CACCIA

Enciclopedia Italiana (1930)

CACCIA (da cacciare, e questo da *captiare, derivato di captus da capere "prendere, impadronirsi"; fr. chasse; sp. caza; ted. Jagd; ingl. hunting)

Alessandro Ghigi
Nora Nieri
Giuseppe Bonelli
George Montandon
Carlo de Margherita
Raffaele Corso
Luigi Perla
Angelo Taccone

Cattura o uccisione di animali selvatici mediante armi, trappole, reti o animali addestrati. Ha per scopo la difesa del] e persone o degli averi (animali domestici e piante coltivate), la ricerca di alimenti (carne e grasso) e di vestiti (pellicce, cuoio), l'esercizio fisico e lo svago. Gli aspetti economici prevalgono nei tempi primitivi e presso i popoli di civiltà inferiore; quelli sportivi tra i popoli di cultura superiore e nei tempi moderni.

La selvaggina.

Non tutti gli animali selvatici formano oggetto di caccia; in generale l'uomo ha cercato e cerca d'impadronirsi di quelli che gli forniscono un bene materiale e che si designano col nome di selvaggina (fr. gibier; sp. salvajina; ted. Wild; ingl. game). La selvaggina è costituita quasi esclusivamente di mammiferi e di uccelli in talune località tropicali anche di grossi rettili dell'ordine dei sacri, come caimani e iguane. La qualità della selvaggina varia da paese a paese col variare della fauna, con le esigenze tradizionali della popolazione e ha subito altresì notevoli modificazioni nel corso dei tempi.

La regione zoogeografica più ricca di selvaggina è indubbiamente l'Etiopia (v. africa: Fauna), dove si trovano i maggiori colossi viventi, come ippopotami, rinoceronti, elefanti, giraffe, zebre, bufali, numerosissime specie di antilopi e fra gli uccelli lo struzzo, le galline di faraone, molti francolini, il marabù, anatre, aironi, ottarde. Fra la caccia grossa d'Africa vanno pure citati il leone e il leopardo, che, pur non essendo vera selvaggina, sono tra le specie maggiormente perseguitate e desiderate. L'India, l'Indocina e le maggiori tra le isole della Sonda sono ricche, oltreché di elefanti e rinoceronti, di cervi, di orsi, di fagiani, di pavoni: quivi, tra le fiere il primo posto spetta alla tigre. In Australia i canguri tra i mammiferi, gli emù tra i grandi uccelli, i talegalli tra i gallinacei e molte specie di colombi sono gli elementi più caratteristici della fauna venatoria.

Nell'America Meridionale, i più grossi animali da caccia sono i guanachi nelle Ande e i tapiri lungo i corsi d'acqua delle grandi foreste tropicali: molti rosicanti come il capibara e l'aguti per la loro grossezza attraggono l'attenzione del cacciatore che non si lascia sfuggire neppure gli armadilli per la bontà delle loro carni e il grande formichiere per la stranezza delle sue forme. Nandù, eraci, martinette sono le specie più pregevoli di selvaggina da piuma.

Nella regione olartica (Europa, Asia settentrionale, America del Nord) il primato è tenuto dai cervidi (alce, renna, varie specie di cervi, daino, capriolo), dalle pecore e dalle capre selvatiche (mufloni, stambecchi), da cinghiali ed orsi. Fra gli uccelli vanno citati i tetraonidi, le pernici, le beccacce, le anatre ecc. Quanto più ci si avvicina al circolo polare, crescono d'importanza gli animali da pelliccia, carnivori e rosicanti, come visoni, martore, lontre, volpi, castori, più frequenti che altrove in Siberia e nel Canada.

La storia del Canada è in gran parte legata alla caccia agli animali da pelliccia, che fu esercitata come un mestiere. Nel 1599 due Canadesi, Pont-Gravé e Chauvin, fondarono la città di Tadoussac alla confluenza del fiume Saguenay col S. Lorenzo e ne fecero il centro del commercio delle pelli con gl'Indiani; con l'avanzare della conquista francese e con l'apertura di nuove vie verso l'interno del Canada, il mercato si spostò verso il sud a Quebec ed a Montreal. Anche la prima spedizione finanziata da capitali inglesi ebbe per scopo il commercio delle pellicce e si diresse nel 1622 verso la baia di Hudson sotto la guida di due coureurs de bois di nazionalità francese, che non erano riusciti a destare in Francia interesse per la loro impresa. Tra il 1660 e il 1821 fiorirono due grandi società, quella degli Adventurers of England trading into Hudson's Bay e la Nord West Company, entrambe allo scopo di incettare e commerciare pellicce. Nel 1821 si fusero nell'unica Compagnia della Baia di Hudson, che ha avuto per molti anni importanza preminente negli affari canadesi; ha diretto esplorazioni e colonizzazione, ha guadagnato ricchezze favolose dando agl'Indiani, in cambio di pelli di grande valore, acquavite, fucili di scarto e cianfrusaglie.

La paleontologia e la paletnografia provano che la quantità e la qualità della selvaggina non è stata sempre la stessa. Molte specie di animali conosciute soltanto allo stato fossile, sono contemporanee dell'uomo e debbono la loro estinzione a notevoli cambiamenti dell'ambiente in cui vivevano. Nel periodo glaciale, ad esempio, scomparvero dalla fauna europea animali adatti ad un clima subtropicale, come il mammut, il rinoceronte lanoso, la saiga tartarica, il cervo gigantesco, enorme animale a corna ramificate dell'apertura di tre metri; si diffusero invece i rappresentanti della fauna artica, come la renna e la lepre variabile. Con la fine di quel periodo, gli animali glaciali si ritirarono lentamente verso le regioni polari o sulle alte montagne e la distribuzione geografica della selvaggina assunse gradatamente l'aspetto presente.

Tuttavia l'estinzione di parecchie specie e la localizzazione di altre in territorî molto ristretti, avvenuta anche in epoca storica recente, è effetto della caccia praticata senza freno dall'uomo. Una delle regioni, la cui fauna venatoria ha cambiato intensamente, è l'Africa settentrionale, che possedeva elefanti fino sul Piccolo Atlante, quegli elefanti che i Cartaginesi domavano per servirsene in guerra, e che ha posseduto leoni e leopardi fino alla metà del secolo scorso. I Maori hanno sterminato per mangiarli tutti i Dinornis nella Nuova Zelanda; altrettanto hanno fatto i Portoghesi nel sec. XVII alle isole Maurizio e Riunione con i Didus e con i Pezophaps e gli Americani moderni col colombo migratore che, al principio del secolo scorso, viveva in branchi tanto numerosi da oscurare il sole. I Tedeschi e i Polacchi del Medioevo cacciavano nelle loro foreste l'uro e il bisonte: il primo è oggi completamente estinto e l'altro ridotto a poco più di una decina di esemplari, viventi in qualche giardino zoologico. Anche il bisonte d'America, che è sempre stato per gl'Indiani il maggior mezzo di sostentamento, procurato con la caccia, non si trova più allo stato libero, ma soltanto in parchi protetti.

Accertamenti analoghi possiamo fare nei rapporti delle più grosse specie di selvaggina italiana. Lupi ed orsi abbondavano nel modenese ancora durante il sec. XVI, onde le speciali cacce all'orso in Garfagnana e quelle di Carlo Emanuele II (1657) parimente agli orsi nelle valli di Lanzo e Viù. Ma per l'esercizio venatorio intenso e poco prudente che si è seguitato a fare, anche in Italia, la selvaggina grossa è quasi ridotta alle sole riserve e quindi la maggioranza dei cacciatori non si occupa che dell'uccellame di passo che arriva nelle migrazioni autunnali e che, mentre nell'Italia settentrionale è quasi solo di transito, nell'Italia centrale e meridionale, grazie al clima migliore e conseguentemente alla migliore vegetazione, si sofferma anche d'inverno.

Col rarefarsi della selvaggina, causato dalla caccia intensiva, si è compresa la necessità di proteggerla nell'interesse della stessa caccia. Preoccupazioni di carattere protettivo si ebbero tuttavia anche nei secoli scorsi, e per es. nel Piemonte, già sotto Vittorio Amedeo I (1632), venne dato ordine a tutti i comuni di far levare la neve sotto gli alberi di noce perché la selvaggina potesse conservarsi; Carlo Emanuele (1672) introdusse daini nel parco della Venaria, Madama Reale (1676) proibì la caccia per un miglio intorno alle riserve. Pure in Piemonte, durante i mesi di marzo-giugno, qualunque caccia era vietata e i pollaioli non potevano vendere selvaggina. Anche in Lombardia, perfino nel territorio bresciano dove la passione della caccia ai piccoli uccelli è particolarmente diffusa e intensa, nel sec. XVIII l'esercizio venatorio si presenta disciplinato e rispettoso della nidificazione: "Non sia persona che ardisca uccellar a sorte alcuna d'uccelli dal principio del mese di marzo sin per tutto luglio, né a sorte alcuna di selvatici, non comprese però le passere e li quagliotti. Ognuno possa accusare li delinquenti, e li trasgressori siano e s'intendano caduti nella pena di lire cento oltre la confisca delle reti. Nella stessa pena cadrà chi si sia che in detti tempi venderà uccelli".

Attualmente parecchi stati si sono indotti a proibire la caccia a determinate specie di selvaggina e a riservare territorî più o meno vasti, ove essa è protetta efficacemente. Gli Stati Uniti d'America sono stati i primi a creare i parchi nazionali per la conservazione delle bellezze naturali. Il maggiore di essi è quello di Yellowstone, della superficie di circa kmq. 5297,50. Importantissimi, nel Canada, sono quelli di Banff e di Jasper nelle Montagne Rocciose, ricchi di alci, di cervi, e di bigorni, e quello di Wainwright dove il bisonte si è talmente riprodotto da escludere in modo certo la possibilità della sua estinzione. L'Italia ha costituito il Parco del Gran Paradiso in Piemonte, unica riserva dello stambecco delle Alpi, estinto in ogni altra località, e quello dell'Abruzzo, nella valle del Sangro, intorno ai comuni di Pescasseroli, Opi ed altri, per la protezione del camoscio abruzzese, che appartiene ad una razza locale distinta da quella delle Alpi, e dell'orso. Altra forma generica di protezione è l'estensione delle riserve, zone di protezione pubblica o privata, in cui la caccia è esercitata solo dal proprietario o da chi ne ha ricevuto autorizzazione, in misura limitata e tale da non compromettere il naturale incremento delle specie.

Grandi riserve per selvaggina grossa sono state create anche nelle colonie inglesi, francesi e belghe dell'Africa equatoriale, dove il cacciatore continentale non può uccidere più di un certo numero di esemplari indicati nella sua licenza di caccia. Per le giraffe occorre una licenza speciale ed è sempre proibito uccidere le femmine di quegli animali dei quali sia possibile distinguere il sesso.

La legge italiana contempla anche la bandita, territorio nel quale la caccia è vietata anche al proprietario; l'esperienza ha dimostrato l'inefficacia di questo tipo di istituzione che costa troppo denaro e non trova chi si sobbarchi al suo oneroso esercizio.

Sviluppo storico dell'esercizio venatorio.

La caccia nell'antichità. - Le documentazioni dell'arte primitiva, sculture e pitture, insieme agli scritti che ci sono stati tramandati dagli antichi, e alle tradizioni esistenti attualmente presso razze umane in stato di civiltà arretrata, provano che l'esercizio della caccia è una delle forme più diffuse e più nobili dell'attività degli uomini. II primo cacciatore di cui si abbia notizia è Nembrot che, dice la Bibbia, fu potente cacciatore al cospetto di Dio. Non sappiamo in qual modo egli abbia potuto rendersi degno di tale citazione, ma è probabile che egli abbia cacciato il leone con la lancia, così come le sculture assire ritraggono la caccia nei tempi primitívi; così come gl'Indiani dell'America del Nord attaccavano coraggiosamente il bisonte e ne traevano tale diletto da aspirare per le anime dei guerrieri caduti sul campo, più estesi e più ricchi territorî di caccia presso il Vacondah.

Gli Assiri cacciavano anche con archi e frecce, con cani e con ghepardi, a piedi, a cavallo, e su cocchi a due ruote. Gli Egizî, parecchie migliaia d'anni prima dell'era volgare, avevano organizzato sistemi di caccia, se si eccettui tutto ciò che si connette al fucile, in uso anche ai nostri giorni. Una specie di caccia forzata con cani e talvolta con leoni ammaestrati era in uso per la grossa selvaggina che veniva catturata da questi animali o uccisa con frecce dal cacciatore che seguiva su di un cocchio. In vallate strette si ponevano reti, contro le quali i cani spingevano la preda che era poi uccisa dai cacciatori con frecce o lance (fig. 1). Molto sviluppata era la caccia agli uccelli acquatici, numerosissimi anche allora nelle vaste distese d'acqua. Erano usate mazze ricurve di legno che abbattevano le anatre, o varie forme di reti, così come anche oggi usano Cinesi e Giapponesi per acchiappare questi uccelli negli stretti canali destinati a tale scopo. In Persia, ai tempi di Ciro, si facevano vere e proprie battute a piedi o a cavallo, in comitive numerose.

Nella Grecia dell'epoca classica l'esercizio della caccia (κυνηγία, κυνηγέσιον) non era considerato soltanto uno sport attraente, ma anche e soprattutto, un mezzo d'ingagliardire il corpo e di prepararlo alle più dure fatiche della guerra, un mezzo di esercitarsi a mirare, a colpire con fermezza, e a non perdersi d'animo davanti al pericolo. Aristofane vorrebbe mandare piuttosto a caccia tutti i politicanti e i parolai (Cav., 1382), e Platone (Leg., VII, 824 c) condannando la caccia fatta con le reti o di notte e quella contro gli uccelli, indegna di uomini, vuole che il cacciatore insegua a cavallo la preda esponendosi ai rischi della lotta. Ma gli Ateniesi, cacciatori meno fortunati degli Spartani, che trovavano nel boscoso Taigeto abbondante selvaggina, non avevano nell'Attica, in età classica, che lepri e uccelli, e le eroiche cacce al cinghiale non radunavano più le schiere dei giovani coraggiosi che imitavano contro il pericoloso animale le gesta attribuite agli eroi mitici, Ercole, Teseo e Meleagro. È da notare che i Greci e i Romani attribuivano alla caccia origini divine: alcuni Dei avevano insegnato l'uso delle armi, dei cavalli e dei cani agli eroi prediletti, altri eroi avrebbero ciascuno inventata una speciale arma o forma di caccia; a Diana, a colei che in origine era la πότνια ϑηρῶν e che era venerata come divina cacciatrice, 'Αγροτέρα e accanto a lei ad Apollo, a Ercole, ai Dioscuri, alle minori divinità della campagna e delle selve erano dedicate le primizie della caccia, le pelli e le corna degli animali, un'arma, i collari e i guinzagli dei cani migliori, un monumento rappresentante il cacciatore o la preda.

Come già abbiamo accennato, in Laconia e nelle parti montuose della Grecia si trovavano lupi e cinghiali; la volpe si trovava quasi in tutta la Grecia e veniva costantemente cacciata per i danni che recava all'agricoltura; il cervo era specialmente in Arcadia, sul Taigeto, in Epiro; la lepre, e più tardi il coniglio selvatico, abbondava ovunque e la caccia ad essi costituiva, insieme con quella agli uccelli, il genere di caccia più usuale; nell'isola di Creta si trovava anche la capra selvatica. Le armi e gli arnesi per la caccia erano svariati; si usavano: la clava, o meglio un grosso bastone nodoso e leggermente ricurvo (λαγωβόλον, pedum), l'ascia e l'ascia oppia, lo spiedo di cui si conoscono diverse varietà, giavellotti anche a due e a tre punte. Per la caccia agli uccelli si adopravano, oltre l'arco, la fionda e una specie di cerbottana (λαϑροβόλος δόναξ, harundo), canna per mezzo della quale si lanciavano, soffiando, piccole palle di argilla e di piombo (cfr. Marz., IX, 54; Petron., 109), ogni sorta di lacci, reti, panie, uccelli da richiamo (fig. 2); anche per i quadrupedi erano usate reti (fig. 3) o lacci nei quali l'animale restava preso per un piede, fosse abilmente dissimulate nelle quali cadeva e veniva finito a colpi di spiedo, trappole nelle quali era attirato dall'odore di un cibo o dai gridi di un animale che serviva da richiamo. Si avevano cani da presa, da inseguimento, da fiuto, che venivano addestrati con molta cura; anche i cavalli per la caccia erano scelti di razze speciali. Al ritorno dalla caccia la selvaggina era trasportata o sopra carri o sopra barelle di rami intrecciati, o appesa per le zampe all'estremità di un bastone (fig. 4); le lepri erano portate per lo più in spalla e gli uccelli in mazzetti alla cintura, per quanto non fosse ignota la carniera.

In età ellenistica crebbe la passione per la caccia; il nome di buon cacciatore fu titolo di onore, aumentò il numero dei monumenti funerarî nei quali il defunto era ritratto in aspetto di cacciatore; in questa età i Greci conobbero le grandi cacce esotiche dei re di Egitto che organizzavano grandi battute e avevano immense riserve. L'arte greca, come più tardi l'ellenistica e la romana, ha tratto costantemente ispirazione da scene di caccia.

In Etruria la caccia è stata elevata al grado di sport molto presto. Antichi monumenti etruschi - a cominciare dalla grotta Campana di Veio databile allo scorcio del sec. VII a. C. - ci mostrano con frequenza scene di caccia al cinghiale, al cervo, alla lepre; i cacciatori, ora a piedi, ora a cavallo, seguiti da numerosi cani, sono armati di giavellotti e di asce; per la lepre è usata anche la clava (fig. 5). Gli scrittori romani lodano spesso l'eccellente razza dei cinghiali toscani.

Fra i Romani la passione per la caccia, pur non raggiungendo quel grado di intensità che ha avuto presso gli altri popoli dell'antichità, si sviluppò al principio del sec. II a. C. e andò sempre crescendo fino a raggiungere il colmo nei primi secoli dell'impero; oltre alla selvaggina propria dell'Italia i Romani conobbero ogni sorta di belve nell'Africa e nelle altre provincie: conobbero tutti i mezzi di caccia che abbiamo enumerati per i Greci, e già dal tempo di Marziale (XIV, 216) la caccia agli uccelli per mezzo del falcone. I grandi signori romani si crearono immense riserve di caccia; il tempio di Diana Nemorensis ad Aricia riuniva i cacciatori per speciali riti inerenti alla caccia. L'arte imperiale continuando gl'indirizzi dell'arte ellenistica, moltiplica sopra ogni genere di monumenti scene di caccia (cfr. i medaglioni dell'arco di Costantino); gli scrittori sfruttano anch'essi lo stesso tema e alcuni scrissero addirittura trattati di cinegetica.

La venatio entrò poi presto (186 a. C.) a far parte degli spettacoli del circo e dell'anfiteatro.

Una delle cacce più diffuse presso gli antichi fu quella al cinghiale, che esponeva i cacciatori a pericoli e difficoltà ed esigeva grande coraggio, onde l'uccisione di uno di quegli animali era considerata come un'impresa eroica: la morte del cinghiale di Erimanto fu ritenuta una delle maggiori gesta di Ercole. La caccia si faceva per solito con mute di cani che inseguivano il cinghiale e lo spingevano verso reti: spesso l'animale assaliva i cacciatori che lo colpivano con frecce, lance e spiedi. La lepre è stata sempre apprezzata e cacciata con passione, per solito in battuta e con cani. I Celti adoperavano un cane di fine odorato per scovare il timido rosicante e un levriere per prenderlo. Si facevano anche cacce forzate. Molto importante fu la caccia all'orso in Armenia ed Assiria: il covo della fiera veniva trovato dai cani: i cacciatori si tenevano nelle vicinanze, mentre due uomini con una fune lunga e tesa, coperta di nastri e penne di varî colori, si ponevano di fronte alla tana. Altri suonavano trombe; allora l'animale irato usciva ma, impedito dalla fune, era costretto a cercare una via di scampo da un lato; i cacciatori lo attaccavano di fianco e lo spingevano in una rete. La rete fu pure usata contro il leone che veniva catturato anche in fossati. I lupi erano oggetto di cacce forzate e di ogni altro genere d'insidia, compreso il veleno.

