Ca’ Foscari

Storia di Venezia (2002)

Ca’ Foscari

Giannantonio Paladini

Ritorno a Venezia

Nel dichiarare aperto, in nome del re Vittorio Emanuele III, l’anno accademico 1918-1919 del Regio Istituto Superiore di Studi Commerciali di Venezia, il suo direttore, Pietro Rigobon, dal 1906-1907 professore «titolare» di Banco modello(1), veneziano, allievo cafoscarino, già insegnante di Ragioneria a Girgenti e poi onorevolmente titolare della stessa disciplina di Banco modello nella Regia Scuola Superiore di Commercio di Bari, rievocò l’esodo della cittadinanza di Venezia seguito alla rotta di Caporetto e l’occupazione di gran parte del Veneto da parte degli eserciti degli Imperi centrali(2). Ca’ Foscari («la Scuola nostra»), per non interrompere la sua vita, per salvaguardare i diritti e gli interessi della sua «studenteria» passata e presente, portando con sé la «parte più utile» dell’archivio e l’amministrazione, era allora emigrata a Pisa, con decisione presa all’unanimità dal consiglio di amministrazione il 7 novembre 1917. Si era discusso tra gli amministratori cafoscarini quale offerta di riparo alla possibile, temuta invasione di Venezia preferire tra quelle pervenute dagli atenei: oltre che da Pisa, proposte erano giunte da Siena e da Perugia. Prevalse Pisa, e Ca’ Foscari s’integrò perfettamente dentro gli spazi dell’Università pisana: «la scuola in lutto si era aperta a Pisa, nella sede di quell’Università, senza alcuna solennità, ma aveva funzionato regolarmente, per quanto lo avevano consentito le circostanze»(3). I docenti avevano affrontato «incomodi e disagi», gli allievi avevano tenuto con «senno e dignità» il loro posto. Il consiglio di amministrazione aveva invece prevalentemente tenuto i propri lavori a Roma, in uffici del Senato, poiché il suo presidente era il conte senatore Nicolò Papadopoli Aldobrandini.

Il ritorno a Venezia fu deciso il 3 ottobre 1918, ma anche in precedenza si erano espressi «voti» affinché il «rimpatrio» avvenisse al più presto.

L’‘esilio’ pisano di Ca’ Foscari era durato, dunque, meno di un anno. E, tuttavia, si comprende bene, dalle parole del direttore come da quelle del ministro dell’Industria, commercio e lavoro Augusto Ciuffelli, presente all’inaugurazione del primo anno accademico del dopoguerra che coincideva col cinquantenario di vita dell’Istituto, e da quelle di Adriano Diena, che rappresentava Papadopoli, assente giustificato, che quel pur breve periodo lontano dalla laguna sarebbe rimasto a lungo nella memoria cafoscarina. Subito, del resto, l’antica Scuola provvide, con la solenne cerimonia del 6 luglio 1919, presenti professori e studenti, autorità cittadine, famiglie dei caduti e una grande folla, a ricordare tutti i «morti gloriosi», gli studenti antichi e recenti che avevano fatto sacrificio della vita in quella che Pietro Rigobon chiamò, alla maniera risorgimentale, «la guerra di redenzione». Già Fabio Besta, professore «titolare» di Computisteria e ragioneria nel 1876 (e ordinario dal 1909), a Ca’ Foscari per quarantotto anni e suo direttore dal 1914 al 1917, aveva fatto altrettanto nelle relazioni degli anni accademici 1914-1915 e 1915-1916.

E così, in quel giorno d’estate del 1919, il nuovo direttore Luigi Armanni, professore ordinario di Diritto pubblico interno, succeduto a Rigobon, che si era dimesso nel marzo dello stesso anno, proclamò dottori honoris causa quelli tra i cafoscarini caduti che erano ancora studenti, procedendo poi allo scoprimento, nel salone del primo piano di palazzo Foscari, della lapide che reca incisi i nomi di settantasette morti. Parimenti, «in onore» di questi ultimi, venne istituita la Fondazione perpetua in ricordo dei «cafoscarini» caduti per la patria, che ebbe un finanziamento di circa 200.000 lire raccolte fra i professori e gli estimatori della Scuola e, infine, fra i numerosi ex studenti che erano usciti da Ca’ Foscari nei precedenti cinquant’anni di vita. Inoltre, l’Associazione degli antichi studenti della Regia Scuola Superiore di Commercio di Venezia, fondata il 9 giugno 1898 sul modello della Scuola Superiore di Commercio di Anversa, arricchì l’attestazione patriottica costituita dalla lapide con un fascicolo che riunì, oltre ai nomi, alle gesta e ai ritratti degli studenti scomparsi nella Grande guerra, anche i nomi dei feriti, dei decorati e dei promossi «per merito di guerra» e, infine, l’elenco di quanti — studenti antichi e attuali e professori della Scuola — fossero stati chiamati sotto le armi a motivo della guerra(4). L’Associazione venne intitolata al professore di Geografia economica e commerciale e Storia del commercio Primo Lanzoni, alla sua morte, nel 1921, dopo una più che ventennale presidenza dell’Associazione. Così la Scuola Superiore di Commercio voluta da Luigi Luzzatti, non ancora deputato, e da Edoardo Deodati, ancora soltanto vicepresidente della Provincia di Venezia, dopo l’unificazione del Veneto al Regno d’Italia nel 1866, riprendeva, nel segno del lutto ma anche in quello della fiducia nel domani, il proprio cammino.

Uno sguardo all’indietro

Era nata, la Regia Scuola Superiore di Commercio di Venezia, nell’estate 1868, e i suoi corsi erano iniziati nel novembre dello stesso anno. E non era nata per caso nella città lagunare, quella che oggi si chiama Università Ca’ Foscari. Per costituire quello che, per lungo tempo, avrebbe fatto parte degli istituti tecnico-professionali superiori italiani (e come tale sottoposto alla sorveglianza del Ministero dell’Agricoltura, dell’industria e del commercio), c’era voluta — come s’è accennato — l’ambizione di Luzzatti, che più di ogni altro (anche di Deodati o del primo direttore, l’economista Francesco Ferrara) fu convinto sostenitore che Venezia, alla ricerca di un ruolo — dalla caduta della Repubblica aristocratica e, dunque, da settant’anni ormai, e dopo tante delusioni, sotto l’Impero d’Austria soprattutto — avrebbe avuto bisogno di ritrovare una qualche forma di primato: che «per riempire il vuoto dell’economia e del commercio si dovesse ora provvedere così»(5).

Per questo era nata la Scuola. E per trent’anni almeno, gli anni di Ferrara, le cose procedettero secondo ritmi regolari: stabili i bilanci, ancorché alquanto modesti; ferma la ripartizione delle tre sezioni e delle sottosezioni — commerciale, magistrale (economia, statistica e diritto; merceologia, computisteria e ragioneria; lingue straniere) e consolare —; strettamente commisurato alle esigenze dei corsi il numero dei professori distinti in tre classi (titolari, reggenti e incaricati); legate le oscillazioni della dinamica degli iscritti soprattutto all’apertura delle Scuole Superiori di Commercio di Bari e Genova(6). Si aggiunga che le tre sezioni della Scuola miravano ad altrettanti, precisi profili professionali: gli operatori e i commercianti, gli insegnanti di economia, gli specialisti idonei a rappresentare e a difendere gli interessi italiani all’estero.

Questa la struttura della Scuola. Ma va detto già per i suoi primi trent’anni ciò che sarà più chiaro soprattutto negli anni Settanta del Novecento, e cioè che Ca’ Foscari entrò abbastanza presto in una relazione precisa, vitale, con la città nella quale era nata. Da subito, infatti, quella universitaria fu considerata come una ‘funzione’ indirettamente economica di Venezia, e quest’idea d’università durò a lungo, fino all’affermazione della superiorità della Scuola veneziana su ogni altro istituto superiore. Punto di forza di Ca’ Foscari, sotto la guida di Ferrara e, dunque, fino al termine del XIX secolo, fu il suo flessibile conservatorismo, la sua refrattarietà a cedere alle ‘mode’, al tendenziale abbandono, come accadeva invece per molte Scuole di Commercio europee, degli insegnamenti di applicazione pratica a favore delle discipline teorico-scientifiche. La Scuola di Venezia difese, così, la propria specificità.

Gli anni che seguirono, anni di fervore non soltanto veneziano, ma anche italiano (la modernizzazione del paese in età giolittiana e l’ammodernamento dello stesso sistema universitario), videro i professori di Ca’ Foscari fortemente impegnati a ridisegnare l’assetto della propria Scuola. Lo fecero a partire da una relazione che essi comunicarono al corpo accademico della Scuola di Commercio nell’adunanza del 7 giugno 1906. Successivamente, il 21 giugno, la relazione fu largamente discussa e sottoposta a votazione separata per ogni singola «massima» di conclusione(7). «Ritemprarsi alle nuove esigenze della sua vita feconda»: questa la filosofia del documento, firmato da Fabio Besta e da Tommaso Fornari, professore titolare di Economia politica, ma steso da Luigi Armanni. Le «nuove esigenze» alle quali si riferivano i tre docenti nascevano anche dalla decisione della classe dirigente veneziana di «uscire fuori dall’isola», imperativo al quale l’antica capitale, fin dall’alba del Novecento, seppe dare risposta positiva, letteralmente reinventando se stessa.

Per la verità, su impulso e per volontà della Giunta comunale «democratica» eletta nel 1890 e presieduta dal commediografo Riccardo Selvatico, già nell’aprile 1895 era stata inaugurata la prima Esposizione internazionale d’arte, la futura Biennale: evento, questo, da cui «è lecito far iniziare, dopo un rodaggio particolarmente così a lungo protratto, la storia politica di Venezia contemporanea e un nuovo decisivo capitolo delle vicende che la proiettavano verso il destino di mutamenti e di trasformazioni radicali del XX secolo»(8).

Ma i veri interpreti della ‘reinvenzione’ di Venezia furono da una parte Filippo Grimani, sindaco fin dalla tarda estate del 1895, quattro mesi dopo l’inaugurazione dell’Esposizione, alla testa di una giunta clerico-moderata (in anticipo di quasi dieci anni rispetto alla ‘svolta’ nazionale del 1904) destinata a governare la città per un quarto di secolo, e, dall’altra, Piero Foscari, interprete politico delle idee dei tecnici più conseguenti in materia di collocazione portuale in terraferma, autore di un Progetto Porto Marghera che conteneva le linee di uno sviluppo che avrebbe avuto i suoi interpreti in Giuseppe Volpi, in Achille Gaggia e, un po’ più avanti, in Vittorio Cini. Non è, peraltro, di poco conto che, dall’inizio e per quasi vent’anni, fino al 1914, un professore della Scuola, Antonio Fradeletto, titolare di Lettere italiane (fu docente cafoscarino per cinquant’anni, fino alla scomparsa nel 1930), divenisse segretario generale della Biennale.

Tornando ai lavori della Commissione Besta del 1906, i suoi componenti definivano in apertura come «necessaria» la riforma della Scuola di Venezia, ma aggiungevano che essa doveva rappresentare «un consolidamento, non già una demolizione»(9). Non si trattava di «distruggere» — aggiungevano — ma di migliorare. Nel riassunto delle proposte elaborate posto a conclusione della sessantina di pagine della relazione, Besta, Fornari e Armanni elencarono diligentemente i dieci punti che parevano loro irrinunciabili. Rifacendosi alle principali fonti giuridiche aventi come oggetto la Scuola dal 1870 in poi, e in particolare ai decreti del 1905 (condizioni per il conseguimento del diploma di laurea, che nel 1903 le Scuole di Commercio erano state autorizzate a rilasciare in forma «speciale»), la Commissione Besta insisteva su alcune richieste: titolo esclusivo per l’ammissione alle sezioni magistrali di ragioneria e di economia e diritto doveva essere il certificato di licenza degli istituti tecnici di secondo grado, dei licei e delle scuole medie di commercio; i corsi delle sezioni consolare, magistrale di economia e diritto e di lingue straniere dovevano essere ridotti a quattro anni; il biennio comune a tutte le sezioni andava abolito; si doveva attuare più largamente il principio della divisione del lavoro scientifico e letterario; erano necessari l’introduzione e l’aumento delle cattedre permanenti; era auspicabile una maggiore mobilità orizzontale degli allievi tra le sezioni; andava riformato in senso egualitario l’ordinamento degli esami di laurea; dovevano essere fissate più rigorosamente le condizioni di ammissibilità agli esami di diploma per l’abilitazione all’insegnamento negli istituti tecnici di secondo grado; la nomina dei professori nella Scuola Superiore di Venezia doveva essere subordinata, di regola, alla legge del concorso pubblico; l’entità degli onorari dei docenti doveva essere stabilita in base a ciascun grado accademico e conformemente alle piante organiche allegate alla relazione(10).

È stato opportuno soffermarsi su quanto la Commissione Besta del 1906 maturò e tradusse nelle proprie richieste poiché la loro sostanza fu recepita nei decreti statali degli anni successivi. In particolare, nello stesso 1906, un decreto concesse il titolo di dottore a laureati delle Scuole Superiori di Commercio (i laureati del «magistero» di lingue non potevano invece conseguire il titolo) e, soprattutto, il regio decreto del 27 giugno 1909 che approvava il nuovo statuto della Scuola Superiore di Venezia. In esso, la si riconosceva come «fondazione del Governo, della Provincia, del Comune e della Camera di commercio» e venivano istituite formalmente le sezioni di commercio, consolare, magistrale di economia e diritto, magistrale di computisteria e ragioneria e di lingue straniere(11). In tal modo, ai fini pratici, la vecchia Scuola di Commercio diventava, di fatto, un’università.

In questa veste, la Scuola veneziana si presentò all’Esposizione internazionale di Torino della primavera del 1911. Già la Scuola aveva approntato pubblicazioni informative nel 1871 per Napoli, nel 1881 per Milano e nel 1891 per Palermo. Ma la monografia preparata per il 1911 sembrò superare tutte le altre in eleganza e completezza. Legata in pergamena, essa guadagnò alla Scuola il diploma di Gran premio(12). Nel volume venivano riassunte le diverse vicende dell’istituto veneziano ed erano rispecchiate le condizioni presenti sotto il triplice aspetto giuridico, didattico e finanziario. Con legittimo orgoglio, qualche mese prima, nell’occasione dell’apertura dell’anno accademico 1909-1910, tenutasi il 10 novembre 1910, Enrico Castelnuovo, professore ordinario di Istituzioni di commercio da un quarantennio e direttore dal 1905, poté affermare che «la più antica fra le Scuole superiori di commercio italiane aveva sempre guadagnato terreno a malgrado della concorrenza di tante Scuole consimili nate dopo di lei»: a dispetto dei «mezzi inadeguati» sui quali essa poteva contare — rivendicava Castelnuovo —, la Scuola veneziana aveva sempre saputo «mantener con decoro le sue diverse sezioni e dare un largo contributo di giovani forze all’economia nazionale»(13). Il direttore Castelnuovo non mancò in quell’occasione di ricordare, oltre agli antichi studenti, i fondatori della Scuola, unico superstite dei quali era Luigi Luzzatti, che oltretutto, dal marzo 1910 al marzo 1911, fu presidente del Consiglio dei ministri, unico veneziano (e unico ebreo) che nella storia dell’Italia unita sia riuscito nell’impresa.

Un paio d’anni dopo, la legge 29 marzo 1913, nr. 268, richiamandosi al regio decreto 27 giugno 1909, nr. 517, confermò a Ca’ Foscari il triplice carattere di Scuola di commercio, di consolato e di magistero, con le cinque sezioni che davano luogo «ad una larga divisione di lavoro scientifico-didattico, per ricollegarsi nell’unità organica di una vera e propria Universitas Studiorum»(14). Dichiarando aperto l’anno accademico 1913-1914 e introducendo la legge del 1913, Enrico Castelnuovo osservava, del resto, che la normativa, pur consacrando in linea di massima un certo grado di autonomia, la circoscriveva invece virtualmente, come, infatti, il regolamento generale sugli istituti superiori di istruzione commerciale del 1° agosto 1913 puntualmente confermò.

