CACCIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

CACCIA

Dante Cosi

(VIII, p. 206; App. I, p. 329; IV, 1, p. 329)

Esercizio della caccia e legislazione. - La c., sempre meno esercitata ed esercitabile sul territorio nazionale a causa delle mutazioni morfologiche e del degrado subiti dall'ambiente, è viceversa divenuta, nell'ultimo ventennio, argomento di vivace dibattito a livello di opinione pubblica e di mezzi di informazione, e oggetto di ripetuti interventi normativi, a livello regionale, nazionale e sovranazionale e di azioni referendarie e contro-referendarie degli opposti movimenti protezionistico e dei cacciatori.

Se la c. ha, da tempo, perso l'antica connotazione produttivistica, rispondendo ormai a necessità ludiche e sportive, non per questo è diminuita, nel gruppo sociale dei praticanti, la propensione a ritenere l'atto di c. come esercizio di una insopprimibile facoltà naturale dell'uomo. All'accusa loro rivolta − di danneggiare la natura, perturbando gli equilibri biologici e provocando l'estinzione di alcune specie di animali − i cacciatori rispondono imputando all'urbanizzazione crescente e all'uso sempre più intenso di sostanze chimiche in agricoltura la responsabilità dei danni arrecati non solo al patrimonio faunistico ma all'ambiente tutto.

Le associazioni protezionistiche della fauna e le collegate organizzazioni ambientalistiche inquadrano il loro obiettivo di eliminazione della c. nella prospettiva di integrale protezione delle specie animali (e vegetali) e di razionalizzazione dell'assetto e dell'uso del territorio; e mettono anche in risalto le sofferenze immotivatamente fatte patire agli animali selvatici cacciati.

Le vicende legislative e istituzionali della c. esprimono, ovviamente, le alterne sorti di questo contrasto di fondo; ma registrano anche altri fenomeni quali il prevalere delle istanze regionalistiche e di decentramento amministrativo (soprattutto negli anni Settanta) e, di recente, la crisi dell'istituto referendario e la sfavorevole congiuntura della partecipazione popolare all'amministrazione della cosa pubblica.

In estrema sintesi questi gli aspetti salienti di tali vicende:

a) l'intervento realizzato dal legislatore con la l. 2 agosto 1967, n. 799 (che introduce, come facoltativo, il regime della c. controllata, ossia limitata per tempi, luoghi e capi da abbattere e che modifica, in parte, il sistema sanzionatorio) e con la l. 28 gennaio 1970, n. 17 (che addirittura reintroduce l'uccellagione, la cattura, cioè, di volatili con reti e panie) appare, sin dall'inizio, inadeguato a governare l'evoluzione del regime dell'attività venatoria;

b) le neo-istituite Regioni a statuto ordinario, fin dal primo trasferimento di funzioni statali attuato con il decreto delegato 15 gennaio 1972, n. 11, esplicano una notevole produzione legislativa, nella quale emergono indirizzi innovatori, poi ripresi dal legislatore nazionale: maggior tutela del patrimonio faunistico; collegamento della disciplina della c. con l'assetto del territorio; regolamentazione del calendario venatorio; istituzione di aziende regionali per l'incremento della selvaggina e di strutture partecipate per l'autogestione dei territori di c., ecc.;

c) l'esigenza di una riforma globale della normativa sulla c. è contemporanea alla spinta politica per un secondo, più vasto e organico trasferimento di funzioni dello stato e degli enti pubblici alle Regioni e ai Comuni; ma l'iter del decreto delegato 24 luglio 1977, n. 616 non si coordina con la lunga gestazione della legge quadro sulla c. 27 dicembre 1977, n. 968, che incardina l'impianto tradizionale della disciplina venatoria, divenuta esclusivamente controllata, nella tutela della fauna e delle coltivazioni agricole e che, al tempo stesso, restringe le possibilità di intervento legislativo delle Regioni;

d) il movimento dei referendum abrogativi della c. subisce, davanti alla Corte costituzionale, due arresti, uno nel 1981 e uno nel 1987, motivati dall'assenza di chiarezza e semplicità (sentenza n. 27 del 1981) o dalla contraddittorietà dei quesiti proposti (sentenza n. 28 del 1987);

e) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 1990, dichiara finalmente ammissibile il referendum, in base all'argomento per cui la materia ''caccia'', di competenza legislativa regionale (art. 117 Cost.), non è "soltanto l'attività concernente l'abbattimento di animali selvatici, bensì anche quella congiuntamente diretta alla protezione dell'ambiente naturale e di ogni forma di vita", sicché l'eventuale soppressione dell'attività venatoria e del diritto del cacciatore all'accesso al fondo altrui non determinerebbe l'eliminazione di tutta la materia ''caccia''; il susseguente rifiuto nella primavera del 1990 dei parlamentari Verdi di accettare, per bloccare i referendum, una legge di modifica della disciplina venatoria più protettiva della fauna ma non del tutto soppressiva della c., porta allo scontro referendario che le associazioni venatorie vincono con la propaganda astensionista, facendo così mancare la maggioranza degli aventi diritto, indispensabile per la produzione dell'effetto abrogativo delle norme respinte dalla maggioranza dei votanti;

f) la posizione di stallo in cui si viene in tal modo a trovare la questione del regime della ''c. sportiva'' (secondo la terminologia della Corte costituzionale, riferita anche alla normativa internazionale e comunitaria) potrà, forse, in futuro consentire un più ponderato riesame delle modalità tecnico-giuridiche cui la l. quadro n. 968 del 1977 ha affidato il contemperamento dei due opposti interessi pubblici tutelati: quello della conservazione e protezione del patrimonio faunistico e quello dell'esercizio controllato dell'attività sportiva nei confronti di specie sufficientemente sviluppate e, quindi, assoggettabili al cosiddetto prelievo venatorio.

La vigente disciplina − contenuta nella l. quadro 27 dicembre 1977, n. 968, concernente "Princìpi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia", nonché in numerose leggi regionali ad essa successive − muove da un punto di vista opposto al regime civilistico precedente: "la fauna selvatica italiana costituisce patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale" (art. 1); viene, in tal modo, ribaltata la nozione originaria di fauna quale res nullius; e l'esercizio della c. che, nel regime precedente, assumeva rilievo con riguardo all'attività (praticata con armi) cui dava vita, acquista importanza in relazione ai beni, di proprietà pubblica, su cui si esplica.

La nozione (non naturalistica) di fauna selvatica − composta (art. 21) dai mammiferi e dagli uccelli, "dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente, in stato di naturale libertà nel territorio nazionale", con l'esclusione di altre specie animali e con l'ulteriore esclusione, all'interno delle prime due specie, di "talpe, ratti, topi propriamente detti e arvicole" (gli "animali nocivi" del precedente testo unico) − prescinde da qualsiasi riferimento, anche indiretto, alle attività venatorie. Nella previgente disciplina, viceversa, erano considerati selvaggina gli animali selvatici e inselvatichiti oggetto di attività venatoria e di "occupazione" quale res nullius.

Nella fauna selvatica si distinguono: le specie riconosciute oggetto di particolare tutela, in conseguenza dei rischi di estinzione della specie (aquile, gufi reali, gru, fenicotteri, cigni, lupi, stambecchi, camosci, ecc.) e le specie considerate cacciabili e, quindi, suscettibili di essere ridotte allo stato di selvaggina.

La costruzione giuridica della fauna selvatica come "bene patrimoniale indisponibile" dello stato dà luogo a molte difficoltà interpretative e applicative (civilistiche, amministrative e penali); ma, emblematicamente, serve a rimarcare il valore morale che essa assume di ''bene ambientale'' e a rafforzare, con l'attribuzione di virtuali poteri dominicali, il potere amministrativo dello stato per il fine della protezione, tutela e regolazione dell'ambiente naturale.

La legge quadro sulla c. intende, infatti, garantire la protezione assoluta della fauna selvatica mediante il vincolo di destinazione alla fruizione collettiva e mediante l'attribuzione della titolarità del diritto di proprietà allo stato, unendo a questo strumento conformativo generale (che dovrebbe, di per sé, inibire gli interventi di terzi lesivi del bene ambientale) interventi di amministrazione attiva per la conservazione delle specie faunistiche: istituzione di oasi di protezione, destinate al rifugio, alla riproduzione e alla sosta della fauna selvatica; trasformazione delle ''riserve di c.'' in aziende faunistico-venatorie, aventi come finalità il mantenimento e il miglioramento degli ambienti naturali, anche ai fini dell'incremento della fauna selvatica.

L'esercizio della c. − ormai possibile soltanto nella forma della ''c. controllata'' − diviene, nell'impalcatura dogmatica della legge quadro, ''prelievo venatorio'', ossia fruizione specifica e individuale che, per potersi svolgere, deve essere specificamente autorizzata in linea generale e particolare; deve, cioè, concernere ''specie cacciabili'', nei tempi e nei modi previsti dal ''calendario venatorio'', e può essere effettuata solo da chi è individualmente autorizzato con la licenza di porto d'armi. Con la legge quadro è, quindi, in via generale, vietata la c. di tutte le specie costituenti la fauna selvatica, ed è, viceversa, consentita, in via d'eccezione e alle condizioni e modalità stabilite dalla legge, solo la c. di talune specie.