La caccia nel Medioevo e nell'Età moderna. - Nel Medioevo e nell'età moderna l'esercizio venatorio si presenta assai diverso a seconda dei periodi. Dapprima, forse fino al mille, la caccia continuò ad essere una forma di lotta per la vita e quindi una necessità o per lo meno un lavoro servile, e come tale, nei primi secoli della Chiesa, vietato nei giorni festivi; poi, fino ai tempi moderni, cioè ancora nel Cinquecento, fu prevalentemente sollazzo di signori, improntato a privilegio feudale conseguente alla proprietà fondiaria; poi, e nell'età presente, divertimento libero a tutte le classi, variamente praticato a seconda delle regioni e dei mezzi dei singoli.

L'asserto che la caccia nei progressi dell'umanità abbia avuto un'importanza decrescente perché nulla può darci l'idea di quello che dovette essere quale difesa contro il mondo esterno, deve quindi intendersi con riferimento al periodo antico o barbaro della caccia, perché questa non fu un esercizio sempre identico, ma un'attività che, da lotta o fatica servile, diventò manifestazione di lusso e di cavalleria, e quindi prova di cresciuta civiltà, come infatti attestano l'arte e la letteratura dei varî tempi. Lo stesso spirito cavalleresco del Medioevo esercitò la sua influenza anche sulla caccia, e perfino principi non sdegnarono di scriverne e farsene maestri. Tali Federico II imperatore, Ercole Strozzi, che nella Venatio, volendo parlare dei cacciatori, passa in rassegna tutti i principi e poeti del suo tempo, ecc.

Fatta eccezione per la grossa selvaggina (bisonte, cervo, cinghiale), che si cacciava con l'arco e le frecce (tali le armi di Uberto d'Aquitania, vissuto nel sec. VII e assunto poi a patrono dei cacciatori, e di Carlomagno, appassionatissimo della caccia al lupo, che inseguiva a cavallo anche con la lancia), la vera caccia di quei tempi fu la falconeria (v.). Gli esercizî venatorî di più basso grado, e come tali consentiti anche al popolo, furono da questo praticati con reti, vischio e trabocchetti senza conseguire nella letteratura vere segnalazioni descrittive. In complesso, dai cenni informativi di più tardi autori e soprattutto dalle illustrazioni pervenuteci, mentre s'intuisce nella venaria medievale una sostanziale identità con i sistemi d'aucupio moderni, si rileva una grande ingenuità e semplicità di mezzi, quali oggigiorno assicurerebbero il più completo insuccesso. Allora l'abbondanza dell'uccellame, certamente imparagonabile con la susseguita rarefazione, nonché la confidenza della selvaggina, non disturbata né allarmata da spari, devono aver supplito alle risorse dell'esercizio primitivo, rendendolo anzi vistosamente proficuo, come risulta dalle informazioni e fonti sopra accennate. Era tanta, allora, l'abbondanza degli uccelli, che bastava distendere una rete in campagna, tra gli alberi, e poi avvicinarvisi facendo qualche chiasso, per trovarla ripiena d'uccellame. Lo narra ancora per i suoi tempi il Sannazzaro, chi vi si dilettava personalmente. Così pure eran tanto frequenti e dense le frotte di storni che, lanciandone uno o due ai quali s'era legato un filo invischiato, essi, correndo a imbrancarsi con gli altri, ne impeciavano molti e tutti cadevano a terra, imbarazzati dal filo. Il sistema continua anche ai nostri tempi; ma quanto diverso ne è il reddito!

Curiosa l'esistenza già nel Medioevo, specialmente in Francia, Germania e Inghilterra, delle associazioni di cacciatori, le quali avevano carattere anche religioso e segreto, con segni e parole convenzionali. Come attualmente presso gli Anglosassoni, già sotto i Franchi era proibito cacciare di domenica.

Solo nei tempi moderni la caccia venne governata da leggi apposite, intenzionalmente intese anche alla protezione della selvaggina. Prima - in modo speciale nelle sue forme di caccia con i falconi e di caccia grossa - non fu che un esercizio in sostanza riservato al libito dei possidenti fondiarî e dei signori, i quali potevano praticarlo senza limitazioni di stagione. Tranne, forse, nel dominio visconteo, anche quando cominciarono a introdursi le restrizioni di tempo, queste furono intese alla tutela dei campi, come si trova esplicitamente dichiarato negli statuti di Lucca del 1342, i quali, dal 1° giugno a tutto il mese di settembre, vietavano ai privati di entrare nei campi per uccellare alle quaglie, perché in tali mesi ne sarebbe venuto danno ai raccolti.

Del pari, per il suo carattere profano, la caccia fu vietata ai preti, divieto talvolta imposto anche da sovrani laici, come nella donazione fatta al convento di Farfa nel 772 dal duca di Spoleto: "exceptam venationem.... quam nobis reservavimus". Ché se, nel secolo successivo, Carlomagno concedette un bosco ai monaci della badia di Saint-Denis per la caccia ai cervi e caprioli, fu perché occorreva rilegare i codici del convento e bisognava quindi procurare in qualche maniera le pelli. Però anche grandi prelati, ad es. i vescovi-conti, erano signori feudali; e così, verso il mille a Brescia, la caccia all'orso nei monti di Degagna era riservata al vescovo e i broletti delle città erano parchi, nei quali con il signore anche il vescovo teneva animali da caccia.

Ai canonici invece era proibito perfino l'uso della civetta. Viceversa talvolta erano gli stessi conventi che imponevano ai proprî affittuali un tributo venatorio; così il convento di Arona nel secolo XIII faceva consistere tutto l'affitto di un suo fondo in perdicem unam bonam et grassam, che l'investito doveva consegnare ogni anno a Natale.

San Carlo confermò la proibizione della caccia ai sacerdoti: clerici a venatione abstinebunt (1566). E solo dai tempi moderni (sec. XVIII) l'esercizio della caccia venne permettendosi a tutti gli ecclesiastici, fors'anche a causa del rarefarsi della selvaggina, che della caccia attenuò il primitivo carattere cruento.

Il costume spiccatamente signorile delle cacce medievali non va però inteso in senso assoluto, che cioè andasse a caccia solo il signore; la stessa loro grandiosità esigeva anzi un impiego larghissimo di salariati quali battitori e canettieri, come oggi non se ne ha più idea. Erano eserciti di migliaia di cani, e di uomini il doppio, naturalmente alle dipendenze di maestri delle cacce. I signori si tenevano gelosamente caro tale personale e lo ricolmavano di privilegi di vario genere.

Ci restano lettere dell'imperatore Federico II (1240) che ordinano agl'impiegati erariali di far le spese e condonare i debiti a tutti i suoi cacciatori. Anche in Italia si può dire che godevano d'impunità; un Lanfranco Barbieri, processato e condannato, era uccellatore di Bernabò Visconti, il quale lo graziò completamente. Così i regali che i signori si scambiavano tra loro, se li recapitavano a mano dei proprî cacciatori, che non dovevano essere persone zotiche se capaci di intraprendere lunghi viaggi anche all'estero, e presentarsi a sovrani, quali il sultano di Babilonia, in nome dei Visconti. Passaporti e commendatizie accompagnavano tali cacciatori, accreditandoli presso le autorità dei varî paesi, che li dovevano fornire di mezzi e persone. Una categoria di aiutanti era quella che oggi si direbbe delle marche o marcatori, i quali in caccia non facevano altro che segnare il cammino percorso dal selvatico, tagliando rami e gettandoli in terra (brisando).

Nel sec. XVI principi, diplomatici, scienziati e guerrieri non disdegnavano la caccia; la ritenevano anzi uno degli esercizî più confacenti a perfetto cavaliere. Falconi e cani formavano oggetto di doni graditissimi fra potenti signori, e centinaia di coppie di levrieri e gran moltitudine di uccelli di rapina facevano parte dei cortei e delle solenni cerimonie di parata.

Tutte le specie selvatiche dei quadrupedi e degli uccelli furono, qual più qual meno, oggetto o materia di caccia, anticamente presenti, e diffuse anche in regioni ove adesso sono scomparse. Nel sec. XVI si trovano, ad es., cinghiali anche in Lombardia, e i Gonzaga e i Visconti li cacciavano con segugi esperti, non senza riportarne talvolta ferite personali.

In generale, ogni selvatico sive avis sive bestia alicuius maneriei era di caccia riservata, come veniva periodicamente notificato al pubblico da banditori o preconi comunali che, saliti sull'arengario, sono tubae praemisso, pronunciavano ad alta voce il divieto. Se qualcuno osava trasgredire o anche solo non si faceva denunciatore dei trasgressori, gravi precise pene lo raggiungevano, di denaro e di tormenti. Il concetto della riserva, cioè di porzione di territorio tenuta a esclusiva disposizione del signore e dei suoi eventuali ospiti o "comitiva", si presenta quindi chiaro già nel periodo visconteo, con ordinanza di Bernabò del luglio 1372, che ingiunge al podestà di Reggio Emilia di riserbargli per caccia una parte della campagna, che fosse la più bella e la più vicina alla città, preavvisando che se di lì a un anno non vi avesse trovato selvaggina in quantità, il capitano e il podestà sarebbero stati puniti.

Dappertutto i Visconti ebbero riserve: a Desio, Monza, Pandino, ecc.; anzi tali luoghi erano per intero riserve e intorno a quella di Abbiategrasso c'era per di più una zona di rispetto di tre miglia, nella quale era proibito agli estranei anche il solo entrarvi con cani. Chi vi veniva sorpreso in atteggiamento di caccia doveva pagare cento fiorini d'oro, e se si scoprivano lacci o reti senza che si potesse cogliere il trasgressore, la multa ricadeva sul comune nel cui territorio era stata elevata la contravvenzione. Nelle riserve erano proibiti il pascolo e il taglio dei boschi; da maggio a luglio nelle stoppie non potevano entrar bestie. Nei paesi o luoghi di riserve qualunque commercio di selvaggina era vietato. Ogni infrazione commessa in tempo di neve veniva colpita da pena doppia.

Fuori delle riserve, nei territorî viscontei, la caccia era libera, purché ognuno cacciasse con cani e falchi proprî e non prendesse la selvaggina ad tradimentum, cioè con reti o trappole; ché se ciò avveniva e qualcuno pigliava perdices vel alias salvaticinas cum ingeniis et instrumentis, chiunque doveva denunciarlo al podestà, il quale strappava gli occhi al trasgressore e faceva pagare cento fiorini d'oro al comune del contravvenuto, cinquanta dei quali venivano subito dati in premio al denunciatore. Ferocemente severi contro chi osasse trasgredire i divieti o cacciare nelle loro riserve (nobis nulla maior displicentia fieri potest, 1397), i Visconti furono però altrettanto perentoriamente espliciti nell'ammettere che fuori delle riserve chiunque poteva andare a caccia; e quando si osservi che tale diritto era precisato al trimestre agosto-ottobre, si vede che, come precorsero i tempi moderni in tante cose, anche nella regolamentazione venatoria ebbero chiaro il concetto della riserva coesistente con quello della libera caccia e, circoscrivendo l'esercizio venatorio (almeno quello altrui) ai tre primi mesi dell'autunno, dimostrarono un'intenzione protettiva della selvaggina.

Lettere viscontee fanno memoria di un allevamento di cervi, annunciando che Gian Galeazzo stava per metterli in libertà affinché potessero nutrirsi meglio, e nessuno doveva prenderli né molestarli sub pena vitae! Viceversa la cattura di lupi e di volpi veniva compensata; e così pure fagiani e pernici venivano in autunno continuamente comprati per le mense dei Visconti. Protezione era esplicitamente sancita per i colombi delle piccionaie. Gli statuti di Crema, Lodi, ecc. proibivano perfino il possesso di reti o copertoni, a meno che non si fosse dato garanzia di non catturare colombi. In primavera non si potevano prendere le quaglie. I genitori erano responsabili delle trasgressioni dei figli.

La manutenzione delle riserve andò sviluppandosi o perfezionandosi sotto gli Sforza, e il parco di Pavia divenne nel sec. XV la più importante delle tenute ducali e la più ricca di selvaggina. La natura del terreno ineguale e qua e là ondulato, la facilità di irrigarlo con le acque della Vernavola e della Carona, permettevano di tenervi selvatici in abbondanza, che si moltiplicavano prosperosamente. Vi erano cervi, daini, caprioli, fagiani, pernici, quaglie e uccelli innumerevoli. Fino dai tempi di Galeazzo II vi si tenevano cigni bianchi e morelli che il duca si faceva dare dai Gonzaga, che ne avevano in abbondanza e glieli mandavano per nave, ben riparati da stuoie, per la via del Po e del Ticino, mentre il duca di Ferrara forniva i cervi.

Il divieto di tagliar piante nel parco, di prendervi uccelli o quadrupedi destinati alle cacce ducali, era perentorio. Contro chi ardiva penetrare in riserva e cacciarvi o rubarvi erano comminate pene fortissime. Per una quaglia si dovevano pagare due fiorini; per una pernice cinque, per un fagiano dieci, per una lepre venticinque, per un capriolo cinquanta, per un daino cento. Vi era il capitano del parco che aveva facoltà di permettere e ordinare il taglio delle piante.

I conduttori dei campi o fittavoli erano obbligati alla manutenzione degli edifici, dei ponti e delle spalliere; dovevano lasciar pascolare liberamente daini e cervi nei prati fino ai 20 di marzo. In primavera e in estate gli animali venivano chiusi entro speciali recinti, perché non invadessero i seminati o si danneggiassero tra loro; al principio dell'autunno, raccolte le messi, tornavano ad essere rilasciati liberi. Uccellatori e inservienti avevano l'alloggio a carico del fittavolo, che doveva anche tenere e pagare tre guardie. Deposizioni processuali attestavano che neanche allora tutte e sempre le proibizioni venatorie furono ottemperate (un processo svoltosi nel 1499 davanti al vicario vescovile di Bergamo parla di aucupio estatino di quagliotti cum rethe super herba) e suppliche dimostrano che nel sec. XVI il rigore repressivo cedette a mitigazioni, sicché i fratelli Arconati poterono ottener grazia benché andati a caccia più volte nella valle del Ticino catturandovi a tradimento caprioli, cervi, cinghiali e lepri.

Parimenti nel territorio mantovano i Gonzaga ebbero ben regolate cacce e in quei grandi boschi, nei quali si annidava grande quantità d'uccelli, a loro protezione proibirono di toccarne le uova. Una grande riserva famosa per anitre e lepri fu nel Cinquecento quella dei Serego a Verona. Era poi in facoltà dei governi di sospendere la caccia quando volevano. Così nel 1465 la repubblica di Venezia, avendo saputo che Borso d'Este, marchese di Ferrara, faceva conto di recarsi nel settembre a caccia sul bresciano, proibì la caccia ai fagiani e quaglie, tanto nella provincia di Brescia quanto in quella di Bergamo, appunto perché l'ospite ne potesse trovare in abbondanza, come difatti avvenne.

Nel Piemonte fu famoso il parco della Venaria. Vittorio Amedeo I proibì di cacciare sui monti di Torino; Madama Reale vietò la caccia in tutta la Savoia, meno per i nobili nei loro feudi.

Gli Spagnoli, che tutto sottoposero a fiscalità, non tardarono a convertire in balzello il diritto di caccia anche fuori delle riserve. Tutte le istanze attinenti alla caccia dovevano esser presentate all'apposito Ufficio della caccia, che era composto di un capitano e di un cancelliere, i quali rilasciavano, firmavano e registravano le licenze. Queste erano temporanee e riguardavano soltanto uccelli d'acqua e di passo. Chi cacciava senza licenza era naturalmente in contravvenzione, e veniva giudicato o dal podestà del luogo o dal capitano di giustizia.

Nel 1584 furono pubblicati gli ordini reali sulla caccia, che vennero ripubblicati nel 1660, e a cui ne seguirono poi altri nel 1722 e 1723. In tali ordini tornarono a essere fissati i luoghi dove era proibito cacciare: Chiaravalle, Vigevano, la valle del Ticino, ecc. Ai contadini era proibito d'andare a caccia perché non trascurassero l'agricoltura. Erano proibiti i fucili a tiro rapido e l'uso dei pallini, perché troppo dannosi alla selvaggina. Si poteva sparare solo a palla. La caccia era proibita dal 1° aprile all'8 luglio; nei fondi coltivati a cereali era sempre proibito entrare.

La sorveglianza si esercitava col mezzo di più di trecento apposite guardie campestri (campari), nominate per ogni provincia dal capitano della caccia, le quali operavano d'intesa coi consoli dei comuni. Non potevano però fare perquisizioni nelle case senza ordini tassativi e non potevano ricevere danaro dai privati.

Nel dominio mantovano l'Ufficio della caccia fu tenuto (secoli XVI-XVIII) da un sopraintendente alle cacce e dal giudice di caccia, che venivano nominati dai Gonzaga. Spettava ad essi tutta la materia degli ordini e regolamenti venatorî, la delimitazione delle riserve del principe, l'autorizzare in queste il taglio dei boschi e il pascolo delle pecore, il servizio dei custodi, fagianari, campari, guardiacaccia, il rilascio delle licenze ai privati, la decisione delle contravvenzioni, la concessione dei privilegi di caccia ad alcune persone, enti o comunità.

Intensa in modo speciale la passione della caccia nel territorio bresciano, passione che non fu senza influsso anche sulle industrie. Nel 1721 il Senato di Venezia dovette permettere alle maestranze di Gardone Val Trompia la fabbricazione di canne speciali per fucili da caccia. E si ebbero altresì beghe tra famiglie patrizie per motivi di caccia, quale una lite nel 1723, tra i Cigola e i Martinengo, perché i Cigola pretendevano di cacciare loro soli in Cigole. Per prendere uccelli si sparava persino in città, si collocavano ceppi, trappole, e si scavavano fosse che erano un pericolo per i cittadini. La passione giunse a tanto, che degenerò in risse e delitti, sicché nel 1745 occorse un pubblico proclama speciale contro chi insidiava la vita dei cacciatori. L'estrema diffusione della passione in tutti i ceti della popolazione fu probabilmente causa della rapida scomparsa delle riserve in quel territorio, mentre ancora alla fine del Settecento il governo di Venezia aveva consentito o riconosciuto agli Averoldi il privilegio o privativa di caccia in tutti i fondi di Bedizzole, Drugolo e Padenghe.

Presso i Fiorentini, la passione della caccia, protetta dai principi medicei, venne portata al più alto lusso da Francesco I. I parchi di Artimino e del Poggio a Caiano videro fastose adunate di caccia. La villa di Pratolino fu costruita espressamente in località alpestre e selvosa per appuntamenti cinegetici. È rimasta celebre una cena data nel palazzo Pitti alla brigata dei Piacevoli dal granduca Ferdinando II, alla quale tutti convennero vestiti da cacciatori.

I Medici cacciavano il fagiano e la lepre alle Cascine e al Poggio a Caiano, il cinghiale in Maremma. Nei primi anni la selvaggina che si prendeva veniva distribuita alle dame e ai gentiluomini di corte, ai ministri esteri e ai viaggiatori d'alto rango; in seguito tale consuetudine cessò. Anche nella legislazione medicea la caccia era trattata con molto rigore. Le riserve erano così numerose che soltanto i signori, cioè i principi e i maggiori ricchi, potevano concedersi lo svago della caccia; al popolo non restava che il rischio di tendere qualche laccio e archetto.

Sotto l'Austria la materia della caccia fu di competenza dapprima del Magistrato straordinario, poi del Consiglio di governo, di cui nel Lombardo-Veneto fu presidente Cesare Beccaria, il quale insegnò a considerare le riserve di caccia quali preziose riserve di boschi, perciò utili anche agli effetti forestali, e come nefasta, nei riguardi dell'agricoltura e della stessa caccia, "la licenza di andare a caccia dei selvatici in tempi di generazione". Secondo le regie costituzioni, i diritti di caccia potevano unirsi alle infeudazioni e i vassalli investiti della caccia avevano facoltà di proibirla.