E, tuttavia, maiora premebant. Tra la fine di luglio e i primi d’agosto del 1914, dopo l’uccisione dell’erede al trono dell’Impero asburgico, esplose un conflitto del quale non si ebbe, al momento, neppure la sensazione di quel che avrebbe rappresentato per il mondo. Il 24 maggio 1915, anche l’esercito italiano fu mandato a combattere, dalla parte delle potenze dell’Intesa, in quella che, al di là delle motivazioni degli interventisti, dei nazionalisti o dei democratici italiani, si tradusse presto nella prima guerra totale della storia. Gli echi di cronaca interna cafoscarina, tuttavia, non mancarono di farsi sentire anche nelle eccezionali circostanze che accompagnarono le notizie sui primi studenti caduti. Di rilievo, ai fini della vicenda dell’Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali (così, ormai, si chiamava la Scuola), fu la decisione di trasferire la biblioteca dal terzo al primo piano di palazzo Foscari: trasferimento cui provvidero Pietro Rigobon e Arnaldo Segarizzi, direttore della Querini Stampalia, nonché il giovane Roberto Cessi, ma che fu ostacolato dal ritardato arrivo delle scaffalature in ferro all’uopo ordinate. La notizia fu data dal nuovo direttore, Fabio Besta, poiché Castelnuovo era uscito dai ruoli per raggiunti limiti d’età(15): anzi, nella stessa occasione, Besta ne annunciò la scomparsa. Le difficoltà del momento — la guerra minacciava direttamente Venezia(16) — impedirono che alla memoria di Castelnuovo, oltreché a quella di altri colleghi, si potesse dedicare l’ordinaria attenzione. Del resto, oltre a molti studenti, anche alcuni professori, e per di più di spicco, erano stati coinvolti nella guerra: Pietro Rigobon (il quale rimase d’altra parte a Venezia), Ernesto Cesare Longobardi, ordinario di Lingua e letteratura inglese ed ufficiale volontario della Croce Rossa, Henri Gambier, incaricato di Lingua e letteratura francese, che prestò servizio militare nell’esercito della Repubblica francese.

A quest’ultimo proposito, vale la pena di considerare l’atteggiamento della Scuola verso lo straordinario personaggio di Gambier, il quale, nato a Reims nel 1881, aveva cominciato a insegnare a Ca’ Foscari nell’anno accademico 1910-1911 (egli aveva studiato alla Sorbonne, seguito corsi di Letteratura in Scozia, in Inghilterra, a Pisa e aveva conseguito il diploma di abilitazione al secondo grado di Lingua francese nel 1907 proprio nella Scuola) e avrebbe abbandonato l’incarico soltanto nel 1950. Nel 1936, quando Italo Siciliano vinse il concorso per la cattedra di Lingua e letteratura francese, l’Istituto cafoscarino non si sarebbe però privato della collaborazione di Gambier. Del resto, quest’ultimo era un personaggio del quale né Venezia (l’amore per la città era per lui un abito mentale più che un impulso passionale), né palazzo Foscari avrebbero potuto fare a meno. Emma Stojkovic Mazzariol avrebbe dedicato, nel 1980, a cinque anni dalla scomparsa, parole molto belle e molto vere a questo «maestro umanissimo», che nel corso del tempo aveva donato, a tre generazioni di cafoscarini e a tutti i veneziani colti, libri come Nous deux à Venise e L’âme de Venise. Gambier insegnò, del resto, anche all’Università di Padova, e in diversi istituti medi superiori delle due città.

Quando, nel 1915, Gambier se ne andò a combattere per il suo paese, il posto di incaricato a Ca’ Foscari non gli venne revocato. Nel 1922, poi, egli avrebbe preso la cittadinanza italiana. Ma, ci fu, nella sua partenza da Venezia per andare alla guerra dalla stessa parte del suo paese d’adozione e di elezione, qualcosa di sottile che la dice lunga sulla Venezia di allora, sulla sua Scuola di Commercio e sull’anima di quell’uomo colto e affascinante(17).

Fu anche così che Ca’ Foscari, i cui studenti e professori erano stati tra i protagonisti delle manifestazioni della primavera «radiosa»(18), entrò, con centinaia di studenti, nella Grande guerra che le sarebbe costato l’esilio pisano.

Gli anni inquieti

Grande guerra e dopoguerra incisero non soltanto sui processi politici ed economici, ma anche sulla psicologia delle masse e sulla cultura entro la quale esse si mossero, divenendo, dai primi anni Venti in poi, soggetti storici. Ciò vale per la situazione europea e italiana, e perciò anche per Venezia, che — in qualche modo — rappresentò un caso particolare.

Era, del resto, dagli anni antecedenti il primo conflitto mondiale che sulla laguna si era andata affermando una specifica ideologia politica tutta veneziana, fatta di un impasto sottile di collegamenti con la millenaria storia repubblicana e di supremazia adriatica. Attraverso Piero Foscari, l’autore del ricordato progetto del nuovo porto «fuori dall’isola» che nelle intenzioni avrebbe dovuto difendere Venezia per i secoli futuri, impedendo alla palude di avanzare verso una laguna cui veniva attribuito il carattere di porto naturale dell’antica capitale, Gabriele D’Annunzio era diventato il nume del nazionalismo adriatico (Foscari, del resto, fu deputato dal 1909, poi sottosegretario di Stato nel 1916). Questo connubio politico e retorico rese Venezia prima una ‘piazza calda’ dell’interventismo, poi un riferimento nazionale per quanti vollero misurarsi con la modernità avendo come luogo di elezione la città per definizione premoderna. La guerra era, del resto, ancora in corso quando, tre mesi prima di Caporetto, l’idea di «uscire dall’isola» di cui Foscari si era fatto portatore s’incarnò a Roma nella convenzione tra Stato, Comune di Venezia e Società Porto industriale, una sorta di cordata di imprenditori, mercanti e agrari veneziani pilotata da Volpi per creare un nuovo porto commerciale, una nuova zona e un porto industriali sulla gronda lagunare, dal lato dei Bottenighi, alla stessa altezza, dall’altra parte, di S. Giuliano(19).

Dal lato dell’Istituto cafoscarino, le risposte a quanto stava avvenendo a Venezia non mancarono, anche se prevalse, inizialmente, la preoccupazione dettata da una serie di norme statali che progressivamente incisero sull’ordinamento del 1913, sia negativamente, che positivamente: da una parte, infatti, nell’antica Scuola molto ci si dolse a causa della svalutazione di fatto della sezione consolare causata dal regio decreto 13 marzo 1921, nr. 659, che considerò il diploma di laurea in Scienze economiche e commerciali quale titolo di ammissione alle carriere dipendenti dal Ministero degli Esteri; dall’altra parte, dopo una serie di interventi normativi, generali e specifici sulle università e gli istituti superiori, venne il regio decreto del 1° luglio 1928, che comportò il passaggio dell’Istituto veneziano dalle dipendenze del Ministero dell’Economia nazionale a quelle del Ministero dell’Educazione nazionale.

Ma il punto saliente, per quel che riguarda l’Istituto cafoscarino in funzione della successiva trasformazione della città di Venezia, è forse costituito dal discorso inaugurale, e cioè dalla prolusione, del novembre 1922, di Gino Luzzatto, chiamato a insegnare a Ca’ Foscari Storia economica, separata, proprio in quel torno di tempo, dall’insegnamento di Geografia economica: ciò che accadde anche in seguito alla scomparsa di Primo Lanzoni, avvenuta, come s’è detto, nel settembre del 1921. Luzzatto proveniva dall’Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Trieste, del quale era anche direttore (a Trieste, in realtà, Luzzatto rimase soltanto un anno), nel contesto di una serie di ‘movimenti’ che interessarono anche il settore fondamentale della Ragioneria, nel quale, a Fabio Besta, scomparso il 3 ottobre del 1922, succedeva Gino Zappa(20).

La prolusione di Luzzatto, articolata in due parti (quella storica e quella di valutazione della situazione attuale), interessa — qui — soprattutto per quanto concerne il difficile ‘contenzioso’ che si aprì nel primo periodo postbellico per l’integrazione nel corpo del Regno d’Italia, vittorioso nella Grande guerra, di gran parte dell’alto Adriatico, appena perduto dallo sconfitto Impero asburgico. E la conclusione del suo dire è senza equivoci: «La crisi attuale di Venezia [spiegava infatti Luzzatto] è la crisi di cui soffrono in misura molto più grave tutti gli altri porti adriatici, è la crisi di tutto il mare che ne ha fatto in passato la sua grandezza. La fortuna di Venezia non potrà sicuramente risorgere se non risorgerà con essa la fortuna di tutto il commercio adriatico». Non sono parole trionfalistiche: Luzzatto aveva, infatti, appena detto che, benché fosse al primo posto tra quelli dell’«amarissimo» mare, il porto di Venezia aveva raggiunto un movimento di un terzo inferiore a quello del 1912 e che, per raggiungere e superare le cifre dei migliori tempi prebellici, esso avrebbe dovuto a lungo fare i conti non tanto con la realtà del passato, quando quello veneziano era per se stesso «un grande centro di scambi, che poteva tirannicamente imporre la sua volontà alla numerosa e svariata clientela», quanto piuttosto «con la realtà di oggi, che è quella di una parte che dipende esclusivamente dal suo retroterra nazionale».

La nuova funzione del porto di Venezia — affermava Luzzatto — appariva certamente «meno brillante», ma essa avrebbe comunque potuto assicurargli un movimento superiore a quello che in precedenza aveva sviluppato. Ma la condizione principale affinché questa funzione potesse essere assunta consisteva per Luzzatto nel riconoscimento consapevole che «la sfera di influenza su cui Venezia può oggi contare si estende, da un lato, fino a Dobbiaco e al Brennero e, dall’altro, fino a Brescia, Mantova e Bologna, e anche oltre, nella valle padana industrializzata, se sarà completato il lavoro gigantesco del porto di Marghera». Su questo punto, Luzzatto è così netto da sentire il bisogno di ammettere che «si potrà anche, allora, rimpiangere che la città resti quasi estranea al movimento del suo porto, confinato all’estremo lembo dell’abitato e che le rive di San Marco e di Rialto non vedano più alcuna traccia del traffico mondiale che le animava nei secoli passati», ma anche da sottolineare che «il movimento delle merci che salirà allora ad altezze insperate (attraverso la Stazione marittima e quella ferroviaria di Mestre)» non avrebbe recato giovamento solamente agli operatori portuali, ma avrebbe avvantaggiato largamente il ceto commerciale veneziano e l’intera città. Certamente — aggiungeva Luzzatto — sarebbe stato necessario un ordine internazionale nel quale Trieste e Fiume avessero riacquistato il proprio retroterra naturale, e che le merci dell’Austria, di parte della Boemia, della Slovenia, della Croazia e dell’Ungheria avessero ricominciato ad affluire ai propri scali, quando, per le mutate situazioni politiche, la Bosnia, l’Erzegovina e la Serbia potessero nuovamente contare sui propri posti adriatici per le loro merci in gran parte pesanti.

Soltanto allora Venezia avrebbe potuto giovarsi del movimento più intenso del «suo» antico «Golfo» e soltanto allora, d’altra parte, le navi che rifornivano il suo retroterra avrebbero potuto trovare un carico di ritorno nei porti orientali dell’Adriatico e praticare noli sensibilmente più bassi. Il vecchio amico di Gaetano Salvemini non dimenticava il «concretismo», dunque. E, ad ogni buon conto, nelle battute di avvio alla conclusione del discorso inaugurale, egli rincarava la dose di ammonimenti, raccomandando di non abbandonarsi a «sogni di dominio ormai tramontati per sempre». Le condizioni di sviluppo per Venezia non offrivano più margini per «concorrenze fatali» e, «neppure, per delimitazioni delle singole sfere d’influenza»: quella che allora si prospettava, «nel vantaggio di ciascuno e di tutti», diveniva per Luzzatto «una politica di libertà, che richiami sulle rive dell’Adriatico tutto quel traffico che ad esso può, naturalmente e logicamente, affluire»(21).

Quando, da Ca’ Foscari, s’alzarono queste considerazioni sull’opportunità e l’esigenza dell’adozione di politiche razionali in Europa, in Italia e a Venezia, erano già passati alcuni degli anni decisivi per l’involuzione in senso autoritario delle istituzioni liberali. Lo stesso fascismo «urbano» veneziano di Piero Marsich, tramontata la stella di D’Annunzio dopo l’avventura di Fiume, era stato emarginato (e in parte si era emarginato), ed era salita quella di Giovanni Giuriati; e, ancor prima, Davide Giordano si era insediato come sindaco a Ca’ Farsetti: eletto nel «listone» di liberali e fascisti al quale il Partito Popolare Italiano, su sollecitazione del patriarca, il cardinale Pietro La Fontaine, aveva fatto il grosso favore di non presentarsi in modo autonomo, Giordano era diventato primario chirurgo dell’Ospedale Civile di Venezia ed era peraltro destinato — lo si vedrà più avanti — a svolgere una funzione cruciale nella stessa vicenda cafoscarina della seconda metà degli anni Venti. Visse, del resto, la vecchia Scuola, in quel torno di tempo, un agitato succedersi di eventi.

In realtà, il conformismo che cominciò a premere sulla società veneziana (come, del resto, e sia pur diversamente, nel resto del paese) trovò proprio nell’antico palazzo di Francesco Foscari uomini non disposti a transigere. Negli anni cruciali che corrono dal 1922 al 1926, infatti, furono quattro i professori cafoscarini che tennero acceso il lume della ragione e alto il vessillo della libertà a Venezia. Non pochi se si considera che, tra Venti e Trenta, i professori di ruolo passarono da 12 a 15, compresi gli emeriti. Oltre a Luzzatto, in prima fila furono l’anglista Ernesto Cesare Longobardi, il germanista Adriano Belli e Silvio Trentin, professore di Istituzioni di diritto pubblico e avvocato a Venezia: un personaggio di levatura nazionale, quest’ultimo, il quale era stato deputato nell’effimera compagine della Democrazia Sociale tra il 1919 e il 1921, antifascista costituzionale e nemico dichiarato del fascismo, politicamente assai attivo tra San Donà, sua città natale, e Venezia. A Ca’ Foscari, Trentin era stato chiamato nel 1923 dall’Università di Macerata, e sostituì Luigi Armanni. E a Ca’ Foscari, diretta allora dal giurista Roberto Montessori, professore di Diritto commerciale marittimo e industriale, Trentin tenne, nel novembre 1924, il discorso inaugurale dell’anno accademico 1924-1925, dedicato a un tema che è alle origini scientifiche e culturali del federalismo che, nell’esilio francese degli anni Quaranta, lo avrebbe contraddistinto tra gli oppositori irriducibili del fascismo.

Al di là del discorso inaugurale del 1924, nel quale invero Trentin tracciava «il perpetuo, compiuto disegno di un ideale ordinamento autarchico», è memorabile il richiamo che egli fece nella conclusione. Qui l’antifascista indicava la «necessità che il cittadino non sia abituato ad abdicare davanti alla volontà altrui, a rassegnarsi davanti alla forza»: un’ammonizione, questa, che non suona di maniera, ma perfettamente congrua rispetto alla situazione politica e civile del momento(22). Ne fa fede ciò che accadde di fatto, allora, a Ca’ Foscari e a Venezia.

Mentre la situazione politica italiana andava precipitando dopo le elezioni politiche del 6 aprile 1924 e l’assassinio di Giacomo Matteotti del 10 giugno successivo, i docenti cafoscarini che abbiamo ricordato, assieme ad altri amici socialdemocratici e repubblicani di Venezia, costituirono — per così dire — il nucleo di una società, di un’impegnata cerchia idealista di intellettuali decisi a mantenere la propria identità nell’atmosfera di conformismo che li soffocava da ogni parte. Fu così che Luzzatto e Belli, insieme a Trentin, Rigobon e allo stesso Armanni, fecero parte del secondo gruppo di personalità che firmarono il crociano Manifesto degli intellettuali antifascisti pubblicato per la prima volta da «Il Mondo» di Giovanni Amendola il 1° maggio 1925. Mentre, poi, cominciò a delinearsi la «strategia degli attentati» contro Mussolini (tra novembre 1925 e ottobre 1926, il capo del governo ne avrebbe subiti ben quattro, da parte di Tito Zaniboni, Violet Gibson, Gino Lucetti e Anteo Zamboni)(23), i nodi vennero al pettine.

Nel marzo del 1925, essendosi dimesso da direttore Roberto Montessori, a Venezia da dodici anni e desideroso, per motivi famigliari, di tornare nella sua Modena (egli fu chiamato a insegnare Diritto commerciale all’Università di Parma), il consiglio accademico, con chiara designazione, chiamò a sostituirlo proprio Luzzatto, giudicato uomo coscienzioso, sicuro di sé e scrupoloso del dovere. Luzzatto, a dire il vero, accettò la designazione con riluttanza. Resta il fatto che il fascismo veneziano colse al volo il pretesto per dare una lezione a quei docenti universitari troppo fieri e a quella Ca’ Foscari troppo viva. Pretesto che veniva ad affiancarsi a quello offertogli dalla lettera di solidarietà che il nuovo direttore aveva sottoscritto al tempo dell’arresto di Gaetano Salvemini (all’Università di Firenze le intimidazioni nei confronti dei professori antifascisti furono analoghe a quelle veneziane, e lo storico di Molfetta fu fermato e denunciato nel febbraio del 1925), e dalla sua attività di pubblicista negli anni tra 1922 e 1925, che sfidò la tolleranza del regime: si pensi alla trasparente denuncia della «mancanza di ogni libertà di discussione» fatta incidentalmente nel contesto di un articolo tecnico sui cambi comparso in «Critica Sociale» del 1°-15 agosto 1924. Fu così che Trentin e Longobardi si videro avvicinati da studenti fascisti e minacciati di violente rappresaglie qualora non avessero accettato di dissociarsi dal gruppo favorevole a Luzzatto.

