CACCO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 16 (1973)

CACCO

Paolo Bertolini

Secondo figlio maschio di Gisulfo II, duca longobardo del Friuli, e di una nobildonna, Romilda, C. dovette nascere nell'ultimo decennio del sec. VI: aveva infatti sicuramente già superato l'adolescenza, quando viene ricordato per la prima volta dalle fonti a noi note, a proposito della selvaggia incursione avara che, nel corso del 610-611, desolò la pianura friulana.

Il 5 ott. 610 una sollevazione militare aveva rovesciato Foca, e portato sul trono di Bisanzio Eraclio, il figlio dell'esarca d'Africa. Il nuovo imperatore, pur dovendo agire con molta cautela a causa della violenta crisi che stava allora travagliando l'Impero, aveva subito mostrato chiaramente di non voler seguire, per quanto riguardava l'Italia, la linea politica di distensione adottata da Foca nei confronti dei Longobardi, ed era tornato a quella tradizionale di contrapporre barbari a barbari cercando di staccare da Agilulfo il duca del Friuli per attirarlo ancora una volta al servizio di Bisanzio. Di fronte al pericolo di una terza defezione di Gisulfo II, il re dei Longobardi Agilulfo finì per fare ricorso all'antica alleanza che univa gli Avari ai Longobardi.

Sul finire del 610, o nei primi mesi dell'anno successivo, il khān degli Avari entrò, alla testa di grandi masse dei suoi guerrieri, nella pianura veneta, probabilmente seguendo la medesima via che era stata fatta, quarant'anni prima, da Alboino. Gisulfo II aveva cercato di arginare l'invasione affrontando, con le sue sole forze, le orde nemiche, ma il suo esercito venne accerchiato dagli Avari. Piuttosto che tentare la via delle trattative, il duca del Friuli preferi affrontare il confronto, diretto con il nemico: cadde, insieme con la maggior parte dei suoi, in battaglia campale, dopo aver combattuto con il coraggio della disperazione. La gravità della disfatta pregiudicò la volontà di difesa dei Longobardi: C. si rinchiuse in Cividale insieme con la madre, i fratelli, i resti dell'esercito, e vi si fortificò febbrilmente; Cormons, Nimis (Udine), Osoppo, Artegna, Ragogna, Gemona, e così pure le altre città e i castelli del Friuli seguirono l'esempio della capitale, abbandonando le campagne e i villaggi ai saccheggi e alle razzie degli invasori. Ma l'urto degli Avari si abbatté proprio contro la capitale che, assediata, fu presa per tradimento, saccheggiata, e data alle fiamme: quindi, dopo aver corso e devastato selvaggiamente la pianura friulana, gli invasori fecero ritorno alle loro sedi in Pannonia, portando con sé il ricco bottino, razziato e trascinandosi dietro una gran massa di prigionieri. Tra di loro, si trovavano la vedova di Gisulfo II, Romilda, e i suoi otto figli.

Secondo lo Hartmann (pp. 240 ss.), gli Avari avrebbero compiuto tale incursione d'accordo con l'imperatore Eraclio, che si sarebbe valso di loro per colpire quel regno dei Longobardi, che non avrebbe potuto colpire altrimenti, date le esigue forze di cui disponeva in Italia. Tale ipotesi è contraddetta non solo dal contesto storico generale in cui ebbe luogo la scorreria degli Avari, ma anche dagli avvenimenti successivi. Avari e Slavi infuriarono, allora e in seguito, con le loro incursioni contro i territori di dominio bizantino nella penisola balcanica, mentre i Persiani, penetrati contemporaneamente nella Siria, nella Palestina, nell'Armenia e nell'Asia Minore, si spingevano nel 615 in ardite puntate fin sulla riva del Bosforo. Del resto, un preciso e segreto accordo tra il khān degli Avari e il re Agilulfo in tutta questa vicenda è presupposto non solo dalla pax perpetua, che i due sovrani avevano stipulato intorno al 601, e dai buoni rapporti che, dai tempi di Alboino, avevano sin'allora legato il popolo longobardo a quello avaro, ma è accertato anche da alcuni eloquenti quanto incontestabili dati di fatto: l'assenza totale così di una richiesta di aiuto da parte di Gisulfo II, come di una qualsiasi reazione da parte di Agilulfo - o di uno dei suoi fedeli - in soccorso del duca del Friuli e in difesa dei minacciati confini orientali del regno; la cura, infine, con cui il khän evitò di estendere ad altri territori della pianura padana, o di trasformare in occupazione permanente, una scorreria il cui successo era stato tale da lasciarlo in pratica padrone del Friuli. Se poi si considera che già nel 590 - sotto Autari, e in un momento critico per il dominio dei Longobardi in Italia - Gisulfo II si era ribellato al padre Grasulfo I e al suo re, facendo atto di sottomissione all'esarca Romano, se si considera che undici anni più tardi, succeduto al padre, si era ribellato allo stesso Agilulfo accordandosi, contro il re, col nuovo esarca, Callinico, quando questi nel 601 aveva riaperto le ostilità, non apparirà illogico ritenere che nella crisi da cui era stato travolto Foca e nell'avvento di Eraclio Gisulfo avesse visto l'attesa occasione per rinnovare, ai danni del re longobardo, i suoi intrighi coi Bizantini.