Con l'avvento della "libertà repubblicana" le licenze vennero sospese, e quindi, per motivi di pubblica sicurezza, la caccia col fucile fu proibita; ma il malcontento fu tale e l'impazienza degli appassionati tanta che nel novembre 1797 si dovette tornare a permetterla e a lasciar libero "ogn'altro metodo", s'intende "nei tempi permessi dalla legge", a tutti i cittadini di buona condotta politica, risultante da un certificato della municipalità che assicurava del "civismo". Per chi veniva trovato "in contraffazione" del disposto, era fissata la pena di lire cento e la perdita del fucile.

Anche ripristinata la dominazione austriaca, riserve regie di caccia nel milanese furono i boschi del Ticino e il parco di Monza; per il restante territorio si concedevano licenze a prezzo. La legge 13 febbraio 1804 stabilì che per esercitare la caccia occorreva anche il permesso dei proprietarî dei fondi: disposizione che in pratica si rivelò eccessiva, sicché un decreto del 21 settembre 1805 limitò il divieto ai luoghi chiusi o seminati o coltivati a frutto. Nel 1859 re Vittorio Emanuele II abbandonò le riserve del Ticino mantenendo soltanto il parco della villa reale di Monza, ricchissimo d'ogni specie di selvaggina. A dire il vero esso non fu però mai nelle grazie del gran re, che da forte cacciatore amava le Alpi piemontesi, preferendo il camoscio alla lepre e il gallo cedrone al fagiano. Sotto il suo regno il parco di Monza servì quindi unicamente alle partite di caccia così dette di prammatica, quale quella del 1875, in onore dell'imperatore di Germania suo ospite. Re Umberto amò moltissimo il parco di Monza, e durante la sua permanenza primaverile e autunnale vi cacciava quasi ogni giorno. Poiché i caprioli andavano scomparendo, egli intensificò in cambio l'allevamento dei fagiani. Per aumentare la fauna del parco volle che si facessero venire delle pernici dalla Boemia, ma esse, non appena poste in libertà, fuggivano oltre la cinta del parco e venivano uccise dai cacciatori che pullulavano nelle campagne. Vennero pure introdotti i conigli selvatici ma fu un disastro per la superba vegetazione del parco, perché vi distruggevano una grande quantità di piante.

Strumenti e metodi di caccia.

Forme generali di caccia. - La caccia si compie in quattro forme, cioè, in ordine di antichità, la caccia all'arma, la caccia con la trappola, la caccia a volo e la caccia alla corsa. Se alcuni procedimenti delle due prime forme sono moderni, le forme della caccia all'arma e della caccia alla trappola provengono da civiltà primitive. Viceversa, se maniere speciali della caccia alla corsa sono praticate dai primitivi, le altre da popoli di cultura intermedia, la maniera più rappresentativa della caccia alla corsa e della caccia a volo appartengono a civiltà superiori e complete (v. civiltà).

Caccia all'arma. - È questa la forma di caccia più universale e certo anche la più antica. Originariamente l'arma era un bastone o, per maggiori distanze, un sasso; ancor oggi si usa a volte l'arma da colpo: per es. nelle regioni polari i pinguini o anche le foche vengono abbattuti con clave. Nella maggioranza dei casi, però, l'arma è da getto o da tiro (a fuoco); da getto presso i popoli di civiltà inferiore, media o anche superiore, da tiro presso quelli di civiltà completa. Le armi da getto, le sole che qui ci interessano, sono le stesse che servono per la guerra (v. armi). Tutt'al più vi sono per la caccia alcune modificazioni; così, quando è necessario di non sciupare le piume di un uccello o la pelliccia di una piccola bestia, la freccia invece di terminare con una punta termina con una pallottola o con una testa piatta, che colpisce come una piccola clava da getto. Vi sono inoltre armi che servono esclusivamente per la caccia: per es. l'arpone (v.); e altre due da cattura: il lasso, usato specialmente nelle praterie dell'America Settentrionale, e la bola, usata nelle pampas dell'America Meridionale.

Mentre esiste una pesca col veleno, avvelenando cioè l'acqua, non si ha una caccia col veleno, almeno fino a che non si impiegheranno i gas deleterî. Ché, se talvolta la lancia e l'arpone, più spesso la freccia ad arco e quasi sempre la freccia della cerbottana sono avvelenate, ciò non toglie che la riuscita della caccia dipenda dall'abilità del cacciatore, cosicché si tratta anche in questi casi di caccia all'arma. E, se il veleno è nell'esca, si tratta sempre di caccia a trappola.

Nella caccia all'arma l'uomo può essere aiutato da animali (v. oltre): nella caccia col cane vanno distinte due maniere, secondo che il cane è da fermo o da corsa; nel primo caso esso è solo un aiuto secondario della caccia all'arma, nel secondo caso esso stanca e raggiunge correndo la selvaggina, facendo rientrare questa forma in quelle della caccia alla corsa. Per la classificazione sistemati causata qui non va fatta alcuna differenza fra la caccia normale e la caccia alla posta (agguato).

Caccia con la trappola. - Ovunque si pratica anche la caccia con la trappola, la quale può ben essere più distruttiva che non la caccia all'arma; è perciò sottoposta a restrizioni nei paesi che possiedono regolamenti di caccia. La trappola essendo usata soltanto per la caccia, richiede qui una trattazione abbastanza diffusa. Stupisce constatare che forme uguali di trappole assai complicate si trovino in contrade lontane, e non è facile sapere se ciò si debba a convergenze o a contatti. Uno studio particolare delle trappole di tutto il mondo non si è ancora fatto, forse per la difficoltà che presentano alcune forme ad essere descritte e disegnate. Si possono intanto distinguere le mezze-trappole dalle trappole vere o complete.

Mezze-trappole. - La trappola è solo un aiuto, essendo necessaria la presenza dell'uomo per catturare o uccidere l'animale. Così nell'antico e nel moderno Egitto, si prendevano e si prendono le quaglie con reti tese nei campi, nelle quali però le quaglie non vanno a impigliarsi se non vi sono spinte dai battitori. E pure per mezzo di reti, poste però verticalmente, dove gli animali vengono spinti e poi uccisi, i Daiaki di Borneo catturano il cervo, alcuni popoli dell'Africa orientale la gazzella, gli Eschimesi la lepre polare. Nell'Africa orientale, come nella Polinesia, i cacciatori innalzano gabbie verso le quali attirano gli uccelli fischiando, o col richiamo di un uccello prigioniero, chiudendo poi la porta con una cordicella, appena fatta una vittima. Pure nell'Africa orientale vengono usate reti cilindriche allungate che si collocano all'apertura delle tane dei topi: appena uno di questi vi sia entrato bisogna chiudere a mano l'apertura della rete. Apparecchi più grandi, talvolta di legno, ma sempre basati sullo stesso principio, sono usati dai Sakai di Sumatra e dagl'Indiani della Guiana per catturare il porco selvatico. In India gli elefanti vengono cacciati e spinti in una certa direzione mediante palizzate lunghe a volte varî chilometri, fino a un luogo rinchiuso, ove devono poi essere catturati. I cacciatori dell'America Settentrionale usavano palizzate analoghe a forma d'imbuto, nel quale i battitori spingevano la selvaggina, mentre all'estremità di esso erano praticate aperture ove i cacciatori attendevano gli animali in agguato. Bisogna, per analogia, comprendere fra le mezze-trappole anche gl'incendî accesi dagli stessi Indiani per spingere la selvaggina verso i punti ove erano appostati i cacciatori; e anche gli arnesi disseminati su di un sentiero perché l'animale vi si ferisca (nel caso che l'animale debba perirvi o rimanervi prigioniero, si tratta di una vera trappola).

Trappole propriamente dette. - Esse, a seconda dei principî meccanici da cui son rette, vanno divise in quattro categorie: trappole a peso, a laccio, a molla in forma di frusta, e a torsione, ognuna di queste categorie poi subisce varie suddivisioni. Non si troverà qui una descrizione teorica di queste divisioni e suddivisioni, ma la descrizione della trappola presa quale esempio delle diverse sezioni della classifica.

1. Trappole a peso. - Sono queste di due tipi; nel primo l'animale stesso funziona da peso e sprofonda in una fossa ricoperta da frasche o altro materiale. Tali trabocchetti sono un prodotto delle civiltà primitive e sono stati segnalati un po' da per tutto: in America tanto presso gli Amerindi, quanto presso gli Eschimesi; in Asia presso i Paleosiberiani e anche presso i Malesi; in Africa piesso i Negri e i Boscimani.

Nel secondo tipo, invece, l'animale va a porsi, attirato dall'esca, sotto al peso, che gli si abbatte addosso, uccidendolo, o imprigionandolo, o (quando si tratti di un'animale piccolo) efferrandolo.

Qui illustrata (fig. 9) è una trappola a peso che uccide, per leoni e leopardi, usata dagli Abissini e dai Galla (osservazione G. Montandon). Ha 3-4 metri di lato; è fatta di tronchi d'albero e una volta costruita ci vogliono varî uomini per tenderla. La fiera penetra sotto il tetto obliquo fatto di tronchi riuniti da liane, e tira a sé l'esca a. Facendo ciò tira nello stesso tempo il bastone b attaccato all'esca da una liana; b era attaccato ai pali c, solidamente fissati in terra, solo dalla pressione di un piccolo legno, d, il quale esercita questa pressione su b solo con un' estremità, cosicché basta una leggera trazione su di esso per liberare b. Nello stesso tempo che su b, d esercita una pressione su di un tronco e; b ed e impediscono perciò a d di essere trascinato dalla trave a molla, f, alla quale d è attaccato.

E poiché la trave f poggia sulla forca g, è spinta a rovesciarsi (freccia h) dal peso di tutto il tetto che per mezzo della liana i grava sull'estremità anteriore di f. Appena perciò la fiera tira l'esca a, viene liberato d; f, che niente trattiene, volteggia sulla sua estremità anteriore e si rovescia, mentre il tetto cade sulla fiera.

2. Trappole a laccio. - Sono innumerevoli, ma si possono dividere in tre tipi: laccio semplice, laccio azionante un peso, e laccio a rete.

Una trappola a laccio semplice, assai ingegnosa, è riprodotta nella fig. 10. Questa trappola è costruita sugli alberi, per i leopardi, dagli Abissini e dai Galla (osservazione G. Montandon). Consiste di una gabbia di vimini lunga m. 1,20 con un diametro di 30 a 40 cm.; la gabbia, chiusa nella parte posteriore, è ricoperta di rovi, perché il leopardo non vi possa salire sopra. Un cilindro di legno a, di 70 cm. di lunghezza, è scavato lungo il suo asse in modo da far passare una corda c. Questa, tesa, è solidamente attaccata all'albero; e, all'altra estremità, a un nodo scorsoio tenuto intorno all'apertura della gabbia da piccoli nodi di filo che cedono alla minima trazione. Il cilindro è sostenuto da una cordicella b che anch'essa cede alla trazione impressa dal leopardo. Un capretto, molto giovane, è attaccato solidamente a cavalcioni sulla parte posteriore del cilindro, e ricoperto di una pelle perché il leopardo afferrandolo non lo ferisca. La gabbia, solidamente fissata al ramo dell'albero, dev'essere leggermente inclinata in avanti; il leopardo, che male sa arrampicarsi, deve arrivarvi facilmente, anche il tronco perciò deve essere inclinato, e la gabbia posta a non più di tre o quattro metri dal suolo; non bisogna però che la fiera, divincolandosi nel nodo scorsoio, tocchi terra con le zampe, nel qual caso potrebbe riuscire a liberarsi. Il leopardo sale, entra nella gabbia, tira a sé il capretto e simultaneamente il cilindro; questo scivola lungo la corda e arriva al petto dell'animale, mentre il nodo scorsoio (i nodi di filo essendosi spezzati) si serra intorno alla fiera. Questa tenta di sciogliersi, ma dibattendosi cade dall'albero, e rimane completamente serrata nel laccio ad oscillare nel vuoto senza trovare appoggio. Il capretto spesso esce incolume dalla prova.

Una trappola speciale che va citata con le trappole a laccio, non volendo creare un'altra categoria, è la trappola a punte disposte a raggiera, illustrata dalla figura 11 (24 cm. di diametro, per l'antilope, del Togo settentrionale, secondo Lips). Punte aguzze di legno duro, disposte a raggiera e rivolte verso il centro, sono tenute da una corona intrecciata. Quando l'antilope pone il piede nel centro della trappola, le punte lasciano passare lo zoccolo ma non lo lasciano poi riuscire; con questo impaccio alla caviglia l'antilope non può andare lontano e la trappola può del resto anche essere attaccata con una liana ad un tronco d'albero.

3. Trappole a frusta a ad arco. - Meritano etnograficamente attenzione, perché alcuni etnologi (specialmente quelli che hanno più minutamente studiate le trappole) ritengono che da queste trappole a molla, nella loro forma più semplice, siano derivate non solo le trappole ad arco, ma anche l'arco musicale e l'arco da guerra.

Le trappole a forma di frusta sono di tre specie: quelle che agiscono per trazione, quelle che agiscono per pressione, e infine quelle la cui molla è formata da un arco completo. I tre tipi sono qui illustrati. Figura 12: trappola a frusta a trazione, per uccelli, della Cocincina (collezione di Edouard Mérite, Parigi); lunghezza della frusta, da 30 a 40 cm. Da un piccolo piano orizzontale è stata tagliata una linguetta, la quale rimane però attaccata al piano per mezzo di un pernio, mentre l'altra estremità è tenuta leggermente sospesa in aria da un cavicchio infissovi. Il cavicchio, d'altronde, tiene tesa una robusta bacchetta, a mezzo di un filo resistente che circonda il braccio orizzontale di un piccolo cavalletto. All'altra estremità della linguetta si trova l'esca, al centro di un lacciolo la cui estremità è ugualmente attaccata al cavicchio; l'uccello si posa, là ov'è l'esca, sulla linguetta, e ciò la fa abbassare liberando così il cavicchio; la bacchetta si stende allora con forza, e il lacciolo si serra, imprigionando l'uccello. Il lacciolo è qui un elemento secondario, mentre la frusta essenziale dello strumento.

Fig. 13: trappola a frusta a pressione, per il cervo, usata dai Sakai di Sumatra e in Malesia (secondo Lips). Un forte ramo a è mantenuto teso dal quadruplo apparato di una cordicella b attaccata ad un tronco, di una bacchetta rigida c che passa con un'estremità sotto il ramo e con l'altra in un anello di liana a spirale, di quest'anello di liana d e infine di un filo e che unisce la liana ad un altro tronco verticale. Il filo e viene teso attraverso la pista seguita dall'animale; quest'ultimo, forzando il filo, disgiunge la bacchetta rigida e l'anello; il ramo si stende gettando nel corpo dell'animale la lancia f. La sbarra orizzontale g serve ad impedire all'anello di liana di toccare la lancia.

Fig. 14: trappola ad arco per i topi, della tribù dei Betsimisaraka nel Madagascar (collezione Edouard Mérite, Parigi). In un cilindro si pone un pistone b, che è mantenuto indietro (tendendo così l'arco) da un filo c disposto in quadrato attraverso 4 buchi (1, 2, 3, 4). Una grande apertura del cilindro, nella quale entrerà il topo, corrisponde al centro del filo teso in quadrato; nel cilindro, dietro la parte anteriore del filo, si trova l'esca e. Attirato da questa il topo entra nell'apertura d; cercando di arrivare all'esca rode il filo che gli sbarra la strada, appena il filo cede, il pistone viene lanciato in avanti, schiacciando l'animale o facendolo prigioniero. Trappole simili sono state segnalate in Malesia.

Fig. 15: trappola ad arco per cervi, o anche elefanti, della Cocincina (modello della collezione Edouard Mérite, Parigi). Un grande arco posto orizzontalmente, e teso con l'aiuto di un bastone a, getterà (appena a verrà lanciato indietro) una doppia lancia guidata da canali corrispondenti, attraverso un blocco rettangolare di legno, b. Il bastone a è unito solidamente da una cordicella al piolo c e si rovescierà appena l'animale inciampi nella piccola bacchetta d posta attraverso il sentiero; questa lunga bacchetta attraversa il blocco per mezzo di un terzo canale, ma si appoggia per mezzo di una tacca contro il blocco ed è tesa dal bastone a, al quale è attaccata. Quando l'animale sposta d, la cui tacca d'arresto la tiene appena contro l'orlo del foro del blocco, essa torna indietro, la corda dell'arco si stende e scaglia la doppia lancia nel corpo dell'animale.

4. Trappole a torsione. - Le trappole la cui molla è formata dalla torsione di una corda, che tende a srotolarsi, sono ugualmente comuni in Europa e altrove.

Fig. 16: trappola a torsione, per uccelli, di Caifa, Siria (collezione Edouard Mérite, Parigi). La torsione della corda tende a riportare violentemente a su b; a è mantenuto in aria dalla bacchetta c spaccata a becco all'estremità. Attraverso una perla di vetro posta sopra il becco, passa un filo che forma due lacciuoli; quello inferiore passa intorno all'armatura d; quello superiore contiene l'esca. Attaccando l'esca l'uccello fa uscire dal becco di c la perla e il filo; c è liberato e libera a, che si chiude violentemente su b acchiappando l'uccello.

Vi sono ancora due categorie di trappole che non abbiamo ricordate, l'una a causa della sua semplicità primitiva, l'altra a causa della sua modernità. La prima consiste nel prendere uccelli o insetti con sostanze collose o vischiose, la seconda nel servirsi del fucile; in Abissinia, per esempio, sia gli Europei sia gli Abissini usano il fucile per uccidere la iena, L'arme è posta orizzontalmente su un cespuglio o contro un albero, sempre però con la canna rivolta in basso e contro la iena. Un pezzetto di carne è applicato contro a bocca del fucile; l'esca è tenuta da una cordicella la cui estremità, girando intorno al manico dell'arma, è attaccata al grilletto. Quando la iena afferra il pezzetto di carne, essa tira nello stesso tempo la cordicella, e riceve in gola la scarica.

Caccia a volo. - La caccia a volo, cioè con l'aiuto degli uccelli da preda che abbattono la selvaggina - la selvaggina è in questo caso un uccello, raramente un animale terrestre - non si trova presso i popoli dei cicli culturali primitivi, ma in territorî di civiltà intermedie. In questi però essa ci appare ben conosciuta fin dall'antichità, poiché già ne parlano Aristotele e Plinio. Si crede che i Galli la praticassero, e certo era in onore presso i Franchi. Ma solo nel Medioevo europeo questa forma di caccia raggiunse il suo più grande sviluppo: La caccia a volo divenne allora uno sport, un'arte, ed anche, sotto il nome di falconeria, una funzione di stato.

Oggi la caccia a volo, benché abbia luogo a volte nell'Africa musulmana, è praticata specialmente nell'Asia centrale: in Persia, dai Tagiki del Turkestan, dai Turcomanni delle regioni steppiche poste fra il mar Caspio e il lago Aral, e dai Kirghisi a oriente di quest'ultimo.

Caccia alla corsa (caccia à courre o ad inseguimento). - Si tratta di una caccia nella quale la selvaggina è costretta a correre, inseguita da cacciatori a cavallo o da una muta di cani che accompagna i cacciatori; bisogna aggiungere il caso in cui un solo cane fermi la selvaggina in corsa; infine è a questo sistema che vanno annessi alcuni procedimenti secondo i quali gli uomini stessi sforzano la bestia. In tutti questi casi, se la vittima deve eventualmente essere uccisa dall'uomo, l'importante è ridurla in propria balia facendola correre sino alla stanchezza.

La caccia alla corsa non è posteriore - anzi nelle sue prime forme è anteriore - alla caccia a volo, e questa, come abbiamo già visto, partecipa anche, sotto alcuni punti di vista, della caccia alla corsa; ma quest'ultima ha raggiunto il suo più grande sviluppo dopo il declinare della caccia a volo, per opera dell'alta cultura europea. In Europa i cacciatori a cavallo, preceduti da mute di cani, cacciano così la volpe e il cervo. Gli Europei hanno anche tentato di usare questo procedimento per la selvaggina delle regioni tropicali, ma non sempre con successo. Fu infatti cacciando alla corsa un leone nell'Africa orientale, che un fratello di un ministro degli Affari esteri della Gran Bretagna, lord Grey, venne ucciso dalla bestia che inseguiva.

