CAMBRAY DIGNY, Luigi Guglielmo de

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

CAMBRAY DIGNY, Luigi Guglielmo de

Raffaele Romanelli

Nacque a Firenze il 7 apr. 1820, unico figlio del conte Luigi e di Marianna Nencini. Avviato dal padre architetto agli studi tecnici, e condotto nel 1835 a Parigi a studiare col matematico G. Libri, due anni più tardi fu ammesso alla scuola di applicazione di ponti e strade, e nel 1839 terminò il Politecnico. Tornato in patria, per completare a Pisa gli studi di meccanica applicata alle arti, redasse una memoria Sul sistema da preferirsi per la illuminazione e la distribuzione geografica dei fari, che poi lesse l'8 marzo 1840 all'Accademia dei Georgofili, alla quale fu ammesso in quell'occasione come socio corrispondente.

Coetaneo e intimo amico di U. Peruzzi e già ben introdotto negli ambienti nobiliari di Firenze, dove il padre era in quegli anni gonfaloniere, il 22 ag. 1842 sposò la ventenne Virginia Tolomei Biffi, orfana del marchese Neri, anch'egli come i Cambray Digny ricco proprietario di terre in Mugello e marito di una principessa Corsini, famiglia con la quale il C. rimase sempre in strettissimi rapporti.

Portato, per studi e tradizione familiare, a partecipare degli impulsi riformatori della nobiltà liberale fiorentina, non ne oltrepassò mai i limiti conservatori e la fedeltà dinastica. Se è vero (l'affermazione è di G. Montanelli, in Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, Torino 1853, I, pp. 60 s.) che egli prese parte ai progetti insurrezionali del 1843 per subito ritirarsene, ciò valse soltanto a distaccarlo dai democratici, che lo trattarono sempre con astioso e ricambiato disprezzo. Giunto il biennio delle riforme, il C. si unì decisamente al gruppo di G. Capponi e C. Ridolfi, che tra i liberali volle distinguersi come "moderato" rispetto agli "esaltati" guidati da V. Salvagnoli, B. Ricasoli e R. Lambruschini, che erano inclini a rivendicazioni più nette.

Proposito del gruppo era per l'intanto di dar vita a un giornale, il cui programma il C. compendiò al Ricasoli il 17 marzo 1847 con concetti dai quali non si sarebbe mai più discostato nell'azione futura: "sostenere sempre più il principio della libertà commerciale, rassicurare il paese dai timori di perturbazioni popolari e di attacchi alla proprietà, in una parola dalle paure del comunismo, dare allo Stato una forza morale spingendo i cittadini a valersi delle istituzioni municipali troppo neglette" (in Carteggi di B. Ricasoli, a cura di M. Nobili - S. Camerani, II, Bologna 1940, p. 194). Il desiderio di dare pubblicità al programma moderato nasceva come reazione al diffondersi in quei mesi della stampa clandestina, e il C. volle intanto prendere posizione con una lettera al Minghetti pubblicata a Bologna il 10 marzo sul Felsineo, uno dei primi giornali politici dello Stato pontificio. Ragionando Delle circostanze che hanno accompagnato in Toscana il rincaro dei generi alimentari condanna chi fa opera di sobillazione nella stampa clandestina, "immorale in se stessa", e invita i governanti a concedere una "pubblicità moderata" "in modo che gli uomini onesti e moderati possano opportunamente trattare degli interessi del paese". L'articolo fu vivamente criticato, anche perché era soltanto siglato, e il C. ne riprese i temi sullo stesso giornale il 22 aprile scrivendo, e questa volta firmando, Dei vantaggi della pubblicità.

Una "pubblicità moderata" fu concessa di lì a pochi giorni con la legge sulla stampa. Ma il moto delle riforme procedé ben oltre le iniziali richieste dei moderati, presto chiamati al governo col Ridolfi e quindi sospinti a partecipare al nuovo corso di eventi. Istituita la guardia civica, in ottobre il C. assunse il comando di una compagnia del battaglione di Santa Croce e alla fine del marzo 1848, appena aperto l'arruolamento dei volontari, partì come capitano della 3ª compagnia per la Garfagnana, dove l'annessione di Lucca aveva aperto complesse questioni di confini. Ma non proseguì per i campi lombardi. Gli incarichi che lo trattennero in Toscana fino al settembre, dapprima quello di organizzare la guardia civica in Garfagnana e in Lunigiana, poi di sottoprefetto a Castelnuovo, gli furono assegnati per interessamento della moglie, che sapeva muoversi con abilità negli ambienti politici di Firenze; nelle lettere che in quei mesi ella inviò al marito, gli sforzi per impedire una sua missione in Lombardia sono motivati, oltre che dal timore dei pericoli della guerra, anche dall'esigenza che tornasse all'attività politica in un momento in cui il potere dei moderati andava gravemente logorandosi.

Troppo giovane per presentarsi candidato alle elezioni, il C. non era membro del Consiglio generale ma fu priore del municipio fiorentino sotto il gonfalonierato Peruzzi che, al pari di altri municipi di contro al potere centrale, espresse la crescente resistenza moderata e legittimista dapprima alla formazione del governo Guerrazzi-Montanelli, e poi, dopo la fuga del granduca, alla dittatura del Guerrazzi. Essendo questa la sua convinta posizione, il C. partecipò ai disordini scoppiati a Firenze l'11 apr. 1849 contro la presenza delle truppe livornesi e svolse poi un ruolo di primo piano nelle concitate trattative che seguirono tra Municipio e Assemblea. Toccò infine a lui la mattina del 12 aprile leggere dal balcone di Palazzo Vecchio il proclama con il quale il municipio di Firenze, ampliatosi in Commissione governativa, assunse il governo, esautorando il Guerrazzi e dichiarando il ristabilimento della monarchia costituzionale.

