Calcio

Il Libro dell'Anno 2002

Giorgio Tosatti

Calcio

40 miliardi di telespettatori per un pallone

Il pianeta calcio

di Giorgio Tosatti

30 giugno

All'International Stadium di Yokohama si conclude, con la vittoria del Brasile, la diciassettesima edizione del Campionato del Mondo di calcio, il primo disputato in Asia e il primo ad avere un'organizzazione condivisa da due nazioni: Giappone e Corea del Sud. Accese polemiche hanno accompagnato lo svolgimento del torneo, più volte condizionato da discutibili comportamenti arbitrali che hanno favorito soprattutto la Corea del Sud, grazie anche all'inerzia, se non proprio alla complice benevolenza, della Federazione internazionale. Molti, durante lo svolgimento del Campionato, hanno colto segnali di una profonda crisi che minaccia di investire l'intero mondo calcistico.

Le ragioni di un successo

Il calcio moderno, nato in Inghilterra e diffuso dai suoi figli in Europa e Sud America, ha attecchito rapidamente in queste zone del mondo grazie a tre caratteristiche: la semplicità delle norme, la facilità organizzativa (in fondo basta una palla), il divertimento dato dal praticarlo. Un gioco più che uno sport, un esercizio di abilità e di intelligente cooperazione, una forte componente agonistica a renderlo stuzzicante. Ma senza l'obbligo di possedere qualità fisiche eccezionali, indispensabili per emergere negli sport di prestazione o in alcuni giochi di squadra. Senza il fastidio di sottoporsi ad allenamenti intensi, metodici, maniacali, noiosi. Il calcio è per anni un passatempo in cui la bravura nel colpire il pallone e l'intesa fra compagni fanno aggio su tutto, comprese le doti atletiche. Chiunque può accostarvisi con la speranza di fare buona figura, pur non avendo né la potenza, né la velocità, né la resistenza necessarie per emergere in altre discipline. Conta la tecnica nel controllare l'attrezzo e nel liberarsi degli avversari, la destrezza più della forza. Nella prima fase del suo sviluppo il calcio è essenzialmente un gioco con queste caratteristiche, anche se ogni paese lo veste con la propria cultura, con la propria indole. In Europa - da cui l'Inghilterra si tiene lontana, isolata nella sua superiorità - spicca la scuola danubiana, tecnicamente eccellente e ben organizzata da allenatori che cominciano a studiare la complessità del gioco. Nel Sud America il calcio fiorisce sulle rive del Rio de la Plata, dove gli uruguayani ne danno un'interpretazione più concreta e difensiva mentre gli argentini esaltano la raffinatezza tecnica e l'individualismo. In pochi anni emergono altre scuole sui cui si basa la storia di questo sport, prima fra tutte quella brasiliana in cui si sposano la ricchezza atletica di una società multietnica, una maestria tecnica imparata da ragazzini nelle strade e sulle spiagge e una concezione musicale e carnevalesca del gioco, visto come festa, allegria. In Europa si fanno rapidamente largo la scuola italiana (un misto di concretezza paesana e di genialità) e quella tedesca (potenza atletica, razionalità, fortissimo spirito di corpo). Ma quasi ogni parte del Vecchio Continente esprime un calcio di buon valore: dall'Ungheria (che tocca negli anni Cinquanta il livello forse più alto), ai paesi nordici, da Spagna e Portogallo alla Francia (regina di fine secolo e oggi grande produttrice di talenti), dalla Russia alla Gran Bretagna, la cui supremazia si scolora negli anni.

Il vero sviluppo del calcio si lega indissolubilmente alla televisione. Pochi sport sono così telegenici. Fino all'enorme esposizione assicuratagli dal video, il calcio è poco più popolare di altre discipline. Qualcuna (il pugilato, il ciclismo) forse lo supera. Ma con la televisione il calcio le lascia tutte indietro, si fa conoscere da chi non frequenta gli stadi, rompe il tabù secondo cui è un divertimento inguaribilmente maschile, conquista appassionati sia nelle zone dove è già forte sia negli altri continenti. Diventa il più grande spettacolo mediatico del mondo, tale da oscurare le stesse Olimpiadi. Secondo gli organizzatori nippo-coreani, ben 40 miliardi di telespettatori hanno visto le partite del Campionato del Mondo del 2002 (nonostante l'orario scomodo per europei e sudamericani): la finale Brasile-Germania sarebbe stata l'evento più seguito nella storia dell'umanità.

Possibile che un gioco che non è poi così attraente coinvolga tanta gente di ogni estrazione e cultura? Che diventi motivo di gioia o infelicità per milioni di individui senza distinzione d'età, razza, religione, censo? Che entri così profondamente nell'animo di un popolo, spinga in piazza per festeggiare cinesi e tedeschi, senegalesi e turchi, brasiliani e inglesi? Non è riscontrabile per nessun'altra disciplina sportiva un'identificazione così totale fra la squadra e il paese. Molti studiosi hanno provato a spiegare questo fenomeno. Alcuni fanno risalire questo rapporto alla preistoria: la squadra ricorda il gruppo di cacciatori destinati a fornire gli alimenti alla tribù e da questo deriva il legame fra loro e il popolo. Altri danno alla partita un valore rituale: la sfida per il potere nella piazza degli antichi villaggi. Un'interpretazione suggestiva è fornita dallo scrittore statunitense Paul Auster, secondo cui il calcio è una guerra simulata: ha sostituito gli scontri fra eserciti che hanno insanguinato per oltre un millennio l'Europa e consente di liquidare, in modo incruento, vecchi conti. Scrive Auster: "Grazie a Dio, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale c'è stata pace fra le maggiori potenze europee. Per i primi 45 anni, quella pace è stata inquinata da un altro genere di guerra, ma dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell'URSS, la pace ha tenuto. Questo fatto non ha precedenti nella storia europea. Con una moneta comune all'orizzonte e frontiere libere dal passaporto già diventate realtà, sembra che i combattenti abbiano finalmente deposto le armi. Questo non significa che si amino né che il nazionalismo sia meno ardente di quanto non fosse in passato, ma per una volta sembra che gli europei abbiano trovato un modo per odiarsi senza farsi a pezzi. Questo miracolo va sotto il nome di calcio. Non voglio esagerare, ma come interpretare diversamente i fatti? Quando la Francia mise a segno una vittoria a sorpresa nella Coppa del Mondo, più di un milione di persone si ammassarono sugli Champs Elysées per festeggiare. Secondo tutti i resoconti è stata la più grande dimostrazione di felicità pubblica che si sia vista a Parigi dai giorni della Liberazione nel 1944". Non so quanto la tesi sia condivisibile, considerando che il fenomeno riguarda tutto il mondo e non solo l'Europa. Credo che mentre il pianeta si avvia a un governo mondiale e ogni paese cede sempre maggiori quote di potere, mentre le società diventano sempre più multietniche, il nazionalismo venga rinfocolato da un'esigenza d'identità. E il calcio - proprio per la sua immensa diffusione e, quindi, importanza - ne diventi una bandiera. La sua importanza sociale è resa evidente dal messaggio inviato dal Segretario generale dell'ONU Kofi Annan ai partecipanti del Mondiale nippo-coreano: "Ci congratuliamo con tutti voi, organizzatori, dirigenti, sponsor e naturalmente calciatori, che avete unificato il mondo, almeno per questo mese, attraverso l'amore per il calcio. Questa passione consente di avere un impatto rilevante sulle vite di milioni di persone nel mondo, particolarmente di bambini. Il calcio e i Mondiali possono promuovere una salute e un'educazione migliori per i bambini del mondo, la prevenzione dell'HIV e dell'AIDS e il diritto dei bambini al divertimento. Per troppi bambini questo e altri diritti fondamentali non sono garantiti".

La trasformazione del calcio

Nel secondo dopoguerra il calcio è andato mutando, da una parte diventando sempre più professionale, dall'altra avvicinandosi agli altri sport. Di qui la crescente importanza delle doti atletiche, della preparazione, della tattica, dell'addestramento, della velocità e della resistenza. Un'evoluzione così vertiginosa da rendere non paragonabili le diverse epoche di questo sport, passato da un gioco di destrezza in cui gli atleti coprivano una piccola parte del terreno, correndo poco e facendo viaggiare la palla, a una battaglia fisica imperniata sulla copertura totale del campo da parte di atleti in grado di attaccare e difendere a ritmi altissimi, avendo a disposizione solo frazioni di secondo per giocare la palla, prima di essere aggrediti da uno o più avversari.

