con chiarezza dall'iscrizione posta sul monumento funebre del vescovo Wolfhart von Roth (m. nel 1302) nel duomo di Augusta, in cui il nome dei due maestri è menzionato accanto ai materiali da loro lavorati: "Otto me cera fecit Cunratque per era" (Ottone mi ha fatto con la cera e Corrado con il b.). Nel caso in cui firme e iscrizioni riportino un solo nome, non v'è dubbio che si tratti del fonditore, il cui apporto alla realizzazione dell'opera, almeno fino all'età barocca, era oggetto di maggior apprezzamento. Beringerus, il cui nome compare con l'aggiunta dell'attributo artifex, sulla porta di b. del duomo di Magonza (ca. 1000), è il primo fonditore medievale noto attraverso una firma. Sulla porta di b. della cattedrale di Santa Sofia di Novgorod (1152-1156 ca.), i maestri Riquinus, Waismuth e Abraham (questo aggiunto più tardi) non solo sono citati per nome, ma anche raffigurati con i loro utensili in mano: una bilancia per determinare la mescola e una pinza per afferrare il crogiolo.L'attività delle officine di fusione medievali non è testimoniata solo dalle opere pervenute e dalle fonti letterarie; scavi archeologici hanno infatti riportato alla luce anche le strutture di alcuni di questi laboratori, fornendo dati sulla loro ubicazione, organizzazione e funzionamento. Fonderie furono impiantate non solo nei conventi (per es. St. Pantaleon a Colonia, fino alla metà del sec. 12°), ma anche nelle città (Haithabu, secc. 9°-10°; Lubecca, sec. 13°). Nel caso di grandi commissioni per la realizzazione dell'arredo di edifici sacri, furono allestite officine a termine nelle vicinanze immediate degli edifici stessi (Aquisgrana, Schwarzrheindorf). L'esistenza di fonderie specializzate in un solo tipo di prodotti si può supporre solo per il Tardo Medioevo; così, un fonditore di campane nel sec. 13° produceva anche mortai, Grapen e fonti battesimali ed eseguiva anche complessi lavori come candelabri e acquamanili. Oggetti in b. di fattura più raffinata e di piccolo formato uscivano invece anche dalle botteghe di oreficeria.La molteplicità dei compiti affidati alla fusione in b. nel Medioevo era considerevole. Dalla fonderia uscivano prodotti di grandi dimensioni destinati al corredo delle chiese: coperture dei tetti, cancellate, porte e maniglie, altari, crocifissi monumentali, candelabri e lampadari a corona, fonti battesimali, troni, lastre sepolcrali e monumenti funebri, leggî, tabernacoli, campane e fontane. Piccoli b. di specifica destinazione liturgica erano rappresentati da altari portatili, croci, basi di croci e crocifissi, candelabri, reliquiari, turiboli, acquamanili, brocche e bacinelle, lavabi, acquasantiere, ricci di pastorali, campanelle. Tra i grandi prodotti di fonderia di uso profano vanno citati: fontane, monumenti, cannoni e lampadari a corona; tra quelli di piccolo formato: candelabri, acquamanili, scaldini a forma di mela, chiavi e ganci per chiavi, dorsi di specchi, stili, timbri a sigillo, medaglie, gioielli, ornamenti per cavalcature, giocattoli e infine utensili per la manutenzione della casa e per il lavoro, quali i differenti tipi di recipienti: Grapen, mortai, brocche, lavabi, recipienti da misura e bracieri.Il b. è sempre stato considerato un materiale prezioso e spesso per produrre nuovi pezzi ne venivano sacrificati di vecchi, fondendoli. Per questo motivo, molte delle opere uscite dalle fonderie del Medioevo sono andate perdute, nonostante l'intrinseca solidità del materiale; ed è questa una delle cause per cui la stessa consistenza del patrimonio pervenuto è complessivamente discontinua e casuale. Ciononostante, anche da un punto di vista cronologico è possibile circoscrivere centri e aree di produzione ed evidenziare precise direttrici di sviluppo.L'epoca di maggior fioritura della bronzistica medievale abbraccia il 12° e 13° secolo. Accanto a opere di carattere monumentale si produssero nel periodo anche piccoli b. di grande importanza - usati come corredo d'altare - in quantità e varietà impressionanti. Sotto il profilo regionale spicca per la sua attività produttiva l'Europa centrale, e particolarmente la Germania. Per quest'ultima la quantità dei pezzi conservati è relativamente alta e attesta, tra i secc. 8° e 16°, una produzione cospicua, facente capo a diversi centri, che sono anche all'origine di influssi e correnti di esportazione verso la Scandinavia e l'Europa orientale. In Francia e in Inghilterra si sono conservati solo pochi oggetti, che tuttavia qualitativamente testimoniano l'alto livello di sviluppo delle manifatture. Ciò vale anche per l'Italia, il paese di produzione delle porte bronzee romaniche, dove la circolazione di suppellettili e oggetti bronzei di piccolo formato dovette certamente essere maggiore di quanto non dimostri la frammentaria documentazione pervenuta.L'arredo della Cappella Palatina di Aquisgrana - cinque porte e otto parapetti nel matroneo, eseguiti intorno all'800 - rappresenta in qualche misura il preludio dell'arte della bronzistica medievale. In queste opere, come anche nella porta del duomo di Magonza, realizzata intorno all'anno 1000, venne ripresa la tradizione fusoria antica. A Hildesheim, insieme alla porta (1015) e alla colonna istoriata - entrambe nel duomo - furono prodotti monumentali cicli a rilievo, nonché oggetti di piccolo formato, parte in argento, parte in bronzo. Altri lavori di fonderia di epoca ottoniana sono il candelabro a sette bracci di Essen (Münsterschatzmus.; ca. 1000) e la fontana della Pigna ad Aquisgrana. Forse all'inizio del sec. 11° venne eseguita anche la porta bronzea del duomo di Augusta.Nei secc. 11° e 12° la regione della Mosa assunse grande importanza come luogo di produzione di eccellenti lavori in b.; la serie inizia con il fonte battesimale di Renier de Huy nella collegiata di Saint-Barthélemy a Liegi (1107-1118). I piccoli b., stilisticamente posteriori, sono di delicata fattura; alcuni di essi costituiscono elementi bronzei facenti parte di lavori di oreficeria di maggiori dimensioni, come le statuette angolari dell'altare portatile di Stavelot (Bruxelles, Mus. Royaux d'Art et d'Histoire; 1150-1160 ca.), o quelle del piede di croce conservato a Saint-Omer (Mus. Sandelin; 1160-1170 ca.). Tutte queste opere mosane di formato ridotto furono realizzate in botteghe di oreficeria. Tra i pochi pezzi pervenuti vanno ricordati i crocifissi, tra cui la croce d'altare provvista di base (Londra, Vict. and Alb. Mus.; 1150-1160 ca.) e il turibolo conservato a Lille (Mus. des Beaux-Arts; secondo quarto del sec. 12°).Una delle più fiorenti aree produttive per la bronzistica medievale fu la regione di Goslar, Magdeburgo, Brunswick e Hildesheim, corrispondente all'incirca all'od. Bassa Sassonia, ove si può riscontrare tra i secc. 11° e 13° una straordinaria concentrazione di opere in b. di carattere monumentale. A Goslar sono attestati oggetti di diverso tipo, scalati in un lungo arco di tempo dai secc. 11°-12° fino al 14°; tra di essi occorre ricordare il trono imperiale e il c.d. altare di Krodo (Goslar, Goslarer Mus.), nonché la fontana del mercato, nella sua forma disomogenea. A Magdeburgo videro la luce il monumento funebre dell'arcivescovo Friedrich von Wettin (m. nel 1152) nel duomo e la già citata porta bronzea giunta più tardi a Novgorod. Alla cerchia di questa bottega e al suo seguito si può ascrivere una grande quantità di candelabri, acquamanili e altre suppellettili destinate a uso liturgico, come il candelabro monumentale raffigurante un uomo, il c.d. Wolfram Leuchter, nel duomo di Erfurt (1160 ca.) e, infine, il monumento funebre più tardo, forse destinato all'arcivescovo Wichmann (m. nel 1192), conservato nel duomo di Magdeburgo, databile alla fine del 12° o agli inizi del 13° secolo. A Brunswick si trovano il celebre leone del castello (datato probabilmente 1166), il candelabro a sette bracci del duomo e l'altare (entrambi 1188 ca.), donati dal duca Enrico il Leone. A parte i pezzi risalenti all'epoca del vescovo Bernoardo (993-1022), nel duomo di Hildesheim si trovano b. monumentali come il fonte battesimale con ricca decorazione figurata e l'aquila reggileggio (inizi sec. 13°), ai quali si possono ricollegare altri lavori di piccolo formato di datazione posteriore. Numerosi bronzetti del sec. 12°, alcuni dei quali prodotti in botteghe di oreficeria, come il gruppo dei flabella con croci (1140 ca.) conservati a Hildesheim (Diöze sanmus. mit Domschatzkammer), testimoniano dell'origine oppure dell'influsso degli artisti di Hildesheim. Anche nel caso dei crocifissi, dei candelabri e degli altri oggetti che si possono ascrivere alla bottega di Roger di Helmarshausen (inizi del sec. 12°), si tratta propriamente di lavori di oreficeria fusi in