Le vicende di quei giorni e in particolare il ruolo che vi aveva svolto il C. furono poi minuziosamente discusse e rese note in occasione del processo mosso al Guerrazzi per "perduellione", e della voluminosa Apologiadella vita politica di F. D. Guerrazzi scritta da lui medesimo in carcere in attesa del processo e pubblicata a Firenze nel 1851. In essa il Guerrazzi accusò il C. di avere procurato il proprio arresto con il tradimento dopo averlo invitato ad attendere l'organizzazione della fuga da Firenze. Concluso il processo, al quale fu chiamato a testimoniare, il C., che della Commissione si riteneva "la sentinella avanzata", volle replicare al Guerrazzi col volume Ricordi sulla Commissione governativa toscana del 1849 (Firenze 1853), nel quale, oltre a respingere le accuse personali, difese l'operato della Commissione, da un lato illustrandone gli sforzi per evitare l'intervento austriaco e per garantire il ristabilimento della costituzione, dall'altro attribuendo il deciso carattere antidemocratico dei suoi atti proprio all'esigenza di rassicurare il granduca e convincerlo a non prendere le misure illiberali che poi di fatto egli aveva assunto. In questo senso il C. aveva effettivamente operato, ma la fragilità del discorso, ancor più evidente nel 1853, dopo che Leopoldo II era tornato da monarca assoluto e il Guerrazzi, esiliato a Bastia, attirava crescenti simpatie, spiega l'imbarazzo dei moderati, in un primo momento sfavorevoli alla pubblicazione del libro - che solo blandamente fu osteggiato dalla censura - nonché lo scarso successo di vendite e infine le furenti annotazioni a margine che il Guerrazzi stese più tardi su di una copia oggi di proprietà della Biblioteca nazionale di Firenze (segnalata da A. Sapori, Il conte L. G. De C. D. e il Guerrazzi, in F. D. Guerrazzi. Studi e documenti, Firenze 1924, pp. 89-97).

Tornato ad essere priore di Firenze e gonfaloniere di San Piero a Sieve, una carica che la sua famiglia mantenne per circa mezzo secolo, il C. conservò negli anni successivi idee liberali nell'ambito della fedeltà al granduca, ma si dedicò soprattutto agli studi e alle pratiche agrarie sui suoi terreni in Mugello. In alcuni suoi interventi sul Giornale agrario toscano e all'Accademia dei Georgofili, alla quale era stato definitivamente ammesso nel 1848, riferì e discusse esperimenti per incrementare le rese unitarie dei suoi poderi senza impoverire i terreni, per studiare i migliori assetti culturali, o per tentare nuovi investimenti, come la fondazione nella sua tenuta di Schifanoia presso San Piero a Sieve di una fabbrica per la costruzione di strumenti e macchine agricole.

Certo incoraggiate dal riflusso dalla politica che accompagnò l'ultima restaurazione e favorite da una feconda tradizione sperimentale, le pratiche agricole del C. avevano però anche un esplicito significato sociale, poiché era maturata in lui la certezza, destinata a non abbandonarlo più, che nei moti politici di quei tempi "l'opera della civiltà [fosse] minacciata dall'insorgere improvviso di una indigena barbarie" (Cennisui pericoli sociali in Toscana, memoria letta all'Accademia dei Georgofili il 7 genn. 1849) e che alla crisi vasta e profonda che scuoteva le campagne (da lui ricondotta allora soprattutto a cause demografiche) occorresse rispondere sì con l'incremento della produzione, ma, soprattutto, con il rafforzamento degli assetti agricoli tradizionali. Entrando dunque nel dibattito sulla mezzadria da tempo condotto dall'Accademia e dal Giornale agrario, prese posizione contro chi considerava ormai inconciliabile la colonìa con le innovazioni, e difese, più che l'innovazione in se stessa, il potenziamento del patto colonico mezzadrile mediante un oculato equilibrio tra investimenti e iniziative imprenditoriali da un lato, diffusione dell'istruzione popolare e partecipazione del colono agli utili e ai costi delle innovazioni dall'altro.

Tornò presto anche il tempo della politica, e il C. riprese il suo posto accanto ai liberali più moderati che fino all'ultimo tentarono di salvare la dinastia convincendo Leopoldo II a concedere le riforme e, nell'aprile 1859, ad aderire all'alleanza franco-sarda. Partito che fu il granduca, e agli inizi di maggio dovendo il commissario sardo C. Bon Compagni formare un governo, il nome del C., dapprima prescelto per il dicastero delle Finanze, fu poi depennato perché il ricordo della prigionia del Guerrazzi lo rendeva ancora impopolare (cfr., tra gli altri, E. Poggi, I, p. 11). Incluso nella Consulta nominata dal governo provvisorio, ebbe quindi l'incarico di patrocinare a Londra la causa toscana. Ma, giunto a Torino dove si fermò per avere istruzioni dal governo sardo, vari avvenimenti, tra i quali lo sbarco di truppe francesi in Toscana, avevano convinto il Cavour dell'opportunità che la Toscana manifestasse a favore dell'annessione al Piemonte evitando ulteriori iniziative autonome, come sarebbe stata la missione del C. a Londra, "che manifestamente non gli piaceva perché non voleva né vuole diplomazia Toscana", come riferì lo stesso C. al Ricasoli il 28 maggio (in Carteggio politico..., p. 47).