D’altra parte, Trentin non era nuovo ad affronti del genere, come quello subito a Fratta Polesine, dove si era recato a rendere omaggio alla tomba di Matteotti, e come quello avvenuto nella stessa Ca’ Foscari, a un passo dall’aula delle lezioni. Del resto, nell’autunno del 1925, le risse politiche e le violenze fasciste divennero fatti di ordinaria amministrazione, nell’antica Scuola, e le autorità fasciste di Venezia iniziarono a chiedere con crescente animosità le dimissioni di Luzzatto. Ancor oggi, a questo proposito, nello «stato di servizio» del docente cafoscarino sta scritto che egli si dimise da direttore «a decorrere dal 16 novembre 1925», e che «le dimissioni sono state accettate».

In realtà, il 13 novembre una comunicazione del Ministero dell’Economia nazionale, dal quale ancora gli istituti come quello cafoscarino dipendevano, aveva reso noto che Luzzatto si era spontaneamente determinato alle dimissioni e che il consiglio di amministrazione doveva essere disciolto e sostituito da «un regio commissario di grande autorità: questi sarebbe stato il senatore professor Giordano», già sindaco di Venezia dal 1920 al 1923 — come s’è ricordato — e poi commissario governativo del Comune fino all’estate del 1924; dallo stesso anno egli fu senatore del Regno. Il 16 novembre, il senatore Adriano Diena, presidente del consiglio di amministrazione di Ca’ Foscari, chiese al Ministero spiegazioni sul provvedimento. La risposta giunse il 18 novembre: il provvedimento era stato preso «per il bene obiettivo dell’Istituto», che «non doveva essere sede di agitazioni estranee agli studi». La soluzione del dramma, politico piuttosto che accademico, si ebbe soltanto il 21 novembre 1925, quando un gruppo rappresentativo di docenti cafoscarini, del quale faceva parte anche Trentin, parlando a nome di tutti i docenti, espresse la propria solidarietà a Luzzatto, accettando, peraltro, contemporaneamente, che al suo posto venisse nominato Ferruccio Truffi, ordinario di Merceologia. Questa la transazione tra Ca’ Foscari e il Ministero(24).

Quanto al successore di Luzzatto, egli si limitò a dichiarare ufficialmente di aver accettato la nomina del governo in considerazione del fatto che «agli uomini è concesso di essere temerari talvolta, pusillanimi mai». Truffi si smentì immediatamente, tuttavia: la notizia del trasferimento all’Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Roma di Alberto De Stefani, professore di Economia politica, «simpatico e distinto allievo cafoscarino», dal 1918 «maestro insigne», ministro delle Finanze (1922-1925) e del Tesoro (1923-1925), fu infatti affiancata a quella delle «dimissioni» di Silvio Trentin(25). Ora, quest’ultimo aveva lasciato, il 27 gennaio 1926, qualcosa di più della cattedra, e cioè il proprio paese: egli fu infatti uno dei cinque professori universitari che rifiutarono di piegare il capo davanti al fascismo che, con legge 24 dicembre 1925, nr. 2300, aveva previsto la dispensa dal servizio dei pubblici dipendenti, compresi i professori universitari, i quali non dessero «piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri» o si ponessero «in condizioni di incompatibilità con le generali direttive del governo». L’altro, più famoso provvedimento che ‘sfoltì’ i ranghi dei professori universitari non allineati sarebbe stato il regio decreto legge 28 agosto 1931, nr. 1227, che impose il giuramento di fedeltà «al regime fascista». Complessivamente, tra la legge del 1925 e il decreto del 1931, l’obiezione di coscienza fu la scelta di non più di una ventina di docenti di ruolo dell’università italiana(26).

Ma le traversie di Ca’ Foscari, negli inquieti anni Venti, non finirono con la nomina a direttore di Ferruccio Truffi. Il 10 novembre 1927, infatti, questi si dimise e Ca’ Foscari fu commissariata come il governo avrebbe voluto fare fin dall’autunno 1925. Commissario fu il già preconizzato Davide Giordano, come si è visto ormai notabile veneziano di grande peso. Scorrere, del resto, l’elenco di cariche e incarichi del primo sindaco di chiare simpatie fasciste d’Italia, dà le vertigini(27). Bisogna peraltro dargli atto che, svolgendo la propria relazione sull’anno accademico 1926-1927, egli non fu evasivo (anche se soltanto per allusioni) sulle ragioni del clamoroso provvedimento contro l’antica Scuola di Luigi Luzzatti, scomparso a Roma nel marzo del 1927, a ridosso dell’onta inflitta all’Istituto da lui voluto fin dall’unificazione del Veneto. Inizialmente, Giordano usò la metafora dantesca dell’«inferma», Ca’ Foscari, che, «stanca delle cure, blande, del medico, preferisce il chirurgo». Più avanti il regio commissario fu ancora più esplicito e, rivolgendosi agli studenti, accennò senza veli alla ragione politica dell’inaudito provvedimento. Era necessario, affermò, «potare i rami sospetti» ed era «lecito segnalare che qualche potatura si imponesse, per parlare la lingua suggerita da questo tempo in cui, dopo la battaglia del grano, stiamo venendo alla battaglia degli alberi». Ca’ Foscari, secondo Giordano, aveva bisogno di smettere l’abito mentale degli «insani tumulti» e assumere quello degno di «cittadini di questa grande Italia, che si serve collo studio indefesso, studio di neofiti ma con serietà di sacerdoti», perché questa non è più l’Italia «nazione da carnovale» (il riferimento riguardava veniali, ma talvolta ignobili, comportamenti degli studenti addirittura in piazza S. Marco), ma un’Italia «rispettata perché attraverso i cieli, sullo scetticismo e lo scoramento dilagante del mondo vedonsi volare le gemine aquile di Savoia e di Roma imperiale, stringenti nell’artiglio, che non si allenta, il ritrovato e trionfale Fascio littorio»(28).

Così, Ca’ Foscari divenne «fascista». Gli studenti «disturbatori», cui erano destinate le rampogne del regio commissario, continuarono a farsi sentire, ma Giordano nel novembre 1930 li avrebbe lasciati in cortile durante l’inaugurazione dell’anno accademico 1930-1931. Di rilievo, tuttavia, furono sempre le relazioni del regio commissario, se non altro perché, con il regio decreto 1° luglio 1928, venne sancito il passaggio dell’Istituto Superiore veneziano dalle dipendenze del Ministero dell’Economia nazionale a quelle del Ministero dell’Educazione nazionale: ciò che venne annunciato sottolineando contemporaneamente che la «cura chirurgica» cominciava ad avere effetto, se «nella sessione estiva di laurea [precisava Giordano] abbiamo sentito alcuni giovani sostenere col calore e la precisione di chi sente delle tesi informate alle nuove direttive del regime»(29). E, a proposito del «nuovo abito di vita che anima l’Italia e che rende indispensabile qualche insegnamento ancora scaturito dalle nuove manifestazioni del Regime», ecco l’esordio del Diritto sindacale o corporativo (ne fu incaricato Lodovico Barassi) e, soprattutto, l’annuncio di un corso «organico» di Diritto corporativo da affidare a Piero Marsich, «che con tanta fede e sacrificio capitanò a Venezia i coraggiosi e pericolosi inizi della battaglia fascista»(30). L’anno successivo, peraltro, il regio commissario dovette comunicare, svolgendo la propria relazione sull’anno accademico 1929-1930, che l’«ardente Capitano nelle lotte del fascismo nel suo periodo iniziale ed eroico» non aveva potuto «dare inizio al corso vivamente atteso: lo spirito ardente e forte era evaso dal fragile involucro che egli aveva portato e costretto a faticose e per lui eccessive battaglie»(31). Al posto dello scomparso Marsich, aveva cominciato a insegnare a Ca’ Foscari Diritto corporativo l’avvocato Amedeo Massari.

Davide Giordano lasciò l’incarico di commissario cafoscarino tre anni dopo averlo assunto. L’Istituto era stato — diciamo così — normalizzato o, secondo le parole pronunziate da Giordano stesso il 13 novembre 1930, «lo spirito del Regime che vuole essere di severa preparazione, spirituale innanzitutto, e poi fisica, andava ormai permeando le menti dei giovani che saranno gli operosi dirigenti di domani»(32). Quanto ai docenti, se non ci furono segni di smaccata adesione al regime, certo non si avvertirono più i forti accenti di dissenso di pochi anni prima. Veniva consolidandosi, del resto, da parte del governo, una politica di modernizzazione e razionalizzazione degli istituti superiori che veniva combinata, sul piano nazionale, con quell’altra politica di irreggimentazione delle università (e delle istituzioni culturali) che troverà il suo completamento nel corso degli anni Trenta. Sarà, quello poi definito nel 1935 dalla riforma di Cesare Maria De Vecchi, un ordinamento in progress: tanti furono gli interventi necessari, nel 1924, nel 1925 e poi nel 1928 e nel 1930. Gli statuti cafoscarini avrebbero assunto sempre più caratteri uniformi e omologati rispetto a quelli degli altri istituti. Si sarebbe trattato — come ha osservato Amelio Tagliaferri —, da un lato, dell’assunzione da parte dello Stato degli stipendi ai professori di ruolo (coll’annullamento di ogni funzione degli enti fondatori) e, dall’altro, di una «sanzione», dopo una lunga e affannosa corsa con la burocrazia durata più di un trentennio, della parificazione giuridica con le università dello Stato, contro la cessione dei diritti di indipendenza e di mantenimento della formula direttiva originaria(33).

Ma la necessità della normalizzazione cafoscarina non era nata soltanto dall’ormai lontano episodio delle dimissioni di Luzzatto. Nello stesso biennio della direzione di Ferruccio Truffi anche a Venezia il dissenso politico, che il fascismo credeva ammansito, aveva continuato a covare sotto la cenere. Di qui, come, del resto, traspare dalle parole di Giordano appena nominato regio commissario cafoscarino, un ulteriore motivo per il giro di vite governativo, dato che, dopo essersi diffusa a Bologna, Milano, Genova e Torino, l’associazione Giovane Italia, malgrado l’arresto nel 1926 del suo fondatore, Francesco Fausto Nitti, mise piede anche negli ambienti intellettuali veneziani.

La scontata repressione successiva all’attentato al re alla Fiera campionaria di Milano del 12 aprile 1928 comportò vari arresti anche sulla laguna e Gino Luzzatto, che non aveva mai rifiutato di funzionare, dopo la breve vicenda del «Non Mollare» — il periodico di Salvemini ed Ernesto Rossi —, come anello di collegamento fra gli antifascisti non comunisti veneziani e quelli milanesi, fu arrestato nella notte del 13 aprile e tradotto in ceppi a Milano. Molti degli arrestati di quella notte tornarono rapidamente liberi, e tra questi lo stesso Luzzatto che raggiunse Venezia in treno e fu accolto alla stazione dal collega e amico Rigobon che, per questa sua generosa avventatezza, venne sostituito nella carica di presidente dell’Associazione Primo Lanzoni tra gli antichi studenti di Ca’ Foscari. Da quel momento, siamo nella primavera matura del 1928, si può ben dire che a Luzzatto non rimanesse che studiare, e mantenere al proprio insegnamento quel decoro che si stava dovunque perdendo nel paese completamente fascistizzato. Faceva parte di quel «decoro» non sottrarsi al dovere di mostrare nel 1932, apertamente, e pericolosamente per un sorvegliato dalla polizia, la propria solidarietà ad Armando Gavagnin, il giovane veneziano che, correttore di bozze al «Gazzettino», si era iscritto a Ca’ Foscari nel 1925-1926 divenendo intrinseco di Trentin e Luzzatto per le sue idee antifasciste e democratiche: egli sarebbe stato tra gli oppositori più conseguenti del regime, impegnato nella Resistenza, e poi amministratore comunale nel secondo dopoguerra, per una trentina d’anni, divenendo sindaco tra il 1958 e il 1959. Gavagnin era stato a lungo in carcere in seguito al processo del 1929 alla Giovane Italia. Ma faceva parte, in fondo, di quello stesso «decoro» il saper «insegnare a comprendere e ad amare la ricerca storica», e soprattutto tenere «lezioni che costituivano il fondo culturale sul quale una nuova visione dei problemi della società democratica italiana poteva essenzialmente fondarsi»: così lo ricordò un suo allievo, il giovane Ugo La Malfa, che si laureò nella sezione consolare dell’antica Scuola nel 1926(34).

Va da sé che se nell’Istituto Superiore di Ca’ Foscari un pugno di uomini liberi avevano mostrato a lungo tanta determinazione da rendere necessaria quella politica di normalizzazione e disciplinamento, ciò dipendeva anche, e soprattutto, da una situazione veneziana nella quale il nuovo regime tardò a stabilizzarsi attorno alla figura di un leader forte. D’altra parte, alla stabilizzazione del consenso nei confronti del regime non era indifferente il modo con il quale si sarebbe affrontato, e portato a soluzione, il problema della modernizzazione di Venezia. La conquista dell’egemonia sul Fascio veneziano da parte di colui il quale ne sarà espressione principe negli anni Trenta, e cioè Giuseppe Volpi, passò attraverso l’alleanza tra Marsich e Giovanni Giuriati, avviato a una grande carriera sul piano nazionale, la sconfitta di Marsich nei primi anni Venti, la contesa tra Giuriati con Iginio Maria Magrini e Giorgio Suppiej, peraltro segretario di federazione dal 1929 al 1934, e Volpi. Quel che veramente ‘normalizzò’ — e sia pure per un decennio al più — la situazione veneziana fu l’oggettivo successo dell’operazione avviata all’inizio del Novecento da Foscari e sviluppata da Volpi verso Porto Marghera: quel disegno di composizione degli elementi integrativi della realtà veneziana che si chiamò «grande Venezia».

Negli anni del regime

Gli anni Trenta hanno, dunque, a Venezia come in generale nel paese, la parvenza di anni fascisti, di un fascismo talvolta tronfio e trionfante, talaltra più semplicemente e ordinariamente molto sicuro di sé e convinto di essere divenuto un tutt’uno con la società italiana. Sul piano delle strutture produttive, urbane e civili, gli anni Trenta furono, oltretutto, quelli in cui, a Venezia, massimamente si esaltò e concretizzò, appunto, il modello di sviluppo che prende il nome da Giuseppe Volpi e che, in estrema sintesi, consistette nell’affiancare a una prima Venezia, votata a un avvenire turistico e culturale, una seconda Venezia in terraferma, commerciale e industriale, grande polo economico a valenza regionale insediato sull’orlo della laguna, unito alla città storica dal ponte translagunare aperto al traffico automobilistico nel 1933. Se, tuttavia, il modello volpiano fu il modo di essere ‘strutturale’ del fascismo a Venezia, quest’ultima, come società civile, come politica, cultura e amministrazione non sfuggì alla fascistizzazione, temperata, forse, dal fatto che a Roma si era capito che, per essere un grande centro intellettuale, a Venezia, avviata a diventare capitale del cinema, del teatro, della musica, oltreché delle arti figurative, era necessaria una certa franchigia. Volpi, con Vittorio Cini e Achille Gaggia, costituì la garanzia, per il fascismo, che la relativa ‘indipendenza’, goduta dalla città lagunare soprattutto nei mesi della Biennale e in quelli del Festival, non andasse oltre il segno(35).

Temperata o meno, la fascistizzazione della Venezia di Volpi non fu tuttavia minore di quella perseguita nelle altre importanti città italiane, e non lo fu nelle sue istituzioni scientifiche, culturali, di istruzione, e nella sua vita civile. E non fu, Venezia, meno fascista quanto alla sua vita universitaria. Riconsegnata da Giordano all’ordinaria fisiologia accademica e al nuovo direttore, Carlo Alberto Dell’Agnola, ordinario di Matematica finanziaria, in carica con il vecchio titolo dal dicembre 1930 al 15 ottobre 1934 e primo rettore cafoscarino per un anno ancora, fino al 15 novembre 1935, l’antica Scuola, per così dire ‘rinsavita’, fu convertita alla lettera e alla filosofia del regio decreto 28 novembre 1935: questo provvedimento modificò gli ordinamenti universitari e favorì il passaggio dell’Istituto Superiore veneziano dal tipo B al tipo A, ciò che significava la classificazione dell’Istituto tra le Università statali, pur riservandogli un’«autonomia» peraltro soltanto apparente. Nasce con lo statuto del 1936 la facoltà di Economia e commercio e all’Istituto viene consentito di rilasciare, oltre alla laurea scientifico-economica anche quella in Lingue e letterature moderne (dal 1938-1939 Lingue e letterature straniere), titolo necessario all’ammissione all’insegnamento corrispondente nelle scuole medie e nelle università. Oltre alle due lauree, l’Istituto conservò la possibilità di conferire ai laureati in Economia e commercio che si iscrivessero a un ulteriore anno di specializzazione il diploma di magistero in Economia e diritto e quello di magistero in Ragioneria, sostanzialmente peraltro ridotti a due corsi di perfezionamento (ma su questa ‘omologazione’ dei vecchi, gloriosi diplomi, i cafoscarini protestarono vivacemente). Il nuovo ordinamento contemplava il permesso dell’attivazione di lauree anche in Scienze statistiche e demografiche e in Scienze statistiche e attuariali, da conseguirsi in un biennio dalla laurea, e di un diploma biennale in Statistica. Ma ciò non ebbe seguito.