A giudicare dalla ricchezza di campioni e dalla qualità dello spettacolo, il periodo migliore del calcio è stato quello compreso fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Un giusto mix fra valori tecnici e atletici. Negli anni Settanta la 'rivoluzione' olandese (con la nascita del giocatore universale non più vincolato a un ruolo e a un'incombenza specifica) ha fatto compiere un grande balzo in avanti al gioco, imponendo una migliore tecnica individuale da esercitare in modo molto più dinamico. Ma nello stesso tempo ha posto la base per un calcio molto fisico, basato sul pressing esasperato, sullo scontro, sulla schematizzazione della manovra. Si è ridotta così l'importanza della fantasia, della genialità.

La televisione, oltre a farne il maggior evento mediatico del pianeta, ha arricchito il calcio, su cui sono piovuti migliaia di miliardi in diritti televisivi. Specie in Europa, diventata il centro motore di questo sport. La forza economica dei suoi club ha letteralmente spogliato il Sud America e l'Africa (cresciuta poderosamente negli ultimi trent'anni del Novecento) dei talenti migliori. Fenomeno comunque positivo: da una parte perché ha fornito risorse ai club di quelle zone, incentivandoli a curare i vivai; dall'altra perché ha arricchito i giocatori non solo di soldi ma di vitali esperienze culturali e professionali, insegnando loro le nozioni tattiche, l'importanza della preparazione, il primato del collettivo sull'individualismo, come tenersi in forma e alimentarsi e tutte le nozioni basilari per svolgere al meglio il loro lavoro. Non è un caso che le ultime tre nazionali vincitrici dei Mondiali siano composte da molti calciatori professionalmente maturati in Europa.

Si tratta di un esempio positivo di globalizzazione, perché questo ha portato a una rapidissima diffusione culturale (cui ha contribuito in modo sostanziale la televisione) anche in quelle zone del mondo dove il calcio era, o è, appena ai primi passi: allenatori come 'missionari' ben pagati (si pensi all'olandese Hiddink e a ciò che ha rappresentato per la crescita calcistica della Corea del Sud), giocatori che al ritorno nel paese di origine trasmettono quanto hanno imparato, la possibilità di studiare su testi e cassette le tecniche, le tattiche, i sistemi di allenamento all'avanguardia. Un calcio 'eurocentrico', un po' omogeneizzato ma non fino al punto di alterare i caratteri originari di ciascuna scuola.

Una crisi incombente

La ricchezza riversatasi, tramite televisione e sponsor, sul settore ha coinciso con una rivoluzione nei rapporti fra club e giocatori. Abolito da tempo il vincolo (per decenni l'atleta era proprietà a vita del club), restava un forte freno alla libera circolazione dei calciatori: i limiti posti da ciascuna Federazione nazionale alla presenza di stranieri. Il ricorso di un giocatore belga, Bosman, presso la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha obbligato tutti i paesi membri a non fare discriminazioni di questo tipo. Quindi ogni calciatore poteva trasferirsi all'interno dell'UE, mentre anche i divieti per gli extracomunitari cadevano per intervento della magistratura ordinaria. Questa liberalizzazione aumentava a dismisura il potere contrattuale dei più bravi e diminuiva quello dei club.

In svariati paesi si approfittava di questa crescita delle risorse per costruire o rimodernare gli stadi. Dovunque i compensi di tecnici e giocatori aumentavano vertiginosamente. Ma erano le società italiane, alcune spagnole e alcune inglesi a pagare prezzi e ingaggi sproporzionati, accumulando deficit enormi. Soprattutto l'ubriacatura televisiva faceva commettere sia alle emittenti sia ai padroni del calcio un gravissimo errore commerciale, con la convinzione di poter aumentare gli introiti, intensificando l'attività e, quindi, i compensi derivanti dai diritti televisivi. In realtà ciò era sbagliato per più motivi: da una parte un'overdose di calcio in TV finiva per stancare il pubblico; dall'altra la quantità andava a scapito della qualità, offrendo spettacoli sempre meno attraenti; infine i giocatori si logoravano rapidamente: troppe partite, poco tempo per recuperare, molti infortuni. L'errore di prospettiva era poi aggravato dalla crisi dell'economia mondiale e dal crollo del mercato pubblicitario, con molte emittenti sull'orlo del fallimento e, comunque, non più in grado di mantenere i compensi promessi per i diritti. Il risultato è stato una crisi devastante da cui sarà difficile uscire, specie per chi ha speso oltre le proprie possibilità.

Se l'errore commesso dai club è, in qualche modo, giustificabile, in quanto partecipi di una competizione sportiva e commerciale spietata, non è scusabile che le Federazioni internazionali e nazionali lo avallino anziché opporvisi. Dovrebbero mettere un freno all'attività, varare un calendario che faccia ordine; invece si adeguano al vento, moltiplicando le partite nelle Coppe continentali, nei Mondiali, negli Europei, nelle Coppe d'America e d'Africa. Entrano in conflitto con i club, di cui sfruttano gratis i calciatori, senza alcun rispetto né per i diritti di chi li paga né per gli atleti sottoposti a devastanti tour de force. Il Mondiale nippo-coreano ne è stato un esempio. Ha avuto inizio soltanto 20-25 giorni dopo la fine dei Campionati europei più importanti e delle Coppe. Molte delle nazionali favorite vi sono arrivate con giocatori esausti, dopo avere già giocato 60-70 partite, pieni di acciacchi o reduci da infortuni, senza aver avuto il tempo per recuperare. Nelle squadre avversarie, specie quelle medio-piccole, vi erano invece calciatori che avevano giocato molto meno, che avevano finito prima, che addirittura si allenavano da mesi in vista di questo appuntamento (come la Corea del Sud). Così c'è stata una falcidia di favorite, dalla Francia campione uscente all'Argentina, dall'Italia alla Spagna. In alcuni casi sui guasti dell'usura si sono innestati pessimi arbitraggi, con esiti devastanti per la credibilità del torneo. Ne sono state vittime, in particolar modo, le avversarie della Corea, ambiziosissima padrona di casa. Portogallo, Italia e Spagna sono state eliminate più da arbitri e guardalinee che dai rossi allievi di Hiddink. Ma gli errori sono veramente molti e in più direzioni. Gli azzurri di Trapattoni hanno stabilito un record: a cinque gol annullati in tre partite si è aggiunta l'ingiusta espulsione di Totti.

Il problema dell'arbitraggio è cruciale nel calcio di oggi. Perché il direttore di gara e i suoi assistenti, per quanto bravi e scrupolosi, sono esposti alla continua smentita della televisione. Hanno frazioni di secondo per giudicare, sono ad altezza del terreno, possono oggettivamente non vedere quanto dieci o sedici telecamere, collocate dovunque, illustrano al pubblico. Non hanno replay e moviola. Dovrebbe essere evidente alla FIFA del presidente Blatter che non è possibile vendere uno spettacolo televisivo e pretendere che chi lo guarda si rassegni ad accettare una decisione sbagliata dell'arbitro, contraria a quanto ha potuto vedere. Alla lunga il sistema comunica alla clientela un messaggio di non attendibilità. Non sarebbe impossibile consentire un uso limitato dei mezzi tecnologici per evitare gli errori più gravi ed evidenti, come si fa in altri sport. Ma la burocrazia calcistica si oppone, poiché perderebbe il potere di manipolare i risultati secondo i propri interessi. All'alba del nuovo secolo il calcio attraversa la crisi forse più seria della sua storia. Il presidente Blatter è stato accusato dal suo ex segretario e da undici vicepresidenti di diversi reati, ora all'esame della magistratura svizzera. Le finanze della Federazione mondiale sarebbero in profondo deficit. Lo scontro fra Blatter e i suoi sostenitori con l'Europa è forte. Pur essendo il motore anche economico del calcio, il Vecchio Continente conta sempre di meno. Il sistema elettorale della FIFA consente l'instaurarsi di un potere non democratico, retto dai voti dei piccolissimi paesi, facilmente acquistabili. Non conta il numero di tesserati per ciascuna nazione: Germania e Benin hanno lo stesso peso, un voto. Così persino davanti ad accuse difficilmente contestabili, Blatter può stravincere le elezioni distribuendo prebende ai suoi 'clientes'.