Si trattenne quindi a Torino senza precise funzioni ma riuscendo a tessere una buona trama di relazioni presso il governo e la corte da un lato e gli ambienti moderati toscani dall'altro, dei quali era minuziosamente informato anche dalla moglie, che di nuovo in questa occasione si dimostrò un'abile interlocutrice. Il carteggio di questi mesi fu poi raccolto in due volumi (Carteggio del conte sen. G. L. DeC.-D. e della contessa Virginia nata Tolomei-Biffi sua consorte dal 16maggio al 13 luglio 1859, a cura di G. Baccini, Firenze 1910, Carteggio politico di L. G. De C. D., aprile-novembre 1859, a cura della figlia Marianna e di G. Baccini, pref. di G. Finali, Milano 1913).

Personalmente contrario, come molti moderati toscani, a una dichiarazione di annessione immediata - che Torino paventava del pari e aveva sollecitato solo per motivi contingenti allarmando tuttavia i Toscani -, il C. fu presto conquistato alle direttive del Cavour e si adoperò per fugare i reciproci sospetti che in quei mesi dividevano gli ambienti torinesi e fiorentini sul tema dell'annessione, che ora erano i Toscani a volere e Torino a sconsigliare. Sostenne quindi la causa di un più stretto coordinamento nell'ambito del protettorato e, riprendendo un motivo del '48-'49che illumina anche le sue future concezioni sul decentramento, suggerì che si ricorresse ai municipi - cioè ai maggiori comuni cittadini, dove predominava la nobiltà liberale - per "far pronunziare al Paese il voto di unirsi all'Alta Italia, senza che il Governo ne pigliasse l'iniziativa, senza che si parlasse di Unità Italiana, ma altresì senza tumulti..." (Carteggiopolitico..., p. 93).

Giunta la crisi di Villafranca, tornò a Firenze a metà luglio per assumere l'ufficio di soprintendente alle Possessioni di Stato, carica conferitagli nella prospettiva del vasto movimento economico che sarebbe sorto dalla vendita di quei beni. Eletto il 7 ag. 1859 all'Assemblea toscana, nominato senatore il 23 marzo 1860, quindi all'indomani dell'annessione, e divenuto sei mesi più tardi amministratore della Lista civile e dell'Azienda di Casa reale - carica che dimostrò la fiducia concessagli dalla nuova casa regnante e gli riserbò la stretta intimità di Vittorio Emanuele II, il C. si avviava così a svolgere nella vita politica nazionale il ruolo che l'alto censo, la fama di moderato ed estesi contatti politici ormai gli garantivano.

Negli anni successivi la vicenda del C. testimonia esemplarmente quell'evoluzione del costume e degli interessi che inserisce molti nobili rentiers toscani - l'antico gruppo di liberali moderati ora divenuti "consorti" - nel clima unitario, nel quale essi portano norme di comportamento e concezioni politiche conservatrici proprie di una solida aristocrazia terriera e insieme una spregiudicata adesione alle moderne speculazioni finanziarie. I rapporti del C. con rappresentanti della finanza italiana e straniera, già testimoniati dalla corrispondenza torinese del 1859 nella parte relativa alle trattative con la casa Rothschild e P. Bastogi per l'emissione di un prestito toscano. si sviluppano più diffusamente negli anni seguenti, e in particolare dopo il trasferimento della capitale a Firenze, quando il C., nominato ultimo gonfaloniere e primo sindaco della città, sovrintende al fervore edilizio dei piani Poggi e nella disputa sugli appalti e concessioni di lavori pubblici sostiene i gruppi finanziari ai quali egli stesso, o influenti persone a lui vicine come l'amico Peruzzi sono più direttamente legati.

Nella preferenza concessa in particolare a società anglo-italiane, come la Anglo-Italian Bank e la derivata Florence Land and Public Works Limited, è manifesta la sua adesione alla battaglia per indebolire le partecipazioni del capitale francese concorrente, in particolare dei Rothschild, alle grosse imprese di quegli anni. Con l'intervento di istituti maggiori, quali la Banca nazionale toscana, della quale il C. assumerà la presidenza nel 1872, o il forte Istituto di credito mobiliare, questo disegno acquista poi più vasto respiro, cosicché l'interesse speculativo dei singoli istituti tende a confondersi nel più generale progetto di potenziamento della finanza nazionale e del bilancio statale che gli uomini di governo tornano a proporsi con urgenza particolare dopo la guerra e la crisi del '66e l'introduzione del corso forzoso della moneta.

In questa circostanza il C. si trova ad avere particolare rilievo politico oltre che finanziario. Estraneo alle più recenti vicissitudini politiche che costringono al ritiro o rendono impopolari i più noti esponenti del gruppo, egli è divenuto capo virtuale della Destra toscana, ne ispira dal '66 anche un giornale, la Gazzetta d'Italia, e ne guida quindi l'ascesa al governo. Ciò avviene quando le divisioni interne ai due partiti storici danno un peso particolare alla corte nella formazione, il 27 ott. 1867, del ministero Menabrea, nel quale il C. è chiamato ad assumere una posizione di supremazia con il dicastero di Agricoltura, Industria e Commercio che però lascerà l'8 dicembre, e con quello delle Finanze, dal quale caratterizzerà per un biennio tutta l'azione del governo, fino al 19 nov. 1869, quando questo rassegnerà le dimissioni in seguito all'esito della discussione sulla convenzione per la Regia dei tabacchi.