Anche oggi però la caccia alla corsa non appartiene solo alla cultura europea, poiché la si trova presso popoli di cultura intermedia, ove del resto essa ebbe origine. Nel principale territorio attuale della caccia a volo, cioè presso i Turcomanni e i Kirghisi, la caccia alla corsa è praticata a fine sportivo come in Europa. Essi inseguono a cavallo la gazzella, la lepre, la volpe e il lupo, aiutati da ghepardi addestrati a ciò e da mute di levrieri; la caccia al lupo così condotta ha, del resto, anche un fine utilitario, visto il danno che i lupi causano alle greggi quando cominciano a moltiplicarsi.

In Malesia e specialmente nel Siam, a Giava, a Borneo, a Celebes, si caccia il cervo alla corsa sia uccidendolo con lance, sia imprigionandolo con un laccio; questa caccia è di origine indù.

Due regioni ancora vanno ricordate per le loro cacce a cavallo; le praterie dell'America Settentrionale, dove i Sioux, fra gli altri, inseguivano il bisonte, uccidendolo con lance, e le pampas dell'America Meridionale, dove i Tehuelche o Patagoni abbattono i guanachi con le loro bolas. Ma non bisogna dimenticare che queste forme di caccia sono relativamente recenti, datando dall'introduzione in America del cavallo, cioè dall'arrivo degli Spagnoli.

Torna qui opportuno accennare a quella forma di caccia, nella quale chi corre è l'uomo stesso non il cane o il cavallo. Per questo inseguimento due sono le condizioni necessarie: l'uomo deve poter avanzare rapidamente e ciò egli può fare per esempio, sulla neve, per mezzo di ski; in secondo luogo l'animale, renna, alce, cervo, lupo, deve essere ostacolato nell'avanzare, ciò che accade quando la neve è morbida e, più particolarmente, quando questa comincia a sciogliersi, in primavera. Non solo l'animale fugge allora meno rapidamente, ma si stanca prima, permettendo così agli sciatori di raggiungerlo ed abbatterlo. Questa caccia con gli ski viene praticata da popoli semi-artici del nord della Siberia (Ciukci e i loro vicini), e dalle tribù cacciatrici americane del Canada (Athabaska e Algonchini). In questa caccia a inseguimento, come si potrebbe chiamare invece che alla corsa, più che in qualunque altra occorrono ostinazione e perseveranza perché l'uomo e l'animale dispongono delle loro sole possibilità naturali, e sono sul loro terreno abituale. Ciò si può osservare specialmente presso i Boscimani; questi, quando scorgono un animale già stanco, cominciano a seguirlo, lentamente ma continuamente e senza riposo, anche per varî giorni, finché quello si arrenda.

Rapporti etnologici. - La scuola evoluzionista ammetteva per tutta quanta l'umanità tre epoche successive, economicamente: quella dei cacciatori, quella dei pastori e quella dei coltivatori. Senza entrare qui in discussione (v. civiltà) è opportuno tuttavia avvertire che la stretta dottrina evoluzionista è stata trovata erronea quando fu constatato (ed è un esempio delle ragioni che spingono a dare la preferenza alla dottrina dei cicli culturali, piuttosto che alla dottrina evoluzionista) che in molte regioni della terra lo stadio dei cacciatori era stato immediatemente seguito da quello agricolo. Dalle forme inferiori della caccia si possono d'altra parte distinguere forme, che, in rapporto a certe istituzioni sociali, appaiono relativamente superiori. La caccia primitiva esiste o esisteva, fra l'altro, in parte dell'Australia Meridionale, in alcune regioni eccentriche del continente americano (California, Terra del Fuoco), nelle contrade artiche; la caccia relativamente superiore si trova nelle regioni piuttosto settentrionali dell'Australia, in America presso gl'Indiani delle praterie, in Africa, e verosimilmente esisteva anche nell'Europa occidentale preistorica. A questa caccia di forma socialmente superiore si collega il totemismo (v.).

Per quanto riguarda gli artifizî meccanici, si osserva che le reti, i trabocchetti, le trappole a peso, i lacci semplici e le trappole a punte radiali sembrano appartenere ai cicli culturali primitivi, e ad alcuni cicli intermedî inferiori (particolarmente al ciclo del totem). L'epoca preistorica corrispondente a questi cicli, cioè il Paleolitico superiore o recente (dall'Aurignaciano al Maddaleniano), conosceva ugualmente questi mezzi, perché, fra altre ragioni, sembra che i disegni tectiformi riconosciuti su pareti di caverne, disegni dunque di età paleolitica, non rappresentino, come si era creduto, capanne, ma bensì trappole a peso (hips).

Invece le trappole a frusta appartengono a cicli culturali posteriori; esse servono, di solito, per selvaggina piccola, portando solo un minimo coniributo al cibo giornaliero composto specialmente di vegetali. Infatti, proprio nel ciclo culturale delle due classi, del quale è tipica la coltivazione alla zappa, appare la trappola a molla (a frusta). Abbiamo visto che dalla molla a frusta potrebbe essere derivato l'arco; coloro dunque, fra gli etnologi, che non ammettono che l'arco da guerra sia uno strumento primitivo e ritengono perciò che i Pigmei lo abbiano copiato (pure imprimendogli una particolare fattura) si appoggiano, fra l'altro, sull'apparizione della molla a frusta nella civiltà delle due classi, per dimostrare che l'arco non può, neanche nelle sue forme primitive, essere anteriore a questo ciclo, e che soltanto nel ciclo seguente, chiamato giustamente ciclo dell'arco, questo ha raggiunto lo sviluppo massimo.

Le trappole a torsione, infine, appartengono a civiltà intermedie superiori.

Caccia a cavallo. - La caccia alla corsa, di sopra descritta, si è trasformata a poco a poco, in Inghilterra e in alcuni altri paesi d'Europa, in un esercizio sportivo, il cui scopo principale è di compiere grandi galoppate a cavallo, attraverso ostacoli di varia natura, mentre la cattura dell'animale che s'insegue, e la sua specie, diventano cose secondarie. La bestia, dapprima ricercata dai cani che ne hanno trovata la pista, indi scovata, parte a gran corsa attraverso la campagna, inseguita dalla muta dei cani, fornendo un variato percorso ai cacciatori (figg. 17 e 18). Le rilevanti distanze da percorrere e le molte accidentalità del terreno da superare richiedono cavalli di fondo e di sangue, atti a galoppare lungamente in aperta campagna e sicuri saltatori degli ostacoli naturali, che ivi s'incontrano.

I cavalieri partecipanti alla caccia usano inviare al luogo del convegno o appuntamento di caccia (detto meet) i loro cavalli scossi condotti sottomano da un palafreniere montato su altro cavallo. Cavalcano i cavalieri (huntsmen), che normalmente indossano l'abito rosso, in gruppo sotto la guida di un capo detto master, il quale, quando l'animale cercato è stato scovato dai cani ed è in vista del gruppo, lancia il grido di tallyhoo! lasciando in libertà ogni cavaliere d'inseguirlo alla maggior velocità del proprio cavallo.

In Inghilterra e in Francia, ma specialmente nel primo di questi paesi, le cacce a cavallo al cervo e alla volpe hanno sempre avuto numerosi amatori con cavalli abituati a lunghi percorsi e con severi ostacoli.

L'Inghilterra e l'Irlanda hanno con la selezione e con il razionale accoppiamento prodotto il cavallo da caccia, l'hunter galoppatore insanguato, di fondo e buon saltatore, specialmente adatto per tale faticoso esercizio.

In Italia vi sono parecchie società per la caccia a cavallo, le quali hanno sede in prossimità dei luoghi ove vaste distese di terreno pianeggiante e quasi incolto offrono la possibilità di svariati lunghi percorsi senza danneggiare i coltivati.

E così sono sorte (alcune con vita effimera) società per la caccia a cavallo a Napoli nei terreni prossimi al mare, a Milano nelle brughiere del Ticino, a Udine nel prato immenso che si stende sulla riva sinistra del Tagliamento.

Ma la più antica e reputata società di caccia è quella di Roma, che nell'incomparabile campagna che la circonda ha trovato il terreno ideale per gli appassionati di questo genere di sport ippico.

Da note di uno dei suoi masters, il conte Pompeo Campello della Spina, ufficiale nel reggimento Genova Cavalleria, apprendiamo che la Società Romana per la caccia alla volpe venne fondata nel 1844 in Roma da un ristretto numero di signori inglesi e romani, che facevano capo a lord Chesterfield, inglese innamorato della bellezza dell'Urbe, e al principe Livio Odescalchi.

Costoro organizzarono, dapprima privatamente, le prime cacce alla volpe; poi, con personale, cavalli e cani fatti appositamente venire dall'Inghilterra, per iniziativa di don Livio Odescalchi e sotto la sua presidenza fu fondata la società. Le cacce si svolgevano nel tardo autunno, nell'inverno e nell'inizio della primavera. Nel 1845 la stagione di caccia ebbe termine con una giornata di corse, che venne ripetuta con successo assai maggiore nei due anni seguenti, sulla via Appia Nuova.

Queste riunioni furono quelle che diedero origine alle corse con ostacoli in Italia: furono i primi steeple-chases.

La corsa più importante a Roma Vecchia riuniva su un lungo e difficile percorso, tracciato in aperta campagna, i migliori cavalli che avevano cacciato durante la stagione: alle staccionate e macerie, che tagliavano il percorso indicato solo da banderuole, veniva aggiunta la banchina irlandese (rialzo di terra a pareti verticali alto un metro e trenta centimetri e largo più di una grossa maceria, preceduto e seguito da un fosso largo un metro e abbastanza profondo). Questo ostacolo (che figurò poi negli steeple-chases e quindi venne abolito) veniva superato facilmente dai cavalli che vi appoggiavano i piedi sopra; il che era permesso dall'andatura, che raramente sorpassava la velocità di un buon galoppo da caccia.

La giornata veniva chiusa con una corsa di cavalli di campagna, montati da butteri (guardiani di mandre di cavalli bradi) con la classica bardatura (la cosiddetta bardella) ancora in uso nella campagna romana.

Nel 1848 la società si sciolse e non venne ricostituita che dopo il ritorno del papa Pio IX da Gaeta: ne fu redatto lo statuto il 5 maggio 1852.

Benché assai pochi fossero ancora quelli che nella caccia veramente seguissero i cani superando gli ostacoli, tuttavia il numero dei cavalieri che intervenivano alla caccia in quel tempo era considerevole. Gli appuntamenti erano il ritrovo della società elegante e la colonia straniera, sempre molto numerosa in Roma, prendeva molta parte alle cacce.

Alla mancanza di cavalli inglesi si rimediò con cavalli romani (ottimi quelli delle allora pregiate razze Tittoni, Cesarini, Silvestrelli e poscia quelli dei rinomati allevamenti Tanlongo, Mazzoleni e Piacentini) che venivano presi in affitto dai forestieri per cacciare. Questi cavalli romani galoppavano poco, ma saltavano benissimo, perché messi in discreta condizione e assuefatti a quel genere di ostacoli.

D'altra parte le staccionate erano allora più numerose di adesso, essendovi maggior numero di bestiame, ma erano ancora assai più basse: grossa staccionata era allora soltanto quella che tracciava il confine fra le diverse proprietà, e difficilmente si incontrava quella di un metro e venti di altezza, quasi generale oggi (quella cosiddetta "a tre filagne").

In seguito a qualche disgrazia, principale delle quali fu la morte del signor Bossi, caduto nel saltare un fosso, il governo pontificio proibì le cacce, ascoltando, si dice, le istanze della principessa Odescalchi: ma per le pratiche assidue del duca Grazioli il divieto veniva tolto due anni dopo e la società si ricostituiva su basi più solide.

Aiutata largamente dal re, la società continuò sempre la sua attività dopo il 1870 e ne furono masters dal 70 in poi Giulio Silvestrelli, Ladislao Odescalchi, Giulio Grazioli, Agostino Chigi e il marchese di Roccagiovine.

Nel 1871 e nel 1872 il principe Umberto seguì con assiduità le cacce, acquistandovi quella solidità, quella scioltezza di movimenti e quella confidenza all'ostacolo, che non si ottenevano facilmente con i metodi prevalenti nelle scuole di equitazione militari di allora.

La campagna romana, per la sua immensa estensione, per la difficoltà che trovano i cani di definire la pesta, guastata e tagliata dal bestiame, per la facilità che ha la volpe di prendere le spallette o di salvarsi fra i ruderi e le catacombe di cui abbonda il sito, per le sorprese che offre (dalle marane alle cave di tufo e di pozzolana), per la severità e varietà degli ostacoli infine che i cavalieri sono obbligati a superare pur di seguire il galoppo, presenta la caccia più difficile e più seria di qualsiasi altra, anche di quella praticata in Inghilterra, dove la volpe si va a cercare al covert, dove è nutrita e protetta.

Agli abiti rossi dei cavalieri, che seguono i cani, si aggiungono da molti anni le uniformi di numerosi ufficiali della guarnigione di Roma, oltre a quelli del corso complementare di Tor di Quinto della scuola di cavalleria e a sempre numerosi forestieri.

Si deve, infine, accennare ai simulacri di cacce. Si è cercato, in mancanza di veri animali da cacciare, di sostituirli con un cavaliere, che rappresenta la volpe, il quale segna la strada percorsa mediante carta tagliuzzata (paper-hunt): i cani, rappresentati anch'essi da altri cavalieri, sono incaricati di rintracciarla per indicarla al master e al resto dei cavalieri, che tentano raggiungerli: il percorso così è condotto attraverso ostacoli naturali e artificiali.

Altre volte invece il cavaliere, che rappresenta l'animale cacciatoi trascina sul terreno a mezzo di una corda, attaccato a un uncino (drag), un pezzo di carne putrefatta, stabilendo così un variato percorso: alcuni cani appositamente addestrati lo rintracciano, seguiti dal master e dal gruppo dei cacciatori: tale simulacro si chiama drag-hunt.

Fucile da caccia e suoi accessorî. - Dopo di aver esposto in modo sistematico e generale quali siano le forme di caccia fondamentali presso i varî popoli antichi e moderni, barbari e civili, parleremo più particolarmente del fucile e dei suoi accessorî per caccia e di tutte quelle forme d'insidie che, in Italia, costituiscono i mezzi di aucupio, specialmente per i piccoli uccelli.

A partire dal Cinquecento, principale strumento da caccia divenne lo schioppo, prima ad avancarica, nel quale cioè le munizioni venivano versate nella bocca e giù compresse con la bacchetta (onde la denominazione volgare di fucili "a bacchetta"); poi, dalla seconda metà del secolo scorso, a retrocarica, nel quale la carica viene introdotta confezionata in cartucce aprendosi il fucile alla base delle canne. Calibri molto usati in caccia sono il 16 e il 12, i quali significano che la canna sarebbe capace di palla della sedicesima o dodicesima parte d'una libbra di piombo. In realtà però a caccia, fatta eccezione per la selvaggina grossa, si spara a pallini. La grossezza e il peso del fucile scemano perciò di tanto quanto cresce il nunero del calibro; e quindi i fucili del calibro 16, 24, 28 sono i meglio indicati per la caccia agli uccelli piccoli: il 12 e le spingarde (che sono fucili montati su cavalletto) con cariche di pallettoni si usano per i grossi volatili, per i palmipedi o uccelli acquatici, nelle cacce sui laghi e nelle cosiddette valli. Anche il piombo, proiettile, delle cariche, si differenzia con numerazione a significato apparentemente inverso, perché, quanto più alto è il numero tanto più piccoli sono i pallini, dal minutissimo 13 allo 0 dei pallettoni. Si dicono comuni i pallini di solo piombo; temperati quelli a piombo contenente antimonio. Questi secondi, come più resistenti, non sono facili a deformarsi e servono perciò meglio ad abbattere la selvaggina. Lieve vantaggio dei pallini comuni è l'essere di maggior peso, poiché da questo deriva loro anche una maggiore velocità, sia pure in misura molto relativa.

Mezzi sussidiarî della caccia ai piccoli uccelli sono i richiami, ma siccome questi sono assai più importanti e quasi indispensabili per l'uccellagione, diremo di essi discorrendo dell'aucupio (v. più oltre). Qui basta accennare al richiamo meccanico delle allodole, consistente in un pezzo di legno ben lucidato e costellato di specchietti, che, azionato da una molla o da strappi di cordicella, lucendo e girando, attira le allodole incuriosite, mentre il cacciatore, talvolta seminascosto in una buca, le prende di mira e spara.

Accessorî sono pure gli abiti speciali detti cacciatore, le calzature (di gomma per i cacciatori di palude), i carnieri e i minori oggetti che vanno sotto il nome generico di buffetterie.

Cartucce, polveri e loro caricamento. - Vi sono diverse qualità di cartucce. Migliori quelle a fondello alto, perché, lasciando sfuggire meno i gas, aiutano la forza delle cariche e difendono con la propria resistenza le parti interne del fucile.

Una volta non si adoperavano che polveri nere, molto detonanti, ma che non scuotevano le armi ed erano poco corrosive. L'inconveniente della loro fumosità, che toglieva o diminuiva al cacciatore la visione degli effetti del colpo, rese presto popolari le polveri senza fumo, cosiddette polveri bianche, le quali offrono anche il pregio di essere assai meno rumorose. Per contro esse hanno lo svantaggio di essere dilanianti, sicché scatenano facilmente le armi. Bisogna caricarle con molta attenzione e prudenza per evitare disgrazie a sé e agli altri, e non usarle che in fucili adatti, cioè collaudati per polveri bianche dal R. Banco di prova (che è stato in questi anni istituito a Brescia): collaudo che risulta da certificato per ogni fucile e da marca o segno che deve leggersi inciso sulle canne. Di polveri bianche ve ne sono attualmente in commercio almeno cinquanta. Notissime le prime: acapnia (che grecamente significa "senza fumo"), anigrina ("senza umidità"), randite (dal nome Randi); più forti, specie di dinamiti, la lanite (cosiddetta perché consistente in filamenti lanosi, imbevuti dell'esplosivo), la DN (dinamite Nobel). Ciascuna di esse ha dei pregi, ma è dubbio se esista una polvere veramente non igrometrica e quindi insensibile ai cambiamenti del tempo. Risultano tutte violente, quali più quali meno, specialmente le balistiti; e, a causa delle materie prime con le quali vengono fabbricate (che sono spesso residuati di altre fabbricazioni), non risultano sempre costanti né chimicamente omogenee. Non vi è però più ragione di ricorrere all'estero neanche per esse, sia perché la produzione italiana ne offre qualità svariatissime e in sostanza buone, per chi sa adoperarle, sia perché le stesse polveri estere sono molto discese dalla bontà originale. Ogni polvere porta scritte sulla propria scatola o recipiente le dosi da usare nei varî fucili. Bisogna attenersi a tali limiti, e soprattutto non eccederli.

Gli armaioli dispongono di apparecchi o strumenti appositi per caricare simultaneamente molte cartucce. I cacciatori invece (e sono la maggior parte) i quali caricano da sé, devono stare attenti a dosare la polvere con esattezza, valendosi dei misurini, la cui contenenza si sia verificata o fatta verificare pesando le dosi su bilancine di precisione. Versata la dose nella cartuccia, le si sovrappone un dischetto chiamato cartoncino, meglio se di qualità impermeabile, indi lo stoppaccio o borra che non dev'esser troppo dura o rigida e che non deve aver bisogno di venir calcata o compressa, ma semplicemente guidata giù, a raggiungere il cartoncino, dal mandrino, pezzo di legno della grossezza conveniente al calibro della cartuccia. Anche di borre o stoppacci preparati a macchina vi sono molte qualità. Buone quelle di feltro; buonissime quelle di lana; meno buone perché meno soffici quelle a impasti di carta.