bronzo.Solitamente i b. di epoca romanica appaiono meno raffinati dal punto di vista dell'esecuzione. Oggetti di questo tipo sono certamente stati fusi in numerose botteghe distribuite su un vasto territorio: oltre alla Bassa Sassonia, vanno menzionate le regioni della Westfalia (per es. Minden) e della Renania (per es. Colonia), ma anche la Germania meridionale doveva evidentemente disporre di proprie fonderie. Per molti oggetti e gruppi di oggetti rimangono comunque incerte la regione d'origine e la cronologia.Dopo l'età romanica il b. perse importanza come materiale per suppellettili di uso liturgico. La varietà tipologica degli oggetti di piccolo formato si ridusse e ci si limitò per lo più alla fusione di turiboli e acquamanili, questi ultimi in particolare per uso domestico. Tra gli arredi di maggiori dimensioni si continuarono a produrre fonti battesimali, monumenti funebri, leggî, candelabri, battenti, maniglie di porta e campane. I fonti battesimali furono prodotti in grande quantità tra i secc. 13° e 15°, specialmente nella Germania settentrionale. Molti di essi presentano una decorazione a bassorilievo che li pone in stretto rapporto con la fusione delle campane; altri sono decorati più riccamente con figure sbalzate ad altorilievo. Tra gli esemplari più belli vanno ricordati quelli delle Marienkirchen di Rostock (1290) e Wismar (1355 ca.), mentre tra le testimonianze più rappresentative nel campo dell'arte funeraria vanno menzionati il monumento del vescovo Corrado di Hochstaden (m. nel 1261) nel duomo di Colonia e quello già citato di Wolfhart von Roth (m. nel 1302) nel duomo di Augusta, nonché il sepolcro di Georg I, siniscalco di Waldburg sul Waldsee (m. nel 1467).Fin dall'inizio del sec. 14° Lubecca ricoprì un ruolo di rilievo nella produzione di bronzi. Qui si era stabilito nel 1332-1344 Johannes Apengeter, il più importante fonditore della Germania settentrionale del Tardo Medioevo. La sua versatilità e l'ampio raggio della sua influenza sono testimoniati dal catalogo dei lavori pervenuti: il candelabro a sette bracci a Kolberg (1327), la colonna di Laurentius a Lund (1330 ca.), il fonte battesimale nella Marienkirche di Lubecca (1337), il monumento funebre del vescovo Enrico di Bocholt (m. nel 1344) nel duomo della stessa città, il fonte battesimale della chiesa di St. Nikolai a Kiel (1344) e una serie di maniglie da porta a Seeburg, Kolberg, Stettino e Neubrandenburg. Nell'orbita di Apengeter si colloca anche il monumento funebre dei reali danesi Cristoforo II (1319-1332) ed Eufemia nella chiesa di Soro (1350 ca.), mentre nell'area di influenza di Lubecca gravita, fino al sec. 15°, l'intero territorio del mar Baltico, ivi compresa la Scandinavia.All'interno della vivace attività che impronta nei secc. 15° e 16° le regioni della Germania settentrionale, assunse una particolare rilevanza Brunswick, ove si conservano i due fonti battesimali riccamente decorati da Bertold Sprangke, l'uno nella chiesa di St. Martini (1441), l'altro nella Brüdernkirche (1440 ca.).Un ruolo di capitale importanza per la bronzistica tardomedievale ebbe infine a Norimberga la bottega Vischer. Già prima della sua comparsa sono documentati nella stessa città lavori di alta qualità, il più importante dei quali è costituito da una figura di pifferaio nella fontana dello Heiliggeistspital (c.d. Brunnenhansel, 1390 ca.). In tre generazioni, attraverso l'opera di Hermann Vischer il Vecchio (che ottenne nel 1453 il diritto di cittadinanza a Norimberga), di suo figlio Peter il Vecchio e dei figli di quest'ultimo Hermann il Giovane e Hans, venne prodotta la maggior parte dei lavori monumentali di fonderia. Si trattava principalmente di monumenti funebri (lastre a rilievo, lastre incise, tombe complete e anche figure a tutto tondo), destinati a committenti che si trovavano persino in Polonia e in Tirolo.Da ricordare è anche l'importanza del b. come materiale per suppellettili domestiche. Pure in questo caso si hanno testimonianze in area tedesca, specialmente nella Germania settentrionale. Documentabili solo sporadicamente nel sec. 12°, i recipienti fusi in b. divennero più usuali nel 13° e al più tardi nella seconda metà del 14° furono diffusissimi anche altrove. Essi costituivano elementi particolarmente pregiati dell'inventario di oggetti per la casa e il lavoro. L'utensile più importante era il Grapen; altri tipi attestati sono il tegame, il braciere, la brocca, il bacile, i mortai e i recipienti da misura. Una classe particolare di recipienti era costituita dai bacili forgiati in b. con decorazioni incise (i c.d. bacili anseatici). Essi servivano come recipienti d'acqua per lavarsi le mani e furono diffusi nei secc. 12° e 13° nella Germania settentrionale e occidentale, nei territori baltici, comprese la Scandinavia e l'Inghilterra.L'Italia è ricca di porte di b. romaniche, soprattutto nelle regioni meridionali (Puglia, Sicilia, Campania). Esse permettono di individuare un certo numero di botteghe indipendenti fra loro, che rielaborarono in diversa maniera influssi antichi, bizantini e islamici. Il più antico esemplare si trova nel mausoleo di Boemondo a Canosa (opera di Ruggero di Melfi, tra il 1111 e il 1118; il battente di sinistra è peraltro più antico); seguono cronologicamente le porte della cattedrale di Troia (opera di Oderisio da Benevento, 1119 e 1127) e della Cappella Palatina di Palermo (1140 ca.). Due personalità di spicco sul finire del sec. 12° furono Barisano da Trani e Bonanno Pisano. Entrambi realizzarono porte per il duomo di Monreale (1185); di Barisano sono inoltre conservate due coppie di battenti a Ravello (1179) e a Trani, di Bonanno una porta del duomo di Pisa. La porta del duomo di Benevento (inizi sec. 13°), corredata da un ciclo figurativo particolarmente esteso, è la più moderna delle porte romaniche in Italia. Di pezzi differenti ascrivibili a due botteghe, legate a due diverse fasi dell'arte plastica della Lombardia orientale, è costituita la porta di S. Zeno a Verona (1138 ca.), che mostra importanti collegamenti con l'Europa settentrionale. All'ambito di questa porta si possono ricondurre anche alcuni bronzetti.Altri gruppi di oggetti di produzione italiana - crocifissi, turiboli, maniglie da porta - non possono essere attribuiti a nessuna delle citate botteghe. Tra le maniglie di porta sono da citare quelle particolarmente imponenti del duomo di Susa in Piemonte (1100 ca.) e del duomo di Oristano in Sardegna, opera del Maestro Piacentino (1228). Un'inconsueta ricchezza di varianti nell'ambito della bronzistica medievale offrono le porte di S. Marco a Venezia, fra loro diverse; in linea con la tradizione lagunare, l'elemento bizantino gioca un ruolo preminente, ma vi appaiono anche, l'uno accanto all'altro, lavori di fonderia bizantini, bizantineggianti e romanici, la cui serie si completa con i cancelli eseguiti intorno al 1300 da Bertuccio.Quali esempi monumentali italiani in b. di età gotica devono essere citati: la figura seduta di S. Pietro nella basilica vaticana di Roma, dovuta certamente ad Arnolfo di Cambio (1300 ca.); alcuni pezzi, variamente attribuiti, facenti parte di due fontane a Perugia (1278 e 1281); il complesso di sculture decoranti la facciata del duomo di Orvieto (1330 ca.); la porta sud del battistero di Firenze, opera di Andrea Pisano (1330-1333).La conoscenza del b. francese del Medioevo è assai lacunosa. Le porte che l'abate Suger fece fondere intorno al 1140 per la ricostruita abbazia di Saint-Denis non si sono conservate; del candeliere monumentale di Reims (Mus. Saint-Remi), del 1160 ca., sussiste solo un frammento del piede, mentre è andata perduta la quasi totalità dei monumenti funebri in b., il cui complesso può essere stimato in alcune centinaia. Due monumenti funebri di vescovi, tuttora conservati ad Amiens (Evrard de Fouilloy, m. nel 1222, e Geoffroy d'Eu, m. nel 1236), testimoniano peraltro l'alta qualità dell'arte del b. nella Francia medievale, attestata anche dagli esemplari di maniglie per porta, in forma di protomi leonine, già a Noyon (Boston, Mus. of Fine Arts).Anche la produzione inglese in b. è nota in maniera assai lacunosa. All'epoca anglosassone appartengono piccoli b. (tra cui parti di turiboli con inserti d'argento, del sec. 10°); tra i b. romanici va citato il candelabro proveniente da St Peter a Gloucester (fondazione intorno al 1107-1113), di altissimo livello qualitativo. Non si sono conservate le porte bronzee eseguite per Bury St Edmunds dal maestro Hugo nel secondo quarto del sec. 12°, mentre esistono alcune maniglie da porta, sempre del sec. 12°, tra cui degna di particolare nota la maschera di leone della cattedrale di Durham. A partire dal sec. 13° vennero realizzati in