A questo si aggiungono la drastica diminuzione delle entrate per la difficoltà delle emittenti televisive, degli sponsor e del mercato pubblicitario, e il rischio di fallimento cui sono esposti molti club europei. È già in atto un vistosissimo calo dei prezzi e degli ingaggi, specie nei paesi come l'Italia dove si è mal amministrato. Per ora non s'intravedono miglioramenti e volontà d'intervento per quanto riguarda la razionalizzazione dell'attività, privilegiando gli aspetti qualitativi rispetto a quelli quantitativi. Ma prima o poi il movimento uscirà da questa situazione di stallo. Perché il calcio è in crescita vertiginosa sul piano della diffusione. Comincia a essere una realtà anche tecnica negli USA, ha spalancato le porte dell'Asia, dove la Cina è approdata per la prima volta al Mondiale.

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Le origini del gioco del calcio

Il protocalcio

Le prime manifestazioni di quello che potremmo definire protocalcio si ebbero nel 25° sec. a.C. in Estremo Oriente: i soldati dell'imperatore cinese Xeng Ti praticavano, fra i vari esercizi di addestramento militare, un gioco chiamato Tsu-Chu, imperniato sul possesso di un oggetto sferico, molto simile a un pallone, formato di sostanze vegetali, tenuto insieme e ammorbidito in superficie da crini annodati (secondo una versione più poetica, da soffici capelli di fanciulla). Un millennio più tardi, in Giappone aveva largo seguito il Kemari, finalizzato non più all'avviamento alle armi, ma al diletto delle classi nobili. Si giocava su un campo delimitato, agli angoli, da quattro tipi diversi di albero: un pino, un ciliegio, un mandorlo e un salice. Il pallone, il cui strato esterno era di pelle, misurava 22 cm di diametro ed era manovrato con le mani e con i piedi, una sorta di rugby ante litteram. Peraltro, molto gentile: il gioco veniva spesso interrotto per scambi di scuse e complimenti.

Anche in altre civiltà, come in quella maya, si praticarono forme di protocalcio. Nell'antico Messico, per es., il gioco consisteva nel far passare un pallone di caucciù massiccio e di 3,5 kg, che non poteva essere toccato con le mani, attraverso un piccolo foro nel muro. Evidente la simbologia erotica, un connotato che, secondo Desmond Morris, autore del fortunato saggio La tribù del calcio (1981), è presente anche nella versione attuale del gioco.

Attorno al 1000 a.C., in Grecia era in auge l'epìskyros (il nome derivava da skyros, la linea centrale che divideva in due parti il campo) che fu trapiantato a Roma, dove prese il nome di harpastum e assunse connotazioni decisamente più brutali. L'arpasto consisteva nel rubarsi la palla, senza troppi complimenti, e divenne il passatempo preferito dell'esercito. Lo praticavano i legionari di Giulio Cesare, suddivisi in squadre regolari, e furono probabilmente essi a farlo conoscere in Britannia, durante l'invasione dell'isola, gettando così un seme che avrebbe germogliato copioso nella terra destinata a dare ufficialmente i natali al calcio moderno.

Le fortune di tutti i giochi con la palla declinarono bruscamente nel Medioevo, per un generale deprezzamento delle attività ricreative. Nel Rinascimento, la rivalutazione del mondo classico e il ritrovato culto per la bellezza e la forza favorirono il ritorno alle attività ludiche e agonistiche. Nel 1410 un anonimo poeta fiorentino, cantando le glorie e le bellezze della città, accennava a una popolarissima forma di divertimento espressamente chiamata 'gioco del calcio'. A Firenze, infatti, Piero de' Medici, appassionato cultore di quest'attività agonistica, chiamò alla sua corte i più abili giocatori, dando così vita al primo esempio di mecenatismo applicato al calcio. I Medici furono anche i primi a capire che il gioco costituiva una formidabile valvola di sfogo per il malcontento popolare (alla stessa guisa dei circenses romani) e quindi si impegnarono a incoraggiarlo e a diffonderlo. Le regole prevedevano la contrapposizione di due squadre formate da un numero variabile di giocatori; nella formazione standard erano 27: 15 attaccanti (corridori), 4 centrocampisti (sconciatori), 4 terzini o trequarti (datori innanzi), 4 difensori (datori indietro). Sei arbitri controllavano il gioco da una tribunetta laterale. Il pallone poteva essere colpito con i piedi o afferrato con le mani, con le quali non era però consentito lanciarlo. L'obiettivo di entrambe le squadre era di collocare il pallone in una porta custodita da uno dei difensori; il gol era chiamato 'caccia'. Si trattava di autentiche battaglie, di grande violenza, che si protraevano per una giornata intera. Il gioco era riservato in un primo tempo ai nobili, ma si aprì presto alla ricca borghesia dei mercanti e dei banchieri, e in seguito ai più abili giocatori di tutte le contrade, oltre ai veri professionisti reclutati dai Medici.

Le radici del calcio moderno, il professionismo e l'International board

In Inghilterra - dove era stato probabilmente introdotto, come abbiamo visto, dalle legioni di Giulio Cesare - sono numerose le tracce, anche letterarie, dell'assidua pratica del gioco. Nel Re Lear, Shakespeare fa dire a Kent, che atterra Osvaldo con un abile sgambetto: "Beccati questa, cattivo giocatore di calcio!". È però il 19° secolo a inaugurare, insieme con la rivoluzione industriale e il progresso tecnico e scientifico, anche un interesse prima sconosciuto per l'attività sportiva. Il gioco della palla con i piedi, o football, che si era diffuso da tempo a livello popolare, cominciò a fare proseliti presso le classi superiori, in particolare tra gli studenti dei campus di Harrow, Rugby e Charterhouse. Ciò spiega anche il motivo per cui il calcio si gioca in undici: le camerate dei college erano composte da dieci studenti e un precettore.

Un grande freno alla diffusione universale del gioco venne dalla disparità di regole fra un istituto e l'altro. A Charterhouse non era consentito toccare la palla con le mani e quindi si sviluppò, in modo naturale, quella tendenza al gioco individuale chiamata dribbling game, consistente nel possesso della palla da parte di un singolo giocatore che cercava di evitare (dribblare) quanti più avversari possibili. A Harrow si giocava 11 contro 11, ai piedi di una collina, con maggiore attenzione alla manovra collettiva (passing game). A Rugby si poteva manovrare la palla con le mani. La tradizione vuole che quando uno studente di quel college, William Webb Ellis, nel 1823, percorse tutto il campo con il pallone fra le mani, sino a violare la linea di fondo avversaria, nacque il gioco che dal nome del college si chiamò appunto rugby e che già nel 1842 varò il suo regolamento ufficiale. Forse anche per emulazione, qualche anno dopo, nel Trinity College di Cambridge, venne redatto un primo codice calcistico. Su questa base, nel 1857, vide la luce il primo club di calcio non universitario, lo Sheffield Club. Nel 1862, a Nottingham, nacque il Notts County, e da quel momento in poi fu tutto un proliferare di società calcistiche.

La data storica cui si fa risalire la nascita del gioco del calcio moderno è il 26 ottobre 1863. Quel giorno, alla Freemason's Tavern di Great Queen Street, nel rione di Holborn, si riunirono 11 club dell'area di Londra per uniformare i loro regolamenti. Due erano le tendenze dominanti: la prima intendeva consentire l'uso delle mani e dei piedi, e mantenere al gioco le sue caratteristiche originarie di scontro anche fisico; la seconda era favorevole al solo uso dei piedi e a un'impostazione meno violenta. I fautori di questo orientamento confluirono nella FA (Football association), che fu la prima Federazione calcistica nazionale.