Da qualche anno son venuti in uso i cosiddetti borraggi chimici (in sostanza segatura di legno trattata con grassi), dei quali si versa nella cartuccia la quantità equivalente allo spazio che dovrebbe essere occupato dallo stoppaccio per distanziare la polvere dai proiettili, vi si fa scender sopra un cartoncino e la si comprime leggermente col mandrino. Il grasso della miscela dà a questa una pronta coesione, sicché si forma nella cartuccia un blocco equivalente alla borra. Son comode ed economiche, quindi consigliabili nei tiri corti delle cacce col capanno, ma è dubbio se possano sostituire le borre nei tiri lunghi e d'importanza. I piccionisti, ad esempio, usano tutti vere borre di lana. Qualunque si sia, borra o miscela, lo stoppaccio usato, gli si colloca sopra un altro cartoncino, il quale ha il duplice scopo d'impedire che i pallini scendano a confondersi nello stoppaccio e di perfezionare il distacco dell'esplosivo dai proiettili. Si versa infine nella cartuccia la dose conveniente dei pallini, la quale, per il calibro 16, oscilla dai 20 ai 30 grammi; per il calibro 12, dai 30 ai 50. Grosso modo, a volume, si può stabilire il ragguaglio con il consiglio o suggerimento dei cacciatori a "colmo polvere, raso piombo" secondo il quale la dose di piombo deve essere data dallo stesso misurino della polvere, ma raso. I nostri vecchi invece consigliavano l'opposto: "poca polvere, molto piombo, se vuoi l'uccello a fondo", "poca polvere, piombo assai, tira dritto, ché sbagli mai"; tutti adagi che, in sostanza, permettono di concludere essere opportuno di non scostarsi da una medesima capacità di volume. Naturalmente l'insegnamento popolare vale come direttiva generica per le polveri nere o per le bianche voluminose; ma non ha affatto valore come ragguaglio per gli altri più forti esplosivi, quali le balistiti, che occupano in volume uno spazio di gran lunga inferiore.

Va inoltre posta attenzione alla grossezza e qualità dei pailini, se cioè sono minutissimi, quali i numeri al disopra del 10, nel qual caso uno stesso misurino ne contiene una quantità maggiore di numero, e quindi anche di peso, a quella del medesimo misurino riempito con pallini più grossi o numerati al disotto del 10; e se sono fabbricati con piombo comune o con piombo temperato cioè miscelato con antimonio, nel qual secondo caso essi sono un po' meno pesanti e quindi un po' inferiori di portata ai comuni: piccolo svantaggio, compensato e superato dalla loro maggiore penetrabilità, perché, come abbiamo già accennato, non deformantisi né per il calore dell'esplosione, né per l'urto contro il corpo e le ossa della selvaggina. Versata nella cartuccia la dose dei pallini, vi si adagia sopra un terzo e ultimo cartoncino o un feltrino (piccolissima borra leggiera), i quali hanno lo scopo di obbligare a compattezza i proiettili e impedire che caschino fuori dalla cartuccia. Ad assicurare tale scopo e a perfezionare la confezione della cartuccia, questa va orlata, cioè sottoposta a operazione che si eseguisce con apposita macchinetta chiamata appunto orlatrice, la quale ne arriccia tutto l'orlo rivolgendolo internamente. È opportuno segnare sul cartoncino con un piccolo timbro il numero dei pallini, a meno che non si siano adoperati cartoncini portanti già previamente stampato il detto numero.

Aucupio o uccellagione. - Forme miste di caccia e aucupio. - Si dice aucupio l'arte di prendere gli uccelli; e quindi, mentre il termine caccia designa ora più specialmente l'esercizio praticato col fucile tanto contro volatili quanto contro quadrupedi, l'aucupio, pur facendo parte della caccia, comprende le forme che si esercitano contro gli uccelli, con reti, col vischio o con altre insidie.

Già in Confucio, e quindi nel sesto secolo prima di Cristo, si trovano menzionate reti, vischio e gabbie; e dal momento che la letteratura classica serba ricordo di voliere nelle quali i romani conservavano i tordi, non può essere esatta l'opinione che le uccellande siano un'invenzione dei tempi moderni. Plinio il giovane fa sapere che egli stesso si recava al paretaio; e dopo il mille son continui i ricordi d'istituti di aucupio, per es. di tese di tordi nei territorî veronese e bresciano.

L'aucupio dei piccoli uccelli fu verosimilmente libero a chiunque e diffuso il costume di tenerli in gabbia ad allietare le case, se il duca di Milano, nel 1386, incaricava il podestà di Reggio Emilia perché gli procurasse de ravarinis fanetis et aliis avibus parvulis a capia, e poi, di nuovo l'anno seguente, gli dava più ampio incarico di procurargli de bonis useletis, qui sciant dulciter canere videlicet raverinis, fanetis, lisignolis et verzerinis e di mandarglieli in capiolis per nuntios pedestres scientes bene portare. Anche Isabella d'Este, per nominare una delle donne della Rinascenza più eletta per cultura, si dilettò d'aucupio; e nel 1535, villeggiando a Solarolo in Romagna, usciva per diporto con le sue damigelle in un ampio prato a cacciare con le reti. Così pure in Toscana si hanno ricordi di uccellande antiche e famose fin dal medesimo sec. XVI.

Ma soprattutto nell'Italia settentrionale la passione dell'aucupio fu e permane più diffusa e intensa, capace di giungere ad ogni estremo. In Lombardia, specialmente nel Settecento, brescianelle e roccoli si costruirono dappertutto. Già nei primissimi anni del secolo le uccellande si erano talmente moltiplicate che nel 1722 si cominciò a lamentare la diminuzione delle allodole, dei fringuelli e dei tordi. A Bergamo e a Brescia non esisteva famiglia un po' agiata o nobile che non avesse l'uccellanda; ancora adesso si dice che i roccoli della provincia di Bergamo sono parecchie migliaia, quantunque molti siano stati estirpati per far denaro della legna. Tipico il fatto che il ben noto e vasto albergo del Pertus al passo dell'Albenza trae origine da un modesto casello di roccolo della nobile famiglia Sozzi di Caprino. In Val Trompia famose le uccellande dei nobili Averoldi, dei conti Lechi, ecc.; a Gavardo quelle dei Raimondi; in Francia Corta (Erbusco, ecc.) quelle dei conti Maggi, Secco, ecc.; a Nigoline la brescianella del vescovo Bonomelli; in quel di Lecco il paretaio di Alessandro Manzoni.

Pressoché inesistente è invece l'aucupio legale in Piemonte. Là non vi sono uccellande, e ciò non solo perché il passo dei silvani vi è molto minore che in Lombardia, ma anche per l'influsso della legislazione locale, che - nella convinzione dell'assoluta utilita degli uccelli per l'agricoltura - aveva negli ultimi tempi limitato il periodo dell'uccellagione a un sol giorno del dicembre, e proibita la cattura delle specie insettivore.

Tale concetto piemontese si basa sull'opinione popolare che gli uccelli che si nutrono d'insetti siano per ciò stesso utili all'agricoltura. È peraltro da tener presente che gl'insetti non sono tutti dannosi e che gli uccelli non beccano sempre gl'insetti. Venendo l'estate e maturando le frutta, molte specie anche di uccelli insettivori diventano frugivori, e la loro utilità agraria viene quindi a ridursi. Perciò l'uccellagione che si esercita in autunno coglie gli uccelli nel periodo in cui sono meno utili e nel quale invece la loro carne è cibo prezioso sia per la sapidità aromatizzante, sia per la facilità con cui si digerisce.

La presenza di uccellande è inoltre per le proprietà rurali una circostanza che ne accresce il valore.

Uccellande. - 1. La brescianella (fig. 19) è un quadrilatero costituito da alberi sotto i quali è formata una galleria di arbusti detta spalliera, nella quale è tesa la rete in cui gli uccelli incappano quando, scesi dagli alberi nello spazio interno del recinto, vengono improvvisamente spaventati da una fila di spauracchi manovrata dall'uccellatore nascosto nel casello a un'estremità dell'uccellanda. Tale forma di uccellagione, come il suo nome fa capire, fu probabilmente inventata nelle campagne di Brescia, provincia nella quale la passione dell'aucupio è particolarmente viva e antica. Nel Veronese però si dice prussiana.

È l'uccellanda per tordi e fringuelli propria della pianura; non mancano tuttavia esempî di brescianelle anche su colline e monti, quando la configurazione pianeggiante dei luoghi le rende possibili. Le sue prese si aggirano dai cinquanta ai cento uccelli giornalieri, per un periodo, a dir molto, di quaranta giorni.

2. Il roccolo è un boschetto o gruppo di alberi circondato quasi interamente da un pergolato, sotto il quale è tesa la rete. Si chiama roccolo probabilmente dal casello che, quasi piccola rocca, domina e sovrasta il boschetto, e dal quale l'uccellatore lancia spauracchi che impauriscono gli uccelli posatisi sulle piante e li spingono a impigliarsi nelle reti (fig. 20).

Questa è l'uccellanda caratteristica delle colline e dei monti. Vi si prendono in agosto e settembre tordine e uccelletti (aliuzze, beccafichi, codirossi, ecc.), in ottobre fringuelli, lucherini, tordi, ecc., con annue prese complessive oscillanti da due a tre mila uccelli. Una tradizione che va contro il gusto o debolezza delle leggende, le quali pretendono di attribuire alle cose origini più remote delle reali, spiega il roccolo quale una costruzione recente, inventata nel sec. XVII: ma invece esso è più vecchio di almeno due secoli, e se lo si ritiene un'evoluzione bergamasca del tordario (boschetto circondato e intersecato da reti per prendere i tordi), va riportato al secolo XIV.

3. Paretaio o Copertoni. Coppie di reti (pareti) distese per terra, che, azionate dall'uccellatore, si chiudono a coprire la piazza interstante fra di esse, sulle quali sono scesi gli uccelli (figg. 21 e 22). Latinamente detti copertoria, furono usati nel Quattro e Cinquecento per pigliare colombi, palmipedi e storni. È l'uccellanda propria della pianura per prendere allodole, cutrettole, fanelli e pispole, in conformità alle abitudini di questa specie di uccelli di vivere nei prati e campi coltivati o incolti, quali le brughiere. Tale tipo di uccellanda si chiama anche larga, come a dire l'uccellanda che stende le reti in località larga, sgombra di alberi. I paretai che si trovano in colline sono naturalmente anch'essi piazzati in luoghi pianeggianti, senza piante. Come le precedenti forme di aucupio, anche questo, se esercitato bene, cioè in buona posizione e con molte paia di reti, può annualmente raggiungere la presa di due o tre mila uccelli.

4. Quagliara. - Consiste in una rete a forma di nassa o bertavello tesa in fondo a solchi, nella quale si fanno entrare le quaglie scese di notte nel campo, attiratevi dai richiami di quaglie ingabbiate.

È molto in disuso, in conseguenza del divieto di usare richiami accecati, i quali cantavano anche di notte, senza aver paura dei rapaci notturni.

Si tende nei due mesi di agosto e settembre; una volta ogni quagliara catturava dalle cinquecento alle mille quaglie per stagione; ora le prese sono diminuite a poche decine.

5. Ragnaia o siepone. - Gruppo o allea di piante o alberi, tra i quali sono tese una o più reti di filo sottile (perciò dette ragne), nelle quali gli uccelli incappano sia volando spontaneamente di pianta in pianta, sia perché mossi o incalzati dagli uccellatori, che talvolta agitano in alto uno spauracchio.

Il sistema è proficuo e quindi molto usato nel secolo scorso, quando, in conseguenza anche del maggior numero di boschi, vi era abbondanza di uccellame stanziale. In Toscana questo sistema d'aucupio si dice boschetto a rete.

Oltre che con le reti si può uccellare col vischio, la nota materia glutinosa che si estrae dalla pianta omonima e che si fabbrica anche con la gomma. Perché la caccia sia proficua occorre che esso sia di buona qualità, cioè tenace, e che il sole non lo liquefaccia.

Sembra che il sistema di catturare gli uccelli con il vischio sia più vecchio di quello con le reti; e mentre attualmente le vischiate sono ridotte ai palmoni del Veneto e a pochi boschetti di Toscana, si dice che una volta fossero molto diffuse anche in Lombardia. Se la notizia è vera, risulta che i nobili Porcellaga pigliavano nella loro vischiaia, che avevano a Roncadelle (Brescia), più di cento tordi al giorno.

Una delle maniere più comuni di uccellare col vischio è quella con i panioni (verghe di legno invischiate) e la civetta (fig. 24). Gli uccelli, in particolare i codirossi e i pettirossi, un po' per il fascino degli occhi gialli della civetta, un po' per istinto di rappresaglia o voglia di aggredirla, le si avvicinano, e non trovando altri rami o luoghi d'appoggio, si posano sui panioni restandovi appiccicati. Naturalmente, perché la civetta sia vista bene in largo giro, l'uccellatore la colloca in uno spazio sgombero da alberi, posata sopra una gruccia, e le dispone intorno i panioni un po' inclinati, per modo che gli uccelli, posandovisi, vi restino attaccati anche per un'ala. Appassionatissimo di questo genere di aucupio fu il Machiavelli.

I panioni sono largamente usati anche per catturare cingallegre, cince e lucherini. Essi si dispongono intorno a gabbie contenenti individui di dette specie, i quali fan da richiamo.

Sistema più importante è quello con le paniuzze, vergelle o paglie che, invischiate quasi per intero, vengono inserite, dalla parte pulita, in tacche di rami sfrondati che si fan di solito emergere a raggiera (palmone) dalla cima dell'albero. Gli uccelli, attratti dai richiami sottostanti, vi si vengono a posare, ma appena avvertono la sensazione vischiosa, cercando di rivolar via staccano la paniuzza, che, portata dalle zampine contro la coda e le ali, le immobilizza immediatamente, sicché essi precipitano a terra. Si prendono con tale sistema anche fringuelli, specialmente montani, e tordi sasselli. È molto usato nel Veneto; poco nelle altre regioni, tranne che in Liguria e in Toscana, dove si usa disporre le panie tra i rami delle piante, sui cespugli e arbusti appositamente allevati a costituire boschetti, nei quali, col sussidio di richiami, si prendono anche molti tordi.

In Lombardia l'aucupio col vischio è ormai, più che altro, un divertimento fanciullesco.

Strumenti dell'uccellagione. - Principale strumento dell'uccellagione è la rete, il noto tessuto di filo di cotone, di lino o di seta a maglie più o meno larghe a seconda degli uccelli alla cui cattura viene destinata. È a un panno solo se deve coprire gli uccelli che si siano posati o sorvolino sul terreno, come nei paretai; oppure a tre panni, insieme torno torno connessi, dei quali i due esterni più corti di tela ma a maglie larghissime, dalle quali sbocca il panno della vera rete formando le cosiddette sacche nelle quali gli uccelli s'imborsano. La fabbricazione delle reti dà luogo a piccole industrie locali un po' dappertutto, ma specialmente in Lombardia, nelle provincie di Brescia e di Como. Da qualche anno la produzione italiana soffre la concorrenza di fabbriche tedesche. Unità di misura in Lombardia è il cavezzo, che corrisponde a tre metri scarsi. Per renderle meno visibili, si tingono in nero immergendole in acqua saponata con nerofumo o corteccia di noce. Quelle per tordi hanno le maglie larghe 28 mm.

Altri mezzi e sussidî dell'uccellagione sono le gabbie, di legno o di ferro, grandi o piccole a seconda delle specie di uccelli che devono accogliere quali richiami (fig. 25). La loro necessità per la custodia dei volatili e la semplicità della costruzione ne agevolarono l'uso anche in antico. Nel Medioevo erano dette capie, raramente cavee; e venivano costruite da fusai che le intrecciavano con vimini di castagno. In Lombardia, del tempo dei Visconti, si ha la notizia di cavagnari che si erano specializzati in tale industria e fabbricavano gabbie d'ogni sorta: per anitre, astori, quaglie, storni, usignuoli. Quelle per gli astori venivano munite di rete a corda rinforzata e costavano da 12 a 16 lire l'una; le altre da 10 a 20 soldi. Modernamente quelle di legno non si fabbricano più con vimini, ma con assicelle e staggette di legno che si ottengono uniformi facendole passare attraverso il conio di filiere a varie larghezze: piccola industria rappresentata in Lombardia da alcune ditte di Brescia, Rovato, San Vigilio. Se di legno ordinario (abete, pioppo, ecc.), quelle piccole per fringuelli costano circa tre lire; quelle per tordi il doppio.

Le gabbie non sono però che l'ambiente dei richiami, indispensabili in quasi tutte le forme di aucupio. A seconda infatti delle varie specie di uccelli ai quali si pratica l'uccellagione, i tenditori si valgono di richiami, cioè di uccelli delle medesime specie, i quali, se appena presi, si dicono presicci giovani, e se invece sono degli anni precedenti, si dicono vecchi, di muta. I più comunemente usati sono i fringuelli, i tordi, i merli, i passeri, che una volta si solevano accecare, perché, sopprimendo loro la vista, si toglieva loro la causa del continuo stato di paura in cui vivono trovandosi prigionieri, impossibilitati a fuggire. Ora, in conseguenza della legge per la protezione degli animali, non si possono più accecare, e gli uccellatori, per avere ugualmente richiami tranquilli, ricorrono ai nidi dai quali (s'intende di nascosto, perchè contro le disposizioni della legge) tolgono gli uccelli appena nati, che poi allevano nutrendoli con pane bagnato nel latte, pezzettini di carne, ecc. Presicci e nidiacei, nel secondo anno in cui l'uccellatore li possiede, in primavera vengono collocati e tenuti, per tutta l'estate, in un locale chiuso (stanza, cantina, armadio, cassone) che si dice muta, nel quale, non penetrando che poca aria, essi non cantano, sicché il periodo erotico dei loro corpiccioli riesce spostato all'autunno, quando l'uccellatore, toltili dalla chiusa, li riespone gradatamente all'aperto. A meglio assicurarsi che tali uccelli cantino, gli allevatori procurano di far loro cambiare le penne mentre sono nella chiusa, che probabilmente per ciò ebbe il nome di muta.

Un portato dell'aucupio sono le fiere di uccelli, che si tengono in determinate epoche. Famose e antiche quella di Sacile già ai 10 di agosto e ora del 1° settembre, quella di Bergamo ai 26 e la settembrina di Empoli. A Sacile, in occasione della fiera o mercato dei richiami, si tengono anche gare di canto, nelle quali gli uccellatori mostrano la propria abilità nell'imitare i canti degli uccelli. Valenti in tale arte sono pure i genovesi che san servirsi d'un fischietto (peloia) per chiamare una quantità di uccelli.

Numero e specie dei richiami variano non solo, come già detto, a seconda dell'uccellanda, ma naturalmente anche a seconda della passione e dei mezzi economici dei tenditori. Un fringuello canterino costa attualmente intorno a lire trenta, un tordo trecento.

Vi sono pure richiami meccanici; e fra questi meritano particolare menzione i fonografi a dischi con il canto del tordo, fringuello, merlo, quaglia, ecc. Prescindendo dal costo, relativamente molto alto, riescono di un'utilità pratica piuttosto relativa, a causa della brevità del canto, la quale rende necessaria un'assistenza speciale che li ricarichi; per l'infelice tono rauco loro derivante dall'umidità dell'aria che si depone sui dischi, e per la meccanizzazione del canto che rende questo meno efficace. Servono più che altro come svegliarini o incitatori dei richiami vivi.

Caccia "col capanno" e "di botte" - Intermedia tra la vera caccia, perché fatta col fucile, e l'uccellagione, perché si serve di richiami, è la cosiddetta caccia col capanno, nella quale il cacciatore, nascosto in un capanno, spara agli ucceili che si posano sulle piante vicine, alle quali ha appeso i richiami, che col canto attirano quelli che passano (fig. 26). Fu ed è in uso un po' dappertutto, anche all'estero; per es. in Provenza la esercitò a tordi e fringuelli negli anni giovanili Emilio Zola. Son cacce modeste, che han luogo d'autunno, specialmente nel mese d'ottobre, e che non pigliano in media (le fortunate) più d'una ventina di uccelli (passeracei) al giorno. Tale sistema si chiama anche caccia alla posta, dalle piante o poste sulle quali gli uccelli vengono a posarsi; e, in Toscana, caccia alla nocetta, dalla forma del capanno solitamente tondeggiante. Ivi, a Pisa, la praticò con trasporto il celebre predicatore padre Agostino da Montefeltro.