b. monumenti funebri conservati, soprattutto, nell'ambito del complesso di tombe reali dell'abbazia di Westminster a Londra, a cominciare da quello per il re Enrico III ed Eleonora di Castiglia, opera di William Torel (1291-1293). Tra i secc. 13° e 15° fecero la loro comparsa i brasses, specificamente inglesi, lastre di ottone incise con la raffigurazione del defunto.Lastre incise di particolare pregio vennero realizzate a livello industriale a partire dal sec. 14° nella regione delle Fiandre, probabilmente con centro a Bruges; particolarmente richieste sul piano internazionale, esse furono esportate in tutta l'area del Baltico, in Inghilterra e in Danimarca, dove trovarono ampio seguito.Verso la fine del Medioevo i Paesi Bassi si distinsero soprattutto per l'arredo sacro a carattere monumentale in b., specie candelabri, leggî in forma di aquila o di pellicano, fonti battesimali, acquasantiere, tabernacoli. Si tratta sempre di ricche composizioni, costituite di elementi architettonici e figurativi realizzati in pezzi singoli e quindi fusi e montati con grande precisione; la loro diffusione fu notevole anche in Italia e in Portogallo. Dinant, Maastricht, Tournai e Bruxelles furono i più importanti centri di produzione; tra i maestri, i cui nomi sono di norma noti, va segnalato Jean Josés di Dinant, autore tra il 1366 e il 1370 di svariati candelabri e di un leggio conservati nella chiesa di Notre-Dame a Tongres.

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Area bizantina

Un giudizio sulla produzione in b. di epoca bizantina deve inserirsi in una più generale valutazione della metallistica e delle arti suntuarie a partire dalla Tarda Antichità. Le creazioni di maggior importanza furono realizzate in entrambi i casi in oro e argento, ma anche il b., come materiale più economico e quindi più accessibile, nonché come materia più versatile, ebbe quantitativamente un suo rilievo. La predilezione per i metalli nobili appare evidente del resto quando si osservi come il b. (o il rame) venisse spesso nobilitato attraverso la doratura, l'argentatura, la damaschinatura o il niello, o ancora con l'aggiunta di smalti e pietre preziose.Le opere in b. potevano essere eseguite con diverse tecniche, che andavano dalla fusione piena alla fusione cava, al rilievo (alto, piatto o ribassato) o anche allo sbalzo, libero o battuto sulla matrice, a volte arricchito con graffiti e incisioni. Frequenti erano anche le commistioni con altri materiali e tecniche. A tale molteplicità delle possibilità tecniche corrispondeva una pluralità di strutture formali: accanto a opere in b. autonome, grandi o piccole, ricorrono in misura prevalente pezzi con funzione subordinata. Come tipologia di immagini prevalgono le forme decorativo-ornamentali ma anche figure umane e animali. Secondo questo tipo di suddivisione si può stabilire un'ulteriore distinzione tra oggetti d'uso quotidiano e oggetti d'uso più nobile, pubblico o d'apparato, signorile e liturgico. I lavori in b. più importanti furono sempre le sculture monumentali, talvolta di dimensioni maggiori del vero, documentabili con frequenza nell'epoca antica e tardoantica e solo sporadicamente in età bizantina. Va ricordato in proposito il c.d. Colosso di Barletta, che peraltro non si può collocare fra le opere d'arte propriamente bizantine. Le fonti testimoniano comunque che grandi figure in b. vennero realizzate anche nel periodo mediobizantino: è il caso per es. della statua dell'imperatore Basilio I (867-886), posta presso la Nea Ekklesia di Costantinopoli, o del gruppo bronzeo di Michele VIII Paleologo (1259-1282), che raffigurava il sovrano accanto al suo patrono. Tra le opere monumentali in b. vanno infine menzionate le porte di chiesa, di carattere più ornamentale. Riflessi di questa grande plastica in b. si ritrovano anche in opere figurative di piccolo formato, frequenti in epoca bizantina per lo più nell'ambito della produzione a carattere decorativo.In gran parte i b. bizantini, di fattura quasi esclusivamente artigianale, vennero creati per uso profano. In questo ambito si contano i più diversi oggetti e strumenti: secchi, bottiglie, brocche, setacci e attingitoi, bracieri per il carbone e le essenze profumate, candelieri e lampade, borchie per mobili, ornamenti per carrozze e apparati di sospensione. Vanno ancora menzionati guarnizioni per porte, serrature o maniglie, stampi, pesi e sigilli, piccoli recipienti d'uso medico e altro ancora. Il rapporto tra tali oggetti e l'arte vera e propria si esplica nelle figurazioni o comunque nelle forme decorative che vi si trovano realizzate e che pertanto forniscono preziose informazioni sull'immaginario della vita quotidiana nella società bizantina e sulla parte che hanno in essa le forme artistiche. Talora, in alcune di queste opere viene addirittura annullato il confine tra oggetto d'uso e oggetto d'arte suntuaria. La continuità con la tradizione tardoantica si esprime soprattutto nell'impiego di ornati vegetali; le rappresentazioni mitologiche tipiche del mondo pagano vengono trasposte invece in un repertorio di simboli e immagini cristiane. Alcuni lavori in b. di più specifica destinazione denunciano una più precisa relazione con il particolare mondo dei regnanti. A questo proposito vanno menzionati soprattutto i pesi per stadere, conservati in numero considerevole, che mostrano i busti o anche le figure assise di imperatori o imperatrici, realizzati sempre secondo modelli tardoantichi. La figura del sovrano serve qui come una sorta di garanzia del 'giusto peso'. Lo stesso vale per pesi in b. più piccoli, alcuni dei quali sono decorati con immagini di sovrani o raffigurazioni simboliche, realizzate con accurata tecnica ad agemina.Un mondo figurativo ricco di fantasia, che comprende filosofi, militari e non da ultimo animali, si dispiega nelle sculture in b. di piccole dimensioni, che decorano guarnizioni e coronamenti, per es. di mobili, ma anche, soprattutto, in lampade modellate in forma di pavoni, grifi, pesci e cavallucci. Motivi analoghi si trovano nei recipienti, che, specialmente nell'Egitto copto, presentano una variata decorazione a rilievo. In epoca protobizantina anche le guarnizioni di carri o l'impugnatura delle briglie possono essere decorate con figure tridimensionali in b., così come i supporti dei candelieri o le lampade. Ancora in epoca mediobizantina si trovano interessanti lumi pieghevoli da viaggio, costituiti da figure di soldati che con la spada sollevata sostengono minuscole lampade in bronzo. In particolare, candelieri e lampade sono attestati in una varietà di forme tale da sfuggire a una veduta d'insieme. Su piedi accuratamente modellati, spesso a forma di zampe e affiancati da animali, si elevano alti e sottili supporti che, sul fusto riccamente profilato, sostengono un piattello, accompagnato a sua volta talora da animali e dotato di puntale. Sebbene su molte lampade compaia la croce, ciò non presuppone un loro impiego esclusivamente cultuale, giacché il segno salvifico cristiano era largamente diffuso per il suo significato apotropaico.La maggior parte delle opere in b. bizantine conservate proviene dall'ambito liturgico. A giudicare tuttavia dagli esemplari rimasti, le suppellettili liturgiche più importanti, quali calici e patene, vennero realizzate di norma in metalli nobili, soprattutto in argento, e solo raramente in materiali più modesti. In ogni caso, si può menzionare un intero gruppo di patene eucaristiche - riconoscibili come tali in base alle iscrizioni - eseguite in una lega di b. e recanti sul piatto decorazioni incise che vanno dalla semplice croce fino a veri e propri gruppi di figure (Berlino, Staatl. Mus., Frühchristlichbyzantinische Sammlung; Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.). Anche per quanto riguarda altre suppellettili sussidiarie per la messa, come amula (brocche per il vino), trullae (attingitoi) e colini, esistono esemplari in b. ben attestati. In tale contesto rientrano infine gli stampi per il pane eucaristico, che presentano forme diverse, spesso simboliche, e sono corredati da iscrizioni allusive alla salvezza, alla salute e all'immortalità, a differenza dei menzionati stampi d'uso profano, che recano il nome o il monogramma del proprietario.Difficilmente schematizzabile è anche la varietà delle croci di grande e piccolo formato e degli oggetti cruciformi in bronzo. Pensate per gli scopi più diversi, esse comprendono le modeste croci decorative con incisioni come le croci processionali di rappresentanza decorate con la tecnica a intarsio metallico. Quale esempio rappresentativo di grande croce protobizantina può essere menzionata la c.d. croce di Mosè (altezza cm. 104), conservata nella basilica