Deportato in Pannonia con i suoi familiari e con parte della sua gente, C. tentò la fuga dall'accampamento avaro insieme con i fratelli Tasone e Radoaldo, dopo aver assistito impotente al supplizio della madre. Riuscirono a porsi in salvo ricomparendo, forse già negli ultimi anni del regno di Agilulfo, nel Friuli. Ai fuggiaschi si era unito all'ultimo momento il più piccolo dei figli di Gisulfo II e di Romilda, Grimoaldo. Tornato in patria dopo peripezie che nel vivace racconto del cronista acquistano toni e coloriture romanzesche C. fu assunto al governo del Friuli come collega del fratello maggiore Tasone, subito creato duca al posto del padre. Non siamo meglio informati sulle circostanze di questa successione: sembra tuttavia certo che essa avvenne senza intervento del re, e solo per diritto ereditario. Quando si furono rafforzati al potere, C. e Tasone mostrarono chiaramente di voler riprendere gli indirizzi che erano stati della politica voluta dal loro padre, difendendo con decisione i confini del ducato contro Slavi e Avari, e cercando l'appoggio di Bisanzio, nel tentativo di salvare l'antica posizionq di autonomia - se non addirittura di antagonismo - nei confronti dei sovrani longobardi. Probabilmente tra il 620 e il 625 C. condusse, insieme col fratello, una vittoriosa serie di campagne contro gli Slavi che erano penetrati nell'alto bacino della Drava, e rese tributari quei gruppi di essi che, certo approfittando della recente crisi che aveva travagliato il ducato, si erano stanziati sul confine carnico tra Cilli e Windisch Matrei, nella valle del fiume Gail (un affluente della Drava poco a valle di Villach). Aveva, contemporaneamente, avviato trattative per entrare al servizio dell'Impero o per ottenerne l'appoggio contro l'autorità del re dei Longobardi. Ma la situazione italiana non era più quella che nel 590, nel 601, e nel 610-611 aveva per tre volte indotto Gisulfo II a giuocare la carta bizantina.

L'accentuarsi, dopo la morte di Agilulfo, in senso nettamente filo-cattolico della politica dei nuovi sovrani longobardi, Teodelinda e Adaloaldo; le conversioni al cattolicesimo, sempre più numerose e certo non tutte dovute a meditate convinzioni; l'influenza acquistata a corte da funzionari italici, o addirittura da emissari bizantini; tutto ciò non poteva non allarmare quei longobardi rimasti più legati alle tradizioni nazionali, che vedevano dietro la crescente potenza della Chiesa di Roma profilarsi una eventuale minaccia di Costantinopoli. Tale allarme, divenuto decisa opposizione interna quando i sovrani avevano cercato l'appoggio delle autorità imperiali di Ravenna, sfociò nell'aperta rivolta del maggior esponente della dissidenza, il duca di Torino Arioaldo, che, intorno al 625, fu acclamato re. Per l'usurpatore furono subito, tra gli altri, anche numerosi vescovi dell'Italia transpadana, con ogni probabilità quei presuli che, decisi a non rinnegare la dottrina dei "Tre Capitoli", vedevano in un re ariano la migliore garanzia di tolleranza religiosa. Per il sovrano legittimo si schierarono, insieme con la Chiesa di Roma, anche i Bizantini. Infatti, quando il nuovo papa consacrato il 25 ott. 625, Onorio I, si rivolse ad Isacio, l'esarca allora giunto in Italia, inviandogli una lettera per indurlo a intervenire in favore del figlio di Teodelinda, l'immediato predecessore di Isacio, il patrizio Gregorio, aveva già fatto - certo con l'approvazione di Eraclio - quanto stava in lui per aiutare Adaloaldo.