Nel 1885, di fronte al dilagare della pratica calcistica, che vedeva ormai impegnati un gran numero di club e moltissimi giocatori, la FA riconobbe la possibilità di corrispondere al calciatore, per le sue prestazioni agonistiche, un modesto compenso, che andava pertanto a integrare il guadagno derivante dal suo lavoro abituale. Il vero professionismo era ancora di là da venire, ma un ulteriore passo in questa direzione fu compiuto nel 1897, quando venne istituita, a Londra, la prima associazione dei giocatori britannici, embrionale forma di sindacato calciatori, che si sarebbe trasformata, nel 1907, nella potente e organizzata PFA (Professional footballers' association). L'altro momento fondamentale fu rappresentato dall'istituzione, nel 1886, dell'IFAB (International football association board), a opera delle quattro Federazioni britanniche (a quella inglese si erano aggiunte la scozzese nel 1873, la gallese nel 1876, l'irlandese nel 1880). L'International board, nato per promulgare un regolamento comune, mediando in un testo unico le specificità dei vari movimenti nazionali, rappresenta tuttora la 'corte suprema' del calcio, il 'sacro custode' delle regole. Successivamente aperto alle delegazioni elette di altri paesi, il suo ruolo di giudice ultimo resiste dopo oltre un secolo di vita.

L'espansione in Europa e Sud America e la nascita della FIFA

Dalla Gran Bretagna, che gli aveva dato forma e organizzazione, il football, nell'ultimo trentennio del 19° secolo, cominciò a espandersi nel continente europeo e sulle rive sudamericane dell'Oceano Atlantico. In Argentina, intorno al 1860, una compagnia inglese fu incaricata della costruzione della rete ferroviaria che, partendo da Buenos Aires, toccava altri centri sulle sponde del Rio della Plata. Nello stesso periodo, l'esportazione di frigoriferi inglesi avviava una fitta rete di scambi anche con Montevideo, capitale dell'Uruguay. Le due nazioni conobbero il football contemporaneamente: esse disputarono il loro primo incontro internazionale ancor prima che Charles Miller sbarcasse a San Paolo del Brasile con un pallone sottobraccio e convertisse al calcio un paese destinato a diventarne un simbolo. In Europa, pur in circostanze diverse, lo sviluppo del calcio ebbe la sua matrice comune nelle navi inglesi alla fonda: i marinai impiegavano il tempo libero in accanite sfide sul molo, sollecitando prima la curiosità, poi l'emulazione. Non è quindi un caso che a recepire e a diffondere il gioco siano state per prime le città sedi di porti commerciali o militari. In Francia il club più antico nacque a Le Havre, nel 1872, lo stesso anno che vide in Spagna l'istituzione dell'Huelva ricreation club. In Italia, il primato fu di Genova, nel 1893. In Portogallo, in Olanda, in Belgio e nelle altre nazioni affacciate sul mare il gioco fu introdotto con le stesse modalità. Un paese non marinaro, la Svizzera, fu tuttavia sollecito a importare il calcio, grazie a privilegiati scambi culturali con l'Inghilterra, che fra l'altro prevedevano una massiccia presenza di studenti elvetici nei college d'oltremanica. La Svizzera fu poi il naturale tramite della penetrazione del football nell'Europa centrale e orientale, senza per questo trascurare il ruolo svolto da singoli personaggi come il giardiniere dei Rothschild, che fu tra i fondatori del First Vienna, in Austria, nel 1894, oppure come Karoly Lowenrosen, che in occasione della Grande Esposizione di Budapest del 1896, fra le merci importate dall'Inghilterra, inserì un pallone da football e organizzò sul posto il primo match calcistico in Ungheria. In Germania, il calcio fu introdotto dal professor Konrad Koch, reduce da una lunga permanenza in Inghilterra per ragioni di studio. Nel primo club tedesco, il Germania di Berlino, giocava tale Hugo Pauli, che poi fece conoscere il nuovo sport in Iugoslavia. Ovviamente, la partenza anticipata aveva consentito alla Gran Bretagna un vantaggio anche sul versante tecnico. Quando nel resto d'Europa e nel Sud America si muovevano i passi iniziali, e si allacciavano i primi, timidi contatti internazionali, le quattro Federazioni britanniche già disputavano da tempo un regolare e seguitissimo torneo. Chiamato Home championship, il quadrangolare fra le rappresentative d'Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda fu inaugurato nel 1884: la prima edizione si concluse con il trionfo della Scozia, che vinse tutte le partite. Rispetto ai tradizionali rivali inglesi, gli scozzesi giocavano un calcio più organizzato, meno legato all'estro individuale e che recava già in sé precisi connotati tattici. Come abbiamo visto, in Sud America, giusto alla fine del 19° secolo, Uruguay e Argentina avevano aperto la serie infinita delle loro sfide, peraltro schierando giocatori quasi esclusivamente britannici. Quando però, ai primi del 20° secolo, Thomas Lipton, il magnate del tè, mise in palio fra le due nazionali dei paesi affacciati sul Rio de la Plata la Coppa che portava il suo nome, già si erano fatti strada i talenti indigeni. In Europa, il primo incontro internazionale fra paesi non britannici si disputò nel 1902 a Vienna fra Austria e Ungheria: l'Austria si impose con un nettissimo 5-1. La scuola mitteleuropea, per qualità tecnica, era forse la sola che potesse avvicinarsi ai maestri d'oltremanica.

La Francia non brillava particolarmente per il valore delle sue squadre, ma era sicuramente in prima linea nelle iniziative per lanciare il calcio su scala internazionale. Ospitando nel 1900 le seconde Olimpiadi dell'era moderna, gli organizzatori inserirono nel programma, non a titolo ufficiale ma solo come torneo dimostrativo, un triangolare di calcio che riscosse un notevole successo di pubblico. Dopo un secondo esperimento alle Olimpiadi di Saint Louis del 1904, l'ingresso ufficiale del calcio nel programma del CIO avvenne ai Giochi del 1908, ospitati da Londra. Le Olimpiadi, però, esigevano dai partecipanti lo status di dilettante puro, cosa che si rivelò presto un ostacolo.

Intanto, forte di questo promettente approccio, il giornalista francese Robert Guérin, affiancato dall'olandese Carl A. Wilhelm Hirschmann, nel 1902 si era recato a Londra, presso il potente presidente della FA, Frederich Wall, per sottoporgli un progetto ambizioso: istituire una Confederazione per regolare e organizzare l'attivi-tà delle Federazioni nazionali e con il fine ultimo di dar vita a un vero e proprio Campionato del Mondo. Ottenne un brusco rifiuto, e non incontrò miglior sorte due anni dopo con il successore di Wall, Lord Kinnaird. Gli inglesi erano troppo gelosi della loro posizione preminente per accettare l'idea di una super-federazione e non erano neppure entusiasti di mettere a disposizione di tutti i segreti e i regolamenti dello sport che avevano inventato. Il 21 maggio 1904, con il pretesto di un match internazionale tra Francia e Belgio, Guérin inviò a Parigi i delegati di otto Federazioni (oltre alla Francia, l'Olanda, il Belgio, la Germania, la Svezia, la Svizzera, la Spagna e la Danimarca) e fondò la FIFA (Fédération internationale de football association), di cui fu eletto presidente, con Hirschmann segretario. Rafforzata da successive adesioni, la FIFA riuscì a convincere le Federazioni britanniche a entrare a far parte del nuovo organismo nel 1905. Nel congresso di Berna del 1906, il nuovo presidente della FA, Daniel Burley Wolfall, divenne anche presidente della FIFA, subentrando al dimissionario Guérin. Nel suo discorso d'investitura, il dirigente inglese accantonò subito l'ambizioso progetto di un Campionato del Mondo e, dopo aver riaffermato il fondamentale ruolo dell'International board come garante del regolamento calcistico, propose di sfruttare l'opportunità offerta dal Comitato internazionale olimpico (CIO) di ospitare un torneo ufficiale di calcio nell'ambito dell'appuntamento quadriennale dei Giochi Olimpici.