del monastero di S. Caterina al Monte Sinai, corredata da un'iscrizione e da una decorazione incisa rappresentante la Consegna della Legge a Mosè, sui bracci della quale si trovano anelli per pendenti e puntali per candelieri. Oltre che nelle vicinanze dell'altare croci simili dovevano trovarsi anche altrove. Al periodo mediobizantino deve risalire una croce bronzea conservata a Ginevra (altezza cm. 47,5), che presenta sulla faccia anteriore medaglioni con figure e su quella posteriore scene relative al profeta Elia, entrambe eseguite in argento sbalzato. Con ogni probabilità si tratta, come nel caso di altri esemplari del genere, di una croce processionale. Per il resto si trovano croci (o dischi crociati) in b. nelle più diverse combinazioni, isolate, a volte montate su basi modellate in forme di ben preciso significato simbolico - in alcuni casi esse stesse elaborate come autonome forme architettoniche -, a volte impostate su di un globo mediante un sostegno modellato in forma di mani e accompagnate da lampade (New York, Metropolitan Mus. of Art). Le croci sulla sommità di cupole o torri possono rientrare nella tipologia della banderuola a croce dei venti o a croce armillare, articolata cioè con sei bracci rivolti in tutte le direzioni. Un altro genere di croci bronzee è quello delle croci-reliquiario, contenitori apribili di eulogie, che, in epoca protobizantina, presentano quasi di regola le figure stanti del Cristo e della Vergine fra medaglioni con santi. Si tratta in gran parte, con ogni evidenza, di oggetti acquistati in Terra Santa dai pellegrini. Decorate in epoca mediobizantina, a graffito o incisione, anziché a sbalzo, tali croci appaiono ampiamente diffuse oltre l'ambito del Mediterraneo, fino in Ungheria.Dell'importanza delle opere in b. nell'arredo delle chiese bizantine testimonia anche il gran numero di lampade e candelieri. Le varianti formali vanno dai candelieri a una sola luce fino alle lampade a piede, in alcuni casi modellati in forme di valore simbolico o persino con figure, ricavate sul corpo della lampada o sull'impugnatura. A un famoso lampadario a forma di chiesa con sette anelli portalampada (San Pietroburgo, Ermitage) si possono accostare i numerosi polykándela in cui appaiono tra loro riunite più luci. Normalmente di forma circolare, questi caratteristici lampadari sono lavorati a traforo con motivi semplici o con forme stellari. Nelle grandi chiese bizantine, da Costantinopoli (Santa Sofia) fino alla Russia (per es. a Kiev) e all'Armenia (per es. a Erevan), essi assunsero la forma di imponenti corone di luce, che funsero da modello per le analoghe realizzazioni delle chiese d'Occidente. Vennero realizzati infine anche lampadari ad albero destinati a essere collocati all'ingresso del vano dell'altare e a reggere le offerte votive, in modo che queste splendessero alla luce delle lampade. Ne è documentata l'esistenza nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, ma anche nel monastero di Mar Gabriel a Quartāmin (Turchia sudorientale). Un riflesso di tali prototipi si può riconoscere ancora in un lampadario ad albero dell'epoca delle crociate (Gerusalemme, The Islamic Mus. al-Haram al-Sharif). In una descrizione della Santa Sofia illuminata si parla dello splendore di luci caratteristico delle chiese bizantine con accenti poetici: "lunghe catene di metallo intrecciate pendono in molte ghirlande [...] a cui si aggiungono dischi argentati [...] traforati dall'artista sagace, per [...] tenere di notte le luci in alto sugli uomini [...]" (Paolo Silenziario, Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae; PG, LXXXVI, col. 2150b).Insieme alla luce, anche l'elemento fuoco viene inserito nel culto mediante oggetti in metallo; in turiboli di b. - molto raramente d'argento o d'oro - l'incenso saliva come il profumo della preghiera verso il cielo. Anche in questo settore furono determinanti in un primo tempo le tipologie tardoantiche. I recipienti, spesso lavorati a traforo, nella maggioranza dei casi di forma semicircolare o sferica, sono spesso ornati con un semplice fregio anulare; a volte sono in forma di calice su un alto piede. In epoca protobizantina sono frequenti i thymiatéria quadrangolari o esagonali, aperti o con calotte traforate di forma architettonica o vegetale. In ogni caso si tratta di oggetti realizzati sempre in modo da poterli sia poggiare su di un piano sia appendere e far oscillare. Un importante gruppo di turiboli in b. di epoca bizantina è costituito da coppe emisferiche cinte da un fregio a rilievo.Tipologia e iconografia dei rilievi sono quasi esclusivamente di carattere palestinese; di conseguenza è in questa regione che occorre riconoscere il luogo di origine degli oggetti, trattandosi in prevalenza di memorie che i pellegrini portavano dai loca sancta. Alcuni dei ca. cento esemplari finora rintracciati sono stati localizzati nell'Egitto copto, mentre esempi più recenti sembrano originari dell'Armenia e anche di Costantinopoli. In generale, Siria-Palestina, Costantinopoli-Asia Minore ed Egitto sono i più importanti luoghi di produzione dei lavori in b. protobizantini.Nell'ambito delle decorazioni figurate di questo genere non vanno dimenticate le guarnizioni applicate, quantitativamente più frequenti, che recano per lo più l'immagine di un santo insieme a motivi decorativi o gruppi di figure di santi. È soprattutto in epoca mediobizantina che si trovano oggetti devozionali in b. con figure autonome. Fra questi va ricordato in particolare un trittico in b. dorato di alta qualità con la Vergine Odighítria fra santi (Londra, Vict. and Alb. Mus.), tra i primi esempi di analoghi lavori in metalli nobili o in avorio. Si può dunque ritenere che opere ornamentali o figurate in b., spesso nobilitate dalla doratura o dall'agemina, fossero presenti in notevole quantità nelle chiese bizantine. Già entrando ci si poteva imbattere in porte di b. o in pannelli bronzei, opere cui in passato si rivolse in modo quasi esclusivo l'attenzione della letteratura critica. In rapida sintesi sono da menzionare anzitutto, quali esempi universalmente famosi, le porte in b., decorate semplicemente con croci, del nartece di Santa Sofia a Costantinopoli (sec. 6°). Più complessa è, nella stessa chiesa, la porta bronzea a due battenti, in parte antica, dell'ingresso imperiale sudoccidentale, i cui pannelli sono incorniciati da sontuosi motivi ad acanto spinoso e a ornato geometrico oltre che da applicazioni plastiche. I monogrammi ageminati permettono una datazione intorno all'840. Le tradizioni artigianali di Bisanzio si dovettero mantenere in uso anche nei secoli successivi, dal momento che nel sec. 11° si trovano in Italia meridionale porte di b. realizzate a Costantinopoli, dovute alla committenza dei Pantaleoni, una famiglia di ricchi mercanti amalfitani. Così si stabilì una moda che in Italia durò un intero secolo. La prima di queste porte, quella del duomo di Amalfi, risale agli anni intorno al 1060; corredata di maniglie con protomi leonine, essa è composta di ventiquattro pannelli, quattro dei quali presentano figure in agemina d'argento, mentre i rimanenti hanno rilievi con la croce-albero della vita. È certamente sull'esempio di Amalfi che vennero ordinate porte analoghe anche per la chiesa abbaziale di Montecassino, di cui peraltro sussistono solo alcuni frammenti. Altri battenti bizantini giunsero intorno al 1074 a Roma in S. Paolo f.l.m.; si tratta di un'opera grandiosa formata da cinquantaquattro pannelli con la rappresentazione di profeti, apostoli, santi e scene cristologiche, dalla Natività all'Anastasi, con figure di disegno perfettamente compiuto in agemina d'argento. Una porta databile al 1076, realizzata per il santuario di S. Michele sul Gargano, mostra di nuovo ventiquattro pannelli con scene dell'Antico e del Nuovo Testamento, accompagnate da iscrizioni che, a differenza di S. Paolo f.l.m., non sono in greco ma in latino. Altri casi d'importazione bizantina sono le porte bronzee della cattedrale di Salerno, databili intorno al 1100, e quelle dell'ingresso principale di S. Marco a Venezia; ulteriori esemplari, che sussistono ad Atrani, Troia, Venezia e Canosa, sono stati ascritti dagli studi più recenti ad artisti bizantineggianti. Tardi riflessi di questi rinomati esemplari bizantini vanno considerate anche la porta bronzea del monastero atonita di Vatopedi e le porte delle chiese principesche di Suždal, Mosca e Alexandrowsk, quest'ultima con riquadri figurati ed elementi ornamentali eseguiti con la tecnica dell'émail brun. In ogni caso opere di questo genere danno forma alla concezione simbolica della porta della chiesa come porta del paradiso che introduce ai misteri del culto cristiano.