Il ricordo, certo ancora vivo nel Friuli, degli atroci fatti del 610-611 voluti o comunque permessi dal padre di Adaloaldo, Agilulfo, e rappartenenza alla medesima fede ariana dovevano necessariamente portare C. e Tasone, una volta scoppiato il conflitto, dalla parte del duca di Torino: e prima dell'autunno del 625 i due giovani duchi del Friuli si erano già dichiarati per Arioaldo, o erano in procinto di farlo. Infatti non era giunto ancora in Italia il nuovo esarca, Isacio, che essi ricevettero, a conclusione delle trattative da essi avviate con gli Imperiali, l'invito ufficiale a recarsi in Oderzo: nella piazzaforte bizantina il patrizio ed esarca Gregorio prometteva loro di adottarli come figli, e di tagliare loro la barba, perché avessero il mento rasato alla foggia romana. Tale cerimonia simbolica significava, secondo il costume dell'epoca, che essi venivano accolti come alleati sotto l'alta protezione dell'Impero. I due fratelli si recarono al convegno accompagnati dal loro seguito, "senza nulla temere", annota il cronista. Ma come furono entrati nella città, per ordine dell'esarca vennero bloccate le porte e i soldati bizantini furono lanciati contro il gruppo dei nuovi arrivati: i Longobardi, dispersi per le vie e per le piazze, aggrediti all'improvviso da forze soverchianti, si difesero fino all'ultimo fiato, ma inutilmente. Furono uccisi. Il patrizio Gregorio, per mantenere fede al suo giuramento, si fece portare la testa mozza di Tasone e, con macabra farsa, "eius barbam, sicut promiserat, periurius abscidit". Sia lo Hartmann (pp. 232 s.) sia il Bognetti ritengono, fondandosi sul racconto dello psueo-Fredegario, la tragica fine di C. e di Tasone avvenuta per iniziativa dell'esarca Isacio, sotto il regno di Arioaldo, al quale i duchi del Friuli si sarebbero in un secondo tempo ribellati. Uno dei primi atti del nuovo re fu quello di ridurre da 500 libbre a 200 libbre d'oro il tributo annuo che i Bizantini dovevano versare ai Longobardi per conservare la pace in Italia; tale riduzione viene spiegata dallo studioso austriaco come il compenso concesso da Arioaldo agli Imperiali, per ripagarli del favore fattogli togliendo di mezzo i due fratelli. Ma non v'è ragione di negar credito alla testimonianza di Paolo Diacono, solitamente ben informato per quanto riguarda le vicende del Friuli: lo storico longobardo fa espressamente menzione del patricius Romanorum (e non "magister militum", come vuole il Bognetti) Gregorio. In realtà, la morte crudele dei figli maggiori di Gisulfo II si inquadra meglio nelle vicende della lotta fra Arioaldo ed Adaloaldo: l'imboscata in cui furono attirati C. e suo fratello fu certo tramata in aiuto del cattolico figlio di Agilulfo.

Da Romilda Gisulfo II aveva avuto quattro figlie (ma ci è stato tramandato il nome di solo due di esse, Appa e Gaila) e quattro figli, Tasone, C., Radoaldo e Grimoaldo. I due più giovani, fuggiti dal Friuli dopo l'uccisione dei loro fratelli, maggiori e rifugiatisi nell'Italia meridionale presso Arechi I, ad essi legato da vincoli di parentela, sarebbero succeduti a quest'ultimo come duchi di Benevento.

Fonti e Bibl.: Pauli Diaconi Historia Langobardorum, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rer. Lang. et Ital., a cura di G. Waitz, Hannoverae 1878, pp. 128-131, 132 s.; Chronicarum quae dicuntur Fredegarii Scholastici, ibid., Scriptores rerum Merovingicarum, II, Fredegarii et aliorum chronica. Vitae Sanctorum, a cura di B. Krusch Hannoverae 1888, pp. 145, 155 s.; Epistolae Langobardicae collectae, ibid., Epistolarum IV, Epistolae Merovingici et Karolini aevi, a cura di W. Gundlach, Berolini 1892, nn. 2-3, pp. 694 ss.; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, Leipzig 1900, pp. 207 ss., 211 ss., 235; T. Hodgkin, Italy and her Invaders, VI, The Lombard Kingdom, Oxford 1916, pp. 59 s., 150, 157 ss.; G. P. Bognetti, Sancta Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in G. P. Bognetti-G. Chierici-A. De Capitani dArzago, Santa Maria di Castel Seprio, Milano 1948, pp. 104 ss., 125, 162, 175 ss., 290, 399 n.; Id., Milano longobarda, in Storia di Milano, II, Milano 1954, pp. 210 ss.; O. Bertolini, I Germani. Migrazioni e regni nell'Occidente già romano, Milano 1965, pp. 229 ss., 242 ss.

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