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Storia dei Campionati del Mondo di Calcio

Gli esordi

Nel 1921 salì alla presidenza della FIFA Jules Rimet, che diede l'impulso decisivo all'idea di un Campionato di calcio autonomo, pur scontrandosi a lungo con il Comitato olimpico internazionale, restio a privarsi della disciplina che gli garantiva il maggior seguito e i più ricchi incassi. Il 10 dicembre 1926, nella riunione dell'esecutivo a Parigi, la FIFA nominò una commissione per studiare la formula di un Campionato di calcio aperto a tutte le Federazioni iscritte. Ne fecero parte lo svizzero Bonnet, l'austriaco Meisl, l'italiano Ferretti, il tedesco Linnemann, l'ungherese Fischer e il braccio destro di Rimet, Henry Delaunay, francese. Il 18 maggio 1929, durante il congresso di Barcellona, furono approvate le proposte della commissione articolate in quattro punti: 1) la FIFA avrebbe organizzato ogni quattro anni un Campionato Mondiale di calcio a partire dal 1930; 2) tutte le Federazioni associate, senza distinzione fra professionisti o amatori, avrebbero potuto iscriversi al Campionato (ciò avrebbe risolto il conflitto con i Giochi Olimpici che avrebbero continuato a ospitare nel proprio ambito un torneo di calcio riservato esclusivamente a formazioni dilettantistiche); 3) nel caso di iscrizioni superiori a 30, si sarebbero disputati incontri eliminatori; 4) tutte le spese sarebbero state a carico del paese organizzatore. Fu scelto anche il nome della manifestazione: 'Coppa del Mondo', successivamente rinominata 'Coppa Rimet' in omaggio al suo promotore.

Tredici furono le squadre partecipanti al primo Campionato del Mondo, disputato in Uruguay nel 1930. L'Italia si era chiamata fuori, temendo le ritorsioni per il saccheggio dei talenti sudamericani perpetrato dai suoi club più potenti. L'Europa, che aveva in lizza solo squadre di secondo piano, non offrì teste di serie, rappresentate invece dall'Argentina, dal Brasile, dagli Stati Uniti e dall'Uruguay. La finalissima fra Argentina e Uruguay, da tutti attesa e pronosticata, andò in scena al Centenario - il maestoso impianto di Montevideo, costruito in cinque mesi - il 30 luglio 1930. L'Argentina chiuse il primo tempo in vantaggio per 2-1, grazie a Guillermo Stabile, el filtrador, tiratore scelto del torneo. L'Uruguay rimontò e vinse 4-2 con l'ultimo gol di Castro, el mancho, chiamato da allora 'l'uomo del destino'. A contrastare la superiorità della scuola sudamericana nel periodo compreso tra il primo Mondiale e la guerra rimase, dopo l'abbandono della FIFA da parte delle quattro Federazioni britanniche, soltanto l'Italia. Il calcio italiano aveva conosciuto una crescita impetuosa anche grazie all'appoggio massiccio offerto dal regime fascista - che aveva intuito la formidabile efficacia propagandistica del calcio - alla struttura organizzativa, che diede i risultati migliori in occasione del secondo Campionato del Mondo, nel 1934. Il ruolo decisivo che molti critici attribuiscono al fattore campo nella conquista del titolo da parte degli azzurri è però smentito dalla circostanza che quattro anni dopo la nazionale italiana replicò il successo in Francia, dove dovette superare - oltre ad avversari fortissimi - anche un clima di grande ostilità. Fra i due trofei iridati, inoltre, l'Italia si aggiudicò anche l'oro olimpico del 1936 a Berlino, con una squadra di giocatori iscritti all'università, escamotage per aggirare l'obbligo dilettantistico preteso dal regolamento dei Giochi. In realtà, è innegabile che il calcio italiano avesse raggiunto altissimi livelli tecnici e tattici. La nazionale, sotto l'abile guida del giornalista sportivo Vittorio Pozzo, giocava una variante molto efficace del 'metodo', lo schema di gioco che era il fiore all'occhiello della scuola danubiana e che l'Italia aveva personalizzato con una più attenta copertura difensiva e con l'uso del contropiede in attacco. Nel periodo fra le due guerre, Giuseppe Meazza, centravanti-goleador in Campionato e mezzala di regia e di rifinitura in maglia azzurra (alle spalle di attaccanti di sfondamento quali Angelo Schiavio e Silvio Piola), fu sicuramente il più forte e completo giocatore di scuola europea. Ai Mondiali del 1938 l'Italia, che quattro anni prima si era imposta all'élite europea (battendo Spagna, Austria e Cecoslovacchia), eliminò in semifinale il più forte Brasile dell'anteguerra, una squadra spettacolare che aveva incantato il pubblico con le prodezze di Leonidas, detto il 'diamante nero', e che era unanimemente considerata la favorita per la conquista del titolo iridato. La vittoria finale fu a spese dell'Ungheria. A questa imponente collezione di successi, l'Italia univa una dotazione di impianti seconda, forse, soltanto a quella dell'Inghilterra. Purtroppo, non si presentò una terza occasione per confermare il momento d'oro del calcio italiano: il Mondiale che era in programma nel 1942 non si svolse, a causa della guerra.

Dal dopoguerra agli anni Sessanta

La prima grande novità calcistica del periodo successivo al Secondo conflitto mondiale fu il rientro nella FIFA delle quattro Federazioni britanniche. Il campionato del Mondo del 1950 rappresentò dunque una sorta di verifica dei valori calcistici dopo la lunga parentesi bellica. In quegli anni, in cui quasi tutta l'Europa era stata costretta all'inattività sportiva e a dirottare la propria gioventù al fronte, in Sud America l'attività calcistica era proseguita regolarmente, con le consuete accese sfide fra i tre paesi dominanti. In particolare il Brasile aveva visto fiorire una generazione di nuovi talenti, soprattutto attaccanti, e attraverso una severa selezione interna si era dotato di una fortissima prima linea, che vedeva schierati Friaca, Zizinho, Ademir, Jair, Chico. Il torneo fu dominato dalla nazionale brasiliana, che sconfisse con punteggi nettissimi tutti gli avversari, ma non conquistò il titolo: tradita dalla presunzione e dalla ritrosia per ogni forma di organizzazione tattica, fu beffata, nella partita decisiva del girone finale, dall'Uruguay, che aveva due fuoriclasse, Schiaffino e Ghiggia, ma soprattutto una compattezza difensiva sconosciuta ai suoi più forti rivali. Sfortunata la partecipazione degli italiani, campioni del mondo in carica. L'anno prima del Mondiale il disastro aereo di Superga, in cui avevano perso la vita tutti i giocatori del Torino di ritorno da una partita amichevole giocata a Lisbona, aveva fatto piombare il calcio italiano (e l'intero paese, che della squadra aveva fatto uno dei simboli della rinascita) nella costernazione. Non fu possibile ricostruire una formazione affidabile per l'ormai prossima scadenza mondiale, dato che il Torino era il principale, anzi quasi esclusivo, fornitore della nazionale, di cui era arrivato a comporre i dieci undicesimi. Inoltre, il ricordo della recente sciagura indusse la squadra a decidere di raggiungere il Brasile per nave, con grave pregiudizio della preparazione. Sconfitta dalla Svezia nel debutto a San Paolo, l'Italia cedette in fretta il suo titolo e per il calcio azzurro si aprì, sino alla vittoria nei Campionati europei del 1968, un lungo periodo privo di vittorie.

Nel dopoguerra il panorama europeo venne vivacizzato, sul piano squisitamente tecnico, dalla comparsa e dalle sfortunate vicende di una delle squadre più forti di ogni tempo, la 'grande Ungheria', ribattezzata Aranycsapat, "squadra d'oro": rimase imbattuta per quasi un quinquennio, dal 14 maggio 1950 al 4 luglio 1954, nel corso del quale disputò 31 partite internazionali, vincendone 28 e pareggiandone 3, con 142 gol segnati (alla media di oltre 4,5 a gara) e appena 32 subiti. In questo periodo - nel quale va inserita anche la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 - incontrò, quasi sempre in trasferta, tutte le più forti nazionali del mondo e fece crollare il famoso home record, cioè il primato interno di imbattibilità dell'Inghilterra, che mai dall'inizio del calcio moderno era stata sconfitta in patria da un avversario non britannico. Il 25 novembre 1953, nello stadio imperiale di Wembley, davanti a 100.000 inglesi ammutoliti, l'Ungheria si impose per 6-3 con tripletta di Hidegkuti, doppietta di Puskas e un gol di Bozsik, i suoi tre fuoriclasse. Sei mesi dopo, nella rivincita giocata a Budapest, l'Ungheria vinse con un punteggio ancora più pesante: 7-1.