Caccia affine perché coi richiami, ma di maggior conto per l'importanza della preda, è la caccia di botte, che si fa dappertutto ove sian laghetti, acquitrini, sguazzi, ma specialmente nelle valli (paludi, bassure piene d'acqua) di Comacchio e in quelle del Bolognese e del Ferrarese. In questa caccia il capanno consiste in una tinella o mezza botte (onde il nome al sistema), dalla quale il cacciatore o i cacciatori sparano alle anitre selvatiche o germani e agli altri uccelli acquatici che vengono ivi attirati da richiami vivi e meccanici, detti stampe, disposti attorno alla botte.

Forme vietate di aucupio. - Tutte le forme di aucupio che abbiamo sopradescritte sono legali, cioè permesse dall'attuale legislazione italiana; ve ne sono però altre le quali, permesse dalle leggi precedenti, ora non lo sono più. Tali le passate al fischio e gli archetti di cui basterà quindi breve cenno, insieme agli altri sistemi vietati.

Le passate al fischio consistevano in reti verticali tese sui monti, nelle quali gli uccelli andavano a sbattere perché atterriti dai fischi degli uccellatori, mentre attraversavano a volo le gole o valichi. Sono state definitivamente cassate dal novero dei sistemi di aucupio leciti con r. decreto-legge 27 dicembre 1927. Voleva proibirle già il ministro Baccelli, e non solo per un sentimento zoofilo, bensì anche per un senso di giustizia pratica distributiva, in quanto una rete tesa attraverso le foci dei monti sottrae in misura esosa la ragion d'essere alle piccole uccellande della pianura. Prendevano infatti parecchie volte più di mille uccelli al giorno.

Vietati del pari per protezione della selvaggina e per giustizia venatoria sono gli schiappari, reti che si tendevano sulle spiagge, le quali catturavano in quantità ingenti quaglie e tortore negli arrivi primaverili.

Per norma o criterio generale di legge, di notte è proibita ogni forma di caccia. Sono quindi vietati: le antanelle, reti verticali scorrevoli che si serravano da sé addosso alla selvaggina (anitre, beccaccini ecc.) che, volando di sera o di notte sui prati e marcite in cerca di cibo, vi urtava contro provocandone lo scorrimento; il diluvio, vasta rete a imbuto terminante in nassa, nella quale si costringevano a entrare passeri, storni e ogni altro volatile che veniva sorpreso dai battitori nella parte di bosco o di canneto dinnanzi alla quale era tesa la rete; il farsello, rete a stendardo con la quale si avvolgevano gli uccelli fuggenti dagli alberi che i battitori percuotevano dall'altra parte; la lanciatoia, retino di forma simile a quello con cui si pigliano le farfalle, e che si usava per immobilizzare gli uccelli, specialmente allodole, che di notte, al lume di una lampada, si scoprivan dormienti sul terreno (fig. 27); la paletta o frugnolo di legno con cui si abbattevano gli uccelli che di notte si riesciva a scorgere, con l'aiuto d'una lanterna cieca, appollaiati nei cespugli (fig. 28).

Altra insidia crudele erano gli archetti, rami verdi curvati ad arco, tenuti tesi da funicella sporgente a cappio, a un lato trattenuta da stecchetto munito d'esca; gli uccelli, posandovisi per beccarla, restavan presi nel cappio.

L'impiego o uso degli archetti fu per molto tempo legale, in quanto per tenderli, si pagava apposita tassa; ma la barbarie del sistema, che spezzava le gambe agli uccelli e li esponeva a morir dissanguati in lunghe agonie, cominciò a suscitare la riprovazione nella pubblica opinione. Siccome però gli archetti erano anche un interesse economico, perché certi municipî di montagna realizzavano discrete somme affittando i monti ai tenditori, benché per la loro costruzione e collocazione fossero di danno ai boschi, seguitarono ad esser tollerati a lungo, fino a questi ultimi anni, non essendo la loro effettiva proibizione che un precetto della legge 1923. Riescono infatti di danno anche alla vegetazione; e, non ostante il divieto, si seguitano a tendere, stroncando (e quindi impedendo la crescita) degli arbusti ai quali vengono appoggiati.

Altro sistema di caccia oggi proibito è quello dei lacci, nodi scorsoi fatti con crini di cavallo o con filo metallico (solitamente d'ottone perché non arrugginiscano), che si dispongono in terra sui sentierini o passetti ove le starne, lepri, ecc. sono guidate a passare da frasche intorno collocate; o sugli alberi dove i tordi vengono a posarsi; nodi nei quali la selvaggina resta quindi accalappiata. Prima della legge del 1923 furono in molto uso anche come forma di uccellanda regolare, legale. Nel Veneto interi boschetti venivano appositamente alleati e cresciuti a lacciate. Ora il sistema è vietato per il senso di antipatica crudeltà in esso implicito; ma persiste clandestinamente, per es. sui monti dell'Appennino toscano, a insidia di beccacce, coturnici; nelle Puglie, a catture di tordi; in Sicilia, di lepri. I bracconieri che li tendono fanno spesso finta d'andar per lumache.

Tutte queste forme di uccellagione sono state proibite con la legge del 1923, ma proseguono clandestinamente; tuttavia è da ritenere che una migliore educazione dei fanciulli verso la protezione delle bellezze naturali finirà per relegarle completamente nella storia del folklore venatorio. Appartengono infatti alle costumanze popolari più tipiche delle varie regioni italiane.

Bracconaggio. - Ogni atto o fatto venatorio proibito dalla legge, o che si eseguisca senza la rispettiva licenza, si dice di bracconaggio, e bracconiere chi lo compie (da braconnier, che in francese significa conduttore di cani, individuo che dall'occupazione professionale fu verosimilmente spinto a cacciare per proprio conto e anche in tempo proibito), generalmente in riserva di proprietà privata o valendosi di quei mezzi di aucupio che, per antica tradizione popolare, sono a conoscenza e a portata di tutti.

Animali ausiliarî nella caccia. - Fra gli animali di cui l'uomo si è servito e si serve nell'esercizio dell'arte venatoria, il primo posto spetta al cane, che è per istinto animale da caccia, atto a scovare ed inseguire la selvaggina. L'educazione dei cani da guardia consiste specialmente nel domare quell'istinto che li spinge ad inseguire polli, gatti e ogni altra specie di animale vivo. L'importanza del cane per la caccia è tale, che i greci chiamarono questa forma di attività κυνηγία, da κύων (cane) (v. cane e specialmente cani da caccia). In India e in Persia, fin dai tempi più antichi, è stato usato per la caccia alle antilopi, alle gazzelle, ai caprioli e simili, anche il ghepardo (Cynailurus iubatus) che veniva legato su un carro basso, tirato da bovi, col capo ravvolto in una cuffia e il corpo rivolto all'indietro. In presenza della selvaggina si slegava il ghepardo dopo avergli tolta la cuffia, e l'animale si lanciava sulla preda e l'uccideva. I cacciatori, anche oggi, si affrettano a togliere la vittima al ghepardo che è compensato col fegato di questa e poscia ricondotto al carro. Nei secoli XV e XVI il ghepardo fu usato anche in Francia e in Italia da principi di casa regnante: ne possedettero Francesco Sforza duca di Milano, Luigi XII, Francesco I di Francia, Leopoldo I imperatore.

Il ghepardo è animale proprio della steppa subtropicale e si adatta malamente ai nostri climi; tale è la causa della sua limitata utilizzazione (v. ghepardo).

Anche una specie di lince africana, il Felis caracal, è stata usata talvolta nella caccia della piccola selvaggina. Sembra che gli antichi Egizî abbiano adoperato per analogo scopo leoni ammaestrati.

Nella caccia al coniglio è molto usato il furetto (Putorius furo), che serve a scacciare dalla tana codesta selvaggina (v. furetto). Tutti questi mammiferi sono ausiliarî del cacciatore in quanto scovano, inseguono e raggiungono la preda.

L'elefante indiano, usato nella caccia alla tigre, e il cavallo, servono come animali da sella; quest'ultimo consente all'uomo di seguire da vicino i cani nelle cacce a corsa ed è l'ausiliario più importante nelle cacce forzate (v. più sopra, caccia a cavallo).

Per la caccia agli uccelli, fin dai tempi primitivi erano usate varie specie di falchi. Anzi, se si considera la grande importanza che durante il periodo feudale questa specie di caccia ha avuto in Europa e in Asia, si può concludere che i falchi sono, dopo i cani, i più notevoli ausiliarî del cacciatore (v. falco e falconeria).

Rapaci notturni, come la civetta e il barbagianni, esercitano una particolare attrazione verso piccoli uccelletti, i quali, di fronte a quelli, perdono ogni prudenza e cadono facilmente nelle insidie dei cacciatori. La civetta e il barbagianni vengono allevati di nido o catturati allo stato adulto per essere addestrati a servire di zimbello in alcune forme di caccia con reti o col vischio. Sono pure ausiliari dei cacciatori i colombi usati come richiamo dei colombacci, le anatre semi-domestiche adoperate nella caccia ai palmipedi, e i piccoli uccelletti canori, mezzo necessario di caccia negli appostamenti fissi, che son detti richiami (v. sopra).

La caccia fuori d'Italia. - Assai diverso, in generale, fu ed è l'esercizio della caccia all'estero: tale diversità è probabilmente concausa della maggior quantità di selvaggina che è possibile catturare o abbattere nei paesi esteri.

Ottima regione, ricca di bottino, la Corsica; però il cacciarvi riesce faticoso a causa della folta vegetazione. Assai emozionante la caccia al cinghiale. Altra località dell'Italia geografica importantissima come punto di passo è l'isola di Malta. Vi si caccia e uccella tanto col fucile quanto con le reti. I paretai vi prendono in aprile decine e cinquantine di tortore; e in settembre, di nuovo, tortore, nottoloni, quaglie. In Tripolitania, estero geografico, vige in complesso la nostra legislazione; però d'aucupio nessuno si occupa; la caccia delle quaglie e tortore dura fino a tutto maggio; quella alla lepre tutto l'anno.

Così in Albania, benché attualmente vi si lamenti una certa decadenza, la selvaggina abbonda. Manca la starna, ma le lepri e le coturnici vi sono abbondantissime. Presenti, benché meno frequenti, il capriolo e la capra selvatica, i lupi, le martore e i tassi. Beccacce in quantità, anitre e beccaccini ovunque dove sono acquitrini; rigogoli, merli, tordi in gran numero.

In Austria l'esercizio della caccia è subordinato al diritto di riserva, cioè il territorio austriaco è tutto un complesso di riserve, date in appalto ai migliori offerenti, dai quali chi vuole andare a caccia compra il diritto di entrata, durata, specie e quantità di selvaggina che potrà uccidere. Si deve a tale severa regolamentazione se nel Trentino vi è ancora della grossa selvaggina, e provvidamente i legislatori italiani vanno cauti nell'estendere alle nuove provincie la legge italiana ispirata al concetto della libertà di caccia.

Molto minuziose le disposizioni che regolano la caccia nel Belgio, e forti le tasse; la licenza per il fucile costa cinquecento lire, vi è però in uso il licenzino domenicale, che costa solo lire 175.

In Francia, prima della Rivoluzione, tutti i dintorni di Parigi erano una vasta riserva chiamata "i piaceri del re", perché soltanto il re e i suoi invitati potevano cacciarvi. Per naturale conseguenza di tale limitazione dell'esercizio venatorio, la selvaggina era abbondantissima e domestica. Si narra di pernici tanto familiarizzate con l'uomo da non scostarsi e seguitare a beccare il grano, e di lepri sì confidenti da star a guardare chi passava. Il re si asteneva talvolta due o tre anni dal cacciare in qualche località, ma poi, quando vi faceva la battuta, eran uccisioni di millecinquecento, milleottocento capi. Se dopo tali ecatombi si giudicava utile di ripopolare la località, si aprivano le porte dei recinti di allevamento e la selvaggina affluiva nella riserva. I guardiacaccia esercitavano il loro ufficio con molta severità. Un borghese non osava comperare una lepre uccisa in riserva per timore di venir processato come complice o manutengolo. Se una pernice veniva a morire nel giardino o nel campo di un privato, questi doveva consegnarla. I guardiacaccia facevano una guerra senza remissione ai cani e cagnolini che fucilavano persino accosto alle loro padrone, nonostante i pianti e le preghiere. Coloro che uccidevano pernici o lepri, comparivano davanti al Tribunale delle acque e foreste, che era chiamato Capitaneria e si radunava al Louvre. L'autore di Figaro, Beaumarchais, lo presiedette per ventisei anni. Però al suo tempo le pene applicate per i reati di caccia sui "piaceri del re" avevano perduto molto della crudelta degli editti di Enrico IV. Non s'inviavano più alle galere né si fustigavano con verghe coloro che avevano ucciso una lepre o una pernice; soltanto chi uccideva un cervo veniva impiccato. Oltre le riserve regie vi erano naturalmente riserve di nobili. Quella a Rambouillet del conte Potocki costava 250 mila franchi all'anno. Quando, con la Rivoluzione, restrizioni e riserve furono abolite, il popolo si diede con tal furore alla caccia d'ogni selvaggina che questa venne quasi immantinente distrutta. In seguito alcune riserve tornarono a costituirsi, e continuano tuttora. Anche attualmente i Francesi sono appassionati alla caccia, specialmente i professionisti (avvocati, magistrati, ecc.). La caccia col cane in pianura è uno svago che i Francesi amano assai per trovarsi insieme fra uomini e passare lietamente la giornata. Bourgeois chasseurs sont gens heureux.

Cospicua l'importanza finanziaria ed economica della caccia in Germania. L'esercizio vi è affidato a consorzî o a privati, purché proprietarî di almeno 150 ettari contigui. Le campagne sono perciò tutte riserve, nelle quali non si può cacciare se non muniti del consenso del proprietario. Severa la legge; i bracconieri sono trattati come ladri scassinatori. Le statistiche offrono cifre assai vistose. Caprioli, cervi, daini, vi vengono annualmente uccisi a migliaia; le lepri e starne si contano a centinaia di migliaia. Nelle isole del Mar del Nord le catture dei trampolieri sono assai intense; e quelle dei passeracei o minuto uccellame (allodole, merli, tordi, ecc.) raggiungono cifre fantastiche. Ricco è quindi il commercio tedesco della cacciagione.

In Inghilterra, anticamente, per andare a caccia bisognava essere proprietarî di fondi. Soltanto nel 1831 si abolì per legge la necessità di essere proprietarî; però bisogna avere il permesso scritto del proprietario del fondo su cui si caccia. I termini dell'esercizio venatorio vanno dall'11 agosto all'11 dicembre, tranne che per i conigli e le lepri, specie che sono considerate dannose perché roditrici delle pianticelle, e che si possono quindi cacciare sempre. La selvaggina acquatica vi viene largamente catturata con reti a nassa. Però la caccia veramente in grande onore per gl'Inglesi è quella alla volpe, che è una delle manifestazioni più lussuose della vita aristocratica. Un'idea dell'importanza che vi annettono i nobili la si ha dal fatto che i possidenti di terre coltivate sono guardati con certa compassione dai possidenti di fondi erbosi, perché il terreno mosso dal vomero non serba cosi bene come quello a erba l'odore della volpe che vi passa. Inoltre, mentre in Italia (Roma), si fa tale caccia solo nei mesi d'inverno, in Inghilterra essa dura da agosto a maggio e abbraccia così ben dieci mesi. Rigorosissima la legislazione inglese contro i bracconieri notturni, cui infligge penalità raddoppiate.

In Danimarca, Olanda, ecc., l'uccellagione alle specie acquatiche è fatta su larga scala, tendendo reti nelle località adatte; e il grande commercio delle uova di certi uccelli (es. il combattente) ha però anche causato l'impoverimento attuale di quella specie.

Nella Svizzera, nei secoli scorsi, la caccia era esercitata come mestiere dai montanari, i quali prendevano camosci, francolini, galli, marmotte, orsi, ecc.; con lacci e reti anche anitre, beccacce, quaglie, tordi e uccellame d'ogni sorta. In seguito la passione si diffuse tra i benestanti, specialmente a Lugano; e, nel secolo scorso, molti poggi erano coronati da roccoli, per i quali si facevano venire gli uccellatori dalla provincia di Bergamo. Vi si usavano pure il piantone invischiato, archetti e lacci. La licenza per il fucile costava un franco; e libera, esente da tasse, era l'uccellagione. In seguito e attualmente ogni aucupio è invece vietato; e sola caccia permessa è quella alla grossa selvaggina di montagna (capriolo, camoscio, marmotta) per circa un mese. Eccettuati le cesene, i passeri e alcuni zigoli, tutte le specie dei silvani non si possono prendere né vivi né morti, né tenere in gabbia.

Anche in Ungheria la caccia fu dapprima un mestiere, poi una distrazione e ora un'attività economica importante. Il R. Museo dell'agricoltura ha tra i proprî scopi quello di presentare al pubblico tutto ciò che si fa nella caccia. Grave l'incetta degli aironi. Si trattava di caccia fatta per commerciarne le penne per distintivi di autorità, ed è giunta alla quasi estinzione della specie.

Al contrario che in Europa, in America l'interesse commerciale della selvaggina è nullo, non solo perché il periodo di caccia vi è brevissimo (75 giorni), ma anche perché ogni compra-vendita di cacciagione è proibita. I piccoli uccelli non si possono prendere. Oggetto della caccia sono soltanto i veri selvatici (es. le pernici, delle quali si fanno anche allevamenti). Negli Stati Uniti l'esercizio della caccia è diffusissimo (dieci volte di più che in Italia); il permesso o licenza costa solo 25 lire (moneta italiana); qualunque cittadino lo può ottenere, purché di condotta regolare; ma nessuna caccia è consentita in primavera, e non si può prendere più di un dato numero di selvaggina al giorno (per es. anitre 25, beccacce 6, beccaccini 20). Contro i piccoli uccelli migratori non si può sparare né tendere reti, e in diversi stati è protetta anche la quaglia. Multe elevatissime colpiscono i contravventori.

Caccia grossa. - Con questa espressione si suol definire oggi la caccia ai grandi animali che abitano paesi extra-europei. In generale la caccia grossa appartiene all'Africa equatoriale (v. sopra); ma è pure caccia grossa quella all'alce nel Canada, alla tigre nell'India, all'orso bianco e al bue muschiato nelle tundre subartiche. Al canguro in Australia si fa una caccia forzata a cavallo.

Astuzie e metodi speciali sono necessarî per qualsiasi specie di selvaggina (si vedano a tale proposito le voci che riguardano mammiferi ed uccelli che formano oggetto di caccia, come pure le voci che riguardano la fauna particolare ad ogni regione zoogeografica). Gli stati europei che hanno colonie africane non lasciano libera la caccia come una volta, ma il diritto di uccidere la selvaggina è subordinato alla concessione di una licenza nella quale è elencato il numero degli animali che possono essere uccisi: in generale si tratta di una collezione completa di antilopi e di altri ungulati; per la giraffa occorre, nelle colonie inglesi, una licenza speciale, il cui costo è presso a poco quello della licenza generale.

È vietato uccidere le femmine degli elefanti; a divorare la carcassa di un elefante ucciso si radunano gl'indigeni di tutti i villaggi che hanno potuto averne notizia.

La caccia nel folklore.

Forme diverse di caccia sono state usate, come si è visto, in ogni tempo e in ogni luogo, in rapporto col grado di civiltà dei popoli, con le condizioni del terreno, con la quantità della selvaggina; tra questa, come abbiamo già accennato, si distingueva la selvaggina nobile, che era riservata ai principi e ai signori e comprendeva gli animali a pelo rosso, a carne inodora e che non mordono: cervo, daino, capriolo, sparsi anticamente in quasi tutto il continente. Questa caccia esige battitori, portatori, palafrenieri, uomini addetti al governo dei cani, onde la signorilità della caccia medesima, che determinò il sorgere di un vero codice cavalleresco della caccia, contenente usi caratteristici nei varî paesi.

Evidentemente il principe non poteva impedire l'uccisione di animali feroci o nocivi come lupi ed orsi, volpi, cinghiali, che rispettivamente danneggiavano armenti e culture: tutta questa selvaggina, detta nera o fetente, era non di rado cacciata dai contadini, onde anche in questo caso si formarono consuetudini popolari diverse da paese a paese.

Finalmente gli uccelli migratori hanno rappresentato, dovunque essi passassero, un bene del primo occupante, non legato alla proprietà del terreno, ma vero dono di Dio. Così le quaglie di cui si sfamarono gli Ebrei nel deserto (Esodo, XVI, 8 segg.).