Anche le strutture scientifiche e didattiche di Ca’ Foscari assunsero con la riforma De Vecchi una fisionomia moderna e razionale. Seminari e laboratori, dotati di materiale scientifico e degli indispensabili sussidi bibliografici, trovarono nella Biblioteca generale dell’Istituto, particolarmente ricca data la sua ‘anzianità di servizio’ (quasi settant’anni) e i doni e le acquisizioni susseguitisi nel tempo (tra cui la biblioteca di Antonio Fradeletto e quella di ancor maggiore pregio di Francesco Ferrara), l’aiuto migliore. Nacque, allora, 1936, anche la collana di edizioni «Ca’ Foscari», che si arricchì ben presto di volumi importanti in materia giuridica, tecnica, attuariale e linguistica. Nello stesso 1936, venne sollevato peraltro, nel modo più deciso, il tema dei restauri, e ve n’è traccia precisa nella relazione per l’inaugurazione dell’anno accademico pronunciata da Agostino Lanzillo, professore di Economia generale e corporativa dal 1934, in carica come prorettore dal novembre 1935 al novembre 1937 e come rettore nei due anni successivi(36). Alla presenza di Ferdinando di Savoia, duca di Genova (un habitué delle inaugurazioni cafoscarine), di Giuseppe Bottai, fresco ministro dell’Educazione nazionale, «soldato della Grande guerra, della Rivoluzione e della Guerra d’Africa», e di una «coorte» di magnifici rettori delle Università italiane, in quell’occasione fu reso l’onore delle armi a Dell’Agnola, che sarebbe tornato a fare il rettore tre anni dopo e che per primo si era mosso nel senso dell’ampliamento della sede storica nell’edificio di calle Larga Foscari, lo stabile di proprietà comunale il cui prospetto si deve a Brenno del Giudice (costruttore di diversi padiglioni stranieri nei Giardini della Biennale) e dove furono installati il laboratorio di Merceologia e nel 1937 la Biblioteca dell’Istituto, che vi rimase fino al 1943, quando venne trasferita a Ca’ Giustinian dei Vescovi per far posto alla mensa.

Lanzillo si poteva fregiare allora per la prima volta del titolo di «magnifico» e presentò la questione dell’impellente necessità di restaurare il glorioso palazzo Foscari. Il vecchio edificio, per quanto — secondo il rettore — «robusto nella sua fondamentale struttura che sfida da circa sei secoli il logorio del tempo e le violenze della natura», sopportava un «eccessivo peso di libri», non si prestava a installare laboratori, mancava di aule moderne e uffici ben ordinati e, soprattutto, non possedeva un’aula magna. Di qui, l’esigenza del «compimento di una radicale opera di riforma, necessaria per portare l’Istituto a livello delle sue tradizioni e per adattarlo alle esigenze di un moderno Ateneo». L’operazione, condotta celermente in porto dall’amministrazione cafoscarina grazie all’efficienza burocratica del regime dittatoriale, fu però resa possibile anzitutto dal fatto che il Comune di Venezia, proprietario del palazzo, si assunse il carico delle opere di natura statica e di manutenzione straordinaria, nonché di quelle accessorie (per esempio i servizi di riscaldamento), lasciando all’Istituto soltanto l’onere della sistemazione interna. Del milione che complessivamente servì, l’Istituto spese 700.000 lire. Ma, in effetti, all’operazione concorsero anche altri fattori, questa volta umani. Il primo di essi fu il giovanissimo Carlo Scarpa, che portò nella sua azione un intuito finissimo e il senso sagace delle proporzioni e degli scopi che lo resero poi uno dei più importanti architetti del Novecento italiano. Scarpa lavorò al portico terreno e nell’aula magna del secondo piano (e ritornò sui suoi passi vent’anni dopo, e più avanti ancora in altri edifici dell’Ateneo veneziano e dell’Istituto Universitario di Architettura). Nella nuova aula magna, per precisa volontà di Lanzillo, Mario Sironi, «lottatore delle prime battaglie fasciste in Via Paolo da Cannobio» e tipica espressione artistica del tempo, dipinse l’affresco che vi campeggiò «facendo dire a queste mura una parola degna». Ma «opera di scienza e di coraggio» Lanzillo definì anche l’affresco di Mario De Luigi, al primo piano del palazzo(37).

Così, nel corso degli anni Trenta, anche Ca’ Foscari concorse a segnare di linee architettoniche dell’epoca (e di richiami simbolici alla sua natura) una Venezia che non rinunciò allora a farsi novecentesca, e non soltanto nelle iniziative culturali. D’altra parte, la fascistizzazione di Ca’ Foscari naturalmente procedette soprattutto per le vie dell’insegnamento, ma anche attraverso conferenze dei responsabili degli enti economici del regime, di assemblee dei G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti): dell’anno accademico 1934-1935 è la novità rappresentata dall’adozione, imposta con circolare, di un preciso rituale integrato nelle forme delle manifestazioni fasciste per l’inaugurazione dell’anno accademico (relazione del rettore, quella del segretario dei G.U.F., prolusione del professore prescelto, manifestazione militare di chiusura, iniziative della Scuola sindacale, corsi speciali di «legislazione costituzionale fascista», e simili)(38). Certo, la fascistizzazione non riguardò tutti, professori e studenti, allo stesso modo.

Non aveva perso, tra gli altri, il senso del «decoro» Gino Luzzatto, la cui «ufficialità» rimase legata al suo quieto, non monotono andare e venire tra Ca’ Foscari e l’Archivio dei Frari, la Marciana e la sua casa in corte S. Zorzi, dietro campo S. Gallo, a un passo dal bacino Orseolo, e che giurò infine nel 1931 «fedeltà al regime», come Calamandrei, Omodeo, De Ruggiero, Chabod, Einaudi, Marchesi, Solari, Jemolo, Calogero. Ma che continuò ad aprire la sua casa a quanti studiosi passassero per Venezia, trasformandola quasi naturalmente in un centro di corrispondenza con fuorusciti, di visite di oppositori del regime, di incontri di redattori o collaboratori della «Nuova Rivista Storica», fondata nel 1917 da Corrado Barbagallo e in quegli anni diretta, appunto, da Luzzatto. Un lavoro a mezzo tra l’ufficiale e il discreto, se non il clandestino, certo noto alle autorità, politiche e universitarie: non pericoloso in sé per la stabilità del regime, e tuttavia quasi un «fuoco sotto la cenere» che non si estinse(39).

L’ufficialità istituzionale cafoscarina non andò peraltro, dal canto suo, per il sottile, tanto che Lanzillo poté affermare, inaugurando l’anno accademico 1937-1938 dell’Istituto che stava entrando nel suo settantesimo anno di vita, che, «mentre il mondo è inquieto e l’Oriente che fu di Venezia era percorso da profonde scosse», a lui «piaceva immaginare che in quest’ora fremessero nei loro avelli, con gli antichi Imperatori di Roma, i grandi Dogi di Venezia, come per incoraggiare e rafforzare l’erculeo sforzo del Capo che in Roma tesseva la grande tela e da Roma dirigeva l’Italia nella sua sicura e inarrestabile ascensione»(40).

Il tempo volgeva, peraltro, alla tragedia anche per Ca’ Foscari. Così Lanzillo, inaugurando l’anno accademico 1938-1939, abbassò il tono e rubricò come «notevoli variazioni nel Corpo insegnante cafoscarino» la messa a riposo di ufficio, disposta in base ai provvedimenti legislativi sulla politica della razza dell’autunno 1938, di Gino Luzzatto e di Adolfo Ravà, professore incaricato di Istituzioni di diritto privato, e la revoca della libera docenza di Diritto marittimo a Gustavo Sarfatti. La superiore serenità di Luzzatto in quel frangente è testimoniata dalla scelta che lo stesso professore di Storia economica fece per la propria sostituzione: egli suggerì a Lanzillo il giovane professore dell’Istituto di scienze economiche del Sacro Cuore Amintore Fanfani, e a quest’ultimo, nello studio di casa propria, diede accorate indicazioni sul modo di impostare l’insegnamento cafoscarino(41).

Mentre fatti straordinari accadevano, l’ordinaria vita dell’Istituto veneziano, che divenne «universitario» in forza del regio decreto 4 aprile 1940, nr. 196, registrava nello scorcio degli anni Trenta anche il ricordo dei primi cafoscarini caduti in guerra: tra questi, Carlo Alberto Dell’Agnola, di nuovo rettore tra ottobre 1939 e ottobre 1941, annoverava «il Dottor Arcangelo Lino Balbo, federale di Ferrara, già studente dell’antica Scuola» e che altri non era che il nipote di Italo Balbo, con quest’ultimo ucciso dal fuoco della stessa contraerea italiana nel cielo di Tobruch, il 28 giugno 1940. L’Italia era entrata nella seconda guerra mondiale diciotto giorni prima. Da questo momento nulla fu più come prima, neppure per la Ca’ Foscari fascistizzata degli anni Trenta.

Guerra, vergogna e riscatto

Ca’ Foscari fu una delle poche istituzioni universitarie italiane che continuarono a operare senza soluzione di continuità per tutto il tempo del conflitto e in quello dell’occupazione tedesca e della lotta partigiana. Ma, se i bombardamenti e le operazioni militari avevano risparmiato la città storica, e dunque anche gli edifici dell’Istituto Universitario erano rimasti intatti, la sua vita interna era stata, inevitabilmente, sconvolta(42).

Tuttavia, anche le vicende di quegli anni, lunghi, dolorosi e, infine, tragici, si inseriscono in una trama di lungo periodo, e per quanto si sia indotti a vedere nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 due momenti di rottura decisa di molti dei fili della continuità civile, per non parlare di quella delle istituzioni, purtuttavia il tessuto complessivo mantenne una solidità di fondo. Questa tenuta fu favorita a Ca’ Foscari dall’assunzione del rettorato da parte di professori di ormai radicata presenza: tra il 1941 e il 1942 Gino Zappa, il successore ed erede di Besta e, successivamente, Alfonso de Pietri-Tonelli, professore di Politica economica, peraltro, in precedenza, attivissimo in iniziative scientifiche guardate con simpatia dalle gerarchie politiche veneziane (si pensi al volume I diagrammi della politica economica del Fascismo usciti nella collana «Ca’ Foscari» nel 1937) e vero e proprio punto di riferimento interno per gli studenti data la particolarità della sua disciplina. Nel corso degli anni Trenta, del resto, il ‘ricambio’ dei docenti non si era arrestato. Vecchi professori cafoscarini di primo piano come Francesco Truffi avevano concluso la loro vicenda universitaria o erano scomparsi, come il direttore del passaggio tra Grande guerra e primo dopoguerra, Luigi Armanni, che cessò di vivere il 5 ottobre 1938. Professori destinati a grande futuro entrarono a Ca’ Foscari negli stessi anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale: si pensi soltanto a Ezio Vanoni, professore di Scienze delle finanze e Diritto finanziario, che divenne ordinario nel 1939. Molta attenzione, d’altra parte, aveva messo Ca’ Foscari nella scelta dei professori incaricati, e molti bei nomi dal grande futuro si ritrovarono nei diversi settori dell’Istituto, che dal 1935 ebbe davvero due anime: quella antica, le Scienze economiche, e quella, uscita progressivamente dal bozzolo della Filologia, e cioè lo studio delle Lingue e letterature.

Seguire attraverso le pagine dei suoi Annuari le molteplici scelte compiute dall’amministrazione dà il senso pieno della vitalità scientifica e culturale di Ca’ Foscari, ma anche più in generale di quel che si definisce in genere l’«accademia» per intendere il mondo degli studi di una nazione. Tutto ciò non significa che Ca’ Foscari, dopo il rettorato decisionista e magniloquente di Agostino Lanzillo, fosse diventata meno «fascista». Basti pensare al fatto che, come in altri atenei italiani, negli anni accademici 1941-1942 e 1942-1943, la stessa tradizionale inaugurazione di Ca’ Foscari era stata sostituita da una cerimonia militare, o dal conferimento della laurea ad honorem alla memoria degli studenti. E a quell’altro fatto, che si inseriva, però, in una linea che aveva vari precedenti, del ‘travaso’ di professori o di esponenti cafoscarini nelle istituzioni culturali della città, in particolare all’Ateneo Veneto, del quale divennero presidenti, alla vigilia del conflitto mondiale, l’ex regio commissario dell’antica Scuola, Davide Giordano fra il 1938 e il 1942(43) e più tardi Carlo Alberto Dell’Agnola, dal 1942 fino al maggio 1945: ancora nel 1944, quest’ultimo non mancava di inneggiare alla «fede nei destini della patria», idealmente e praticamente, realizzando una sorta di integrazione tra Ca’ Foscari e la cultura veneziana fascistizzata e fascistizzante.

Quanto agli anni tragici dell’occupazione tedesca e di Salò, basti pensare al carattere di «capitale culturale» che assunse Venezia, in un Veneto stravolto in «terra di frontiera» e centro amministrativo della Repubblica Sociale Italiana, come è stato ben documentato: e, tuttavia, Ca’ Foscari come tale non venne toccata(44). E basti pensare, forse ancor di più, alle velleitarie novità del potere fascista negli anni della stessa Repubblica Sociale Italiana(45). O, infine, ai «sommovimenti» della società civile veneziana nel travaglio della Resistenza: quello della città della laguna non fu, certo, legato ai suoi istituti universitari, e — dunque — neanche a Ca’ Foscari, come poté accadere invece all’Università degli Studi di Padova. Forse è un esercizio inutile di riflessione critica la ricerca delle cause di tutto ciò. Resta il fatto che, benché essa fosse stata toccata dalle manifestazioni a favore o contro l’intervento nel 1915, e soprattutto, benché essa fosse stata straordinariamente permeata di spirito antifascista nel primo dopoguerra, e ben dentro, come s’è detto, agli anni Venti — per questo, «inquieti» —, viceversa Ca’ Foscari non fu «centro» di antifascismo e di Resistenza(46). Qualche segno in questa direzione era, bensì, venuto quasi allo spirare dei quarantacinque giorni badogliani, il 1° settembre 1943, quando il consiglio della facoltà di Economia e commercio e l’annessa sezione di lingue e letterature straniere avevano approvato un ordine del giorno «sulla condizione dei professori allontanati dall’Università a seguito di provvedimenti polizieschi», documento in cui ci si «compiaceva per il ritorno alla libertà di insegnamento e per la restituzione alle Facoltà dei diritti di nomina dei quali erano state private» e si faceva voto «per la piena reintegrazione dei professori che perdettero la cattedra per ragioni politiche o razziali», con ciò riferendosi a Gino Luzzatto e a Silvio Trentin, che sarebbe tornato pochi giorni dopo dall’esilio volontario in terra di Francia, durato diciassette anni. La bella e amara risposta di Luzzatto — ci sono «poche speranze che l’accettazione possa essere immediata o, forse, nemmeno molto prossima» — non pare soltanto una manifestazione di scetticismo nei confronti di ciò che sarebbe potuto accadere, ma anche di quel che poteva davvero essere mutato in chi guidava Ca’ Foscari(47).

Il riscatto, per quest’ultima, ebbe ancora il nome di Gino Luzzatto. Nel dare la notizia dell’unanime elezione del professore di Storia economica a rettore avvenuta il 6 luglio 1945, il «Corriere Veneto» di due giorni dopo affermò, infatti, che «tornava con Gino Luzzatto il Maestro, Maestro di scienza, di rettitudine, di bontà: egli chiude una lunga parentesi oscura nel nostro massimo istituto di cultura, nel quale riporta la luce della sua intemerata fiducia». A Italo Siciliano, che aveva retto provvisoriamente Ca’ Foscari nel maggio e nel giugno precedenti, si sostituiva, dunque, con un solenne atto di riparazione, lo stesso studioso che nel 1925 il nascente regime fascista aveva estromesso dalla carica di direttore e il docente che le leggi razziali nel 1938 avevano rapito ai suoi allievi. Luzzatto aveva, allora, sessantasette anni: gliene mancavano, dunque, otto per concludere il suo lavoro universitario, e li avrebbe trascorsi tutti da rettore(48). Sono largamente note, e assai indicative, le relazioni di Luzzatto per l’inaugurazione degli anni accademici 1945-1946, 1946-1947 e 1947-1948(49). Ma va da sé che, per ciò che riguarda la ripresa cafoscarina dopo la vergogna italiana ed europea dei decenni tra le due guerre, è soprattutto il primo di questi tre discorsi che occorre richiamare (come, del resto, conservano il loro peso quelli dell’inaugurazione degli anni accademici successivi al 1948, sui quali si tornerà in seguito).