Nel programma finanziario esposto dal C. alla Camera il 20 genn. 1868erano riprese e organicamente collegate molte proposte avanzate dai predecessori e non giunte in votazione. Dichiarandosi convinto che lo stato delle finanze italiane era gravissimo, il C. riteneva necessario, più che far fronte alla situazione del Tesoro, mirare al definitivo risanamento del credito pubblico mediante una radicale riduzione del disavanzo alla quale avrebbe tenuto seguito l'abolizione del corso forzoso. Con questo obiettivo, gli pareva innanzi tutto inevitabile ricorrere a nuovi tributi, e in particolare all'impopolare tassa sulla macinazione dei cereali che, già proposta da Q. Sella ed ora di fronte alle Camere in un nuovo disegno di F. Ferrara, il C. condusse in porto attraverso una lunga e accesa discussione parlamentare svoltasi tra il marzo e l'aprile.

Difendendo la tassa con l'appello alle imperiose necessità finanziarie del momento, egli dimostrava forse di sottovalutare le conseguenze sociali denunciate dagli avversari di sinistra. La situazione delle campagne toscane non annunciava i tumulti che nel gennaio del '69, al momento dell'applicazione, scoppiarono in altre province; ma la durezza con cui fu allora applicata una politica di repressione militare, seguita dallo stesso C. giorno per giorno, rimase a contrassegnare la coerenza capitalistica di tutta una concezione politica e finanziaria.

Nel suo programma, oltre alla modifica di imposte minori, il C. aveva poi posto una serie di provvedimenti volti al riordino dell'amministrazione finanziaria - che avrebbe dovuto acquistare uniformità ed efficienza senza che ne fosse indebolito il controllo dal centro - e consentire nuove economie di gestione. Si trattava di progetti aderenti a un classico disegno liberale di decentramento burocratico, destinato, allora come in futuro, a suscitare notevoli resistenze di ordine politico. L'unico importante successo fu quindi ottenuto dal C. con la legge 22 apr. 1869 Sull'amministrazione del patrimonio dello Stato e sulla contabilità, con la quale fu costituita la ragioneria centrale presso il ministero delle Finanze e le ragionerie speciali presso ogni ministero, così distinguendo il controllo amministrativo da quello costituzionale, che restava alla Corte dei conti; fu definita inoltre la durata degli esercizi, per la prima volta stabilita la struttura dei bilanci e distinto il bilancio di prima e di definitiva previsione.

Benché la legge costituisca una tappa importante nella storia degli ordinamenti finanziari dello Stato, essa fu frequente oggetto di critiche già all'atto della sua applicazione, alla quale presiedette il successore del C., e suo maggior critico, Q. Sella. Per rispondere ai rilievi mossigli, il C. volle precisare i criteri ispiratori della legge scrivendo un saggio, Della contabilità dello Stato e dei bilanci, pubblicato sulla Nuova Antologia (aprile-giugno 1872, pp. 875-889, 126-138, 365-387) sotto forma di tre "Lettere" indirizzate ad A. Scialoia.

Non conclusero invece l'iter legislativo quei progetti che direttamente incidevano sul rapporto tra centro amministrativo e periferia, come quello Sulriparto e l'esazione delle imposte dirette, che sarebbero state riordinate con criteri uniformi su base comunale com'era nel sistema toscano, o l'altro, confluito nel progetto Cadorna sul Riordinamento dell'amministrazione centrale, che avrebbe ampliato le deleghe governative ai prefetti e concentrato nelle Intendenze di finanza tutti gli uffici finanziari provinciali. Proprio le scarse concessioni di questo disegno di legge alle tesi decentratrici resero vani i contatti presi in quell'occasione dal ministero con alcuni gruppi politici dei quali si ricercava l'appoggio, il Terzo partito e la Permanente di G. Ponza di San Martino, notoriamente favorevoli a una linea di decentramento istituzionale alla quale lo stesso C. parve in seguito accostarsi.

Benché, mutilo della parte riguardante le riforme amministrative, il programma del C. perdesse gran parte della sua organicità e finisse con l'attrarre una crescente opposizione ai singoli suoi punti, esso fu tuttavia la base del futuro risanamento del bilancio. Ma oltre alla scelta fiscale il C. ritenne necessario il ricorso al capitale privato, seguendo la via, già ben nota in quel primo decennio unitario e coerente con una visione integralmente privatistica delle attività economiche, della alienazione o concessione in appalto di risorse pubbliche. Dette quindi massimo impulso alla vendita dei beni ecclesiastici sancita con le leggi del 1866 e 1867, e nella primavera del 1869 propose di concederne l'esclusiva alla Società dei beni demaniali in cambio di un'anticipazione di 300 milioni.

Ma il principale e più discusso provvedimento fu la concessione per 15 anni della privativa della fabbricazione dei tabacchi a una società che anticipò allo Stato 180 milioni di lire oro da ottenersi mediante, l'emissione di obbligazioni garantite dallo Stato. La convenzione, stipulata dal C. con i rappresentanti di vari istituti, il più forte dei quali era il Credito mobiliare italiano, fu approvata dal Parlamento nell'agosto 1868, rivelatasi in seguito utile alle finanze dello Stato ma soprattutto eccezionalmente lucrosa per i capitali investiti, essa era stata oggetto di complesse trattative nelle quali il C., attivamente sostenuto dalla stampa e dai notabili toscani, si rivelò "spregiudicato e audace gestore del denaro pubblico" (E. Ragionieri, p. 141), riuscendo da un lato a favorire il gruppo di D. Balduino, dall'altro a non scontentare la finanza estera, alla quale fu infine riservata nell'affare una quota modesta, inferiore ai 40 milioni.

Ulteriori iniziative dello stesso tipo propose alla Camera il 20 apr. 1869, allorché, giudicando avviato a soluzione il problema del disavanzo, presentò un piano per l'abolizione del corso forzoso comprendente, oltre alla citata convenzione sui beni ecclesiastici, una seconda convenzione con la Banca nazionale, con facoltà al Banco di Napoli di accedervi, che avrebbe affidato a tali istituti il servizio di tesoreria, un progetto di fusione della Banca toscana con la Banca nazionale, e infine un prestito obbligatorio di 320 milioni.