Gli uccelli di passo sono stati dovunque oggetto di ogni sorta d'insidie da parte del popolo, e là dove sono abbondanti, hanno determinato il sorgere di consuetudini locali.

Nella caccia signorile, quale si praticava nel sec. XV in Francia e in Inghilterra, ad ogni cacciatore col proprio cane veniva assegnato da esplorare un determinato territorio. La traccia e la direzione della fiera erano assegnate con la rottura di rami (marquer par brisées). Il principe e i suoi ospiti erano riuniti in assemblee e ricevevano, durante la colazione, le notizie sulla selvaggina portate dai cacciatori. Questi dovevano, nelle loro relazioni, usare sempre, secondo le regole del cerimoniale, un linguaggio dubitativo, mai affermazione categorica di aver visto o trovato questo o quell'animale. Scelto l'animale da inseguire, cominciava la caccia secondo un ordine prestabilito; al cacciatore che aveva scovato il cervo spettava il diritto di suonare per primo il corno e questo era il segnale per liberare la muta dei cani. Quando questi avevano raggiunto e fermato la fiera, il cacciatore che giungeva per primo colpiva con la spada o col coltello da caccia il cervo, fino a che non ne aveva abbattuto le corna. Il cerimoniale per la ripartizione del cervo ucciso è antichissimo. Al signore o a un ospite era affidato l'incarico di sollevare la pelle in un determinato punto, per introdurre il coltello da caccia. Scuoiato e squartato il cervo, seguiva la Furkie (forchie) che consisteva nell'infilare in un ramo fatto a forchetta il fegato, la carne dei lombi coi reni e i testicoli, che venivano portati al signore della caccia e costituivano les menuz droitz. Seguiva la curée (da cuir "cuoio") che consisteva nel distribuire ai cani i pezzi rimasti dall'uccisione del cervo: cuore, milza, rene, polmone e qualche altro avanzo sopra la pelle, che serviva di coperta, per eccitarli a compiere in seguito con maggior lena il loro ufficio. La curée ha seguitato per molto tempo: ebbe luogo, per esempio, nella caccia che Napoleone III offerse a Guglielmo I nel parco di Compiègne nel 1861.

Per la caccia grossa si costituiscono anche, fra il popolo, leghe o comitive, ciascuna con un capo, che presiede alle operazioni e alle ripartizioni della preda. Al tiratore che ha colpito mortalmente la fiera, o se ne sia impossessato, spetta di diritto, oltre la quota uguale a quella degli altri, la testa o la pelle. Norme inveterate regolano i rapporti fra i cacciatori e sono spesso in forma di proverbî; così il calabrese: Caccia di pilu, si sparti a filu a filu; Caccia di pinna, cu' ammazza s'a spinna (la selvaggina cioè, a differenza dell'uccellagione, va divisa ugualmente tra i componenti una comitiva). Altri adagi contengono norme di carattere economico, o determinano i modi, i tempi, i sistemi delle varie specie di caccia, come i seguenti comunissimi: per S. Teresa (15 ottobre) prepara la tesa; per S. Michele (29 settembre) la quaglia va e il tordo viene.

Per le cacce agli animali da preda come lupi, volpi, faine, per antica consuetudine è corrisposto un premio all'uccisore. Poiché il lupo è predatore non solo di bestiame ma di uomini, il premio è versato da enti pubblici, e, nelle leggi degli antichi stati italiani, dall'erario medesimo. Le volpi e le faine uccise solevano essere, fino a pochi anni addietro, impagliate malamente e mandate in giro ai casolari colonici, dove le massaie facevano il regalo di un paio di lire o di qualche coppia di uova per il vantaggio indiretto arrecato all'allevamento del pollame. Ora i prezzi delle pellicce sono talmente cresciuti che l'uccisore di una volpe o di una faina si affretta a venderne la pelle, prima che essa vada incontro al deterioramento.

Come si è già accennato, la massima importanza nel folklore venatorio italiano, spetta a speciali mezzi di aucupio che si esercitano nei riguardi degli uccelli di passo, e che sono oggi per lo più proibiti.

Al popolo resta la caccia assolutamente vagante, quella del cacciatore che batte le campagne e i monti in cerca di lepri, starne, o quaglie, in tal caso accompagnato e guidato dal cane, che ne fiuta la presenza e le orme; o di semplice uccellame, nel qual caso va solo, servendosi tutt'al più di qualche richiamo, fischietto o ranella, per attirare i passeri. Quest'ultima categoria di cacciatori è la più numerosa; ma, giacché si dedica a cacce di selvaggina modesta, anticamente non praticate dai nobili e consuetudinariamente abbandonate al popolo, le son fioriti contro epiteti di sprezzo e contumelia (bruciasiepi, pezzettari, pistamentuccie), i quali, mentre risultano poveri di contenuto giustificativo (potendosi esigere, ad esempio, in chi colpisce allodole in borrita, scattanti a volo d'improvviso, abilità ben superiore a chi sa uccidere una quaglia comodamente alzantesi, segnata e puntata dal cane), non servono che a dividere e aizzare in reciproco malanimo gli appassionati del fucile.

Si sogliono salutare i cacciatori con l'augurio in bocca al lupo, il cui significato non è per verità ben chiaro, sostenendo alcuni che si sia formato in Toscana quando v'era abbondanza di lupi, dei quali si augurava l'incontro al cacciatore, perché potesse ucciderne, e secondo altri non essendo che una corruzione fonetica di leggenda araldica spagnola. Forse tale augurio è invece un esempio di enantiosemia, cioè di augurio a rovescio, formatosi naturalmente quando i lupi erano frequenti e la superstizione suggeriva che, perché una cosa non avvenisse, bisognava nominarla, sicché in sostanza vorrebbe dire "sii preservato dal lupo".

Parte notevole hanno nel folklore venatorio le superstizioni, anche perché molte di esse non sono che retaggio di tempi remoti, quando l'uomo credeva di potere esperimentare contro gli animali i mezzi magici, che le sue rudimentali conoscenze suggerivano, o di potere allettare i loro spiriti con parole, con canti, con danze, con offerte. Tant'è che alcuni cacciatori adoperano vecchie formule per assicurarsi il successo delle operazioni, e circonlocuzioni per designare la volpe ("mora, nuora, comare", ecc.), il lupo ("il silenzioso, la zampa grigia"), l'orso ("il vecchio, il gran padre"); e altri poi, ritenendo che ogni specie di selvaggina abbia il santo protettore, si raccomandano a questo, prima di disporsi a cacciare; e quando già sono in azione, prognosticano il buono o cattivo esito dall'incontro di un individuo o di un animale. Né mancano i giorni fasti e nefasti: i Lapponi non vanno a caccia nei giorni di S. Caterina e di S. Marco per timore che i loro archi si rompano. Giova avvertire che molte di tali superstizioni si trovano in altre classi sociali, di contadini, di pastori, di artigiani, e che non costituiscono un patrimonio speciale dei cacciatori.

Diritto di caccia e legislazione venatoria.

Dal punto di vista giuridico l'esercizio della caccia dà luogo a una serie di rapporti varî e complessi che, si può dire, cadono oggi in tutti i dominî del diritto e particolarmente in quelli del diritto civile, amministrativo e penale. Le norme del diritto obiettivo, intervenendo a regolare il diritto di caccia subiettivamente considerato - cioè il diritto di perseguire e catturare gli animali viventi sulla terra e nell'aria nella loro naturale libertà, ossia come res nullius - vengono a riferirsi sia all'acquisto della proprietà degli animali stessi da parte del cacciatore, sia ai rapporti che si stabiliscono fra il cacciatore e il proprietario del fondo sul quale la caccia viene esercitata, sia infine all'azione svolta dallo stato per regolare, sotto il riguardo della pubblica sicurezza e anche sotto quello fiscale, il porto delle armi, per impedire i danni che dall'abuso della caccia o comunque da certi modi del suo esercizio potrebbero derivare alla conservazione della specie di animali utili, e infine per tutelare la pubblica igiene con la vigilanza sulla cacciagione che viene posta in commercio.

Nel moderno ordinamento giuridico il diritto di cacciare è riconosciuto ad ogni cittadino (e anche allo straniero in conseguenza dell'art. 3 del cod. civile) entro i limiti e le condizioni particolari stabilite nelle leggi. Con tale riconoscimento viene sanzionato il principio della libertà di caccia. Il detto principio, già posto a fondamento della disciplina ricevuta dalla caccia nel diritto romano, era stato profondamento scosso e annullato sotto il regime feudale. Nel regime feudale essendo attribuita al sovrano la proprietà eminente su tutto il territorio dello stato, il diritto di caccia venne considerato come una regalia della quale godeva lo stesso sovrano e che poteva essere ceduta, e di fatto veniva ceduta, ai feudatarî. Costituitisi titolari del diritto di caccia, sovrani e feudatarî comminavano pertanto pene severissime a coloro che si permettevano di violare il diritto stesso: si andava dall'ammenda e dalla confisca dei beni fino alla pena capitale. I delitti di caccia, in sostanza, anziché essere considerati come semplici violazioni del diritto di proprietà, erano considerati come usurpazioni di uno degli attributi della sovranità. Talora avveniva che il signore volontariamente permettesse a determinate persone o anche a tutto il popolo l'esercizio della caccia, ma, ciò permettendo, per mantenere salvo il suo diritto di concedente, stipulava tuttavia alcuni privilegi e vantaggi a proprio favore ed esigeva che a lui fosse corrisposta una porzione più o meno rilevante della preda. In queste condizioni di cose, nacquero appunto le cosiddette bandite o riserve, che si estesero enormemente. Solo dove furono molto estesi gli usi civici, come nell'Italia meridionale, il diritto di caccia poté essere esercitato da tutti i cittadini senza incorrere nel divieto del feudatario. Per quanto riguarda l'Italia, i primi tentativi per l'abolizione delle bandite furono fatti in Toscana da Pietro Leopoldo. Questo illuminato sovrano, dopo aver abolite parecchie riserve e bandite, restrinse infine, con la legge del 21 aprile 1782, la privativa di caccia dei feudatarî ai beni di loro proprietà. Tuttavia l'abolizione generale e completa di questi privilegi, che erano stati cagione, in molti luoghi, di gravi conflitti sociali, poté avvenire solamente per opera della Rivoluzione Francese, che tolse ai nobili ogni esclusivo diritto di caccia, stabilendo la sola riserva di non permetterne l'esercizio che ai proprietarî con le misure necessarie per tutelare la pubblica sicurezza. Veniva così ad affermarsi il principio di considerare la caccia come un'appendice della proprietà e conseguentemente si affermava la necessità che fosse richiesto, da parte di chi volesse esercitare la caccia, il permesso del proprietario del fondo. Se pertanto erano sciolti i vincoli e i privilegi feudali, nemmeno si ritornava, col principio proclamato dalla Rivoluzione Francese, al concetto romano della vera e propria libertà di caccia, per cui l'esercizio di questa era considerato come un principio a se stante, indipendente dalla proprietà e solamente sottomesso a quella limitazione che il proprietario del fondo poteva imporre col suo ius prohibendi. Questo concetto romano sembra prevalente nella dottrina e nella legislazione italiana. Il concetto di considerare la caccia come un attributo del diritto di proprietà è rimasto invece dominante nella legislazione e nella dottrina francese (Legge 3 maggio 1844, ancora in vigore con poche modificazioni, e per la dottrina J. Carret, Le droit de chasse..., Parigi 1911).

Dopo la soppressione dei vecchi privilegi l'esercizio della caccia, sia in Francia sia negli altri paesi, fu regolato con leggi speciali. In Italia, subito dopo l'unificazione, rimasero in vigore per le varie provincie le leggi emanate dagli stati preesistenti. Ciò tuttavia non impedì che nella legislazione generale del regno fossero incluse norme relative alla caccia, le quali venivano quindi ad aggiungersi alle vecchie o a limitarne l'efficacia. Da questo stato di cose derivò che la disciplina della caccia risultasse tutt'altro che chiara e armonica, dando perciò luogo a conflitti tra le varie leggi, a difficoltà d'interpretazione e ad oscillazioni e perplessità della giurisprudenza. Si sentì quindi la necessità di procedere anche in tal materia all'unificazione legislativa, e a tal uopo furono disposti gli studî necessari. Ne vennero numerosi progetti, che a datare dal 1862 furono presentati al Parlamento e taluni anche approvati da uno dei due rami del parlamento stesso. Nessuno tuttavia di tali progetti, per le vicende parlamentari, riuscì, per oltre sessant'anni, a essere tradotto in legge dello stato. Miglior fortuna alla fine incontrò il progetto presentato nel febbraio 1923 dal ministro De Capitani d'Arzago. Discusso e approvato dal Parlamento, il mentovato progetto è divenuto legge. Con questa si è provveduto, per le vecchie provincie del regno, alla desiderata unificazione legislativa, in materia di caccia. Per le nuove provincie annesse in seguito alla guerra sarà provveduto con ulteriori disposizioni. Alla legge 24 giugno 1923, n. 1420 e relativo regolamento 27 settembre 1923, n. 2448, hanno poi fatto seguito altri provvedimenti e cioè il decreto-legge 20 marzo 1924, n. 533, il decreto-legge 4 maggio 1924, n. 754 che ha assorbito e abrogato il precedente, la legge 7 giugno 1928, n. 1748, il decreto-legge 3 agosto 1928, n. 1997 e il decretolegge 18 novembre 1929, n. 2016. Queste disposizioni particolari - non raccolte in testo unico - insieme con i principî generali fissati dal codice civile e svolti dalla dottrina e dalla giurisprudenza e con le altre norme contenute in diverse leggi, quali ad esempio quelle sulle concessioni governative e sulla Pubblica Sicurezza, formano complessivamente il diritto attualmente in vigore in Italia in materia di caccia.

La norma generale che si riferisce all'acquisto della proprietà dell'animale da parte del cacciatore è contenuta nell'art. 711 del codice civile. Quest'articolo annovera appunto tra le cose che si acquistano mediante occupazione, gli animali che formano oggetto di caccia. Affinché un animale rientri nell'ipotesi prevista dal codice occorre che esso sia allo stato selvaggio, che cioè viva nello stato della sua naturale libertà, come res nullius. Da ciò deriva che non possono essere acquistati gli animali che, benché selvaggi, siano tuttavia rinchiusi (conigli nelle conigliere, selvaggina nei parchi chiusi, ecc.); parimenti non possono essere acquistati gli animali mansuefatti, purché conservino l'abitudine del ritorno, né gli animali domestici (oche, galline, ecc.), quantunque si siano sottratti allo sguardo del proprietario (per il diritto romano, dal quale queste distinzioni derivano, e per la dottrina delle res nullius, vedi: Inst., II, 1, de rer. div., 15; Gaius, II, 68; Dig., XLI, 2, de acq. poss., 3, 16; Dig., XLI, 1, de acq. rer. dom., 5, 5; Dig., XLVII, 2, de furtis, 37). Affinché poi possa giuridicamente verificarsi l'occupazione occorre, in via generale, che l'animale sia preso materialmente, sia con le mani, sia con le reti o con qualunque altro strumento.

Nel diritto romano fu vivace la controversia circa la proprietà dell'animale ferito ed eventualmente preso da persona diversa dal cacciatore feritore. In proposito alcuni ritennero che l'animale ferito gravemente divenisse immediamente di proprietà del cacciatore; altri, come ad esempio Trebazio, ritennero che l'animale ferito fosse del cacciatore finché questi l'inseguisse, altri infine ritennero che non fosse del cacciatore finché non fosse stato preso (Dig., XLI, 1, de acq. rer. dom., 5, 1; Inst., II, 1, de rer. div., 13). La disputa, quantunque non abbia grande interesse pratico, ha trovato eco nei civilisti moderni. Sembra logico ritenere che, non dettando la legge disposizioni al riguardo, vadano applicati gli usi e le consuetudini locali (B. Brugi, La proprietà, II, Torino 1918, p. 482 segg.).

Nei riguardi del proprietario del fondo sul quale vengono a trovarsi gli animali che formano oggetto di caccia, è prevalso nel nostro diritto il criterio accolto dal diritto romano che, essendo la selvaggina una res nullius, possa essere acquistata da chiunque mediante l'occupazione, senza che il proprietario del fondo possa vantare direttamente su di essa un proprio diritto. Ciò tuttavia non esclude che il proprietario, o chi lo rappresenta, possa vietare a chicchessia d'introdursi nel fondo per qualsiasi motivo, e quindi anche per esercitarvi la caccia (art. 712 cod. civ.).

La facoltà del proprietario di vietare l'ingresso nel fondo (ius prohibendi) risale al diritto romano. Per la violazione di questo diritto del proprietario era a lui concessa l'actio iniuriarum. In diritto romano era poi assai controverso se, nel caso in cui il cacciatore si fosse introdotto nel fondo contro il divieto, la proprietà dell'animale spettasse al proprietario del fondo ovvero al cacciatore. Alcuni hanno ritenuto che al proprietario spettasse un vero e proprio diritto di caccia, così che gli animali selvatici non appartenevano al primo occupante se non nei terreni pubblici o in forza del consenso del proprietario. Questa opinione fu già sostenuta dal Cuiacio il quale si fondò su di un frammento di Proculo (Dig., XLI, 1, de acq. rer. dom., 55). La stessa opinione è stata poi sostenuta da giureconsulti moderni, i quali si sono specialmente fondati su di un frammento di Trifonino (Dig., VII, 1, de usufructu, 62). Della questione si è occupato fra noi largamente il Landucci (Il diritto di proprietà e il diritto di caccia presso i romani, in Arch. giuridico, XXIX, 1882; Caccia, in Enciclopedia giuridica italiana, III). Il valoroso romanista, criticando la tesi accennata, e sottoponendo ad ampia esegesi i testi che si hanno in materia, conclude col sostenere che la preda fosse sempre di spettanza del cacciatore.

Venendo all'attuale legislazione unificata della caccia, troviamo tra le più rilevanti disposizioni quelle che concernono le bandite e le riserve. Questi termini non possono naturalmente indurre a pensare che si sia voluto, in qualsiasi modo o misura, ristabilire vecchi privilegi. Lo scopo è ben diverso: queste disposizioni, come in genere tutte le altre norme emanate, tendono essenzialmente al fine di pubblico interesse di proteggere efficacemente la selvaggina, la quale costituisce una parte notevolissima del patrimonio nazionale.

Secondo la mentovata legge 24 giugno 1923 le bandite sono quei terreni destinati al rifugio e al ripopolamento della selvaggina stanziale; in esse peraltro, essendo vietato a tutti l'esercizio della caccia, sono anche protetti i selvaggi migratori. In bandite sono costituite tutte le proprietà del demanio forestale dello stato (art. 1). Inoltre, i possessori di terreni di estensione non inferiore a ettari trecento potranno ottenere di costituire i terreni stessi in bandite per un'estensione non superiore a ettari duecento (art. 3). Una bandita di rifugio e di ripopolamento di conveniente estensione deve esistere in ogni provincia (art. 2). In riserve possono essere costituite le terre non inferiori a cento ettari (art. 8). La concessione, nella quale in certo modo rivive l'accennato ius prohibendi, può essere fatta non solamente al proprietario, ma anche ad altri (conduttore, enfiteuta, o anche associazione di cacciatori, come persona giuridica, sul terreno di proprietà dei soci col consenso di questi). Per la concessione dev'essere pagata una particolare tassa (legge 3 agosto 1928, art. 8). Nelle riserve la caccia può essere esercitata solamente dal concessionario o da chi ne abbia da lui ottenuto il permesso scritto (legge 24 giugno 1923, art. 9). Tanto la costituzione delle bandite quanto quella delle riserve è revocabile, e la seconda non può essere consentita per più di quindici anni. Le bandite e le riserve devono essere appariscenti e notorie, debbono portare particolari segnali e una tabella con la scritta: "Divieto di caccia".

Sempre a norma della mentovata legge 24 giugno 1923, la caccia e l'uccellagione possono essere esercitate solo da chi sia munito da permesso rilasciato dall'autorità politica circondariale. Per ottenere questo permesso occorre almeno avere sedici anni di età ed avere ottenuto, nel caso che si tratti ancora di minori, il consenso del genitore o di chi ne fa le veci. Occorre essere in regola con le leggi penali e di pubblica sicurezza sul porto d'armi, e con la legge sulle concessioni governative (articoli 15-16-17).