Cominciò, Luzzatto, quel 10 novembre del 1945, giustificandosi: non poteva infatti conferire lauree ad honorem a studenti caduti, come era stato fatto invece — lo si è ricordato sopra — nel 1941 e 1942: dall’8 settembre 1943 — spiegava il rettore — le cose erano cambiate al punto che non si poteva fare come nulla fosse accaduto. Agli studenti «caduti in guerra» che si erano potuti commemorare nelle due occasioni accennate s’aggiungevano ora gli studenti «caduti per causa della guerra» e quelli «morti nelle lotte combattutesi in alta Italia nel periodo dell’occupazione tedesca oppure nei campi di concentramento in Germania». Si sarebbe trattato di un elenco troppo lungo, ancora incompleto, da pubblicare più avanti, «a tempo migliore». Ma «soprattutto [aggiunse Luzzatto, alzando il tono del discorso] mi ha indotto a questo silenzio doloroso una considerazione assai più grave. Per venti mesi, dal settembre 1943 all’aprile 1945, l’Italia settentrionale è vissuta in un clima di guerra civile, che purtroppo è andata facendosi di mese in mese più atroce. A pochi mesi di distanza dalla fine di questa guerra, mentre molte ferite sono ancora aperte e gli odi non sono ancora sopiti, il porre assieme, sopra una stessa linea, i caduti dell’una e dell’altra parte, suonerebbe offesa alla memoria di chi si è immolato per la causa della libertà ed ai sopravvissuti che sono ancora doloranti per le vessazioni e le torture subite». Meglio, dunque, limitarsi a ricordare i nomi degli studenti caduti nella guerra partigiana, almeno di quelli già noti allora, meglio commuoversi a ricordare Massenzio Masia, laureato a Ca’ Foscari nel 1930, antifascista precoce, tra i primi militanti del Partito d’Azione, membro del Comitato bolognese di Liberazione Nazionale, ucciso in modo efferato dopo che un agente provocatore aveva fatto arrestare tutti i membri del Comitato. Meglio, infine, ricordare i docenti scomparsi tra il 1942 e il 1945, e tra essi dedicare particolare segnalazione, oltre a Silvio Trentin (al quale il pensiero di Luzzatto era andato per primo il giorno dell’elezione a rettore), a Ernesto Cesare Longobardi, l’indimenticato collega di Lingua e letteratura inglese, e a Olga Secretant Blumenthal, lettrice di tedesco, deportata a settant’anni e morta prima che il viaggio verso la notte, decretato per motivi razziali, si compisse. Giusto, infine, dedicare un pensiero grato a quell’Adriano Diena che, in qualità di presidente del consiglio di amministrazione, aveva solidarizzato con lui nel 1925, all’epoca della sua destituzione da direttore pretesa dai fascisti.

Bisogna riconoscere che non era facile, in quei giorni, questa superiore compostezza, questa capacità di distinguere nettamente le due posizioni nella guerra civile, quella di chi era stato coi fascisti e quella di chi era stato coi partigiani, e soprattutto attribuire a esse il dovuto significato, rinunciando però, con senso preciso di una storia pur così recente, a far risaltare i meriti di coloro che avevano lottato per la libertà: salvo a render loro omaggio, ricordandoli per nome, ma senza più quelle lauree ad honorem degli anni di guerra che avevano potuto esser consegnate senza distinguere tra i morti. Distinguere, discriminare i morti non corrispondeva alla suprema lezione dei principi di civiltà su cui riposava la concezione della storia dell’umanità propria di Luzzatto, eppure era misura necessaria in un tempo tragicamente lontano da altre epoche, che pure nella sua già così lunga vita lo stesso Luzzatto non poteva ricordare olimpiche e serene. Davvero sarebbe stato difficile, e neppure giusto, dimenticare. Né Luzzatto lo fece, ma si capisce che, per lui, quanto prima fosse stato possibile ricomporre uno spirito di pace, pur nella lucida e netta visione delle cose accadute, meglio sarebbe stato per tutti. Si può avvertire, in tutto ciò, un gran desiderio di poter pronunciare il proprio heri dicebamus ma, insieme, una gran consapevolezza che ciò non sarebbe stato possibile senza una misura e una nobiltà che non potevano essere di tutti.

In questo spirito, dopo la cerimonia di apertura dell’anno accademico 1946-1947, l’11 novembre 1946, Gino Luzzatto inaugurò il Sacrario ai caduti in guerra e nella lotta partigiana, uno spazio architettonico ricavato nel cortiletto interno di Ca’ Giustinian dei Vescovi, il palazzo contiguo a Ca’ Foscari, che sarebbe rimasto aperto e raggiungibile indifferentemente dall’atrio di Ca’ Foscari e da quello di Ca’ Giustinian fino alla prima metà degli anni Settanta. Il perno del Sacrario era una statua, commissionata fin dal 1942 allo scultore Napoleone Martinuzzi. Poi, le cose erano andate assai diversamente da come erano state pensate. Martinuzzi, sulla base di un concetto di «spazio della memoria» già sperimentato precedentemente in altre opere monumentali (si pensi al sacello del Vittoriale a Gardone o al monumento ai caduti di Murano), aveva chiuso la parete sud del cortiletto con un balcone poggiato su colonne: sulla parete e sugli spazi immediatamente adiacenti erano state affisse una lapide con iscrizione commemorativa e lapidi in cui erano stati incisi i nomi di docenti e studenti dell’Istituto caduti «in guerra e nella lotta partigiana». I nomi sono compresi in quattro elenchi: la prima guerra mondiale, la guerra d’Africa, la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale. Quest’ultimo elenco risulta costruito in progressione: sono almeno quattro le serie di blocchi nominativi aggiunti a mano a mano che pervenivano le notizie di coloro che erano morti.

Al centro del cortiletto era stata collocata una vasca di raccolta d’acqua, in cui era stato immerso il basamento di sostegno di una statua in marmo raffigurante il personaggio mitico di Niobe, madre di molti figli che vennero uccisi. Trasformata in sasso dal dolore e trasportata dagli dei su un monte, Niobe non cessò mai di piangere i propri figli. Il basamento della statua di Martinuzzi nascondeva uno zampillo d’acqua che manteneva la vasca di raccolta piena delle ‘lacrime’ di Niobe. La figura rappresentata dalla statua, semireclinata, era orientata verso la parete ovest del cortiletto, ma la torsione impressa al suo corpo, rivolto all’opposto della parete in cui erano state affisse le lapidi con le iscrizioni dei nomi dei caduti, e il movimento delle braccia a copertura del volto e degli occhi indicavano il dolore della madre, Niobe, raffigurazione simbolica dell’Istituto(50).

In quel giorno di novembre del 1946, con l’inaugurazione del Sacrario, Luzzatto volle con forza richiamare tutti al ricordo di quel che era stato, nella speranza che non si ripetesse.

Verso più ampi orizzonti

Il ritorno di Gino Luzzatto (1945-1953)

Il motivo dominante del rettorato di Luzzatto fu certamente lo sforzo del cafoscarino degli anni ‘buoni’: nella sua memoria, abbastanza singolarmente, i traumi del passato, che pure non si allontanavano, tuttavia venivano efficacemente contrastati dal desiderio di fare, e in ogni caso dall’esigenza morale della «rinascita» di una «scuola di prim’ordine, fucina di alta cultura, esempio di libertà, di disciplina spontanea e di coordinamento di forze». Fu lo sforzo di recuperare tutto ciò che le avversità avevano fatto perdere alla «tradizione», soprattutto per quel che riguardava la «buona scelta dei docenti, il loro alto valore scientifico, la loro serietà e la loro totale dedizione alla scuola» e «la collaborazione del ceto studentesco», alle richieste del quale «porgere orecchio attento e benevolo» gli pareva un dovere(51). La preoccupazione da cui muove il ragionamento di Luzzatto nei primi tempi del suo rettorato è la «mostruosità» del numero degli studenti: un fenomeno, quello del «gigantismo universitario, che da solo segnava per il Rettore la fine di una storia universitaria veneziana intesa separatamente da quella del complesso dell’istituzione superiore italiana»(52). Denunciando non tanto il «picco» del 1942-1943 (circa 12.000 iscritti), quanto l’andamento nel corso degli anni, sia pure di guerra — 8.000 gli studenti del 1946, dei quali 6.000 a Lingue e letterature straniere, 1.700 a «Commercio», un centinaio nei corsi di perfezionamento — Luzzatto esplicitamente affermava che un numero alto di studenti «costituisce assai più un peso che un vantaggio per un istituto che voglia funzionare seriamente e regolarmente»(53). Di qui, la sua manifesta preferenza per il «rigore valutativo» piuttosto che per il lasciare correre, la politica a suo dire demagogica che, restando al più antico seminato universitario cafoscarino, faceva sì che in molte città i commercialisti stessero superando in quantità gli stessi avvocati.

Per raggiungere lo scopo di mantenere l’Istituto a quell’altezza alla quale a Luzzatto, da un quarto di secolo ormai, Ca’ Foscari sembrava destinata, il rettore pensava che, in ogni caso, il mezzo più efficace fosse quello di assicurare forze nuove e sempre migliori al corpo insegnante. L’attenzione che egli mise in questa direzione in quegli anni è ben documentata. Non si trattava, infatti, solo di garantire la chiamata di professori ordinari di valore, in grado di non far rimpiangere quanti progressivamente andavano fuori dai ruoli e poi in pensione, ma anche di gestire la partita degli incarichi, ricorrendo a studiosi di qualità, di prospettare per essi, nei limiti del possibile, lo sbocco concorsuale necessario, e di curare un avveduto ricambio generazionale attraverso i concorsi per assistenti.

Anche questa politica, tuttavia, non era sufficiente. Si pensi ad esempio all’aumento degli appelli, che il Ministero della Pubblica istruzione (nel 1946 era a capo di scuola e università Guido Gonella) concesse, e che fece temere a Luzzatto che il suo Ateneo diventasse — come si sarebbe detto più tardi — un «esamificio». Eppure Luzzatto non smise mai di insistere sul punto di un’università — la sua, ma il discorso valeva per tutto il sistema — di qualità, nella quale la «rarefazione degli iscritti» si sarebbe tradotta in un vantaggio sensibile per l’efficacia e la severità degli studi. A Luzzatto non sfuggiva, comunque, che la diminuzione degli iscritti avrebbe comportato un aumento delle tasse, che puntualmente fu deciso. «Far morire la ricerca scientifica, far precipitare la cultura al livello in cui erano, fino a qualche anno fa, le repubbliche del Sud America» non gli pareva, in ogni caso, un rischio da correre(54). Del resto, il salveminiano «concretismo» che andava dimostrando in qualità di assessore alle finanze della prima giunta comunale veneziana elettiva, quella guidata dal sindaco comunista Giobatta Gianquinto(55), ispirava anche le proposte migliorative del Luzzatto rettore. Egli pensava all’istituzione di collegi universitari, sull’esempio della Scuola Normale Superiore di Pisa e dei Collegi «Ghisleri» e «Borromeo» di Pavia. Su questo tema Luzzatto tornò costantemente, nel corso degli otto anni di rettorato. Si considerino, per esempio, gli argomenti che usò il 14 novembre 1951 per rinnovare la propria proposta di «collegi universitari»: non una semplice «casa dello studente», come appunto la «piccola casa dello studente» dello stabile dei Pompieri, i cui lavori di sistemazione erano stati ultimati alla fine del 1945, ma un vero collegio dove gli studenti potessero «fare vita in comune», grazie alla disposizione di «sale di studio» e all’offerta di «alcuni insegnamenti complementari» impartiti «nelle aule universitarie»(56). In realtà, Luzzatto, spirito assai pratico, possedeva un preciso progetto per il «suo» collegio, e lo collegava all’imminente disponibilità del piano nobile di Ca’ Giustinian dei Vescovi, del quale l’Istituto si serviva — come si è avuto occasione di dire — per la Biblioteca generale. A quel punto, sarebbe stato possibile destinare al collegio tutti i locali cafoscarini dell’edificio dei Pompieri per destinarne la parte maggiore all’alloggio di una cinquantina di studenti, e alcuni locali a sala di ritrovo e di studio, nei quali si sarebbero potute tenere le lezioni.

Da storico qual era, Luzzatto seppe, nei momenti pubblici, definire da sé un bilancio del suo rettorato. I suoi sforzi costanti, rivendicati naturalmente anche verso la fine dell’ultimo mandato, il 15 novembre 1952, erano stati rivolti a evitare che Ca’ Foscari subisse nuovi danni e andasse incontro alla minaccia di una grave decadenza(57). E, contando su un anno ancora di lavoro, egli mantenne la stessa serena fiducia nel futuro per tutto ciò che aveva potuto fare.

Questa serenità cordiale, la stessa serenità che gli consentì di non incontrare ostacoli né con il personale docente o con quello amministrativo, né con gli studenti, potrebbe essere considerata come manifestazione di uno spirito debole in un ambiente, come quello universitario, tradizionalmente conflittuale. In realtà, Luzzatto possedeva una superiorità morale che gli consentì, come del resto gli accadde in Comune, in anni che, anche dal punto di vista della città, non poterono essere facili, di superare molte difficoltà, dando l’impressione di una levità che lo guidava anche nelle non facili analisi di quello che si sarebbe chiamato sempre più il «problema di Venezia». Alle origini di esso, in quegli anni Cinquanta, Luzzatto si confermò, un paio d’anni dopo aver lasciato l’Università per aver compiuto i settantacinque anni d’età (e tre prima di lasciare il Comune), un punto di riferimento culturale importante.

Aprendo nel novembre 1955 il convegno per il retroterra veneziano indetto dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, infatti, egli parlò di una «più grande Venezia», che occorreva risolutamente e coraggiosamente proporsi come obiettivo concreto da raggiungere. Contro i preconcetti dei tradizionalisti, dominanti in larghissimi e diversi strati dell’opinione pubblica veneziana, Luzzatto svolgeva un’ipotesi razionale. Da un lato — diceva — era essenziale «la salvaguardia di un patrimonio unico al mondo, della cui decadenza noi saremmo universalmente considerati come i massimi e meno giustificati responsabili»; dall’altro, «bisognava dar luogo al rapido completamento dell’attrezzatura del nuovo centro urbano, in modo da permettere a quest’ultimo di raggiungere in pochi anni quella che è la funzione assegnatagli dalla sua posizione, di diventare cioè il massimo centro commerciale della regione»(58).

La stessa serenità cordiale con la quale resse Ca’ Foscari e fece l’amministratore comunale, e non solo, nei vent’anni che il destino gli aveva assicurato per il dopoguerra, fu messa da Luzzatto nella riflessione sulla situazione politica e civile del mondo, cui egli non mancò mai di dedicarsi nel corso di ogni sua inaugurazione dell’anno accademico. Si tratta, in genere, di considerazioni brevi. Quella che mi pare riassumere meglio lo spirito dell’uomo che seppe incarnare la parte più alta della storia di più di trent’anni di Ca’ Foscari, tra le due guerre e oltre, e che seppe reagire con eccezionale prontezza d’animo agli insulti della violenza fascista e dell’umiliazione razziale, apriva la sua quarta relazione da rettore, il 18 novembre 1948:

mentre ci auguriamo che si trovi la via di un accordo e che ci sia risparmiata l’estrema rovina, il più efficace mezzo con cui noi, docenti e discepoli, possiamo collaborare all’indispensabile opera di distensione e di riavvicinamento fra i popoli, è quello di continuare tranquillamente il nostro lavoro, senza lasciarsi distrarre da preoccupazioni inutili, che avrebbero il solo effetto di paralizzare ogni spirito d’iniziativa, ogni volontà di nuove ascese e di nuove conquiste nel campo della cultura, terreno naturale di accordi e convenzioni intese a ravvivare la collaborazione intellettuale tra i popoli(59).

Il rettorato di Italo Siciliano (1953-1971)

Uno stile controllato — gesti, portamento, linguaggio, retorica del discorso — caratterizza, con evidenza per dir così palmare, il rettorato di Italo Siciliano, che resse sulle spalle, tra 1953 e 1971, l’ermellino di rettore di Ca’ Foscari per diciott’anni, secondo per durata soltanto a Francesco Ferrara. La lunghezza del proprio ‘governo’ gli consentì presto di essere considerato il secondo fondatore dell’Università veneziana, il fondatore «culturale» o, se si vuole lasciarsi prendere per un attimo dai tratti ‘mitici’ che l’uomo stesso costruì volutamente nel suo operare, quasi presago del possibile oblio, lui così scaltrito conoscitore di opere della letteratura europea, in particolare di quella francese, «il don Chisciotte che andava cercando piaghe e busse»(60).

La consapevolezza d’esser, con il suo rettorato, il riformatore dell’Ateneo, nel lungo suo agitarsi nell’universo universitario cafoscarino e italiano, si manifestò presto sin dall’assunzione della responsabilità, e si conservò fino alla conclusione di un ufficio da sempre agognato e che abbandonò con un sentimento di rabbiosa riluttanza. Questa consapevolezza fu avvertita spesso da parte dei suoi colleghi e dagli studenti che gli furono allievi, ma negli anni di fine Sessanta anche contestatori, loro malgrado affascinati. In materia di cose da fare, lui che, grande letterato, non era un poeta (o lo era guardando all’etimo della parola), insistette sempre sull’urgenza e il rapido agire, e si potrebbe persino scegliere lo spunto a caso. Il 20 gennaio 1966, per dirne soltanto una, sentendo nell’aria che qualcosa andava mutando, osservò che «talvolta ci fermiamo a parlare di venerandi costumi e tradizioni a giovani che guardano dall’altra parte, e che vorremmo come noi fummo ed essi non possono essere, e intanto tutto cambia, nel tempo, nel costume, nelle cosiddette strutture, nei metodi, nelle stesse persone fisiche»: anche Ca’ Foscari, «pur restando fedele alle sue tradizioni, non è quella di cinquanta o di dieci anni fa», riconosce in questa occasione Siciliano, concludendo con lungimiranza che dunque essa «più che al passato deve guardare e provvedere al suo domani»(61).