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Islam

Nello studio dell'arte islamica medievale, sprovvista di pittura, ove si escluda la miniatura, limitando la scultura a sporadiche testimonianze, i manufatti in b. e in genere eseguiti con le leghe del rame assumono ruolo prioritario.Molto complessa risulta la terminologia adottata dai musulmani per indicare le leghe di rame. L'arabo ṣufr, oggi utilizzato per il b., veniva in passato adoperato anche per l'ottone, analogamente a quanto avveniva in Occidente per il termine aes che indicava tanto le leghe di rame e zinco, quanto quelle di rame e stagno. Ṣufr viene usato da Iṣṭakhrī, nel Kitāb masālik, come sinonimo di nuḥās, oggi adoperato per il rame. Nell'anonimo Ḥudūd al- ῾ālam, sempre del sec. 10°, ṣufr è utilizzato per tradurre il persiano rūdh (poi divenuto rūy), che poteva indicare anch'esso tanto il b. che l'ottone. Al-Bīrūnī nel Kitāb al-jamāhir (sec. 11°), non usa il termine ṣufr quando fornisce il corrispettivo del greco chalkós (khalqū), che preferisce tradurre con nuḥās. Egli però usa asfīdhrūy (arabizzazione di safīdrūy) per ṣufr, oltre che per nuḥās al-abyaḍ (letteralmente 'rame bianco'). Il safīdrūy era, secondo al-Bīrūnī, una lega ad alto tenore di stagno creata al fine di ovviare alla proibizione da parte del governatore omayyade dell'Iraq, al-Ḥajjāj (694-714), di usare vasellame in oro e argento. In realtà oggetti realizzati in leghe ad alto tenore di stagno esistevano già precedentemente, come dimostrano i reperti di Taxila (Pakistan), databili tra il sec. 3° a.C. e il 1° d.C. (Allan, 1979, p. 46; Melikian-Chirvani, 1982b, p. 38, nrr. 34-35; Baer, 1983, p. 2).Resta comunque l'ambiguità terminologica: Kāshānī nell'῾Arāyis al-jawāhir descrive il safīdrūy come una lega di rame (persiano mis) e stagno (qal ῾ī) e ne evidenzia la somiglianza con l'argento, ma il b. bianco dev'essere associato soprattutto al khār ṣīnī, l'argentum cazeni del latino medievale, che al-Rāzī (Allan, 1979, p. 49) compara al b. per specchi. Al khār ṣīnī (letteralmente 'pietra di Cina') sembra potersi connettere la discussa lega cinese p᾽ai tung (b. bianco) e, per quanto siano rare le analisi scientifiche di campioni medievali islamici di b. per specchi, la composizione di esemplari cinesi di epoca T᾽ang (con alta percentuale di stagno, ca. 25%) sembra avvalorare l'ipotesi di una relazione tra le due leghe (Allan, 1979, pp. 49-50; Craddock, 1979, pp. 76-77). Le fonti pongono in relazione con il khār ṣīnī anche il tālīqūn e lo ḥadīd ṣīnī. Il primo era una lega multipla che nel sec. 13° Qazvīnī nel Kitāb athar identifica con lo haft jūsh persiano, una lega composta da sette elementi - come suggerisce il nome stesso - e cioè rame, argento, stagno, antimonio, piombo, ferro e oro. Un'altra lega descritta da al-Bīrūnī nel Kitāb al-jamāhir, Ṭūsī nel Tansūkhnāma e Kāshānī nell'῾Arāyis al-jawāhir è il batrūy (anche tabrūya o tāl), composto da rame e piombo (usrub) e usato per oggetti di uso corrente quali mortai, pentole e calderoni. Peraltro la differenza tra i manufatti lamierini e quelli fusi non consisteva tanto nella diversa composizione di rame e stagno o rame e zinco, quanto nel maggiore o minore tenore di piombo.L'ottone era chiamato in arabo shabah - termine questo che, rispetto a ṣufr, si prestava a minore ambiguità - o anche nuḥās al-aṣfar (rame giallo). Sebbene sino al sec. 15° lo zinco non sia stato isolato come metallo, al-Bīrūnī descrive lo shabah come una lega di rame e tuzia, ossia ossido di zinco. L'effetto, conclude al-Bīrūnī, è quello di ottenere manufatti simili all'oro: come il b. bianco 'imitava' l'argento, così l'ottone, al pari dell'auricalcum romano, nella concezione medievale imitava l'oro. La notevole produzione di b. e ottone appare favorita sin da tempi remoti dalla presenza di numerose miniere di rame nel Vicino Oriente e nel Maghreb islamico; alle miniere di Fārs, Yazd, Kirmān e Sistān si aggiungevano quelle di Caucaso, Azerbaigian, Khorasan e Asia Centrale. Quest'ultima area e in special modo la Transoxiana godevano di una fama particolare in quanto produttori di rame. Peraltro, malgrado il numero ragguardevole di miniere, l'estrazione del rame si rivelò presto insufficiente per i diversi usi che di esso si facevano: la piccola monetazione (fulūs di b.), la copertura dei tetti delle moschee, il rivestimento bronzeo delle porte di città e di edifici pubblici, ma soprattutto la produzione di oggetti dalle forme più svariate, che tanta fortuna ebbero nel Medioevo islamico (Ashtor, 1986, pp. 968-969).Particolarmente povera era la produzione di stagno, ove si escluda quella dell'Algarve spagnolo. Questa circostanza portò gli artefici musulmani a servirsi di stagno malese ed europeo, quest'ultimo proveniente principalmente dalla Cornovaglia. In rari casi lo stagno poteva essere usato in lega con il piombo per fare oggetti in peltro o anche allo stato puro, come in alcuni manufatti persiani, al posto delle incrostazioni in argento (Allan, 1979, p. 28).Anche se ignoto in quanto metallo, lo zinco veniva estratto sia nel Kirmān sia in Spagna. Muqaddasī nel Aḥsan al-taqasim fu tra i primi a descrivere la tecnica con cui si otteneva questo ossido nel Kirmān, grazie all'uso di altiforni in cui veniva prodotto un vapore che si attaccava a barre di terracotta da cui poi veniva separato, una volta rimosse queste ultime dal fuoco. Processi analoghi vengono descritti da vari autori medievali tra i quali Marco Polo nel Milione (Allan, 1979, pp. 40-41), che descrisse un altoforno analogo a quello osservato da Muqaddasī, a Gobiam (Kubanām nel Kirmān). Tale procedimento di distillazione dei vapori proveniva dalla Cina o dall'India, ove è attestato tra i secc. 9° e 10° (Craddock, 1979, pp. 70-71).La tecnica della fusione fu molto utilizzata dagli artefici musulmani del Medioevo. Il procedimento più semplice consisteva nel versare il metallo in stampi aperti di argilla; per oggetti complessi potevano essere utilizzati diversi stampi e l'anima talvolta veniva reimpiegata, mentre in altri casi andava distrutta al momento della rimozione. Oggetti di forma composita venivano fusi in stampi separati e richiedevano una successiva saldatura. Sebbene fosse frequente che parti di un oggetto - come i manici o i piedi - venissero saldati al corpo, negli esemplari di particolare pregio la saldatura era poco utilizzata. Forme uniche potevano essere ottenute con la tecnica c.d. a cera persa, descritta da al-Jazarī nel Kitāb fī ma῾rifat nella seconda metà del sec. 12°, che appare impiegata per oggetti persiani coevi, come il qalamdān (portapenne) datato 542 a.E./1148 e conservato a San Pietroburgo (Ermitage; Gjuzaljan, 1968, p. 97; Smith, 1968, pp. 23, 27; Baer, 1983, p. 2). Ryckmans (in Allan, 1979, pp. 60-61) ha messo in evidenza una tecnica usata nell'Arabia meridionale già in epoca preislamica, consistente nell'applicazione di segmenti di filature di cera in linee incise sul modello base, sempre di cera. Tale tecnica è probabilmente presente in una brocca iranica del sec. 12° conservata a New York (Metropolitan Mus. of Art; al-῾Ush, 1972, figg. 1-6).Oltre alla cera persa era praticata la tecnica, di origine cinese, della fusione in sabbia verde: si trattava di un particolare tipo di sabbia utilizzata per fondere oggetti in cassette che, a differenza di quelle comuni