CALCEDONIA

Enciclopedia Italiana (1930)

CALCEDONIA (Καλχχηδών e Χαλκηδών; Calchēdon e Chalcēdon)

Carlo SILVA-TAROUCA
Goffredo BENDINELLI

Città della Bitinia, sulla costa asiatica del Bosforo (oggi Kadiköy), di fronte a Bisanzio (Costantinopoli); fondata, secondo la tradizione greca, da Megara dorica, nel VII secolo a C., ma forse anche di fondazione pregreca. Più volte occupata e danneggiata dai Persiani (incendiata da Dario nel 493), fu da essi munita come uno dei principali punti di appoggio dell'esercito invasore in Europa. Fece parte della prima confederazione marittima ateniese. Calcedonia segue del resto le sorti di Bisanzio, dagli ultimi decennî del sec. V. Con Bisanzio si stacca dall'alleanza ateniese nel 411. Viene assediata da Alcibiade nel 408, occupata da Lisandro dopo la battaglia di Egospotami (405), ripresa dagli Ateniesi, con Trasibulo, nel 389. Cade ancora sotto i Persiani dopo la pace di Antalcida (386), e successivamente sotto il predominio beotico al tempo d'Epaminonda. Nel 357 è sottomessa a Bisanzio. Viene sottratta all'egemonia persiana dall'occupazione di Alessandro, ed è quindi teatro delle lotte fra i Diadochi: alleata di Antigono (315), poi alleata di Eraclea (281) e di Nicomede I, re di Bitinia. Diviene centro importante di cultura. Sullo scorcio del sec. III a. C. si unisce alla lega etolica. Conquistata da Filippo V di Macedonia, è poi collegata dei Romani nella terza guerra macedonica. Nel 73 a. C. Marco Aurelio Cotta, dopo essere stato gravemente sconfitto (battaglia di Calcedonia) da Mitridate, veniva da questo assediato nella città.

Bibl.: Ruge, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., X, coll. 1555-59; K. Lehmann-Hartleben, Die antiken Hafenanlagen, Lipsia 1923, p. 251; Th. Reinach, Mithridate Eupator, Parigi 1890; M. Besnier, Lexique de géogr. ancienne, Parigi 1914, s. v.; J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., Strasburgo 1914 segg., I-IV, passim; Gilbert, Handbuch. d. griech. Staatsaltertümer, II, Lipsia 1881, p. 194; Head, Hist. Num., 2ª ed., Oxford 1911, p. 511; Corp. Inscr. Gr., 3794, segg.; Ch. Michel, Recueil d'inscr. gr., Bruxelles 1900, 540, 535, 732-33, 1008, 1027; Corp. Inscr. Lat., III, pp. 58, 1262.

Concilio di Calcedonia. - La condanna pronunciata dal concilio costantinopolitano del 7 novembre 448 contro Eutiche e la sua dottrina affermante un'unica natura in Cristo, aveva impedito che Eutiche, spalleggiato dall'onnipotente eunuco Crisafio e dall'imperatore Teodosio II, ottenesse piena riabilitazione nel successivo sinodo di Efeso del 13 giugno 449, al quale pure avevano partecipato dei legati di Leone Magno incaricati di recare al sinodo il Tomus ad Flavianum, vale a dire la lettera dommatica con la quale Leone aveva condannato la dottrina di Eutiche (Patrol. Lat., LIV, col. 738). Ma le intenzioni del papa erano state frustrate da Dioscoro di Alessandria, che con la violenza aveva ottenuto l'assoluzione di Eutiche, l'approvazione della dottrina di lui e la condanna di Flaviano con gli altri avversarî di Eutiche.

Papa Leone, allora, ottenuto che i vescovi d'Occidente aderissero al Tomus, procurò che l'accettassero anche gli orientali. A questo fine il 16 luglio 450 inviò a Costantinopoli i vescovi Abbondio di Como, Asterio di Capua con i sacerdoti Basilio e Senatore, muniti di lettere per Teodosio e Pulcheria. Essi portavano una copia del Tomus, con una silloge di testi patrístici intorno alle due nature in Cristo aggiuntavi da Leone. Arrivati a Costantinopoli, trovarono lo stato delle cose molto migliorato: morto Teodosio lI (28 luglio 450) e giustiziato Crisafio, l'impero era passato a Pulcheria che aveva sposato il senatore Marciano. Alla metà del 451 Leone poteva constatare con soddisfazione che, a eccezione dell'Egitto e di alcuni vescovi dell'Illirico, tutti quelli dell'Oriente e dell'Occidente avevano pienamente aderito alla sua lettera dommatica. Intanto già sino dal 24 novembre 450 Marciano comunicava a Leone il proposito di adunare un sinodo "affinché", com'egli si esprime, "a norma di ciò che la santità tua secondo i canoni ecclesiastici ha definito, i vescovi convenuti stabiliscano ciò che giovi alla religione cristiana e alla fede cattolica" (Patr. Lat., LIV, col. 903 segg.). Quando il 9 giugno 451 il papa rispose che i tempi non parevano favorevoli a un concilio (di fatto Attila devastava le Gallie, minacciando l'Italia stessa) l'imperatore ai 17 maggio aveva intimato a tutti i vescovi di trovarsi il 10 settembre a Nicea. L'invito arrivò a Leone sulla fine di giugno, ed egli allora decise di mandare come suo legato il vescovo Pascasino di Lilibeo. Ai medesimi Padri intanto veniva ingiunto da Marciano di passare da Nicea a Calcedonia dove, l'8 ottobre 451, nella chiesa di S. Eufemia s'iniziò il IV concilio ecumenico.