Al «domani», al futuro di Ca’ Foscari, Siciliano cominciò a pensare, e ad agire in conseguenza, pressoché da subito, e con piglio pratico. Lo si vede, quest’ultimo, persino nei ricordi dei professori appena scomparsi e di quelli andati in pensione. Successe il 30 novembre 1953, quando il rettore annunciò che, meno di un anno prima, Alfonso de Pietri-Tonelli era pervenuto, nella sua Carpi, all’ultima pagina del «libro della sua vita mortale». Siciliano non menzionò soltanto, com’era consuetudine accademica molto praticata, l’attività di docente e ricercatore del professore di Politica economica da poco scomparso, ma insistette su ciò che lui aveva creato, il servizio e il bollettino di studi economici (allora diretto dal successore, Giulio La Volpe) e su ciò che aveva fondato, la foresteria (la «piccola casa» per studenti e professori) nell’edificio dei Pompieri, ottenuto dal rettore Dell’Agnola negli anni appena precedenti la seconda guerra mondiale. Nella stessa occasione, Siciliano elogiò Luzzatto, «il signore del tempo e il nemico della tirannide», che pure non aveva potuto sottrarsi alla tirannia dello stato civile e che, insomma, non aveva potuto evitare il pensionamento. Anche del suo predecessore menzionò, oltreché i meriti scientifici e didattici, l’attività pratica e le difficoltà incontrate nel percorso a ostacoli che egli era stato costretto a superare o a eludere nell’immediato dopoguerra, a Ca’ Foscari e a Venezia. Tra le altre cose che gli riconobbe vi era «l’aver ripreso e condotto nelle vicinanze del porto l’annosa questione della Facoltà di Lingue e letterature straniere»(62).

E della nascita di quest’ultima, nel 1954, il nuovo rettore poté dare ufficiale notizia il 1° marzo 1955. Era stata, s’è detto, un’annosa e travagliata questione. Certo, erano passati quindici anni da quando «con sfortunata e mal ricompensata tenacia era stato chiesto ciò che finalmente era fatto compiuto». Era la prima facoltà di Lingue e letterature straniere che nascesse in Italia, e a Siciliano, ma in genere a tutti coloro che, tra studiosi e professori, vi gravitavano attorno, sembrava che non potesse essere che l’«unica». Forse, il domani dell’università di massa era davvero ancora lontano anche dalle menti delle personalità di maggior rilievo(63). Ma, in quel momento, prevaleva, sopra ogni altra cosa, la soddisfazione che gli organi competenti — come sempre, in Italia, l’intera gerarchia statuale ai massimi livelli di settore — avessero riconosciuto l’alto livello della — così la si rappresentava — gloriosa Ca’ Foscari, introducendo un elemento di razionalità negli studi veneziani.

Comincia, poi, con il rettorato di Siciliano, un’attenzione particolare anche per le attività sportive degli studenti cafoscarini, precedentemente ‘segnate’ dal fascismo e, nel dopoguerra immediato, ancora soltanto embrionali. I cafoscarini, oltretutto, stampavano allora un giornale, «La Gazzetta di Ca’ Foscari», che discuteva temi di economia, d’arte, di letteratura e di vita goliardica. Essi, poi, davano vita ad uno dei primi teatri universitari in Italia, un teatro che era povero di mezzi ma ricco di entusiasmi e, soprattutto, della cultura e della passione di Giovanni Poli, che aveva già riscosso, all’estero e in Italia, unanimi, calorosi elogi per la dignità del repertorio e degli orientamenti estetici(64).

Anche per quel che riguarda il diritto allo studio di quelli che Siciliano chiamava i suoi «persecutori», insomma gli iscritti all’Università veneziana, Siciliano aveva una soluzione che andava al di là del miglioramento della foresteria e della mensa universitaria. Era, quello del rettore, un progetto obiettivamente audace, per il quale Siciliano, sagacemente, chiedeva il concorso dello Stato e dei privati. La soluzione consisteva nel riprendere e portare a compimento il progetto luzzattiano del collegio. La sede prescelta fu individuata nel seicentesco palazzo Secco-Dolfin, la Ca’ Dolfin ormai familiare ai cafoscarini, che, una volta restaurata, sarebbe diventata, questo era il disegno, il collegio universitario dove i migliori studenti, scelti attraverso concorso nazionale, avrebbero trovato, grazie alla gratuità di vitto e alloggio, l’assistenza e le condizioni necessarie alla loro formazione. Nella mente di Siciliano, enti e mecenati veneziani avrebbero fatto a gara nel concorrere a restaurare e arredare «un’opera che, oltre a servire la cultura nazionale, avrebbe contribuito al decoro di Venezia, la città che Voltaire, uomo di non facili entusiasmi, chiamava prodigio del mondo»(65).

Ma, se il futuro premeva alle porte, anche il passato recente pesava non poco nell’animo di Siciliano. Ecco, dunque, nel 1955, lo scoprimento al primo piano di Ca’ Foscari di una lapide a ricordo di Silvio Trentin, l’insigne maestro di Diritto pubblico della metà degli anni Venti, scomparso nel momento più delicato della Resistenza e commemorato — con un discorso rimasto forse ineguagliato — da Norberto Bobbio(66). Anche Siciliano, sulle tracce di Luzzatto, rendeva omaggio a chi l’aveva preceduto come professore per poi seguire un diverso destino, e allo stesso modo continuava a riconoscere i meriti dell’ottantacinquenne Pietro Rigobon, scomparso nel marzo di quello stesso anno, o di chi usciva dal mondo universitario per raggiunti limiti d’età, come Arturo Pompeati, che nell’ormai lontanissimo 1931 aveva preso il posto di Antonio Fradeletto. Ancora una volta, va sottolineato con quale intensità Siciliano (come, del resto, ciascuno a proprio modo, avevano cercato di fare i rettori e i direttori che l’avevano preceduto) sapeva legare passato, presente e futuro.

Quanto a quest’ultimo, era sempre il Collegio a tenere il campo. Un tratto caratteristico di Siciliano era certamente quello di non mettere limiti all’immaginazione: egli pensava a un’aula magna «degna di questo nome», e a una palestra, un teatro all’aperto, e comunque a un’altra opera utile agli studenti. «I Collegi universitari [pensava infatti Siciliano] si dimostrano sempre più necessari ad un’efficace assistenza materiale o ad una seria preparazione della gioventù studiosa». Ma, affinché non paia che in Siciliano il Collegio fosse divenuto una fissazione, si consideri anche con quanta cura egli si preoccupasse del restauro dei due palazzi dell’Istituto, il Foscari e il Giustinian dei Vescovi, e dell’arredamento delle due presidenze e del rettorato(67).

In gioco, Siciliano capiva che era tutta Ca’ Foscari: il suo futuro, insomma. Certamente, la filosofia della vita universitaria di un rettore al quale — secondo gli esteti — l’ermellino cadeva sulle spalle come fosse stato confezionato su misura, si pose in una linea di continuità con i predecessori: scomparivano gli antichi professori, ed egli non dimenticava di far di loro degli exempla di sapienza ed etica professionale, di disegnare o di farne disegnare veri e propri cammei, come quello che Sergio Steve, professore ordinario di Scienza delle finanze e Diritto finanziario, offrì di Ezio Vanoni, scomparso in età appena matura nel 1956, il quale era stato vincitore del concorso a cattedra chiesto per lui da Ca’ Foscari nel 1939 e più tardi era passato, dopo gli anni critici del paese durante i quali aveva contribuito alla «reideazione» della Democrazia Cristiana, all’applicazione del suo sapere nell’amministrazione e nella politica, come ministro delle Finanze tra il 1948 e il 1954 e del Bilancio nel biennio successivo, come autore della riforma tributaria nel 1951 e del piano per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito nel 1954. Ma la visione degli orizzonti degli atenei sviluppata da Siciliano cominciava a farsi sempre più lucida. Ne è prova la concezione che egli andava diffondendo, con le parole e con le opere, del lavoro universitario, il cui «essenziale, s’intende, era nella quotidiana lezione, nel chiuso dell’aula e del seminario», ma che ha bisogno, per non perdere se stesso, di non «restare in un vaso chiuso, perché la vita dello spirito non si limita a ricognizioni ed evocazioni del passato»(68).

Di qui, gli scambi di docenti tra Ca’ Foscari e Università europee (anche dell’Europa comunista) e americane: vi si trovano impegnati personaggi come Carlo M. Cipolla, professore ordinario di Storia economica, e Ladislao Mittner, il grande germanista. Di qui, anche il diretto coinvolgimento dello stesso Siciliano alla guida del Centro di cultura e civiltà della Fondazione Giorgio Cini, nata nel 1951 e definitasi tra gli anni 1955 e 1959(69). Di qui, anche, l’organizzazione, d’accordo con la Biennale, di un Festival internazionale del teatro, che vide gli studenti-attori di Giovanni Poli a contatto e confronto con quelli di tutto il mondo.

D’altra parte, Siciliano era convinto, sul finire degli anni Cinquanta, che l’università non potesse restare, malgrado tempi non facili, estranea alle difficoltà dell’ora, e ciò precisamente in virtù della sua stessa «funzione mediatrice» e «perché, in definitiva, tutto quello che opera nella scienza e nella vita parte dalla scuola come impulso ed alla scuola ritorna come studio ed esperienza»(70).

L’azione avviata da Siciliano, dagli anni Cinquanta in poi, appare, dunque, mirata a raggiungere più obiettivi insieme. Per Ca’ Foscari comincia da allora, del resto, quella tensione, mai venuta successivamente meno, verso l’assunzione di una funzione primaria nella città di Venezia. Gli anni Sessanta saranno poi il tempo delle realizzazioni. Queste si concretizzeranno nell’allestimento di nuovi spazi, nell’acquisizione di nuovi edifici, come Ca’ Bernardo, che nel 1965 possiede locali in grado sia di risolvere problemi urgenti di diverso genere, quale appunto quello costituito dalla collocazione della biblioteca d’ateneo, o come l’ex convento di S. Sebastiano, sul finire del lungo rettorato del secondo fondatore di Ca’ Foscari.

Ma il maggior successo di Siciliano fu, certamente, la «trasformazione dell’Istituto di economia e commercio di Venezia in Università degli Studi», ottenuta nell’agosto 1968. Come Ca’ Foscari divenne, da Istituto Universitario che era, Università, è nella memoria di molti, ma è anche rievocato nel prezioso libriccino già ricordato, scritto da un autore che preferì chiamarsi «Anonimo quasi Veneziano», e che altri non era che il medesimo rettore Siciliano. Costretto alla quiescenza dalle ferree leggi dell’anagrafe, Siciliano desiderò lasciar traccia e testimonianza diretta di quel che considerava un proprio personale successo contro tutto e contro tutti, e che narrò — lo si è detto — come l’Edificante storia della nascita e crescita di un’Università(71). La circostanza «singolare» che Venezia, la splendida città ricca di opere in ciascuna delle arti, la patria di insigni letterati e di dinamici navigatori, non avesse voluto, o non ottenesse che tardi, la propria Università degli Studi, trovava qui un felice epilogo attraverso quindici anni di costante insistenza da quando «l’inquieto rettore [così l’autoironica testimonianza di Siciliano] ebbe l’insana idea di chiedere alle superiori autorità il giusto titolo»(72). E fu in effetti, come s’è detto, una lunga lotta, combattuta tra «don Chisciotte» e le «superiori autorità» della capitale italiana. Le porte saranno «sorde» per non poco tempo. Sorda fu, soprattutto, la sezione prima del consiglio superiore della pubblica istruzione, che bocciò e ribocciò la richiesta partita dal senato accademico veneziano nel febbraio 1962, sino all’anno cruciale, il 1967, quando, finalmente, l’allora ministro per la Pubblica istruzione Luigi Gui si espresse favorevolmente alla contrastata istituzione di una nuova Università veneziana: in realtà, Gui dovette chiedere un parere al Consiglio di Stato, che a propria volta si manifestò a favore il 24 maggio 1968. Superato l’altro ostacolo, le immancabili obiezioni della Corte dei Conti, alla fine, comunque, quando ormai era trascorso quasi interamente l’agosto 1968, il «Testardo» (come Siciliano definisce il rettore, cioè se stesso) ebbe, definitivamente, la meglio.

A questo punto, dunque, Siciliano poté infine trasmettere al successore, e al futuro, un’Università degli Studi ben più attrezzata della struttura universitaria ricevuta da Luzzatto nel 1945, e guidata da quest’ultimo, scomparso nel 1964, in tempi davvero grami.

Sul piano delle strutture didattiche e scientifiche, Ca’ Foscari si era arricchita, nello stesso 1964, dopo un anno di ibernazione parlamentare, del corso di laurea in Lingue e letterature orientali, seconda articolazione della facoltà di Lingue e letterature straniere nata dieci anni prima. Più tardi, nel 1971, anche nella facoltà di Economia e commercio sarebbe nato un secondo corso di laurea, quello di Economia aziendale. Come è già stato anticipato, dalla metà degli anni Cinquanta era stata frattanto acquistata o ceduta dal Comune di Venezia una serie di edifici nelle vicinanze di Ca’ Foscari, poi restaurati dal Genio civile: Ca’ Dolfin, sede dell’agognato Collegio e dell’aula magna; Ca’ Bernardo, destinata — come s’è detto — alla Biblioteca; il palazzo Giustinian-Carnelutti a S. Polo; vari immobili prospicienti al campiello degli Squellini, nella fondamenta Rezzonico, in calle dei Guardiani, in campo S. Tomà, in fondamenta dei Cereri e a S. Sebastiano. Così, nel 1969, potranno nascere la facoltà di Lettere e filosofia e quella di Chimica industriale (dal 1990 essa è divenuta facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali).

Resta da dire della contestazione. Nella Edificante storia, secondo l’«Anonimo quasi Veneziano», gli studenti (che non soffrirono né fame, né freddo grazie all’illuminata azione del rettore al vertice dell’Opera universitaria) «discussero civilmente con il loro severo Rettore». Quella di Siciliano è una lettura ironica e autoironica del Sessantotto universitario veneziano, che ebbe d’altra parte anch’esso le proprie asprezze. Esso era iniziato con i sessantaquattro giorni di occupazione dell’Istituto Universitario di Architettura, tra aprile e giugno 1967, ed era continuato a Ca’ Foscari, che rappresentò sia un terreno di azione di un movimento interno, sia un luogo di confronto tra i gruppi che si erano costituiti nelle altre Università italiane. Sul piano del dibattito politico, il primo motivo del contendere, il progetto di legge del ministro Gui noto con il numero, ormai senza tempo, di 2314, era stato in realtà dimenticato da subito. Restava, anche a Ca’ Foscari, una sequenza di microconflitti strettamente studenteschi, che vennero vissuti nel corso di ‘mitiche’ assemblee e tramite improvvisati sit-in nel salone del rettorato, su pavimenti alla veneziana che mai avevano vissuto simili esperienze(73).

In quello stesso 1968, l’Università inseguita da Siciliano era dunque divenuta una realtà. Nel medesimo anno, ne era però contemporaneamente cominciata a venir meno l’idea che per tanti anni il «secondo fondatore» aveva pertinacemente coltivato.

Il rettorato di Feliciano Benvenuti (1974-1983)

Con il rettorato di Feliciano Benvenuti, eletto nel novembre del 1974, si apre una terza fase dell’ormai secolare vicenda storica cafoscarina. Prima che il già celebre giurista e avvocato veneziano assumesse la guida dell’Ateneo, la nuova Università degli Studi di Venezia era stata letteralmente traghettata da una sponda all’altra della profonda scissura rappresentata, per il sistema universitario italiano, dai cosiddetti «provvedimenti urgenti» del 1973, da Luigi Candida, professore ordinario di Geografia passato da Economia a Lingue e letterature straniere: proprio perché tale, o almeno così vuole la verità ufficiale diffusa nell’agitato ma ancor piccolo mondo cafoscarino, egli era voluto come proprio erede da Siciliano ed eletto rettore con una risicatissima maggioranza. In realtà — anche se quest’ultima rimane solamente una congettura —, Siciliano non tanto osteggiava alla guida dell’Ateneo un docente di Economia, quanto piuttosto non voleva che divenisse nuovo rettore Pasquale Saraceno, ordinario di Tecnica industriale e commerciale e iniziatore dell’aziendalistica a Venezia.