Prima che alla futura e incerta abolizione del corso forzoso si sarebbe così giunti a sancire, con grande vantaggio della Banca nazionale - alle cui fortune il C. era particolarmente interessato, dipendendovi tra l'altro la sorte della Banca toscana -, il predominio di fatto già goduto dal maggior gruppo finanziario italiano, in tal senso risolvendo anche la complessa questione della pluralità delle banche di emissione, che invece i principi liberisti e la molteplicità degli interessi suggerivano di salvaguardare, sia pure al prezzo del disordine che caratterizzava il servizio. Il progetto fu quindi accolto con sfavore e sospetto, tanto più che l'opposizione aveva nel frattempo portato alla Camera le voci di corruzione che circolavano sull'affare della Regia dei tabacchi.

A poco valsero perciò le trattative aperte dal governo, e per esso condotte dal C., con i gruppi della Destra e del Terzo partito e che portarono in maggio all'ingresso nel ministero di M. Minghetti, M. Ferraris, A. Mordini e A. Bargoni. In giugno la giunta della Camera incaricata di esaminare le convenzioni si espresse in termini duramente negativi; nella relazione riassuntiva F. Ferrara scrisse di trovarvi "una esuberanza di patti esclusivamente favorevoli agli interessi della Banca, e senza corrispettivo in favore del Tesoro nazionale". Di fronte alla prospettiva di "abdicare in mano ad un gruppo di ricchi capitalisti, la miglior parte della pubblica autorità", il Ferrara invitava la Camera a respingere il "grave pericolo alle libertà del paese".

Benché la commissione d'inchiesta nel frattempo costituita per indagare sulla convenzione per la Regia non fosse giunta ad individuare precisi casi di corruzione personale, il clamore suscitato dalla vicenda mescolandosi allo scontento per la politica repressiva del ministero fornì nuovo alimento alle opposizioni e il 19 nov. 1869 portò a un voto largamente sfavorevole al ministero, che il giorno stesso rassegnò le dimissioni.

Il nome del C., che non comparve più tra gli uomini di governo, rimase legato alla tassa sul macinato e alla Regia dei tabacchi, due momenti principali del consolidamento delle strutture finanziarie dello Stato, e insieme di un capitale speculativo ancora estraneo agli investimenti industriali. Conforme a questa fase storica, e agli interessi che vi prosperarono, rimase a lungo anche la concezione politica del C., contribuendo a delinearla, accanto alla diretta pratica finanziaria, il costante riferimento alla proprietà terriera, l'accentuato conservatorismo sociale e la sempre dichiarata convinzione liberista.

Vicepresidente del Senato negli anni 1871-72, da allora e per trentatré anni membro della Commissione permanente di finanza e fino alla fine del secolo puntuale relatore dei bilanci e di molti provvedimenti finanziari, nella vita politica il C. amò mantenere funzioni di mediatore che raramente lo allontanarono dai circoli governativi e gliene tolsero il favore. Intimo del Minghetti, ne sostenne il ministero, del 1873-1876 e come presidente della Banca nazionale toscana condusse le trattative tra governo e rappresentanti delle banche perché giungesse in porto la legge sulla circolazione bancaria del '74, che consolidò la pluralità degli istituti di emissione senza però minacciare la supremazia goduta dalla Banca nazionale. La sua gestione della Banca nazionale toscana non si concluse peraltro felicemente; falliti i progetti di fusione con la Banca nazionale, il corso delle azioni ebbe in seguito a peggiorare, probabilmente coinvolgendo la stessa privata fortuna del C., che nel '78 lasciò la presidenza e non risulta da allora interessato a grossi investimenti finanziari.

L'enunciazione di dottrine liberistiche, che sempre più caratterizzò le sue prese di posizione, continuò comunque ad accordarsi con gli interessi da cui traeva origine. Socio fondatore nel 1874 della fiorentina Società Adamo Smith, egli aveva aderito, con il gruppo toscano, alla battaglia contro le dottrine "socialiste della cattedra" di marca germanica, trovandosi ancora una volta al seguito di U. Peruzzi, ora sindaco di Firenze e capo della consorteria, nonché difensore delle Ferrovie Meridionali nella lotta contro lo statalismo ferroviario del Minghetti e del Sella. Non lo seguì tuttavia fino al punto di trasformare la battaglia per i principi liberistici in una alleanza politica con la Sinistra, che egli dichiarava di temere ora come ai tempi del Guerrazzi. Sconsigliò quindi agli amici quella alleanza e non li seguì nella dissidenza che portò alla "rivoluzione parlamentare" del 18 marzo 1876.