La legge quadro sulla c. definisce assai dettagliatamente la disciplina dell'esercizio dell'attività venatoria, lasciando, in proposito, pochissimo spazio alla potestà legislativa regionale. Il sistema si impernia sulla rigida determinazione delle specie cacciabili e del calendario venatorio e sulla fissazione dei requisiti soggettivi per l'esercizio venatorio.

L'elenco delle specie "soggetto di caccia" (art. 11, secondo comma, l. quadro) individua le specie selvatiche declassabili a ''selvaggina''; l'elenco è modificabile (ed è stato già modificato) con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, sentito l'Istituto nazionale di biologia della selvaggina e il Comitato tecnico venatorio nazionale.

L'attività venatoria può svolgersi soltanto entro i limiti di tempo fissati dalla legge: è consentita da un'ora prima del sorgere del sole sino al tramonto, salvo diversa disposizione della Regione; all'interno di limiti temporali massimi stabiliti per ogni singola specie; e con un numero massimo delle giornate di c. settimanali. La formulazione del calendario venatorio da parte delle Regioni avviene entro ambiti di scelta assai ridotti: la Regione può fissare il numero massimo di capi da abbattere per ciascuna giornata di c., può scegliere le tre giornate venatorie settimanali (escluse comunque le giornate di ''silenzio venatorio'' nazionale, e cioè il martedì e venerdì), può regolamentare la c. alla selvaggina migratoria nei periodi tra il 1° ottobre e il 30 novembre, e il 15 febbraio e il 10 marzo.

Per l'esercizio venatorio la legge quadro richiede, individualmente, oltre alla licenza di porto d'armi per l'uso di c. rilasciata dallo stato (ma subordinata alla previa abilitazione regionale, consistente nel superamento di un esame volto ad accertare le conoscenze naturalistiche e pratiche del cacciatore), il tesserino regionale (su cui il cacciatore è tenuto a segnare le giornate di c. e i capi di selvaggina abbattuti) e la polizza di assicurazione per la responsabilità civile verso terzi.

In tal modo il regime di c. controllata si individualizza sui singoli cacciatori, che assumono, assieme alla propria veste e vocazione sportiva, il ruolo di operatori abilitati al prelievo venatorio, nell'interesse anche dell'equilibrio biologico della fauna selvatica. La legge quadro, poi, si propone di legare i gruppi di cacciatori al territorio, investendoli di responsabilità diretta nell'uso delle sue risorse, laddove prevede l'affidamento ad associazioni venatorie della gestione di zone vallive, umide e montane, per l'incremento della fauna selvatica e, subordinatamente, per la produzione e il ripopolamento della selvaggina.

L'organizzazione amministrativa della c. è, prevalentemente, regionale e provinciale: a livello centrale solo l'ente pubblico Istituto nazionale di biologia della selvaggina e l'organo di consulenza tecnico-amministrativa Comitato tecnico venatorio nazionale affiancano il ministro dell'Agricoltura nell'esercizio delle competenze residuali in materia di caccia. Le regioni, poi, dovrebbero delegare ''normalmente'' le funzioni amministrative alle province e agli altri livelli locali; ma ciò non sempre accade. Largo spazio hanno nella legge quadro (e nella legislazione regionale) le associazioni venatorie nazionali, che svolgono funzioni quasi pubbliche, quali la proposta all'autorità di pubblica sicurezza del riconoscimento delle guardie volontarie di vigilanza sulla c., e che concorrono al riparto dei proventi delle tasse per la licenza di porto d'armi. Le associazioni venatorie nazionali sono sottoposte alla vigilanza del ministero dell'Agricoltura, in ragione dei compiti di vigilanza e delle attività formative della cultura ''naturalistica'' dei cacciatori, ad esse affidati.

Il sistema degli enti pubblici e di rilievo pubblico della c., laddove valorizza parallelamente e congiuntamente sia le associazioni venatorie nazionali o associazioni locali di gestione dei territori di c., sia le associazioni protezionistiche e ambientalistiche, riproduce la configurazione bifronte della legge quadro, tentando di armonizzare i pur sempre contrapposti interessi dell'attività venatoria e del libero e intangibile sviluppo nell'ambiente della fauna selvatica.

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