Comunque, per Candida non fu affatto semplice l’adozione delle nuove normative, specialmente per quel che riguarda la gestione di organismi istituzionali, come il consiglio di amministrazione, che per la prima volta registravano la partecipazione a pieno titolo di docenti di ogni grado assieme alle rappresentanze di «non docenti» (come allora si definiva il personale tecnico) e degli studenti, democraticamente eletti gli uni e gli altri. E se Benvenuti poté giovarsi di un’esperienza già avviata, questo lo si dovette alla linea di profilo apparentemente dimesso, e comunque mai sopra le righe, scelta consapevolmente da Candida.

Benvenuti si rivelò subito in grado di puntare a tre importanti obiettivi.

Il primo di essi consisteva nella razionalizzazione e modernizzazione dell’amministrazione centrale e dei servizi di supporto in laboratori, istituti e seminari delle quattro facoltà e dei corsi di laurea che progressivamente andavano definendosi. All’uopo, molto giovò la presenza a Ca’ Foscari di Francesco Stumpo, funzionario giovane, di grandi qualità, che successe a Guido Monaco interpretando con equilibrio ed efficienza la parte assegnatagli da un rettore di forte personalità.

Il secondo dei traguardi ai quali il rettore cafoscarino era chiamato e s’indirizzò consisteva nell’orientare il nuovo assetto di gestione, nato da interventi legislativi concepiti in chiave di «democrazia universitaria», ai fini di quello che andava ormai costituendosi come effettivo secondo polo del sistema universitario veneto.

Il terzo bersaglio, il più ambizioso, era il rinnovamento del rapporto con la città e le sue istituzioni politiche, amministrative e culturali. Ca’ Foscari era ormai ramificata nella città storica, ma ciò non esauriva la questione, neppure materialmente: al contrario, ne esaltava — e insieme esasperava — gli aspetti. Venezia era uscita dalla disastrosa alluvione del 4 novembre 1966 assai diversa da come vi era giunta, tanto che si può ben considerare quell’evento come «tornante decisivo» della secolare storia della città(74). Tuttavia, la conseguenza che ne sarebbe venuta, il ritorno — cioè — all’ottica dell’insularità, il «ritorno nell’isola» — insomma —, non fu immediata. Per anni, la spinta propulsiva delle politiche veneziane sarebbe ancora consistita nel pensare a una città dall’ampio e variegato comprensorio: ciò che costituiva in realtà l’attualizzazione dell’idea della «grande Venezia» del primo Novecento.

L’Università — va inteso da allora in questa dizione anche l’Istituto Universitario di Architettura, tessera di un ideale mosaico universitario unificato e componente essenziale di un Ateneo ancora più esteso e impegnato a svolgere molteplici ruoli — sarebbe stata ancora per anni concepita come funzione della Venezia storica, secondo una ‘filosofia’ che ne andava attrezzando le strutture al compito che la nuova legge speciale per Venezia del 1973 indicava come plurale (città produttiva, commerciale, di scambi, di cultura). In realtà, di quei molteplici compiti, alla fine non sarebbe restato che quello turistico, una vera e propria monocultura.

Benvenuti non pose, comunque, tempo in mezzo tra l’individuazione dei compiti di Ca’ Foscari e la loro attuazione. Nella sua relazione per l’anno accademico 1974-1975, egli ribadì, infatti,

l’assoluta necessità che il legame tra Università e Città diventasse operante e continuo, come rapporto costruttivo tra una collettività insediata in un ambito oggetto di attenzione e di dibattito mondiale, ed una parte di essa che non può astrarre i propri interessi rispetto ai fenomeni, alla trasformazione ed alle lotte che pur le competono in quanto elemento integrante di un unico sistema(75).

In quest’ottica, Benvenuti riaffermò la volontà di impostare una politica di ristrutturazione e di sviluppo edilizio, perseguita nel rispetto di alcuni principi cardinali: essa non avrebbe dovuto divenire concausa dello stravolgimento del tessuto sociale del centro storico veneziano (già in atto alla metà del decennio), non avrebbe dovuto contribuire all’amplificazione dell’esodo verso altri insediamenti urbani o periferici della popolazione, né avrebbe dovuto sottrarre alla città storica aree che potessero esser destinate ad altri usi di prevalente utilizzo pubblico e ad attività produttive.

La politica del rettorato fu, allora, quella, assai pragmatica, di non porre lo sviluppo di Ca’ Foscari in un rapporto alternativo con quello di altri settori della vita cittadina ancora in grado di svilupparsi e di difendersi da una decadenza che, progressivamente, appariva a tutti, d’altra parte, inevitabile: viceversa, l’Università s’impegnava a cercare assieme all’amministrazione comunale — retta, tra 1975 e 1985, da una giunta di sinistra e intenzionata a secondare quella parte della società civile ancora ben lontana dall’arrendersi al declino dell’egemonia veneziana sul territorio che più tardi sarebbe stato detto, mediaticamente, «Nordest» — le intese necessarie per crescere nella città, secondo le esigenze crescenti della ricerca e dell’istruzione superiore. In quest’impegno, l’Università otteneva il consenso o s’indirizzava in modo persino complementare rispetto alla visione che di quegli imperativi avevano, se non i responsabili della città, certo quelli delle categorie produttive e dei servizi, per non dire un’opinione pubblica frastornata dall’esodo, come si chiamò il veloce trasferimento di popolazione che, in pochi anni, avrebbe dissanguato l’ancor popolosa Venezia degli anni Cinquanta e Sessanta.

L’organico rapporto intessuto con la città, desiderato da molti, rappresenta però il risultato di un’azione paziente. La difficoltà con la quale la città (talvolta, la stessa classe politica veneziana) dimostrò di poter concepire la novità rappresentata dalle trasformazioni maturate negli anni precedenti dall’università e soprattutto da Ca’ Foscari, determinava, oltretutto, resistenze e contrasti di natura culturale ancor prima che politica. Benvenuti dovette fronteggiare talvolta una radicale incomprensione, proveniente spesso anche da persone di cultura e dall’interno della stessa accademia, delle valenze positive dello sviluppo universitario nella città storica e persino nella terraferma veneziana. Tra gli argomenti che più frequentemente venivano utilizzati dagli antagonisti vi erano alcuni fatti esteriori, come il debordare dell’Ateneo dai contenitori storici di Ca’ Foscari e dei Tolentini, fenomeno però già determinatosi, per forza stessa delle cose, a metà degli anni Cinquanta, o la presenza numerosa di studenti universitari a Venezia, erroneamente indicata come concausa dell’acuirsi del problema della residenza nella città storica, dipendente da cause ben più strutturali. Peraltro, v’era da affrontare persino l’ostilità di molta intellettualità progressista, che si lasciava volentieri fuorviare dal vecchio pregiudizio produttivistico secondo il quale la cultura non costituisce un fattore d’investimento, è un oggetto e non un fattore di produzione. La diffusione a Venezia di una filosofia tanto rozza era ispirata naturalmente dalla stessa avversione verso l’idea di Venezia «città degli studi», sulla quale gli stessi ambienti intellettuali che la sostennero fortemente si ricrederanno soltanto nei tardi anni Ottanta, e mai completamente.

Una nuova fase della storia istituzionale dell’università italiana era d’altra parte stata avviata dai citati «provvedimenti urgenti» del 1973: essa avrebbe raggiunto il suo culmine prima con le normative sulla docenza degli anni 1979 e 1980 e con l’introduzione dei piani di sviluppo intesi come tavole di programmazione pluriennale, poi con la legislazione di riordino della didattica che tra anni Ottanta e Novanta, col ministro dell’Università e della ricerca scientifica Antonio Ruberti, portava, sia pure timidamente e contraddittoriamente, all’autonomia. Questa nuova fase dell’università italiana e di quella veneziana in particolare venne dunque affrontata mentre la città ufficiale rimaneva restia, fin dentro gli anni Ottanta, a rovesciare gli indirizzi più conservatori(76).

Nonostante ciò, il rettorato Benvenuti poté contare, al suo concludersi, su di uno straordinario sviluppo della presenza fisica dell’Università a Venezia. Gli anni di Benvenuti furono quelli dell’acquisizione definitiva, a vario titolo, di Ca’ Bembo, di Ca’ Bernardo, di Ca’ Garzoni e Moro, della Celestia, di S. Sebastiano, dell’ex Cotonificio di S. Marta, di S. Marta, di Ca’ Foscarini della Frescada, tutti edifici di grande pregio architettonico, che si aggiunsero a quelli storici e a quelli entrati nell’uso universitario tra anni Cinquanta e Sessanta: dalla costruzione dell’ala nuova verso il campiello degli Squellini alla seconda parte di Ca’ Giustinian dei Vescovi, da Ca’ Cappello a Ca’ Bernardo sino agli edifici e agli spazi scoperti di calle dei Guardiani. Qui, ci sarebbero voluti ben ventiquattro anni affinché nascesse il «palazzetto» dello sport universitario veneziano inaugurato infine nel giugno 2000. Benvenuti non l’avrebbe visto, essendo scomparso nell’estate del 1999. Tuttavia, egli non avrebbe mancato di osservare, con ironia appena amara, che da rettore l’aveva pensato non soltanto per Ca’ Foscari, ma anche per la città. A mancare all’appello, era stata invece proprio la città dissanguata di abitanti, e non Ca’ Foscari.

È, dunque, merito storico di Feliciano Benvenuti aver saputo procedere, in tempi assai complicati a causa dell’esplosione contemporanea di tutti i problemi veneziani, sulla via indicata da Siciliano e aver saputo concludere con convinzione il cammino intrapreso. Di fatto, mai nessun ‘percorso’ di riforma e di rinnovamento delle strutture universitarie si conclude in maniera definitiva. Nel caso del giurista veneziano (che fu anche manager di banche, oltreché professionista, che fu uomo di cultura destinato, negli anni Novanta, a riassumere in sé la stessa idea di istituzione di cultura a Venezia con la propria attività a palazzo Grassi, all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti e alla Fondazione Giorgio Cini), si può dire che vi riuscì. Lo fece, anch’egli, nello spirito di molta tradizione universitaria italiana e di quella cafoscarina in particolare: tradizione che ribadì ancora intitolando nel 1976 la nuova aula magna di Ca’ Dolfin a Silvio Trentin, suo predecessore nel campo del Diritto pubblico, nume dell’antifascismo della Venezia del primo dopoguerra, avversario intransigente della dittatura fascista, che la generazione cui apparteneva Benvenuti riteneva di aver allontanato per sempre.

Ca’ Foscari dopo Ca’ Foscari

Verso la fine del secolo della sua monca modernizzazione, Venezia si interroga su di sé, sulle occasioni mancate, sulle questioni insolute, sul suo futuro, caratterizzato da una città storica in continuo restauro, sottoposta a cure continue anche se non radicali, e preda, insieme, di un turismo onnivoro che la riempie di visitatori nell’intero arco dell’anno, e del male oscuro rappresentato non più soltanto dalla fuga dei suoi abitanti, ma dal rifiuto del postmoderno di insediarsi a Venezia, garantendole il ricambio di sangue necessario.

Quanto alle sue Università — Ca’ Foscari, l’Istituto di Architettura, ora anche l’Accademia di Belle Arti —, esse vivono di vita e di ragioni nuove. Ca’ Foscari non è più, non si dirà l’antica Scuola di Commercio, ma neppure l’Università degli Studi della fine degli anni Settanta. Fattori molteplici hanno spinto Ca’ Foscari a compiere il passo da tempo sentito come inevitabile, quello verso la terraferma, teoricamente bisognosa di funzioni direzionali, in sintonia con la progressiva, anche se lenta riconversione di Porto Marghera. Il disegno della «grande Venezia» ha perso i suoi contorni virtuosi, o addirittura s’è letteralmente perso, involvendosi su se stesso. E la stessa organizzazione universitaria, quella che non ha bisogno di una venezianità di pura immagine, si è venuta spostando dal centro dell’isola ai suoi margini. Ca’ Foscari, insomma, abbandona il Canal Grande e guadagna il canal Salso. La facoltà di Scienze della sede di S. Marta un quarto di secolo dopo sta per approdare interamente a Mestre. Le facoltà umanistiche sono destinate a lasciare gran parte degli antichi palazzi per spostarsi nell’area della Marittima. Economia è già quasi interamente collocata a S. Giobbe, nell’area dell’ex Macello che era stata immaginata sede di un ospedale progettato da Le Corbusier e che, se negli anni Sessanta fu rifiutato, oggi non servirebbe più ai veneziani ridotti a una riserva. Attività cafoscarine hanno da tempo sede a Oriago di Mira come a Treviso.

Ca’ Foscari acquista, insomma, una posizione pressoché baricentrica tra le sponde che si guardano della città storica e della terraferma. La sutura che l’Università vuol garantire tra isola e retroterra ribadisce una fedeltà a Venezia «fuori dell’isola», una sorta di linea di cucitura tra parti di un territorio a rischio di essere attratte schizofrenicamente l’una di nuovo verso il mare, la città antica, termine prima mai usato per la Venezia storica, e l’altra verso le grandi vie di comunicazione del ricco «Nordest». Se la nuova Venezia bipolare manterrà, tuttavia, un collegamento con la «grande Venezia», l’Università avrà avuto, alla fine, maggior ragione di altre, aziende, uffici, servizi dell’antico disegno primonovecentesco.

La riforma della didattica sta, poi, ulteriormente complicando la semplicità della fisionomia tradizionale di Ca’ Foscari. Lauree brevi, lauree specialistiche, masters, corsi di perfezionamento costituiranno l’offerta cafoscarina, sempre più omologa, per la forza stessa delle cose, a quelle di altre Università. L’antica trama si individua ancora, ma è l’intera architettura di Ca’ Foscari a essere stata modificata. I rettorati degli anni Ottanta e Novanta — quello di Giovanni Castellani (1983-1992), ordinario di Matematica finanziaria, quello di Paolo Costa (1992-1996), ordinario di Economia del turismo, quello di Maurizio Rispoli (dal 1997), ordinario di Strategie d’impresa — hanno preso atto di quel che a Venezia nel corso del secolo è accaduto, ed è andato in senso opposto all’armonia del progetto di sviluppo che porta ancora il nome di Piero Foscari e Giuseppe Volpi. Ma poiché un diverso progetto per l’ex capitale dello Stato veneto non è stato davvero pensato, la necessità non è ancora diventata virtù, per Ca’ Foscari. Costerà meno, e renderà di più, secondo una visione per così dire ‘aziendale’(77), governare un’Università che non tradirà le proprie origini, ma si muoverà nel vasto mare della competizione culturale e del mercato dei titoli di studio. La costituzione della Venice International University va in questo senso, a dispetto del suo insediamento nel cuore del bacino di S. Marco, nella rammodernata isola di S. Servolo. Si può, da questo punto di vista, temere che dal 1868 non siano passati soltanto più di centotrent’anni. Ma la speranza, a Venezia, che il «legno storto» si raddrizzi, non è mai doma.

Tab. 1. Direttori e rettori dal 1868 Prof. Francesco Ferrara direttore 1868-1900 Prof. Avv. Alessandro Pascolato direttore facente funzioni 21 novembre 1893-maggio 1900   direttore 26 maggio 1900-25 maggio 1905 Prof. Enrico Castelnuovo prodirettore 26 maggio 1905-30 giugno 1905   direttore 1° luglio 1905-12 febbraio 1914 Prof. Fabio Besta prodirettore 13 febbraio 1914-14 marzo 1914   direttore 15 marzo 1914-15 marzo 1917 Prof. Pietro Rigobon direttore 16 marzo 1917-31 marzo 1919 Prof. Avv. Luigi Armanni direttore 1° aprile 1919-31 marzo 1922 Prof. Avv. Roberto Montessori direttore 1° aprile 1922-15 marzo 1925 Prof. Gino Luzzatto direttore 16 marzo 1925-15 novembre 1925 Prof. Ferruccio Truffi direttore 16 novembre 1925-10 novembre 1927 Prof. Davide Giordano regio commissario 11 novembre 1927-30 novembre 1930 Prof. Carlo Alberto Dell’Agnola direttore 1° dicembre 1930-15 ottobre 1934   rettore 16 ottobre 1934-15 novembre 1935 Prof. Agostino Lanzillo prorettore 16 novembre 1935-28 ottobre 1937   rettore 29 ottobre 1937-28 ottobre 1939 Prof. Carlo Alberto Dell’Agnola rettore 29 ottobre 1939-28 ottobre 1941 Prof. Gino Zappa rettore 29 ottobre 1941-30 novembre 1942 Prof. Alfonso de Pietri-Tonelli prorettore 1° dicembre 1942-28 ottobre 1943   rettore 29 ottobre 1943-30 aprile 1945 Prof. Italo Siciliano prorettore con funzioni 1° maggio 1945-5 luglio 1945     di commissario all’amm. Prof. Gino Luzzatto rettore 6 luglio 1945-31 ottobre 1953 Prof. Italo Siciliano rettore 1° novembre 1953-24 novembre 1971 Prof. Luigi Candida rettore 25 novembre 1971-31 ottobre 1974 Prof. Feliciano Benvenuti rettore 1° novembre 1974-31 ottobre 1983 Prof. Giovanni Castellani rettore 1° novembre 1983-31 ottobre 1992 Prof. Paolo Costa rettore 1° novembre 1992-20 novembre 1996 Prof. Franco Gatti prorettore 21 novembre 1996-11 febbraio 1997 Prof. Maurizio Rispoli rettore 12 febbraio 1997-

  • L’archivio di Ca’ Foscari non è né ordinato, né collocato in un’unica sede. Esso è, verosimilmente, incompleto e disperso in più siti della stessa Università. Le carte di cui l’autore si è potuto servire sono state reperite in uffici dell’amministrazione e nei locali della sede universitaria della Celestia e consistono in: Conferenza dei professori (III volumi di verbali: I, 1° gennaio 1901-6 febbraio 1907; II, 11 marzo 1907-12 giugno 1912; III, 4 novembre 1909-20 novembre 1923); Corpo accademico (I volumi di verbali: 18 giugno 1912-15 dicembre 1915); Consiglio accademico (III volumi di verbali: I, 19 gennaio 1916-15 novembre 1918; II, 4 dicembre 1918-13 aprile 1921; III, 4 maggio 1921-1° giugno 1927); Consiglio di facoltà, con poteri di Senato accademico (V volumi di verbali: I, 10 giugno 1927-10 dicembre 1933; II, 28 novembre 1932-28 ottobre 1934; III, 18 dicembre 1934-25 ottobre 1939; IV, 1° gennaio 1937-25 ottobre 1939; V, 29 novembre 1939-30 giugno 1945); Fondazione dei giovani caduti per la patria (I volume: 31 marzo 1919-12 aprile 1945); Direttorio della cassa scolastica (I volume: 12 marzo 1932-9 aprile 1945); Direttorio Opera universitaria (I volume: 1° dicembre 1936-31 marzo 1946); Consorzio triveneto universitario (I volume: 24 aprile 1938-12 gennaio 1942); Senato accademico (Verbali: 1945 ad oggi); Consiglio di amministrazione (Verbali: 1917 ad oggi); Annuario della R. Scuola Superiore di Commercio in Venezia (Venezia 1868-1917); Annuari della Scuola, dell’Istituto, dell’Università (dall’anno accademico 1918-1919 ad oggi).