in argilla, non trattenevano l'eccedenza di umidità e perciò non necessitavano di eccessivo calore né di essiccamento prima che il metallo vi fosse colato dentro. Già descritta da al-Jazarī, questa tecnica compare in Occidente solo nel sec. 15° (Allan, 1979, p. 62; Baer, 1983, p. 2, n. 6). All'introduzione della fusione in sabbia verde intorno al 1100, seguì la sua applicazione alla produzione degli specchi, eseguiti con questa tecnica tra i secc. 12° e 13° (Scerrato, 1980). Fino a epoche recenti va registrata in taluni casi la sopravvivenza di processi medievali di fusione, come fanno supporre alcune caldaie del Daghistān prese in esame da S̀illing (in Scerrato, 1965, pp. 235-236). La tecnica della battitura ebbe particolare fortuna in ambito islamico solo dal sec. 11°, anche se è possibile che fosse utilizzata in precedenza per oggetti di uso comune (Allan, 1976-1977, figg. 36-39; 1979, p. 63). Le convessità su lamine circolari venivano ottenute con un processo di imbutitura su tornio (repusaggio) - secondo una tecnica di derivazione romana e bizantina, al pari della saldatura - cui si prestavano bene b. bianco e ottone. Un oggetto poteva essere composto di diverse parti e l'abilità dell'artigiano consisteva nel nascondere al meglio i punti di commessura. In luogo della saldatura potevano essere utilizzate forme di incernieramento o incastro con chiodi o chiavi.I principali metodi di decorazione di b. e ottone erano costituiti dalla punzonatura, dallo sbalzo, dall'incisione e dall'incrostazione. La punzonatura si prestava maggiormente per oggetti in b. bianco e ottone e fu adottata per molti esemplari protoislamici. Lo sbalzo (tanjīr), molto usato per oro e argento, appare sporadicamente nel trattamento del b., limitato più che altro all'ornato di piccole superfici; oggetti in b. con l'intera superficie decorata a sbalzo appaiono solo dal 13° secolo. L'incisione e l'incrostazione giocarono invece un ruolo rilevante nella produzione medievale islamica in b. e ottone. L'incisione (ḥafr) veniva tracciata con uno scalpelletto, lavorando il metallo con l'aiuto di un piccolo martello; le curve erano ottenute con una leggera inclinazione della punta a ogni colpo e con uno spostamento conseguente per la martellatura successiva. Questa tecnica spiega l'andamento dentellato dei contorni, che è più o meno evidente a seconda delle punte utilizzate e della pazienza dell'artigiano. Gli spazi tra le lettere delle iscrizioni e tra gli arabeschi venivano campiti a tratteggio usando lo stesso strumento. Analogo trattamento ricevevano gli spazi destinati ad accogliere l'incrostazione (takfīt o taṭ ῾ī), i cui orli interni venivano incisi da un punzone triangolare per assicurare le lamine d'argento che venivano ribattute nella cavità; l'incisione marginale non veniva praticata quando veniva impiegata la lamina d'oro. Dopo la battitura, la lamina d'argento poteva essere incisa; le linee tracciate e lo spazio del fondo venivano quindi riempiti di una sostanza bituminosa. Le incrostazioni così eseguite potevano sopravvivere a lungo alle puliture e agli urti (Rice, 1953, pp. 237-238; 498-499; Maryon, 1957, II, p. 453). Nei primi b. islamici l'incrostazione, quando appariva, era limitata alla martellatura di lamine filiformi in piccole cavità e l'affermarsi di tale tecnica nella decorazione complessiva dell'oggetto si può datare dal 12° secolo. L'uso dei termini agemina (da ῾ajamī, straniero o persiano) e damaschinatura è stato spesso utilizzato per le incrostazioni in b. e ottone, anche se il suo originale significato era limitato all'intarsio in acciaio.Tra i rari esempi superstiti di lavorazione a cloisonné, il più significativo è la bacinella artuqide della prima metà del sec. 12° conservata a Innsbruck (Tiroler Landesmus. Ferdinandeum). Uno dei rarissimi esempi dell'uso di decorazioni applicate mediante mastice è il calamaio in b. del sec. 12°, proveniente da Ghaznī, conservato nel Mus. Naz. d'Arte Orientale di Roma (Scerrato, 1967, fig. 15).Con il califfato omayyade, il controllo delle miniere di un territorio che si estendeva dalla Spagna al Sind favorì la produzione di manufatti in lega di rame; di fatto sembra che sino al periodo abbaside precedente allo smembramento dell'impero, tale metallo fosse prodotto in quantità sufficiente a soddisfare le necessità del mercato (Ashtor, 1986, p. 968). Lo studio di questo periodo protoislamico appare peraltro tuttora problematico: si tratta di una lunga fase formativa che dura sino all'avvento dei Selgiuqidi (sec. 11°), nella quale il nuovo contesto accolse le radicate tradizioni delle terre conquistate, rimaste sino a quel momento immutate. A Occidente la tradizione ellenistico-bizantina trovò una sua continuità in Siria, cuore dell'impero omayyade, e nell'Egitto copto, che ebbe una cospicua influenza nel Mediterraneo. In Oriente il retaggio iranico-sasanide e quello soghdiano si perpetuarono nella nuova civiltà islamica, soprattutto nelle aree più orientali (per es. il Khorasan), che molto presto tesero a distinguersi autonomamente dal resto del califfato. In ogni caso, l'unità dell'impero favorì anche lo scambio di concezioni diverse, spesso producendo un ibrido che proprio nella produzione dei primi b. ebbe alcune manifestazioni di grande originalità.Ai Copti si deve l'introduzione in ambito islamico di diverse tipologie classiche. Ne sono esempio i numerosi oggetti destinati all'illuminazione: grande fortuna ebbe, per es., un tipo di portalampada che, pur essendo legato alla riproduzione di modelli classici realizzati anche in argento, in ambito islamico sembra essere stato riprodotto solo in b.: si tratta di oggetti con base 'a saliera' e alto fusto sormontato da un piatto, su cui veniva fissata una lucerna (Baer, 1983, p. 10, fig. 3); la base poggiava in genere su piccoli piedi zoomorfi e il fusto era caratterizzato dalla presenza di elementi globulari. È singolare che, mentre in ambito egiziano il modello subisce presto variazioni - come testimonia il portalampade della fine del sec. 9° o degli inizi del 10° conservato al Vict. and Alb. Mus. di Londra (Baer, 1983, p. 10, fig. 5) - in ambito iranico resta sostanzialmente inalterato ancora in oggetti relativamente tardi, come l'esemplare del sec. 11° rinvenuto a Maimana e conservato nel Mus. di Kabul (Scerrato, 1964, pp. 678-686, 709, tavv. I-VI; Melikian-Chirvani, 1982b, pp. 34-35, fig. 10). Il modello copto ebbe discreta fortuna anche in Spagna, come attesta l'alto candelabro proveniente da Elvira, del sec. 10° (Allan, 1986, pp. 19-20). Se in Egitto la tipologia sopravvisse sino in epoca mamelucca (Baer, 1983, fig. 9; Allan, 1986, p. 91), in Iran i portalampade lasciarono il posto nel sec. 13° a bassi candelabri troncoconici, i cui esemplari superstiti, come quello conservato a Los Angeles (County Mus. of Art; Baer, 1983, p. 14, fig. 8), rivelano particolare compiutezza stilistica e maturazione. Di origine copto-bizantina è anche la tipologia del polykándelon, che ebbe una grande diffusione in tutta l'area mediterranea, dalla Spagna (Gómez-Moreno, 1951, figg. 97-105) all'Italia (Gli Arabi, 1979, tav. 347), all'Africa settentrionale (Marçais, Poinssot, 1948-1952). Sporadica e tarda è l'apparizione di questa tipologia in ambito iranico, come attesta l'esemplare del sec. 12° conservato nella Walters Art Gall. di