Ai Mondiali del 1954 in Svizzera, dove ci si attendeva la sua definitiva consacrazione, l'Ungheria in due memorabili partite si affermò nettamente su Brasile e Uruguay, ancora più forti di quattro anni prima. In finale incontrò la Germania Ovest, che aveva ripreso l'attività internazionale solo alla fine del 1950, dopo che nel 1948 la FIFA aveva rimosso il divieto ai propri affiliati di intrattenere rapporti calcistici con gli sconfitti della guerra. L'Ungheria aveva battuto con facilità i tedeschi nelle fasi preliminari del Mondiale e giocò convinta di poter vincere anche in questa occasione (dopo 8 minuti conduceva già per 2-0). Fu colta di sorpresa, dunque, dalla strepitosa rimonta degli avversari, passati in vantaggio nel secondo tempo (si sospettò poi che i tedeschi nell'intervallo fossero ricorsi ad aiuti farmaceutici, ipotesi non dimostrabile data l'assenza, all'epoca, di controlli antidoping). La Germania Ovest fu campione del mondo e la più grande squadra di tutti i tempi non ottenne il titolo, né ebbe più l'occasione di rifarsi. L'insurrezione del 1956 e il conseguente ingresso a Budapest dei carri armati sovietici smembrarono quasi del tutto la nazionale ungherese, in quei giorni in tournée all'estero: i campioni più significativi rimasero fuori dal paese, proseguendo l'attività sotto altre bandiere. Mai più l'Ungheria ha potuto ritrovare un momento altrettanto fulgido, anche se nel suo carnet figurano i due ori olimpici consecutivi del 1964 e del 1968, frutto peraltro delle condizioni di vantaggio in cui si venivano a trovare le nazionali dell'Est europeo, cui il dilettantismo di Stato consentiva di schierare ai Giochi la formazione migliore.

Il Campionato del Mondo del 1954, considerato il migliore in assoluto per valore tecnico e spettacolarità, non si ricorda soltanto per l'inaspettata affermazione dei tedeschi, tornati rapidamente a vincere dopo la sconfitta bellica. La vera novità fu il debutto ufficiale della televisione in una grande manifestazione calcistica. Sino ad allora soltanto gli addetti ai lavori potevano spingere la loro competenza oltre i confini nazionali, mentre gli sportivi, che pure seguivano le vicende calcistiche in misura sempre più massiccia, conoscevano bene solo i campioni di casa. Ammirare dal vivo fuoriclasse quali Puskas, Schiaffino, Didì, Julinho, Hidegkuti, Beara, Ocwirk, Rahn contribuì ad aprire nuove prospettive.

Il Brasile, dopo la cocente delusione (sfociata in autentica tragedia nazionale) seguita al mancato trionfo nel Mondiale ospitato nel 1950, si era autocondannato a due anni di inattività, per riprendersi dallo shock. La precoce eliminazione dai Mondiali del 1954 apparve l'ultima dimostrazione che il talento individuale non bastava per raggiungere i traguardi più alti. L'artefice della svolta fu un oriundo italiano, Vincenzo Feola, che, chiamato alla guida tecnica del Brasile, in preparazione ai Mondiali del 1958, selezionò quasi 200 giocatori, facendoli passare al vaglio della junta medica, al fine di scartare tutti coloro che - a prescindere dal talento - non offrissero adeguate garanzie dal punto di vista atletico. I 33 prescelti furono sottoposti all'addestramento tattico: Feola fece applicare alla squadra uno schieramento che prevedeva, davanti al portiere, quattro difensori in linea, due mediani, uno di copertura e uno di regia, e quattro attaccanti, dei quali due ali e due punte centrali. Come sempre, i moduli vengono esaltati dai loro interpreti e quel Brasile aveva grandissimi giocatori in ogni ruolo, tanto che, con una formazione quasi identica, la nazionale brasiliana vinse due Mondiali consecutivi, nel 1958 in Svezia (interrompendo la tradizione per cui sino ad allora le nazionali sudamericane ed europee si erano imposte rispettivamente nel loro continente) e nel 1962 in Cile. Nel Mondiale del 1958, si mise in luce per la prima volta il non ancora diciottenne Pelé, autore di tali prodezze (tra cui sei gol nelle ultime tre partite) da lasciare stupefatta la critica mondiale. Lo stesso re Gustavo di Svezia, dopo la finale vinta dai brasiliani proprio contro la nazionale padrona di casa, scese sul campo per complimentarsi personalmente con il giovanissimo giocatore.

Luci e ombre del calcio atletico

Gli anni Sessanta furono caratterizzati dalla presenza contemporanea di correnti tattiche diverse. Due titoli mondiali consecutivi avevano premiato e portato ai vertici il gioco tecnico e creativo del Brasile, un gioco basato sul palleggio e sull'abilità dei singoli, sia pure finalmente inquadrati in un preciso disegno tattico. Accanto a questo tipo di calcio conviveva con successo anche quello più pragmatico ed essenziale dell'Inter (dominatrice della scena europea e mondiale a livello di club), che privilegiava la ferrea difesa e il rapido contropiede come principale espressione offensiva: un calcio verticale, che aveva lo scopo di raggiungere la porta avversaria nel minor tempo possibile e con il minor numero di passaggi, tralasciando il fraseggio orizzontale del quale erano maestri i brasiliani e i loro seguaci. L'avvento della nazionale sovietica - debuttante ai Mondiali del 1958, estremamente competitiva negli Europei (prima e seconda alle due edizioni iniziali del 1960 e 1964) e un esempio per quasi tutte le formazioni dell'Est europeo - nonché il ritorno ai più alti livelli degli inglesi e dei tedeschi, naturalmente portati a un gioco ad alto ritmo, andavano però determinando una nuova tendenza, che avrebbe raggiunto il suo culmine nei Mondiali del 1966. Il 'calcio atletico', caratterizzato dal vigore fisico, dalla velocità nella corsa e dalla potenza nei contrasti, più che dall'abilità tecnica, si affermò prepotentemente sulla scena internazionale, procurando anche danni notevoli. Infatti, un giudizio superficiale poteva generare l'equivoco che il talento di un calciatore si sarebbe in futuro misurato soltanto in muscoli, chili e centimetri. Inoltre, fatto ancora più pericoloso, essendo molto labile il confine tra calcio a grande impatto fisico e calcio brutale e violento, diveniva forte la tentazione, per le squadre e i giocatori di minore abilità tecnica, di colmare con la sopraffazione e gli interventi intimidatori il divario con i più dotati. Da questa antitesi fra atletismo e tecnica sarebbe poi scaturita l'efficacissima sintesi della scuola olandese, capace di abbinare il vigore e la destrezza in un tipo di gioco che, non a caso, sarebbe stato definito 'calcio totale'.

Il Brasile, sia pure senza Pelé, infortunato ma sostituito egregiamente dal giovane Amarildo, replicò anche in Cile, nel 1962, il successo ottenuto ai Mondiali di Svezia del 1958, senza doversi impegnare contro rivali particolarmente agguerriti. La Cecoslovacchia era arrivata sino in finale grazie alle prodezze del suo portiere, che però nella partita conclusiva non fu all'altezza delle precedenti prestazioni. L'Italia, che partecipava nuovamente alla fase conclusiva di un Mondiale dopo la mancata qualificazione di quattro anni prima, aveva risentito di un ambiente ostile ed era stata eliminata dal Cile, pae-se organizzatore, anche con la 'complicità' dell'arbitro inglese Aston, apertamente favorevole ai padroni di casa. Decisamente il Mondiale cileno non fu ispirato all'esemplare sportività che aveva caratterizzato l'edizione svedese. Al repertorio di prevaricazioni, favoritismi, irregolarità, si accompagnò anche lo scarso livello tecnico generale delle squadre partecipanti.