1. Ma, dal 1909-1910, i professori di ruolo cafoscarini divennero «ordinari», come conseguenza dell’innovativo sistema normativo della fine degli anni Dieci culminato nella legge 20 marzo 1913 che fissò l’ordinamento degli Istituti di Istruzione Commerciale.

2. Relazione sull’andamento dell’Istituto negli anni scolastici 1916-1917 e 1917-1918, letta il 9 dicembre 1918 dal direttore prof. Pietro Rigobon, in Annuario della Scuola Superiore di Commercio (Istituto Superiore di studi commerciali) per l’anno accademico 1918-19, Venezia 1919, pp. 29-37.

3. Cf., per la scelta di Pisa e per le modalità di trasferimento provvisorio della sede, per il trasporto nella Università toscana della «parte più utile» dell’archivio e per le intese sul funzionamento della Scuola, il verbale dell’adunanza del consiglio di vigilanza del 7 novembre 1917 (volume per anni accademici 1917-1923, pp. 78-84).

4. Cf. Associazione fra antichi studenti della Regia Scuola di Commercio di Venezia, Albo d’onore dei Cafoscarini che hanno preso parte alla Guerra (1915-1918), Venezia 1920.

5. Cit. in Giannantonio Paladini, Profilo storico di Ca’ Foscari, Venezia 1996, p. 13.

6. Cf. la ricca documentazione in Amelio Tagliaferri, Profilo storico di Ca’ Foscari (1868-69, 1968-69), Venezia 1969.

7. Di alcune riforme della R. Scuola Superiore di Commercio in Venezia, Venezia 1906.

8. Emilio Franzina, L’eredità dell’Ottocento e le origini della politica di massa, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, p. 120 (pp. 117-151).

9. Di alcune riforme, p. 12.

10. Ibid., pp. 53-55.

11. Cf. il testo dello statuto del 1909 in Annuario della R. Scuola Superiore di Commercio in Venezia, 1909-1910, pp. 75-94.

12. Cf. La Regia Scuola Superiore di Commercio in Venezia. Notizie e documenti presentati dal Consiglio Direttivo della Scuola all’Esposizione internazionale di Torino, Venezia 1911.

13. Cf. Relazione sull’andamento della Scuola nell’anno 1909-1910, letta il 10 novembre nella solenne apertura degli studi dal direttore Enrico Castelnuovo, in Annuario della R. Scuola Superiore di Commercio in Venezia, 1910-1911, pp. 11-20.

14. Così si legge nelle Note della Commissione Accademica per il progetto del Regolamento Generale in applicazione della legge 29 marzo 1913, nr. 268 (Venezia 1913) stese da una Commissione di cui facevano parte Fabio Besta, presidente, Tommaso Fornari, Ferruccio Truffi, Pietro Rigobon, Ernesto Cesare Longobardi e Luigi Armanni, che ne fu l’estensore.

15. Cf. Discorso letto dal Direttore Fabio Besta il 15 novembre 1915 nel presentare la relazione sull’anno accademico 1914-1915, in R. Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali-Venezia. Annuario 1915-1916, Venezia 1916, pp. 5-14.

16. Su Venezia «combattente», cf. Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, I-III, Venezia 1996-1997: III, Dalla monarchia alla Repubblica, pp. 58-68.

17. Ringrazio Madile e Roger Gambier per avermi fornito i dati biografici relativi ad Henri Gambier. L’articolo citato di Emma Stojkovic Mazzariol uscì ne «Il Gazzettino» del 13 febbraio 1980.

18. Cf., tra gli altri, al riguardo Girolamo Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, in partic. le pp. 47-48; e Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998.

19. Cf., per questi aspetti della vicenda veneziana dei primi anni del XX secolo, Giannantonio Paladini, Politica e società a Venezia nel ’900. Una sintesi, «Quaderni di Insula», 4, 2000, nr. 2, pp. 7-18.

20. Cf. Id., Gino Luzzatto (1878-1964), s.n.t. [ma Venezia 1987].

21. Regio Istituto superiore di scienze e di commercio. Venezia. Annuario per l’anno accademico 1922-1923, Venezia 1925, pp. 27-51.

22. Il discorso di Trentin è in Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per l’anno accademico 1924-1925, Venezia 1926, pp. 25-83 e reca il titolo Autonomia-Autarchia-Decentramento. Il discorso ha avuto diverse ristampe. Cf. quella pubblicata in Silvio Trentin, Politica e amministrazione. Scritti e discorsi 1919-1926, a cura di Moreno Guerrato, Venezia 1984, pp. 335-374. Per la biografia di Silvio Trentin, cf. Frank Rosengarten, Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Milano 1980 [New York 1977].

23. Cf. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino 1999, pp. 8-25.

24. La ricostruzione della vicenda è quella contenuta in Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Venezia 19792 (queste memorie, scritte tra il 1944 e il 1946, furono pubblicate per la prima volta da Einaudi nel 1957). L’autore, come si vedrà più avanti, protagonista, ancorché giovane, degli avvenimenti, mostra di credere che il regista dell’operazione fosse stato addirittura Italo Balbo, quadrumviro del fascismo.

25. Cf. Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per gli anni accademici 1925-1926 e 1926-1927, Venezia 1927, pp. 9-23.

26. Cf. Silvio Trentin, Dallo Statuto albertino al regime fascista, a cura di Alessandro Pizzorusso, Venezia 1983, p. XI n. 6.

27. Cf. Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per l’anno accademico 1927-1928, Venezia 1928, p. 85.

28. Ibid., pp. 7 e 17-20.

29. Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per l’anno accademico 1928-1929, Venezia 1929, p. 13. La sessione di laurea alla quale si riferisce Giordano è quella dell’estate 1929.

30. Ibid., p. 11.

31. Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per l’anno accademico 1929-1930, Venezia 1930, p. 13.

32. Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per l’anno accademico 1930-1931, Venezia 1931, p. 9.

33. Cf. A. Tagliaferri, Profilo storico, p. 32. Più in generale, v. da ultimo, sulla politica universitaria del fascismo, Giovanni Belardelli, Il fascismo e l’organizzazione della cultura, in Storia d’Italia, IV, Guerre e fascismo, a cura di Giovanni Sabbatucci-Vittorio Vidotto,  Roma-Bari 1997, pp. 441-500 (cf. la letteratura di cui si è servito l’autore, in partic. i volumi citati alle pp. 499-500).

34. Cf. A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza, pp. 272-278, e G. Paladini, Profilo storico, pp. 20-21.

35. Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 178 (pp. 152-225). La specifica considerazione sulla «franchigia» veneziana negli anni Trenta, che è alla p. 179 del testo di Brunetta, si ritrova meglio articolata in Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano 1979.

36. Cf. Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per l’anno accademico 1936-1937, Venezia 1938, pp. 20-22.

37. Ibid., pp. 24-27.

38. Cf. A. Tagliaferri, Profilo storico, pp. 41-42.

39. Su questo aspetto dell’attività di Luzzatto fino al 1943, cf. G. Paladini, Gino Luzzatto, pp. 52-55.

40. Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze economiche e commerciali di Venezia per l’anno accademico 1937-1938, Venezia 1938.

41. Cf. G. Paladini, Gino Luzzatto, p. 17.

42. Cf. Gino Luzzatto cinquant’anni dopo, a cura di Marino Berengo-Giannantonio Paladini, Venezia 1995, p. 5. Tra i motivi di tale sconvolgimento va aggiunto il fatto che, nei primi mesi del 1943, era stato necessario provvedere al trasferimento a Carpi di buona parte dei libri di Ca’ Foscari. Si trattò di 330 casse, il cui ritorno fu annunciato da Luzzatto al consiglio di amministrazione nell’estate 1946 (cf. Consiglio di amministrazione, Verbali, I, gennaio 1942-30 novembre 1950, pp. 32, 42, 157).

43. Ma si trattò, anche in questo caso, di una sorta di ‘commissariamento’ per la situazione interna nell’istituto di S. Fantin, fortemente incalzato dalle iniziative dell’Istituto di cultura fascista, verso il quale soltanto Giordano — oltretutto già presidente in precedenza — poteva esercitare una, sia pur pallida, resistenza in nome di ciò che restava dell’autonomia delle istituzioni culturali dell’epoca.

44. Cf. Marco Borghi, Una miriade di centri. La localizzazione delle sedi ministeriali della Repubblica di Salò nel Veneto (1943-1945), «Venetica», n. ser., 10, 1993, nr. 2, pp. 319-350.

45. Cf. Simon Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista a Venezia (1943). Cronaca e spunti interpretativi, ibid., 13, 1996, nr. 5, pp. 101-103 (pp. 101-160).

46. Cf. La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza e repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984.

47. G. Paladini, Gino Luzzatto, pp. 64-65.

48. Cf. ibid., pp. 75-77.

49. I testi sono in Gino Luzzatto cinquant’anni dopo, pp. 11-39.

50. Ringrazio Maurizio Reberschak, professore cafoscarino, per avermi fornito le notizie relative al Sacrario dei caduti in guerra e nella lotta partigiana, la cui fotografia è in Istituto universitario di Economia e commercio. Annuario degli anni accademici dal 1943-1944 al 1946-1947, Venezia 1948, pp. 42-43. Oggi, il cortiletto non esiste praticamente più, la statua della Niobe è abbandonata in un angolo degradato di Ca’ Bernardo, sede della Biblioteca generale dell’Ateneo. Una descrizione della situazione, con una proposta di ripristino, è stata inviata da Reberschak al rettore Paolo Costa l’11 gennaio 1996, perché non si perda la memoria storica che è fondamento dell’identità cafoscarina.

51. Cf. Gino Luzzatto cinquant’anni dopo, pp. 28-31.

52. Cf. le considerazioni, accompagnate da accurate tabelle e da grafici molto eloquenti, in A. Tagliaferri, Profilo storico, pp. 42-45.

53. Cf. Gino Luzzatto cinquant’anni dopo, p. 28.

54. Cf. ibid., p. 38.

55. Cf. G. Paladini, Gino Luzzatto, pp. 75-100.

56. Per le parole di Luzzatto, v. Istituto universitario di Economia e commercio. Annuario degli anni accademici dal 1948-1949 al 1951-1952, Venezia 1953, p. 63. Quanto alla «piccola casa dello studente», notizie sono contenute in Consiglio di amministrazione, Verbali, I, gennaio 1942-30 novembre 1950, pp. 32, 112, 132 e 142.

57. Cf. Istituto universitario di Economia e commercio. Annuario degli anni accademici dal 1952-1953 al 1956-1957, Venezia 1958, pp. 10-11.

58. La citazione è in G. Paladini, Gino Luzzatto, p. 106.

59. Cf. Istituto universitario di Economia e commercio. Annuario degli anni accademici dal 1948-1949 al 1951-1952, p. 5.

60. Anonimo quasi Veneziano, Edificante storia della nascita e crescita di un’Università, Venezia 1971: questo libretto fu scritto in terza persona e sotto pseudonimo dallo stesso Siciliano, e fu fatto circolare, oltreché con il trasparente pseudonimo, soltanto per tramiti personali. Debbo alla benevolenza di Italo Siciliano di possederne una copia.

61. Istituto universitario di Economia e commercio e di Lingue e letterature straniere di Venezia. Annuario degli anni accademici 1964-1965 e 1965-1966, Venezia 1967, p. 25.

62. Istituto universitario di Economia e commercio e di Lingue e letterature straniere di Venezia. Annuario degli anni accademici dal 1952-1953 al 1956-1957, Venezia 1958, pp. 24-26.

63. Cf. le citazioni ibid., p. 45.

64. V. ora, per una sintetica ‘storia’ dello sport universitario veneziano, Giannantonio Paladini-Vittorio Pierobon-Andrea Tagliapietra, Cus Venezia. 50 anni di sport, Venezia 2000. Per la straordinaria avventura di Poli, si rimanda senz’altro a Paolo Puppa, Il teatro universitario di Ca’ Foscari, in Venezia e le lingue e letterature straniere. Atti del convegno, a cura di Sergio Perosa-Michela Calderaro-Susanna Regazzoni, Roma 1991, pp. 111-127, e a Carmelo Alberti, L’avventura teatrale di Giovanni Poli, Venezia 1991.

65. Istituto universitario di Economia e commercio e di Lingue e letterature straniere di Venezia. Annuario degli anni accademici dal 1952-1953 al 1956-1957, p. 47.

66. Norberto Bobbio, Ricordo di Silvio Trentin. Commemorazione nel decennale della Liberazione, Venezia 1955.

67. Istituto universitario di Economia e commercio e di Lingue e letterature straniere di Venezia. Annuario degli anni accademici dal 1952-1953 al 1956-1957.

68. Così il 27 gennaio 1957, inaugurando l’anno accademico 1956-1957, ibid., p. 93.

69. Venezia 1951-1971. Venti anni di attività della Fondazione Giorgio Cini, Venezia s.a. [ma 1971], pp. 9-10.

70. Relazione del Rettore, 25 Febbraio 1959, in Istituto universitario di Economia e commercio e di Lingue e letterature straniere di Venezia. Annuario degli anni accademici dal 1958-1959 al 1963-1964, Venezia 1965, p. 27.

71. Anonimo quasi Veneziano, Edificante storia, p. 3.

72. Ibid., p. 4.

73. Sono ricordo vivo di chi scrive tanto il rettore, avvolto nel pastrano con il fazzoletto bianco nel taschino, attorniato dagli studenti vocianti, quanto lo stesso che si materializza dalla porticina di fondo di un’aula strapiena e bollente e che, agitando lo stesso fazzoletto, ottiene il silenzio e la simpatia che cercava.

74. È l’interpretazione sottesa al lavoro di G. Distefano-G. Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, pp. 177-187.

75. Relazione del Rettore, in Università degli Studi di Venezia, Annuario per l’anno accademico 1974-1975, Venezia 1975, p. V.

76. Un po’ più ampiamente, v. G. Paladini, Profilo storico, pp. 37-41. In ambito cafoscarino, questi temi vennero affrontati, sia pure da angolazioni diverse, numerose volte. Forse il documento più eloquente in materia consiste nella Cronaca di Facoltà 1976-1982 che il preside della facoltà di Lettere e filosofia, Giuseppe Mazzariol, professore ordinario di Storia dell’arte, fece pubblicare da Neri Pozza (Vicenza 1982), e che ha come spunto iniziale la Conferenza politico-organizzativa di facoltà del 28-30 aprile 1977, da lui stesso voluta.

77. Cf. Cinque saggi sull’Università di Venezia, a cura di Bruno Rosada, Venezia 1991. Gli autori (Mario Dalla Costa, Giannantonio Paladini, Gilberto Pizzamiglio, Maurizio Rispoli e Armando Favaretto) si provarono,  non senza lucidità, ad anticipare il futuro prossimo. La realtà li ha, tuttavia, spesso superati.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Ferdinando di savoia, duca di genova

Ministero della pubblica istruzione

Scuola normale superiore di pisa

Repubblica sociale italiana

Partito popolare italiano