Baltimora (Ettinghausen, 1966, fig. 6; Baer, 1983, p. 39, fig. 30). All'Iran si deve probabilmente l'origine delle lampade da moschea, come è stato dimostrato in base a quella conservata nell'Art Inst. di Chicago, databile tra la fine del 9° e il 10° secolo.Il cospicuo numero di bruciaprofumi testimonia della fortuna di questa classe di oggetti nel periodo protoislamico. Gli esemplari copti e islamici mostrano un'uniformità tipologica notevole e quelli della fase iniziale si possono facilmente confondere tra loro (Aga-Oglu, 1945; L'Islam, 1977, nr. 19; Baer, 1983, pp. 45-49). Secondo Allan (1986) avrebbe manifattura copta anche un bruciaprofumi (imitante una tipologia architettonica iranica, nella sua forma cubica sormontata da una cupola centrale e quattro cupolette angolari) conservato nella Freer Gall. of Art di Washington (Baer, 1983, fig. 32). L'imitazione di forme architettoniche è tipica nei bruciaprofumi, come dimostrano un esemplare di epoca protoislamica conservato nel L.A. Mayer Memorial Inst. for Islamic Art di Gerusalemme (Baer, 1983, p. 47, fig. 33) o un più tardo bruciaprofumi iranico 'a nicchia', che Melikian-Chirvani (1982b, p. 34, fig. 8) ha accostato al miḥrāb del mausoleo di Tīm in Soghdiana, del 10° secolo.Nei primi secoli dell'Islam, in ambito iranico si affermano due distinte tendenze. La prima, caratterizzata da un forte conservatorismo, vede il riproporsi con minime varianti di modelli sasanidi precedenti, come nel caso di una gamba di trono in forma di grifone, della fine del sec. 7° o degli inizi dell'8°, conservata nel Metropolitan Mus. of Art di New York (Ettinghausen, 1966, fig. 1; L'Islam, 1977, nr. 24; Welch, 1987, p. 15, fig. 3) o di numerose brocche, una delle quali, conservata nel Muz. Isskustva di Tbilisi, rappresenta forse la prima opera firmata (Yazīd di Bassora) e datata (67 o 68 a.E./686-689) di tutta l'arte islamica (Djakonov, 1951), anche se la cronologia è stata rimessa in discussione da Marshak (1972, pp. 64-65). Melikian-Chirvani (1976) ha messo in evidenza che l'apparato epigrafico isolato dal contesto nella brocca di Tbilisi rappresenta un elemento peculiare di tutti i b. prodotti nei primi centocinquanta anni di dominazione islamica.Una seconda tendenza dell'arte islamica nell'Iran preselgiuqide è attestata dalla produzione di oggetti in b. bianco, diffusa probabilmente tra le classi di recente islamizzazione, meno conservatrici da un punto di vista estetico (Melikian-Chirvani, 1974, pp. 123-125; 1975). Il precedente immediato degli oggetti in questo materiale è da ricercarsi nella metallistica soghdiana, come attestano sia un piatto in cui è rappresentato un edificio cupolato al centro di una decorazione architettonico-vegetale (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst; Museum, 1979, nr. 119; Allan, 1982, p. 18) sia una coppa polilobata con manico ad anello sormontato da un felino, di sicura provenienza khorasanica, conservata nel Mus. di Herāt, in Afghanistan (Melikian-Chirvani, 1974, p. 126; 1975, pp. 188-190; 1982b, p. 29, fig. 3) Oltre agli oggetti in argento, anche quelli in vetro possono aver fornito ispirazione a successivi esemplari in b., come le bottigliette per cosmetici, conservate nel Vict. and Alb. Mus. di Londra (Melikian-Chirvani, 1982b, nr. 4, p. 43) e nel Royal Mus. of Scotland di Edimburgo (Baer, 1983, pp. 64-65, fig. 46), dotate di corpo parallelepipedo poggiante su quattro piedi triangolari ricavati dalla base. Una derivazione da modelli in vetro già appare nella c.d. brocca di Marwān II (Cairo, Mus. of Islamic Art) e sembra caratterizzare tutti gli oggetti legati ai cosmetici, come confermerebbe la tipologia degli spruzzaprofumi con corpo a campana e alto collo a tromba che funge da aspersorio, tipica dell'epoca selgiuqide (Scerrato, 1972).Particolare successo nella produzione protoislamica in b. ha l'importante gruppo costituito dalle piccole sculture raffiguranti animali, di innegabile derivazione sasanide. Esse costituiscono un raro esempio di rappresentazione a tutto tondo nell'arte islamica, come attesta la figura di un leprotto conservata, come quella di aquilotto firmata da Sulaymān e datata al 180 a.E./796-797 (Djakonov, 1951), all'Ermitage di San Pietroburgo (Pope, 1964, tav. 169C); a esse si possono accostare il bruciaprofumi di Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst; Museum, 1979, nr. 234; Scerrato, 1967, fig. 2) e il c. d. gallo-falco di Lucca (S. Frediano; Gli Arabi, 1979, fig. 530). Queste statuette ebbero un'enorme fortuna nel Mediterraneo, in special modo in Spagna e nell'Egitto fatimide. Alla prima risalgono diversi getti di fontana, come il leone del sec. 11° conservato a Firenze (Mus. Naz. del Bargello; Scerrato, 1967, fig. 30) o il coevo daino del Mus. Arqueológico Prov. di Cordova (Robinson, Allan, 1976, nr. 172). Pur rifacendosi a un modulo decorativo peculiare della scultura animalistica iranica, anche il grifone di Pisa è da attribuire alla Spagna piuttosto che a contesti iranici o fatimidi come invece era stato suggerito (Scerrato, 1967, pp. 78, 83; 1971b, n. 26; Melikian-Chirvani, 1968; Gli Arabi, 1979, fig. 525). All'ambito fatimide risalgono diverse figure di animali trattate con assai maggiore realismo, come il cervo del Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte a Napoli, del sec. 11° (Erdmann, 1938; Scerrato, 1967, fig. 31), o la lepre conservata nel Mus. of Islamic Art del Cairo (Robinson, Allan, 1976, fig. 169).L'epoca selgiuqide rappresenta un momento di radicale cambiamento nell'arte della lavorazione del bronzo. Il processo di urbanizzazione verificatosi a partire dal sec. 11° e l'ascesa di nuove componenti sociali con conseguente allargamento della committenza coincisero con quella che è stata definita un'esplosione artistica; esplosione che si manifestò proprio nella produzione di oggetti in b., con l'incremento non solo del numero di esemplari ma anche delle tipologie e dei modelli decorativi. Motore di tale sviluppo dev'essere certamente considerato l'Iran e in special modo il Khorasan, area in cui, accanto a una sempre maggiore autonomia politica dal potere califfale, andò affermandosi una completa autonomia culturale. Un'altra ragione - non necessariamente in contrasto con la prima - della fortuna del b. in questo periodo è stata suggerita da Allan (1976-1977), che ha individuato nella necessità di ovviare alla generale carestia di argento che si andò delineando in tutto il Vicino Oriente tra i secc. 11° e 12° il motivo dell'affermarsi di una produzione in b. di quei modelli che avevano costituito il vasto repertorio della produzione in argento. Tale processo imitativo comportò contemporaneamente anche un radicale cambiamento nella lavorazione del b.: la battitura si affiancò sempre più alla fusione, ma soprattutto all'uso estensivo dell'incrostazione.Diversi oggetti possono fornire una chiave di lettura del fenomeno selgiuqide, primo fra tutti il celebre secchiello Bobrinski, conservato all'Ermitage di San Pietroburgo (Ettinghausen, 1943; Mayer, 1959, pp. 61-62; Robinson, Allan, 1976, pp. 170-171, nr. 180). L'oggetto, datato 559 a.E./1163, presenta un apparato epigrafico estremamente significativo, in cui vengono indicati il fonditore Muḥammad ibn ῾Abd al-Wāḥid, il naqqāsh (decoratore) Mas ῾ūd ibn Aḥmad e il committente Abu'l-Ḥusayn di Zanjān. Tale