L'opera ivi compiuta dai circa 600 vescovi sotto la presidenza del suddetto Pascasino, di Lucrezio d'Ascoli, di Giuliano di Coo, e del prete Bonifazio, legati di Leone, e la vigile sorveglianza dei gloriosissimi iudices (che erano senatori scelti da Marciano per mantenere il protocollo), si può ridurre a tre capi: 1. il processo contro Eutiche Dioscoro, e gli altri colpevoli del Brigantaggio di Efeso (così era stato qualificato il sinodo colà tenuto il 449); 2. la definizione della fede cattolica intorno alle due nature in Cristo; 3. i canoni disciplinari. Il processo contro Eutiche e Dioscoro fu trattato nella I e III sessione (8 e 13 ottobre), in base agli atti del Brigantaggio di Efeso e ai capi di accusa portati contro Dioscoro dai chierici e laici egiziani, e finì con la deposizione di Dioscoro e dei suoi compagni. La questione di fede fu trattata nelle sessioni II (10 ottobre), IV (17 ottobre), V (22 ottobre). Nella VI (25 ottobre), alla presenza di Pulcheria e di Marciano, venne promulgata la formula di fede stabilita nella precedente sessione: il punto essenziale di questa formula è la definizione netta e precisa del domma delle due nature divina e umana in Cristo.

Quale fosse, in questa definizione, l'importanza del Tomus appare tanto dal testo della formula di Calcedonia comparata con la lettera di Leone, quanto dagli atti della V sessione. Una commissione presieduta da Anatolio di Costantinopoli aveva preparato la formula di fede letta nella V sessione. La maggior parte dei presenti non vi trovò nulla da ridire; i legati del papa e i vescovi della provincia d'Oriente la trovarono non sufficientemente precisa nei termini. Contro le proteste della maggioranza, desiderosa di terminare le discussioni, i legati dichiararono: "Dateci i nostri passaporti, partiremo e il concilio sarà tenuto in Occidente". Più recisamente ancora la questione di fiducia venne proposta dai commissarî imperiali: "Dioscoro disse: Ammetto che Cristo sia di due nature, due nature però non ammetto; il santissimo vescovo Leone dice: In Cristo vi sono due nature unite, inconfuse, inconvertibili, inseparabili. Chi dunque volete seguire, Dioscoro o Leone?". A questa domanda tutto il sinodo acclamò Leone, e la formula venne precisata nel punto notato dai legati. Perciò anche nel testo della formula di Calcedonia il Tomus è detto "colonna (della fede)" contro gli eretici.

Con la solenne definizione del 25 ottobre 451 il concilio compì la parte principale dell'opera affidatagli. Nella stessa sessione tuttavia Marciano aveva proposto alla deliberazione dei Padri tre disegni di leggi ecclesiastiche riguardanti la disciplina del clero, e sono quelli che ritroviamo nei canoni 3, 4 e 5, cui il sinodo ne aggiunse altri 27. Più celebre fu il 28, nel quale al vescovo di Costantinopoli si conferisce il diritto di ordinare i metropoliti delle provincie del Ponto, dell'Asia e della Tracia. Con questo canone lo stato dei patriarcati stabilito dal concilio di Nicea veniva cambiato; ai tre patriarcati di Roma, Alessandria e Antiochia si aggiungeva quello di Costantinopoli. Si pretendeva giustificare l'innovazione col fatto che Costantinopoli, sede dell'Impero e del senato, doveva essere esaltata anche nel campo ecclesiastico, essendo la nuova Roma. I legati di Leone, assenti dalla seduta in cui il canone fu sancito, protestarono immediatamente. Leone, richiesto di approvarlo dai Padri, da Marciano, da Pulcheria e da Anatolio, non solo non l'approvò, ma in una lettera a Pulcheria "per autorità del b. Pietro apostolo, con definizione generale" cassò e annullò tutto ciò che nei canoni calcedonensi fosse contrario ai canoni di Nicea (Patrol. Lat., LIV, 1000). La predetta questione del canone 28 ritardò la risposta del papa alla domanda presentatagli dal concilio per ottenere l'approvazione della definizione di fede. Sull'inizio del 453 Marciano scrisse a Leone meravigliandosi che le chiese d'Oriente non avessero ancora ricevuto alcuna sua lettera per rimuovere il dubbio, da molti nutrito, circa l'approvazione del concilio da parte del papa; perciò Leone (21 marzo 453) indirizzò ai vescovi già presenti in Calcedonia una lettera, nella quale esplicitamente approvava ciò che intorno alla fede era stato definito in quel sinodo, e scrisse analogamente all'imperatore Marciano e a Pulcheria.

Bibl.: Gli atti del concilio, in Hardouin, Acta Conciliorum, II, Parigi 1714, pp. 1-644; Mansi, Conciliorum collectio, VI, Firenze 1761, p. 539; VII, ivi 1762, pp. 1-456; cfr. anche E. Schwartz, in Abhandlungen der bayrischen Akademie der Wissenschaften, Phil. hist. Klasse, XXXII, ii, Monaco 1925; id., in Acta conciliorum oecumenicorum, IV, ii, Strasburgo 1915, p. xiii segg.; J. Hefele, Conciliengeschichte, II, 2ª ed., Friburgo 1875, p. 313 segg.; I. Lebon, Le monophysitisme Sévérien, Lovanio 1909; v. anche la bibliografia citata da J. Bois, Chalcédoine, in Dictionnaire de théologie catholique, II, Parigi 1923, coll. 2190-2208.

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