In questo clima, l'assegnazione all'Inghilterra della fase finale del Mondiale del 1966 si configurava come il tentativo di riportare il calcio nell'ambito della più assoluta regolarità. Contrariamente alle aspettative, però, i Mondiali d'Inghilterra furono anch'essi dominati dalla faziosità. Le nazionali sudamericane, entusiaste di giocare nella culla del football, furono presto eliminate: il Brasile dai violenti giocatori bulgari che provocarono scientemente l'infortunio di Pelé, l'Argentina e l'Uruguay da arbitraggi palesemente sfavorevoli. Nella finale contro i rivali tedeschi, l'Inghilterra si laureò campione del mondo, come tutta la nazione pretendeva, grazie a un gol 'fantasma' (ai più sembrò che il pallone non avesse oltrepassato la linea di porta), compiacentemente convalidato dall'arbitro svizzero e dal guardalinee. Il Mondiale inglese vide l'episodio più mortificante della storia della nazionale italiana. Dopo l'iniziale vittoria sul Cile, rivincita del 'sopruso' di quattro anni prima, l'Italia fu eliminata dalla Corea del Nord, una squadra fino a quel momento assolutamente sconosciuta nel panorama del calcio internazionale. Al loro ritorno gli azzurri furono accolti, all'aeroporto di Genova, dal lancio di pomodori da parte di una folla inviperita. Il commissario tecnico Edmondo Fabbri, che pur aveva reimpostato la nazionale sottraendola all'influenza delle società tramite la creazione di un nucleo fisso di giocatori (il club Italia), fu liquidato e poi squalificato per aver mosso pubbliche accuse di cospirazione ai componenti dello staff medico (i giocatori italiani sarebbero stati 'dopati' alla rovescia, per farli perdere). Il suo lavoro, però, aveva agito in profondità ed era stato prezioso e decisivo. L'avvento alla presidenza federale di un illuminato dirigente come Artemio Franchi e la promozione a commissario tecnico del vice di Fabbri, Ferruccio Valcareggi, coincisero con un biennio di grandi successi: l'Italia vinse gli Europei del 1968 e due anni dopo si classificò seconda ai Mondiali messicani. Nel 1970, in Messico, i problemi posti dall'altitudine, già sperimentati nell'Olimpiade che si era disputata due anni prima nella stessa cornice, si rivelarono pesanti e non tutte le squadre seppero affrontarli con la necessaria preparazione. Il dominante calcio atletico, basato su una fisicità esasperata e su un gioco aggressivo che richiedeva notevoli energie, trovò nelle condizioni ambientali un notevole ostacolo. L'Europa mise in campo le risorse migliori: Germania Ovest e Inghilterra, le protagoniste del precedente Mondiale, in formazioni forse ancora più forti e complete di quattro anni prima, e l'Italia, campione continentale in carica. Dall'altra parte il Brasile, determinato a riconquistare il titolo, attendeva gli avversari sul suo terreno preferito: il gioco brasiliano, basato sul prolungato possesso della palla, su raffinati fraseggi a basso ritmo, sulla tecnica individuale, meglio si adattava a ridurre i disagi dell'alta quota, acuiti dalle accelerazioni violente. La prima linea del Brasile era formata da cinque giocatori che nelle rispettive formazioni di club portavano tutti la maglia numero 10: cinque leader, che solo il carisma di Pelé riusciva a far convivere senza contrasti. Questa singolare situazione si risolse in un trionfo per le enormi potenzialità della squadra, ma anche per alcune circostanze propizie. A parte l'altitudine, infatti, avvenne che le tre grandi squadre europee furono costrette a scontrarsi fra di loro: Germania Ovest e Inghilterra disputarono un quarto di finale all'ultimo sangue, concluso nei tempi supplementari a favore dei tedeschi, dopo un'incredibile rimonta. Ancora provata, la Germania Ovest incontrò in semifinale l'Italia e ne venne fuori quel 4-3 a favore degli azzurri che è ormai entrato nella leggenda e al cui ricordo è stata dedicata una targa nel monumentale stadio Azteca di Città del Messico. Quell'Italia cinica e sfrontata, riscattatasi nel corso del torneo da un avvio deludente, nella finale tenne testa degnamente al grande Brasile per oltre un'ora fermando il punteggio sull'1-1; poi crollò fisicamente e fu travolta dai brasiliani. Grazie al trionfo messicano il Brasile, dopo aver centrato tre vittorie nel breve arco di quattro Mondiali, dal 1958 al 1970, si era aggiudicato definitivamente la Coppa Rimet, destinata alla nazione che avesse per prima conquistato tre titoli mondiali. Il concorso lanciato dalla FIFA per creare il nuovo trofeo da mettere in palio vide prevalere, fra 53 bozzetti, l'opera dello scultore italiano Silvio Gazzaniga: due atleti con le mani levate in alto a sostenere il globo. Il trofeo, 36 cm di altezza, era stato scolpito con 5 kg d'oro massiccio su una base di 13 cm di larghezza. Il nuovo nome era Coppa FIFA e, a differenza della precedente, nessuna nazione avrebbe potuto aggiudicarsela a titolo definitivo. Al campione in carica sarebbe stata assegnata una piccola copia, mentre l'originale sarebbe rimasto di proprietà della Federazione internazionale.

Il 'calcio totale' degli olandesi e la 'zona mista' di Bearzot

Gli anni Settanta portarono notevoli rivolgimenti sotto il profilo tecnico. Entrati in crisi il Brasile e l'Inghilterra, anche l'Italia di Messico '70 avvertì i sintomi dell'usura, anche se nel 1973 batté, per la prima volta nella sua storia calcistica, l'Inghilterra sul campo di Wembley e il suo portiere Zoff conquistò un impressionante record di imbattibilità (quasi due anni senza subire un solo gol). Si profilavano nuove realtà, come la Polonia, autentica rivelazione del torneo olimpico di Monaco del 1972, e soprattutto l'Olanda, il cui calcio si impose prima a livello di club, con il dominio dell'Ajax nella Coppa dei Campioni, e in seguito anche di nazionale. Gli olandesi praticavano un gioco nuovo, affrancato dai ruoli, che prevedeva l'intercambiabilità fra i reparti e non offriva agli avversari valide contromisure. Fu chiamato 'calcio totale' e destò subito grande ammirazione, perché dominato da una mentalità offensiva, senza calcoli, e sostenuto da un ritmo e una velocità sino ad allora sconosciuti. Il modulo, poi, veniva esaltato da interpreti d'eccezione, primo fra tutti Johan Cruijff, che contendeva la ribalta europea al campione tedesco Franz Beckenbauer. L'Olanda fu grande protagonista dei Mondiali del 1974, ma il titolo andò alla Germania Ovest, con l'aiuto (seppure non scandaloso, come altre volte era successo) del fattore campo, ma soprattutto grazie alla sua capacità di mediare fra tradizione e innovazione. L'Italia non superò il primo girone, dominato dalla Polonia. L'eliminazione coincise con la fine della lunga (e tutto sommato felice) direzione tecnica di Valcareggi, nonché con il tramonto di campioni quali Rivera, Mazzola e Riva che avevano scritto pagine importanti nella storia del calcio italiano.

Il delicato periodo di passaggio fu gestito, con mano salda e assoluta noncuranza dell'impopolarità, da Fulvio Bernardini, che collezionò sconfitte e feroci critiche, ma riuscì a formare un nucleo di freschi talenti accomunati dalla qualità tecnica (i 'piedi buoni', il cui simbolo era considerato il giovane Giancarlo Antognoni) e dalla disciplina di squadra. Quando Bernardini, esaurito il compito di traghettatore, consegnò la nazionale al suo collaboratore Enzo Bearzot, si aprì una fase importante: Bearzot riuscì a dare alla squadra un impianto di gioco che mediava felicemente i valori tradizionali della scuola italiana con i nuovi fermenti seguiti alla 'rivoluzione' olandese. Non a caso il suo schema di gioco fu definito 'zona mista'. L'Italia, cioè, conservava la sua forza difensiva, tramite rigorose marcature individuali, ma da metà campo in su si apriva a una manovra più libera e corale, con fruttuosi interscambi che spezzavano la rigidità dei ruoli.

Trascinata da un giovane cannoniere, Paolo Rossi, un attaccante di fisico leggero ma dal grande istinto del gol, l'Italia incantò in Argentina il pubblico e la critica dei Mondiali 1978, pur senza andare oltre un quarto posto finale. La vittoria del torneo andò ai padroni di casa. Due anni dopo, nel 1980, ospitando per la seconda volta il Campionato d'Europa, la squadra azzurra si apprestava ad arricchire il suo medagliere, quando fu travolta da uno scandalo senza precedenti. Il 'totonero', il fenomeno delle scommesse clandestine e degli accordi preventivi sul risultato di molte partite al fine di ottenere vincite illecite, coinvolse parecchi calciatori di primo piano, fra i quali lo stesso Paolo Rossi e l'altro attaccante più quotato del momento, Bruno Giordano, colpiti da pesanti squalifiche. Privato delle sue punte più forti e dell'appoggio del pubblico, che per un giustificato calo di fiducia disertò gli stadi, Bearzot concluse l'Europeo di casa con un deludente quarto posto, mentre la Germania Ovest ne approfittava per collezionare l'ennesimo titolo continentale.