Sotto il governo della Sinistra, gli interventi del C. in materia finanziaria furono sempre improntati alla difesa tecnica del pareggio del bilancio. Quando ad esempio fu proposta, e poi votata, l'abolizione della tassa sul macinato, egli vi si oppose per motivi di bilancio, e sostenne la tesi con i risultati di un suo breve studio Sulle condizioni finanziarie del Regno d'Italia alla fine del 1878, edito a Firenze nel '79, con il quale intese offrire una riprova contabile dell'avanzo effettivo raggiunto al 1876 e del graduale peggioramento della situazione nei bilanci successivi. Spesso insistendo sulla necessità di una chiara tenuta dei bilanci, quale era stata possibile a partire dalla sua legge del '69, egli auspicava che si operasse una corretta distinzione tra bilancio di competenza e movimento patrimoniale; tema, quest'ultimo, che riferito particolarmente alle spese ferroviarie negli anni successivi fu ripreso dalla Destra e poi dai dissidenti della maggioranza con contenuto sempre più polemico verso la finanza "trasformistica" e le pretese sue mampolazioni contabili volte a nascondere il crescente disavanzo. Ma di quella politica finanziaria il C. aveva nel frattempo apprezzato i vantaggi, specialmente con le convenzioni ferroviarie e l'espansione creditizia seguita all'abolizione del corso forzoso, e quindi ne assunse la difesa di fronte ai detrattori di A. Magliani. Nell'esposizione finanziaria da lui svolta il 17 dic. 1884 in Senato, pubbl. sulla Nuova Antol. il16 genn. 1885 (pp. 294-323) e poi sulla stessa rivista il 16 febbraio dell'anno successivo in un articolo su La situazione della finanza italiana nel gennaio 1886 (pp. 718-740), giudicò che l'ardita politica di espansione della spesa pubblica degli ultimi anni era contenuta entro i confini di una sana gestione del bilancio e quindi non turbava l'attività economica.

Questa classica concezione dell'equilibrio contabile come indice di vitalità economica e quindi la preoccupazione che un indebitamento interno troppo elevato o una eccessiva pressione fiscale inaridissero alle sorgenti l'economia del paese fu messa a dura prova negli anni seguenti, dal crescente dissesto finanziario. Ma allora il C. attribuì la responsabilità della crisi alla politica protezionistica, e soprattutto al dazio sui cereali.

In vari scritti e discorsi (all'Accademia dei Georgofili l'8 febbr. 1885 e poi ancora nel settembre; in Senato il 30 aprile di quell'anno, discutendosi l'interpellanza Jacini; sulla Nuova Antol., 16 maggio 1887, con un articolo su Il dazio sul grano, pp. 329-346) egli negò che la crisi agraria fosse fenomeno ovunque diffuso e irreversibile, e di contro alle richieste di protezione sollecitò, sulle orme di F. Lampertico e di S. Jacini, uno sforzo per incrementare la produzione e le rese unitarie, restringere la superficie a grano e diversificare le culture favorendo il pascolo, potenziando la cultura della vite, dell'olivo e degli ortaggi, recando insomma ad esempio la realtà di alcune zone della Toscana dove la crisi era meno acuta, nonché la sua personale esperienza di imprenditore agricolo. Tale dichiarato empirismo egli metteva però al servizio di una rigida coerenza liberista e liberale che lo portava a denunciare l'intervento protettivo dello Stato come rovinoso abbandono della tradizione cavouriana, quindi minaccia ai progressi economici con essa realizzati dal paese e infine pericolosa concessione alle dottrine socialistiche.

Tali argomentazioni, benché non gli impedissero di presiedere una Commissione reale d'inchiesta sulla riforma della tariffa doganale, di votare nel luglio 1887 la tariffa - intesa come provvisoria premessa ai trattati commerciali - e poi sempre di accogliere, come relatore al Senato, i successivi aumenti del dazio, lo condussero a frequenti scontri con Alessandro Rossi, di cui finì col divenire il puntuale contraddittore in Senato. In effetti radicalmente opposta a quella del Rossi, la sua concezione ambiva a eguagliarne il vasto respiro teorico e politico, ma proprio su questo terreno si rivelava, e ancor più si rivela oggi agli storici, scarsamente fondata e penetrante. Tacciando gli avversari di anacronismo mercantilistico, contrapponeva infatti a Isofismi economici vecchi tornati in vigore nelle generazioni nuove (così intitolò un saggio comparso sulla Nuova Antologia il1º e 16 settembre del 1889, pp. 136-157, 286-307) una scolastica riproposta dei postulati dell'economia classica, che erano ancor più validi, egli sosteneva, in un'epoca di illimitata espansione dei traffici e della produzione, premessa di nuovo benessere internazionale e di definitiva vittoria sui problemi sociali. Venendo quindi a ragionare di commercio internazionale, ed anche qui volendo impartire una lezione al Rossi con un articolo su La bilancia del commercio e le discussioni parlamentari pubblicato sulla Nuova Antologia del 16 apr. 1888, pp. 643-665 (al quale il Rossi rispose con un opuscolo, La bilancia del commercio e il senatore C.-D., Firenze 1888, che provocò una replica del C. all'assemblea dei Georgofili il 6 genn. 1889), egli affermava che solo la miopia teorica dei protezionisti poteva farli preoccupare della costante passività della bilancia commerciale italiana e condurli per questo a sostenere i dazi, causa di una ben più allarmante diminuzione del valore cornplessivo dello scambio con l'estero. Il C. comunque non concludeva queste polemiche chiedendo l'immediata abolizione dei dazi, ma solo una loro graduale diminuzione, da compensarsi con il ripristino della tassa sul macinato, che a suo dire non avrebbe avuto sull'attività economica l'effetto deprimente che egli attribuiva ai dazi. La sua polemica, di alta dottrina, si riduceva quindi ad alcuni aspetti tecnici, tradizionalmente basati sulla distinzione tra effetti fiscali ed effetti economici dei dazi, e soprattutto evitava di coinvolgere gli ambienti governativi, dei quali egli manteneva il favore; riceveva infatti un assegno come presidente della Giunta superiore del catasto, e il suo nome comparve poi nel famoso "plico Giolitti" tra gli uomini politici che avevano effetti in rinnovazione presso la Banca romana.