iscrizione fornisce due indicazioni fondamentali: in primo luogo essa sottolinea la specializzazione degli artefici, in secondo luogo il committente vi è definito fakhr al-tujjār (orgoglio dei mercanti), sostituendo così la dedica a personaggi dell'aristocrazia militare con quella a un membro della nuova borghesia mercantile. Un altro tratto caratteristico del secchiello Bobrinski è costituito dalla decorazione incrostata su tutto il corpo dell'oggetto, in cui compare per la prima volta quella scrittura animata che ebbe grande successo nel 12° e 13° secolo.Un ulteriore salto di qualità nell'impianto decorativo dei b. selgiuqidi è attestato da due oggetti tipologicamente molto simili: la c.d. Wade Cup, conservata a Cleveland (Cleveland Mus. of Art) e il vaso Vescovali del British Mus. di Londra (Pinder-Wilson, 1951; Rice, 1955; Ettinghausen, 1957; Melikian-Chirvani, 1977, pp. 191-200). Questi due esemplari, che nella forma risentono probabilmente dell'influenza T'ang e furono a loro volta modelli per esemplari ceramici, sono notevoli soprattutto per il loro repertorio ornamentale, il quale nella Wade Cup costituisce da un lato il massimo esempio di scrittura figurata di tutta l'arte islamica, dall'altro una complessa rappresentazione zodiacale (Hartner, 1959); nel vaso Vescovali quest'iconografia, inedita in epoca preselgiuqide, raggiunge un livello altissimo di raffinatezza (Hartner, 1973).La scrittura animata e le iconografie zodiacali ricompaiono in un gruppo consistente di brocche 'monumentali' prodotte tra 12° e 13° secolo. Il primo esemplare di questo tipo risale al 577 a.E./1181 ed è conservato a Tbilisi (Gjuzalian, 1968). Queste brocche riccamente decorate hanno il corpo sfaccettato con lobi rotondi e spigolosi, o liscio, secondo una tipologia che Aga-Oglu (1943) ha suggestivamente accostato alle forme architettoniche di alcune tombe torri selgiuqidi.Nel sec. 13° opera Shadhī di Herāt, autore di due portapenne, uno datato 1210 e conservato nella Freer Gall. of Art di Washington, l'altro analogo, conservato come un flacone, in coll. privata (Rice, 1955; Melikian-Chirvani, 1979; Baer, 1983, pp. 203-204). Sono entrambi pertinenti a un tipo di scatola portapenne, rettangolare allungata o con due semicerchi alle estremità, che si afferma a partire dal sec. 12° (il già citato qalamdān dell'Ermitage ne è forse il più antico esempio) e si sviluppa successivamente in forme sempre più sofisticate, come nell'esemplare duecentesco inciso in rame e argento con i segni dello zodiaco del British Mus. di Londra o in quello del 1281, firmato da Maḥmūd ibn Sunqur, anch'esso decorato da temi astrologici (Scerrato, 1967, fig. 46; Allan 1976, p. 183, n. 202; Atil, 1985, nr. 13). Questa tipologia assume in seguito connotazioni sempre più stereotipe, come testimonia un esemplare mamelucco del 1361-1363 nel Mus. of Islamic Art del Cairo (Robinson, Allan, 1976, p. 194); la stessa evoluzione si verifica nel medesimo periodo anche nel caso di altre tipologie di oggetti, quali i mortai, le brocche, i bruciaprofumi, modellati talora in forma di felino stilizzato, come nell'esemplare datato 577 a.E./1182 del Metropolitan Mus. of Art di New York (Dimand, 1951-1952; Welch, 1987, p. 39, fig. 27) o in quelli meno monumentali del NelsonAtkins Mus. of Art di Kansas City (Scerrato, 1967, fig. 29), del Louvre (Melikian-Chirvani, 1973, p. 17) e dell'Ermitage.In Siria e in Mesopotamia le opere in b. si devono alla dinastia artuqide, alla cui corte operò al-Jazarī. Al sec. 13° appartiene un tamburo in b. attraversato da una fascia epigrafica in scrittura animata da teste umane e di drago (Anadolu Medeniyetleri, 1983, nr. D.125, p. 68). Assai più ricca di testimonianze è l'attività della straordinaria scuola formatasi nella prima metà del sec. 13° a Mossul, alla corte dell'atabeg Badr al-Dīn Lu'lu', a opera, inizialmente, di artefici in fuga dalle regioni iraniche a causa dell'incalzante avanzata mongola (Rice, 1957, pp. 284-285). Nella sua produzione (di cui si riconoscono numerosi oggetti firmati mawṣilī, anche se non tutti prodotti a Mossul) Rice (1957) ha identificato due stili decorativi, il primo caratterizzato da un gusto pittorico riconducibile alla miniatura coeva, il secondo distinto dalla tendenza a riempire la superficie degli oggetti con campiture geometriche a intrecci di motivi a T, Y e Z. Diverse brocche, come quella conservata nel Mus. of Art di Cleveland, la brocca Blacas (Londra, British Mus., Coll. Blacas) e la brocca Homberg (coll. priv.), costituiscono il nucleo della produzione degli artisti mawṣilī. Altri oggetti, come una scatoletta del Benaki Mus. di Atene, opera di Ismā ᾽īl ibn Ward (Rice, 1952-1958), mostrano un notevole livello di raffinatezza nell'esecuzione. Una coppa conservata nel Mus. Civico Medievale di Bologna, già esaminata da Lanci (1845-1846), sembra riconducibile alla Mossul di Badr al-Dīn Lu 'lu' (Rice, 1953, pp. 232-238; Robinson, Allan, 1976, p. 177, nr. 192); tra le sue caratteristiche v'è quella di essere un raro esempio, forse l'unico, di oggetto realizzato in ottone fuso nella produzione di Mossul.Un ulteriore cambiamento si verificò nel corso del sec. 13°con l'invasione mongola delle regioni orientali dell'Islam. Da una parte si assiste alla precoce penetrazione di motivi estremo-orientali, come nell'ornato di un mortaio degli inizi del sec. 13° (Londra, British Mus.; Pinder-Wilson, 1963) o nell'apparizione dell'iconografia cinese del drago in un bacile del 1300-1320 ca. (Londra, Vict. and Alb. Mus.; Melikian-Chirvani, 1982b, pp. 202-203, fig. 93c); dall'altra alla perdita della fantasia creativa che aveva caratterizzato l'epoca selgiuqide. Si stabilisce ora una certa uniformità tra i prodotti iranici e siro-mesopotamici, premessa alla crescente analogia tra oggetti persiani e mamelucchi esemplificata dalla c.d. Nisan Tası eseguita per l'ilkhanide Abū Sa ῾īd (1319-1335) e conservata nella Tekke di Mevlana a Konya (Baer, 1973). In Iran la produzione del sec. 14° è caratterizzata da una certa monotonia e vede il fiorire di scuole locali come quella del Fārs, i cui prodotti non sono mai firmati (Melikian-Chirvani, 1969a; 1969b; 1969c; 1971), o quella kartide, che alla fine del secolo produsse il monumentale calderone della moschea del Venerdì di Herāt.Nel regno mamelucco si assiste a una progressiva monumentalizzazione del precedente stile ayyubide; il repertorio figurativo assume caratteri stereotipati nella riproposizione di motivi zodiacali, come delle figure del re in trono o del giocatore di polo, cui è attribuita una ricca e inedita iconografia araldica. Più estrosa appare la decorazione zoomorfa, in cui subentrano elementi della tradizione popolare, come ha indicato Baer (1968) a proposito dei bacini con il fondo decorato da pesci. L'epigrafia, infine, diventa la protagonista dei b. mamelucchi con la comparsa dell'austero stile thult che soppianta definitivamente le precedenti scritture animate.La lavorazione dell'ottone raggiunse la perfezione tecnica in epoca mamelucca; ne costituisce un esempio spettacolare il bacino detto Baptistère de Saint-Louis, degli inizi del sec. 14°, opera di Muḥammad Ibn al-Zayn (Rice, 1953; Behrens-Abouseif, 1989), in cui è rappresentata con notevole realismo la celebrazione di un maydān (torneo).

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