Di particolare rilievo sono poi le disposizioni relative ai termini di tempo, entro i quali la caccia può essere esercitata. In linea generale si prescrive che la caccia con armi da fuoco o col falco può essere esercitata dal 15 agosto al 31 dicembre e l'uccellagione dal 15 agosto al 20 novembre. Per determinati animali sono fissati termini speciali. I termini possono essere ristretti per alcune forme di selvaggina o forme di caccia o località (v. decr. minist. 7 aprile 1924).

Oltre queste disposizioni più rilevanti che sono state qui rapidamente rammentate, la legislazione vigente contiene molteplici e minute norme per regolare l'esercizio della caccia e per limitarne gli abusi, nell'interesse, come si è detto, della conservazione delle specie e in quello dell'agricoltura. A tal fine vengono imposti particolari divieti, vengono dettate disposizioni speciali circa i modi di caccia, l'uso delle armi e delle reti, l'uso e l'abbandono dei cani, sono limitati i luoghi in cui la caccia può essere esercitata, sono fissate le condizioni in cui viene rilasciato il permesso di caccia (valido per un anno). Sono infine previste le sanzioni necessarie contro i contravventori delle disposizioni in vigore e sono indicate le persone (funzionarî e anche privati) alle quali è affidato il compito di vigilare sull'osservanza delle dette disposizioni.

Nella legislazione vigente hanno trovato un apposito regolamento le associazioni dei cacciatori. Oltre le associazioni libere previste dalla legge 27 novembre 1923 (articoli 34-37), vengono create in ogni capoluogo di provincia apposite associazioni, presiedute da una commissione venatoria con sede presso il Consiglio provinciale dell'economia. Le dette commissioni costituiscono la Federazione fascista dei cacciatori nazionali (legge 3 agosto 1928, articoli 3, 5, 6). Le commissioni venatorie hanno lo scopo di vigilare sull'applicazione delle norme in materia di caccia, curare il ripopolamento della selvaggina stanziale, dare impulso alla conoscenza delle leggi sulla caccia, formulare voti e suggerire provvedimenti al ministro, gestire i fondi loro provenienti per sopratasse di licenza, dare pareri intorno alle restrizioni da portare all'esercizio della caccia, fare il censimento delle bandite e delle riserve, dare parere sulla costituzione e rotazione delle bandite, sulla concessione e revoca delle riserve, e su ogni altra questione di tecnica e di servizio venatorio (art. 7).

In fine è da rammentare che in forza dell'art. 1 della legge 3 agosto 1928 fu istituita presso il Ministero dell'economia nazionale una commissione centrale venatoria, come organo di competenza tecnica per la pubblica amministrazione nei riguardi dell'applicazione della legge sulla caccia. In seguito alla soppressione del Ministero dell'economia, questa commissione, insieme con tutti i servizî relativi alla caccia, è passata alle dipendenze del Ministero dell'agricoltura e foreste.

Letteratura venatoria.

L'importanza della caccia in ogni civiltà, fin dalle epoche più remote, è resa manifesta dai numerosi documenti che ci sono stati tramandati sotto forma di rappresentazioni artistiche e di scritti. Magnifiche tavole di alabastro nel palazzo di Assurbanipal a Ninive ricordano le gesta dei cacciatori assiri; bassorilievi e dipinti mostrano quale interesse abbia destato la caccia nell'Egitto.

Gli antichi Greci, che tanto praticarono la caccia, ebbero anche molti tecnici in questo campo; ma ci restano, su questo argomento, solo gli scritti di Senofonte, di Arriano e di Oppiano.

Di Senofonte, o almeno sotto il nome di lui, ci è giunto un trattatello intitolato Cinegetico, nel quale si esalta la caccia, che venne praticata dai più insigni eroi del mondo greco, e si dànno molte pratiche nozioni anche per l'allevamento dei cani che debbono servire d'aiuto all'uomo. La caccia è considerata appunto come opportuna preparazione alla guerra. Né v'ha del resto, in ciò, esagerazione alcuna, quando si pensi a certe specie di caccia tenute allora in più alto onore, cioè alla caccia delle più pericolose belve con armi neppure da lancio. Sull'autenticità di questo scritto molto si è discusso. Una specie di complemento del trattatello senofonteo vuol essere il Cinegetico di Flavio Arriano (v.), il quale reca alcune interessanti notizie sull'esercizio della caccia presso i Celti.

Una trattazione poetica della materia ci è giunta nel poemetto in 4 libri, Cinegetica, attribuito ad Oppiano (v.). Ma sia dalla molto minor perfezione formale del poemetto cinegetico, sia da un'esplicita dichiarazione dell'autore stesso, che patria sua fu Apamea in Siria, si ricava che si tratta di un altro Oppiano, fiorito esso pure ai tempi di Caracalla. Di un altro poemetto di questo secondo Oppiano, sull'arte di prendere gli uccelli con le panie, abbiamo memoria, ma esso non è giunto a noi. Come pure non ci è giunto un poemetto sugli uccelli, di Dionisio il Periegeta (II sec. d. C.).

I Romani, al contrario degli Assiri, degli Egizî e dei Greci, ebbero minor passione per la caccia ed è forse per questo che la loro letteratura venatoria è scarsa. Notizie intorno alla selvaggina e ai metodi per catturarla appaiono frammentariamente nelle opere più varie o, se hanno carattere sistematico, fanno parte della letteratura agricola. Cesare, ad esempio (Bell. Gall., VI, 26), descrivendo un bos cervi figura che si trovava in Germania, dà elementi sufficienti per capire che si tratta della renna, la quale dunque viveva allora in quel paese. Anche dell'alce Cesare dà una descrizione che lo fa perfettamente rinoscere, e dei Germani dice: Vita omnis in venationibus atque in studiis rei militaris consistit; Plinio descrive l'uro e il bisonte, viventi anch'essi nelle foreste della Germania.

Nelle più o meno ampie trattazioni sulla caccia dei quattro rustici latini, Catone, Varrone, Columella e Palladio, il lato economico e gastronomico di essa prevale assai su quello sportivo; descrivono parchi e stanze in cui si possono conservare e ingrassare, a scopo di alimento nei lauti festini, caprioli, cinghiali, lepri, tortore e tordi.

Nel Medioevo la caccia ebbe, in Europa, il suo periodo aureo, e le trattazioni di essa non mancarono nella letteratura del tempo, sia come capitoli di opere agrarie, sia come documenti di letteratura venatoria vera e propria. Pier de' Crescenzi, nel suo Trattato dell'agricoltura, scritto in latino nella seconda metà del sec. XIII, dedica il suo libro decimo alla caccia e alla pesca e descrive i varî metodi per pigliare animali selvaggi con reti, lacci, vischio, balestra, cani e altri mezzi svariati. Federico II imperatore, appassionatissimo per ogni genere di caccia, che faceva contemporaneamente alla guerra, alla quale era sempre accompagnato da una specie di serraglio, dopo la vittoria di Cortenuova entrò trionfalmente in Cremona facendo trascinare il carroccio dei vinti da un elefante; compose un libro De arte venandi cum avibus che fu commentato da Manfredi e pubblicato nel 1596 ad Augusta.

Famoso, nella metà del sec. XIV, è il manuale di caccia intitolato Livre du roy Modus et de la royne Racio, nel quale gli animali da caccia sono distinti in due categorie: doulces e puans. I primi sono il cervo, l'alce, il daino, il capriolo e la lepre, che corrispondono alla selvaggina nobile; gli altri sono il cinghiale, il lupo, la volpe, il tasso e il gatto selvatico, compresi più tardi nella selvaggina ignobile, detta anche selvaggina nera. Altre opere notevoli sono i Déduits de la chasse di Gaston Phoebus della fine del sec. XIV, il The Mayster of the Game di Edoardo II, duca di York, scritto probabilmente tra il 1410 e il 1412 con l'ausilio di un'opera inglese composta ai primi del sec. XIV da Twici, Le art de venerie.

In tutti questi libri e in altri dei secoli XV e XVI si trovano anche trattazioni sulla selvaggina, sui metodi più usati per cacciare, sui cani, sui falchi e sull'organizzazione delle grandi cacce, nelle quali mansioni varie erano affidate ai singoli cacciatori, diverse a seconda del loro diverso grado sociale.

In Italia l'arte di uccellare è sempre stata in onore, e dall'epoca dei Romani si è tramandata ai nostri giorni. Ne trattano esaurientemente il Tanara, l'Olina e Bartolomeo Alberti in opere dei secoli XVII e XVIII: fine e piacevole è il libro di A. Bacchi della Lega (v. bibl.), in cui sono esposte le abitudini dei nostri piccoli uccelli e i sistemi per catturarli, usati specialmente in Romagna.

V. tavv. XXXIX e XL.

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Per il Medioevo e l'età moderna, citiamo, tra i moltissimi: Dunoyer de Noirmont, Histoire de la chasse en France, voll. 3, Parigi 1868; Winckell, Handbuch für Jäger, voll. 2, 5ª ed., Lipsia 1877-78; J. Th. Grunert, Jagdlehre, voll. 2, Hannover 1879-80; Ch. Dignet, Le livre du chasseur, Parigi 1880; P. Garnier, La vénerie au XIXe siècle, Parigi 1881, id., La chasse du globe, voll. 2, Parigi 1885; W. T. Hornaday, Two Years in the Jungle, New York 1883; A. Schwappach, Grundriss der Forst- und Jagdgeschichte Deutschlands, Berlino 1883; F. E. Jester, Die kleine Jagd, 5ª ed., Lipsia 1884; H. de La Ferrière, Les grandes chasses, Parigi 1885; Th. Roosevelt, Hunting Trips of a Ranchman, New York 1885; id., Wilderness Hunter, New York 1893; id., American Big Game Hunting, New York 1893; id., African Game Trails, New York 1910; R. Souhart, Bibliographie générale des ouvrages sur la chasse, ecc., Parigi 1886; R. von Dombrovski, A. von Guttenberg e G. Henschel, Allgemeine Encyklopädie der gesamten Forst-und Jagdwissenschaften, voll. 8, Vienna e Lipsia 1886-93; R. de Salnove, La vénerie royale, nuova ed., Niort 1888; Leverrier de La Conterie, L'école de la chasse aux chiens courants, ecc., 5ª ed., Parigi 1893; G. B. Grinnell, American Big Game and its Hounts, New York 1893; id., Hunting at High Altitudes, New York 1913; F. C. Selous, Travels and adventures in South-East-Africa, Londra 1893; id., Recent Hunting Trips in British North-America, Londra 1893; id., A Hunter's Wandering in Africa, New York 1911; J. Bosmans, La chasse, Bruxelles 1894; E. Foa, Mes grandes chasses dans l'Afrique centrale, Parigi 1895; G. Gioli, Uccelli e caccie più comuni del Pisano e del Livornese, Livorno 1895; Comte de Chabot, La chasse à travers les âges, Parigi 1898; J. E. H. Le Coulteux de Canteleu, Manuel de vénerie française, 2ª ed., Parigi 1902; E. Regener, Jagdmethoden und Fanggeheimnisse, 10ª ed., Neudamm 1902; E. Girardi, Il cacciatore (fucile, reti, panie), Milano 1903; H. Fürst e altri, Illustriertes Forst- und Jagdlexikon, 2ª ed., Berlino 1903-04; G. L. Hartig, Lehrbuch für Jäger, 6ª edizione, Neudamm 1903; T. S. van Dyke, The Still Hunter, New York 1904; F. Liñan y Tavira, Estudio crítico de caza, Madrid 1905; P. Niedeck, Mes chasses dans les cinq parties du monde, trad., Parigi 1906; P. Borrelli, Nuovissimo manuale del cacciatore italiano, Napoli 1906; P. Petit, Catalogue de livres sur la chasse, Louviers 1907; A. Ghigi, Caccia, Milano 1907; J. Brunner, Tracks and Trackings, New York 1909; A. Bacchi della Lega, Caccie e costumi degli uccelli silvani, Milano e Roma 1910; F. Christophe, H. Dubosc, G. de Marolles, Vénerie, louveterie, fauconnerie, ecc., Parigi 1910; H. Whitney, Hunting with the Eskimos, New York 1910; R. Tjäder, Big Game in Africa, New York 1910; B. L. Kennion, Sport and Life in the Further Himalaya, Edimburgo 1910; Ph. d'Orléans, Chasses et chasseurs arctiques, Parigi 1911; P. Cunisset-Carnot, La chasse à tir, Parigi 1911; H. Adelon e altri, La chasse moderne. Encyclopédie du chasseur, nuova ed., Parigi 1912; F. G. Aflalo, Books of the Wilderness and Jungle, Londra 1912 (bibliografia generale); E. P. Stebbing, Stalks in the Himalaya, Londra 1912; G. Gioli, Caccie utili e caccie dannose, Bologna 1912; C. H. Stigand, Hunting the Elephant in Africa, Londra 1913; A. E. Pease, The Book of the Lion, Londra 1913; R. D. Cooper, Hunting and Hunted in the Belgian Congo, Londra 1914; P. Gastinne-Renette e G. Voulquin, Pour devenir un bon chasseur, Parigi 1921; F. von Raesfeld, Das deutsche Weidwerk, 3ª ed., Berlino 1921; C. De Cupis, La caccia nella campagna romana, Roma 1921; N. Garbari, L'uccellagione e i suoi metodi nel Trentino, Trento 1922; G. Franceschi, Manuale dell'uccellatore, Milano 1923; A. Sarneri, Il libro del cacciatore, Milano 1923; S. Ramponi, Il Trentino e le sue caccie, Trento 1923; M. Borsa, La caccia nel Milanese, Milano 1924; R. Franceschini, Il cacciatore pratico, Firenze 1924; L. Ghidini, Caccia vagante col vischio e col fucile alla minuta selvaggina, Milano 1924; V. Tedesco Zammarano, Hic sunt leones, Milano 1924; id., Il sentiero delle belve, Milano 1929; N. Camusso, La selvaggina e norme per cacciarla, Milano 1925; O. Bicchi, Manuale per la caccia col fucile al capanno, Siena 1926; Caccia alla lepre, al fagiano, alla pernice ed alla quaglia: scritti anonimi a cura di L. Ghidini, Milano 1926; G. Fragoli, La caccia: tecnica e balistica cinegentica, Milano 1926; G. Franceschi, E. Arrigoni degli Oddi, L. Ghidini, Manuale del cacciatore, Milano 1926 (aggiornato a tutto l'agosto 1928); Società della caccia di Brescia, Questioni di caccia e d'aucupio, Brescia 1927; G. Voltan, Manuale pratico del cacciatore italiano, Catania 1927; F. Scheibler, Sette anni di caccia grossa, n. ed., Milano 1928; L. Ghidini, La caccia nell'arte, Milano 1928; id., Il libro dell'uccellatore, Milano 1929; Comitato ornitologico venatorio, Selvaggina e caccie in Italia, Milano 1929; C. Dall'Ongaro, Ruggiti e barriti, Roma 1929; C. Gilardino, Il dizionario del cacciatore italiano, Roma 1929.

Per l'etnologia v. specialmente: P. Kolb, Beschreibung des Vorgebürges der Guten Hoffnung und derer darauf wohnenden Hottentoten, Francoforte e Lipsia 1745; J. Edge-Partington e C. Heape, An album of the weapons, tools, ornaments, articles of dress, etc., of the Natives of the Pacific Islands, Manchester 1890, 1895, 1898; W. E. Roth, Ethnological studies among the North-West-Central Queensland Aborigines, Brisbane e Londra 1897; id., An introductory study of the arts, crafts and customs of the Guiana Indians, in Bureau of American Ethnology, 38. ann. Report, Washington 1924; S. Culin, Games of the North American Indians, in Bureau cit., 24. Rep., Washington 1902-03; E. Otto, Pflanzer- und Jägerleben auf Sumatra, Berlino 1903; W. W. Skeat e C .O. Blagdon, Pagan Races of the Malay Peninsula, Londra 1906; Th. Grünberg, Jagd und Waffen bei den Indianern Nordwestbrasiliens, in Globus, XCIII (1908); E. Torday e T. A. Joyce, Notes ethnographiques sur les peuples communément appelés Balluba, ainsi que sur les peuplades apparentées les Buschongo, in Annales du Musée du Congo Belge, Bruxelles 1911; A. C. Haddon, Hunting and Fishing, in Reports of the Cambridge Expedition to Tosses Straits, IV, Cambridge 1912; R. Avelot e H. Gritty, La chasse et la pêche dans les forêts de l'Ogooué (Congo français), in L'Anthropologie, Parigi 1913; G. Montandon, Au Pays Ghimirra, Neuchâtel 1913; P. Radin, The Winnebago Tribe, in Bureau cit., 37. Rep., Washington 1915-16; J. Maes, Notes sur les populations des bassins du Kasai, de la Lukenie et du Lac Léopold II, in Annales du Musée du Congo Belge, Bruxelles 1924; H. Balfour, Tornlined Traps and their distribution, in Man, XXV, Londra 1925; G. Lindblom, Jackt- och Fangsmetoder bland Afrikanska Folk, Stoccolma 1925; J. Lips, Fallensysteme der Naturvölker, in Ethnologica, III, Lipsia 1927; id., Die Fallen der Paläolithiker, in Ipek (Jahrb. für prähist. u. ethnol. Kunst), 1927.

Sulla caccia popolare si ricorderà qui qualche scritto relativo all'Italia: Relazione sul progetto di legge per la caccia, 7 giugno 1879; B. Punturo, Della caccia e dei suoi rapporti col diritto, Caltanisetta 1892, par. 17, pp. 158-203 (dei modi di caccia usati nelle singole provincie d'Italia). Notizie e descrizioni particolari in G. Di Giovanni, Alcune usanze venatorie del Canavese, in Arch. trad. pop., VI (1887); G. Pitrè, La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo 1913; C. Grisanti, Usi, credenze, proverbi e racconti popolari di Isnello, I, Palermo 1899, pp. 164-169; II, Palermo 1909, pp. 152-156; G. Amalfi, Tradiz. ed usi della penisola sorrentina, Palermo 1890, pp. 77-110; R. Corso, Ländl. Gewohnheitsrechte einiger Gebiete Kalabriens, in Zeitschr. vergl. Rechtswiss., XXII (1908), pag. 430. Per i proverbî riferentisi alle consuetudini, vedi R. Corso, Prov. giur. ital., in Riv. it. soc., XXI (1916).

Per il diritto: J. Verhaegen, Recherches historiques sur le droit de chasse et sur la législation sur la chasse, Bruxelles 1873; L. Landucci, Caccia, in Enc. giur. ital., III, i, i, Milano 1898; E. Arrigoni degli Oddi, Testo illustrativo ed esplicativo delle disposizioni vigenti in materia venatoria, 2ª ed., Padova 1927.

Sui cinegenetici greci: del Cinegetico senofonteo si veda l'edizione weidmanniana di G. Pierleoni, Berlino 1902; in italiano l'ediz. scolastica di P.M. Rossi, Milano 1905 e la trad. di F. Festa, Napoli 1790; il Cinegenetico di Arriano è tra gli Scripta minora del medesimo curati nella teubneriana da Hercher-Eberhard; il poemetto di Oppiano Siro lo si può vedere, con l'altro di Oppiano di Cilicia, nell'ed. principe di L. Lippi, con versione latina, Venezia 1517, e nella didotiana di F. G. Lehrs, Poetae bucolici et didactici, Parigi 1846 e 1851. Una versione italiana di Oppiano è stata curata dal Salvini, Firenze 1728.

Tra i giornali e le riviste italiane di caccia, il più antico è il Diana, che si pubblica a Firenze, fondato dal francese A. Renault (pseud. Rusticus). È più una rivista di lettura amena che un organo di classe. Vero giornale agitatore delle questioni più notevoli è stato il quindicinale Corriere del cacciatore, che si pubblicava a Milano. Più diffuso e ricco Il cacciatore italiano, pure di Milano. A Trento si pubblica Il cacciatore trentino, mensile. Esce a Roma, La settimana di caccia e pesca, a Torino, La caccia e la pesca; in altre città appaiono settimanali minori.

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