Buon costume

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Principio generale che riassume i canoni fondamentali di onestà, pudore e onore espressi dalla società in una data epoca, costituendo un limite all’autonomia privata. Poiché l’ordinamento giuridico non può accordare tutela a interessi socialmente immorali, gli atti di disposizione del corpo (art. 5 c.c.) e in generale tutti i negozi giuridici contrari al buon costume sono nulli (art. 626, 634, 788, 1343, 1354, 1418 c.c.). Tuttavia, chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume, non può ripetere quanto ha pagato (art. 2035 c.c.; v. Ripetizione dell’indebito).

Il buon costume si atteggia come clausola generale in quanto il legislatore non specifica in cosa debbano concretamente tradursi questi canoni, ma lascia la loro concreta determinazione all’interprete. La scelta è consapevole, perché la morale muta e si evolve con il passare del tempo e la società di oggi può ritenere meritevoli di tutela atti che la società di ieri reputava contrari al buon costume, e viceversa. Le deliberazioni assembleari di associazioni e fondazioni contrarie al buon costume possono essere annullate e la loro esecuzione può essere sospesa anche dall’autorità governativa (artt. 23, 25 c.c.).

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