La costante vocazione governativa del C. lo distingueva dalle più coerenti figure della battaglia liberista di quegli anni, accanto alle quali continuò comunque a militare, tra l'altro come socio promotore della Associazione economica liberale italiana sorta a Roma nel 1892. Proprio in quell'anno egli unì la sua voce al coro di sdegno levatosi in Italia per la pubblicazione sulla Revue des Deux Mondes del severo articolo di V. Pareto, L'Italie économique, e ne scrisse uno dallo stesso titolo destinato a offrire sulla stessa rivista un giudizio più benevolo della realtà italiana; respinto dalla rivista francese per intervento dello stesso Pareto, l'articolo comparve poi sulla NuovaAntologia del 1º giugno 1892 (pp. 444-472).

Gli intellettuali liberisti e gli avversari come il Rossi lo consideravano dunque un dilettante di economia, potente sostenitore di privati interessi. In effetti egli era ormai da trent'anni un notabile esperto di trattative politiche e un organizzatore incontrastato degli interessi conservatori in Toscana. Fondatore nel 1882, e da allora presidente, della associazione monarchica "Re, Patria, Libertà e Progresso", che fu un rilevante punto di riferimento dei moderati fiorentini, il C. dominava l'organizzazione elettorale della Destra affiancato dal figlio Tommaso, che dal 1886 sostenne alla Camera le sue stesse posizioni politiche, in quello scorcio di secolo inclini a una certa fermezza nazionalistica e soprattutto a un intransigente autoritarismo.

Convinto sostenitore del Crispi, in particolare di fronte ai Fasci siciliani, che tornarono a evocare in lui lo spettro del '49, tentò nel 1895 una enunciazione teorica della propria avversione al socialismo proponendo all'Accademia dei Georgofili un dibattito su Ilcapitale, la sua origine, i suoi effetti economici (9 giugno) e su Capitale e lavoro (11 agosto). Alle pur timide aperture sociali di alcuni accademici replicò poi con una nuova memoria, Socialismo, il 6 febbr. 1896. Ma drasticamente considerando le dottrine socialiste, al pari di quelle protezioniste, come eversive delle "leggi naturali, eterne e immutabili" dell'economia, egli mostrava come il suo liberismo si esaurisse ormai nell'elogio dei rapporti sociali patriarcali che vedeva ancora perfettamente espressi nel patto mezzadrile, "combinazione questa - aveva detto nell'85 - che interessa una intera classe operaia alla conservazione dell'ordine sociale, e vince in efficacia tutte le novità che i moderni socialisti hanno saputo immaginare".

Così tradotto nei suoi termini sociali, il liberismo cerealicolo del C., quale fu ripreso nella crisi di fine secolo, divenne momento di coesione propagandistica di un ceto conservatore reclamante la repressione del movimento operaio. Con tutto il peso della sua autorità politica (proprio nel marzo del 1898 divenne anche vicepresidente dell'Accademia dei Georgofili), il C. fu alla testa della corrente di opinione che nel '98 ottenne lo stato d'assedio in Toscana e lo scioglimento delle organizzazioni popolari e l'anno successivo si raccolse attorno alle associazioni monarchiche per sostenere, in un'ultima dimostrazione di solidarietà reazionaria, i disegni di legge Pelloux.

Mentre l'agricoltura toscana rimaneva esclusa dal moto economico del nuovo secolo e i suoi rappresentanti si volgevano alla nostalgia del passato, il sopraggiungere del nuovo corso giolittiano doveva scompaginare anche le loro file. Il momento del ritiro dalla vita politica attiva fu segnato per il C. dalla prematura scomparsa del figlio Tommaso, nel 1901. Morì a Firenze l'11 dic. 1906.

Due anni più tardi, il 24 febbr. 1909, morì anche la moglie Virginia.

Dei loro tre figli sopravviveva soltanto la terzogenita, Marianna, nata il 17 maggio 1854. Luigi, nato il 12 maggio 1843, uscito nel 1863 dall'Accademia militare di Torino, luogotenente nel reggimento Novara Cavalleria nel '66, era morto a Pisa nel giugno 1869 per una malattia infettiva contratta durante la campagna contro il brigantaggio. Tommaso, nato il 23 gennaio del 1845 a Firenze, dopo gli studi al liceo militare di Firenze si era laureato nel 1865 a Pisa in scienze politico-amministrative e nel 1867, dopo una breve partecipazione alla campagna del '66, in scienze giuridiche. Dedicatosi alla carriera forense, inizialmente accompagnata da una occasionale attività letteraria, entrò presto nella vita politica sulla scia del padre, dalle cui posizioni politiche non si discostò mai. Dal 30 nov. 1884 anch'egli socio dell'Accademia dei Georgofili, a lungo, come il padre, consigliere e sindaco del municipio di San Piero a Sieve, nel 1886 fu eletto deputato nel I collegio di Firenze che lo confermò in tutte le elezioni successive.

Schieratosi con la maggioranza crispina, mantenne posizioni nettamente conservatrici. Membro e relatore nel 1895 della commissione che doveva pronunciarsi sull'autorità competente a giudicare Giolitti per imputazioni connesse alla presentazione del "plico" di documenti sulla Banca romana, fu ostile a Giolitti, oltre che per fedeltà a Crispi, probabilmente anche perché il nome del padre e il suo figuravano nei documenti presentati da Giolitti. Nella crisi di fine secolo appoggiò la politica illiberale di Pelloux e il 21 marzo 1900 suscitò scalpore con la presentazione alla Camera di una mozione sul regolamento che avrebbe gravemente colpito la libertà di espressione parlamentare. Il gesto rappresentò l'estremo tentativo reazionario di spezzare la crescente opposizione alla politica illiberale del ministero. Con esso doveva chiudere la sua attività politica, perché il 3 genn. 1901 morì di rapida malattia a San Piero a Sieve.