In tali condizioni, apparve prodigiosa la ripresa della nazionale azzurra che nel 1982, in Spagna, vinse il suo terzo titolo mondiale, dopo la doppietta, ormai lontanissima, del 1934 e 1938. Alla vittoria contribuì in modo determinante lo stesso Paolo Rossi, che aveva esaurito il periodo di squalifica proprio alla vigilia del Mondiale e che Bearzot volle unire alla squadra sfidando le ire dei benpensanti e le critiche dei tecnici, che lo ritenevano arrugginito dalla forzata e prolungata inattività. Lo stentato passaggio del primo turno rinfocolò le polemiche, ma proprio quando il 'linciaggio' di Bearzot toccava il culmine, gli azzurri si scossero ed eliminarono in successione l'Argentina campione in carica (forte del nuovo astro mondiale, Diego Maradona) e il Brasile, la formazione favorita. Con tre gol al Brasile, impresa mai riuscita a nessun altro calciatore, Rossi interrompeva la serie negativa; fu poi capocannoniere del torneo, con sei reti concentrate nelle ultime tre partite. Nella finale di Madrid, accompagnati dal tifo del presidente della Repubblica Sandro Pertini, gli azzurri si imposero sulla Germania Ovest, squadra di eccezionale continuità ai massimi livelli ma che nell'occasione fu battuta in modo estremamente netto. La carriera tecnica di Bearzot si concluse ai Mondiali successivi, quelli di Messico '86. Tradito (come in parte era accaduto anche a Valcareggi) dal sentimento di gratitudine nei confronti dei suoi veterani, in omaggio ai quali aveva rinviato un'adeguata operazione di ricambio e di ringiovanimento dei ranghi, non riuscì a condurre l'Italia oltre gli ottavi di finale. L'edizione fu vinta dall'Argentina grazie alle prodezze di Maradona, capace di portare al titolo una squadra che, senza di lui, a stento sarebbe arrivata in semifinale.

Da Italia '90 al Mondiale di Giappone-Corea

Nel 1990 l'organizzazione del Mondiale spettò per la seconda volta all'Italia e, dal punto di vista della gestione dell'evento sportivo e del settore della comunicazione, questa fu forse l'edizione migliore di tutti i tempi. Gli azzurri, guidati da Azeglio Vicini, furono terzi, senza subire una sola sconfitta. I tempi supplementari della semifinale Italia-Argentina si chiusero infatti in risultato di parità e furono i successivi calci di rigore a determinare l'ingresso in finale della squadra sudamericana, che per altro aveva arrancato per tutto il corso del torneo. Nella partita conclusiva, disputata nel rinnovato Stadio Olimpico di Roma, il titolo iridato andò alla Germania, che era guidata da Beckenbauer, l'unico insieme al brasiliano Zagalo ad aver vinto la Coppa del Mondo sia come giocatore sia come tecnico.

Il Mondiale del 1994 fu assegnato dalla FIFA agli Stati Uniti. La conquista di un nuovo 'pianeta' sembrava il modo migliore per celebrare il novantesimo anniversario della Confederazione. Gli USA non potevano essere considerati un paese calcistico, anzi il soccer risultava piuttosto estraneo alla loro cultura sportiva, pur se molto praticato in ambito giovanile e scolastico. Ma per uno spettacolo che si proclamava (dati alla mano) il più grande del mondo, il proscenio americano era una meta obbligata. L'evento si accompagnò all'introduzione di nuove regole, ben tarate sulla mentalità americana, che non concepisce il pareggio, esige un vincitore e chiede emozioni forti. La novità più importante riguardò i tre punti assegnati alla vittoria, contro il solo punto riservato al pareggio: con questo sistema, già adottato in molti tornei nazionali, si intendevano eliminare le 'alchimie' dei gironi preliminari, dove spesso il calcolo prendeva aggio sull'agonismo. Purtroppo, l'altra faccia della medaglia fu che la spettacolarità, in particolare l'aspetto televisivo, schiacciò le vere esigenze sportive. Poiché l'audience contava più della salute dell'atleta e del livello tecnico delle partite, si giocò spesso sotto l'impietoso sole di mezzogiorno, un vero attentato alla regolarità del gioco. Il Brasile tornò a essere campione del mondo, anche se presentò una nazionale decisamente di livello inferiore, e meno ricca di campioni, rispetto a quelle che avevano fallito i più recenti tentativi. Sotto la gestione tecnica di Arrigo Sacchi, autore di un'autentica rivoluzione che già aveva portato il suo Milan ai vertici europei e mondiali, l'Italia arrivò sino alla finale, arrendendosi al Brasile soltanto ai calci di rigore. Sulla strada aperta da Messico e Italia, anche la Francia ottenne la sua seconda organizzazione mondiale, a cinquant'anni di distanza da quella del 1938. Il successo della squadra di casa, evento che non si verificava da vent'anni, ovvero dal Campionato del Mondo argentino del 1978, consentì alla Francia di unirsi a Brasile, Italia, Germania, Argentina, Uruguay, Inghilterra nel novero delle nazioni detentrici del titolo. Quella della Francia fu una vittoria multietnica: soltanto otto dei ventidue componenti la rosa della nazionale erano francesi puri. Nel-le vene degli altri scorreva sangue algerino, armeno, basco, portoghese e dei territori d'oltremare. Eppure, proprio l'esemplare spirito di squadra e l'armonia del collettivo furono le armi decisive di una nazionale che arrivò al traguardo tra molte difficoltà, ma con il merito di aver sempre privilegiato la strada maestra del gioco sulle alchimie tattiche e i calcoli opportunistici. L'Italia, passata dal calcio futuribile di Sacchi a quello molto più prosaico di Cesare Maldini, fu bloccata nei quarti dai padroni di casa. Il primo Mondiale del 21° secolo è stato il primo giocato in Asia, spezzando la tradizionale alternanza continentale Europa-America, e il primo ospitato in due paesi consorziati nell'organizzazione, Giappone e Corea del Sud. Attorno all'evento, che prevedeva la più alta audience della storia, con 200 paesi collegati, si sviluppava la speranza di una nuova frontiera del pallone, la celebrazione della sua raggiunta universalità, nella culla della sofisticata tecnologia nippo-coreana. Invece ci si è trovati ricacciati indietro di quarant'anni esatti ai veleni e alle polemiche di Cile '62, il Mondiale a più bassa credibilità, per gli sfacciati favoritismi alla squadra di casa. Nel 2002 le squadre di casa erano due, ma soltanto la Corea ha sfruttato in modo spregiudicato il proprio ruolo privilegiato, grazie all'inerzia, se non proprio alla complice benevolenza, della FIFA. Arbitraggi ai limiti dello scandalo le hanno consentito di eliminare in rapida successione tre referenziate rappresentanti del calcio latino, quali Portogallo, Italia e Spagna. Nel frattempo, la velleitaria pretesa (giustificata da calcoli elettorali) di usare arbitri e assistenti di ogni paese, a prescindere dalla loro preparazione e dalla loro esperienza internazionale, ha dato vita a errori inammissibili in un torneo di così elevato livello. Si è temuto il crollo, anche perché altre protagoniste annunciate, quali la Francia campione in carica e l'Argentina, erano uscite di scena per conto proprio. Poi, la tempesta si è placata. Nella fase decisiva sono stati mandati in campo gli arbitri più affidabili, la Corea si è ritenuta paga di aver raggiunto lo storico traguardo della semifinale e la finale inedita fra le due più titolate potenze calcistiche, Brasile e Germania (curiosamente mai incrociatesi nelle precedenti edizioni), ha steso un velo pietoso sui tanti misfatti tecnici del torneo. Il Brasile, poco considerato alla vigilia, ha vinto il suo quinto titolo, dopo sette successi su altrettanti incontri.

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