Fonti e Bibl.: Oltre le Carte conservate presso la Bibl. Marucelliana di Firenze, essenziali sono i documenti ed i ricchi carteggi conservati alla Biblioteca nazionale di Firenze, da completare con le corrispondenze dei maggiori esponenti moderati. Per il periodo risorgimentale cfr. A. Gori, Storia della rivoluzione ital. durante il periodo delle riforme (1846-14 marzo 1848), Firenze 1897, p. 195; R. Ciampini, G. P. Vieusseux..., Torino 1953, pp. 434-438; E. Poggi, Mem. stor. del Governo della Toscana nel 1859-60, Pisa 1867, I, pp. 10 s., 37, 73 s., 127, 217, 267, 269, 391; II, pp. 181, 271; III, pp. 4, 12 s., 79; A. Savelli, L. Romanelli e la Toscana del suo tempo, Firenze 1941, ad Indicem. Della missione a Torino è testimonianza in molte memorie ed epistolari dell'epoca; soprattutto nei due del C. citati, mentre di un terzo vol., che non risulta poi edito, dà notizia F. Giunta, Dei carteggi politici e familiari di L. G. De C.-D. (1859-1879), in Nuova Antologia, 16 giugno 19143 pp. 577-598. Il Carteggio politico contiene anche un discorso commemorativo su Il conte L.G.C.D. di G. Finali, pubblicato anche sulla Nuova Antologia, 16 apr. 1908, pp. 597-605. Circa le pratiche agrarie del C. si veda della R. Accademia dei Georgofili il Catalogo delle Memorie e comunicazioni scientifiche contenute negli atti accademici a tutto il 1933, Firenze 1934, pp. 37 s.; B. Farolfi, Strumenti e pratiche agrarie in Toscana dall'età napol. all'Unità, Milano 1969, p. 65; C. Pazzagli, L'agric. toscana nella prima metà dell'800, Firenze 1973, ad Indicem; La mezzadria negli scritti dei Georgofili, I, Firenze 1934, contiene alle pp. 212-233 uno scritto del C. comparso sul Giornale agrario toscano nel 1859.

Scarse sono le testimonianze sul C. nei pochi studi esistenti su Firenze capitale. Per un quadro generale del periodo si veda E. Sestan, La Destra toscana, in Rass. stor. toscana, VII (1961), pp. 217-236; E. Ragionieri, Imoderati toscani e la classe dirigente italiana negli anni di Firenze capitale, in Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Bari 1967, pp. 131-148. E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale in Italia, Roma 1966, suggerisce una interpretazione dell'attività finanziaria del C., per la quale, più specificamente, cfr. P. R. Coppini, L. G. de C. D. tra affarismo e politica (1865-1869), in Rass. stor. del Risorg., LVII (1970), pp. 191-225. Per le vicende finanziarie del ministero Menabrea cfr. A. Plebano, Storia della finanza ital. nei primi quarant'anni dell'unificazione, Padova 1960, I, pp. 163-206. Le due principali esposizioni finanziarie del C. sono parzialmente riprodotte da L. Izzo, La finanza pubblica nel primo decennio dell'Unità italiana, Milano 1962, pp. 403 ss. Fatti e documenti essenziali sullo scandalo della Regia sono raccolti in Storia del Parlamento italiano, XVIII, Inchieste politiche, a cura di D. Novacco, Palermo 1964, mentre il vol. VI, Dalla convenzione di settembre alla breccia di porta Pia, a cura di G. Sardo, Palermo 1969, riassume alle pp. 209-309 le vicende dei ministeri Menabrea, che più efficacemente sono descritte da G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, V, Milano 1968, pp. 334-351. Di A. Berselli, La Destra storica dopo l'Unità, II, Italia legale e Italia reale, Bologna 1965, cfr. le pp. 10-31 per il progetto amministrativo Cadorna, e le pp. 251 ss. per la partecipazione del C. alla legge bancaria del '74, sulla quale cfr. anche L. Luzzatti, Memorie, I, Bologna 1931, pp. 370 s.

Per la posizione del C. nel gruppo toscano si veda A. Salvestrini, Imoderati toscani e la classe dirigente italiana (1859-1876), Firenze 1965, passim. Per il periodo successivo scarse notizie in D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Roma 1962, ad Indicem;G.Carocci, A. Depretis e la politica interna italiana dal 1876al 1887, Torino 1956, ad Indicem. Per tutta la battaglia liberista del C. cfr., di V. Pareto, Cronache italiane, Brescia 1965, p. 232, e Lettere a M. Pantaleoni..., a cura di G. De Rosa, Roma 1960, I, ad Indicem;A. De Viti De Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma s.d., pp. XIV, 59 s.; T. G. Monaco, L'Italia economica (Pareto e De C.-D.), in Riv. internaz. di scienze econ. e comm., XI (1964), pp. 582-588; G. Are, Alla ricerca di una filosofia dell'industrializzazione nella cultura e nei programmi politici in Italia (1861-1915), in Nuova riv. stor., LIII (1969), pp. 74 ss. Per le implicazioni dei due Cambray Digny nell'affare della Banca romana si veda E. Vitale, La riforma degli istituti di emissione e gli "scandali bancari" in Italia, 1892-1896, I-III, Roma 1972, ad Indicem. Una descrizione esauriente del ruolo del C. alla fine del secolo è in C. Pinzani, La crisi politica di fine secolo in Toscana, Firenze 1963, passim;una ulteriore notizia sulla mozione di Tommaso Cambray Digny è in R. Colapietra, Il '98, Milano 1959, pp. 166 s.

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