CAPACITÀ GIURIDICA

Enciclopedia Italiana (1930)

CAPACITÀ GIURIDICA

Antonio AMBROSINI
Guido Zanobini

. È l'idoneità a essere soggetto di diritto, ossia persona in senso giuridico. Nel diritto moderno, ogni uomo è persona, ossia soggetto capace di diritti: ma ciò è il risultato di un lungo svolgimento storico poiché in passato, e parzialmente fin quasi a tempi recentissimi, la personalità umana subiva ingiuste e tiranniche restrizioni e limitazioni.

Nel diritto romano, oltre ai presupposti di fatto per essere persona in senso fisico, si richiedevano ancora dei presupposti giuridici: il possesso cioè dei tre stati: libertatis, civitatis, familiae. Solo l'uomo che era libero cittadino e sui iuris (ossia non sottoposto all'altrui potestas) aveva la piena capacità giuridica. Ma già dal diritto giustinianeo lo status civitatis e lo status familiae avevano perduto quasi ogni importanza. Solo lo status libertatis, per il perdurare, sia pure in forme diverse dalle antiche, della schiavitù, continuò ad avere importanza. Influirono ancora in epoche passate, quali cause limitatrici della capacità giuridica: la razza, la religione, i voti monastici e la professione.

Per il diritto moderno non vi possono essere restrizioni della capacità giuridica dell'uomo: essa si presume completa, salvo precise eccezioni determinate dall'ordinamento giuridico. Per il nostro diritto positivo tutti gli uomini sono liberi: nessuno può ridurre, sotto qualsiasi forma, altri in schiavitù (art. 145 cod. pen.); lo stato di cittadinanza e quello di famiglia, benché producenti ancora importanti effetti giuridici, non sono più presupposti della capacità giuridica. La nostra legislazione ha provveduto poi espressamente che i religiosi godano del pieno esercizio di tutti i diritti civili e politici (articoli 18, 22, disposizioni transitorie cod. civ.; articolo 2, legge 7 luglio 1866, n. 3096).

Ogni uomo, dunque, è persona; ma, giuridicamente, non è solo l'uomo ad avere capacità giuridica. La necessità infatti di unire, sia nel tempo che nello spazio, forze individuali per il conseguimento di scopi sociali, sorpassanti la volontà, il potere, l'esistenza d'un individuo, fa sorgere il concetto di una personalità astratta al di fuori dell'uomo; di un ente fittizio, che, come l'uomo, è dichiarato soggetto di diritti. Per rispondere a esigenze sempre più vaste e ideali, si personificano oggi enti immateriali in misura più che in antico. Questi enti giuridici prendono nome di persone giuridiche o fittizie, o morali, o mistithe (v. persona giuridica).

Dalla capacità giuridica in genere si deve distinguere la capacità di agire, ossia l'attitudine a compiere atti giuridici. Di solito capacità giuridica e capacità di agire si trovano riunite un ogni uomo. Ma ciò non è sempre: così l'uomo appena nato è subito soggetto di diritti, ma non ha capacità di agire, poiché questa esso consegue, di regola, dopo raggiunta la maggiore età. Varî sono i limiti della capacità di agire, e derivano principalmente da quelle che si sogliono chiamare cause modificatrici della personalità; tali limiti possono riguardare anche una sola facoltà, ad es. quella di alienare. L'incapacità di agire si distingue in naturale e legale: questa è l'incapacità, totale o parziale, prevista dalla legge e, generalmente, dichiarata nelle debite forme; l'altra si ha, anche indipendentemente da un'espressa disposizione di legge, quando, per immaturità del senno o infermità di mente, manchi del tutto il discernimento e il volere.

Coincidendo, nel diritto moderno, il concetto di uomo con quello di persona, ne segue che ogni uomo è soggetto di diritti, fin dalla sua esistenza, e indipendentemente dalla sua condizione sociale (dottrina dello status). Presupposti di fatto per l'esistenza della persona fisica sono che l'uomo sia nato, vivo e vitale.

La nascita presuppone la completa separazione dall'utero materno. Ma in quanto speranza di uomo il diritto protegge il nascituro per il caso che si converta in realtà, e quoties de eius commodo agatur (art. 721, n. I, cod. civ.). In un caso assolutamente eccezionale, anche il non concepito - ma probabile concepiendo - è preso in considerazione dal diritto (articolo 764 cap. cod. civ.). La vita si prova da chi vi abbia interesse, con perizie medico-legali e con testimonianze; gli antichi cercavano invece di desumerla da segni speciali. Se il feto non si è staccato vivo dall'utero materno, non si è avuto mai un uomo. La vitalità, ossia l'attitudine del nato a proseguire la vita fuori dell'utero materno, si argomenta dall'integrità degli organi e dalla decorrenza di un periodo minimo di gestazione uterina (180 giorni secondo il nostro codice, art. 160); la vitalità si presume sino a prova contraria, quando è dimostrata la vita (art. 724 c. civ.). Alcuni codici (tedesco, svizzero) non richiedono, opportunamente, questo terzo requisito della vitalità; requisito per altro non accertabile che con i mezzi della tecnica medica.

Come con la nascita ha inizio la personalità umana, così questa cessa con la morte; il morto non è più capace di diritti, come il non nato non lo è ancora. Qui s'intende parlare di morte naturale, perché la morte civile - finzione con cui si trattava come morto il condannato a lavori forzati a vita - non è più che un ricordo storico.

Chi pretenda diritti in conseguenza della morte di una data persona, deve provarla con l'atto di morte, desunto dai registri dello stato civile; in difetto di essi, con mezzi equipollenti. Quando sia dubbia la priorità della morte fra due o più persone, chi sostiene la morte anteriore di una di esse deve provarla; altrimenti si presumono tutte morte a un tempo (teoria della commorienza, art. 924 cod. civ.). Il nostro diritto ha escluse certe fallaci presunzioni di premorienza accolte dal codice Napoleone.

Può darsi che vi sia incertezza sull'attuale esistenza di una persona; sorge allora l'istituto dell'assenza. Diverso dall'assenza è l'istituto della scomparsa o dichiarazione giudiziale di morte presunta, applicabile a persone rimaste irreperibili dopo disastri collettivi (decr. legge 15 agosto 1919, n. 146).

La capacità giuridica e specialmente la capacita di agire dell'uomo possono subire limitazioni per effetto di quelle che vengono chiamate cause modificatrici della capacità giuridica, le quali sono: età, salute e condanna penale. Il sesso oggi ha minore importanza.

Il minore (si è tali secondo la nostra legge fino a ventun anno, articoli 240, 323 cod. civ.), pur essendo capace di diritti, non ha di regola capacità di agire. Per quegli atti poi che non ammettono la possibilità di rappresentanza (testamento, matrimonio) il minore manca completamente di capacità giuridica, che in questo caso coincide con la capacità di agire. Il minore può essere emancipato a 18 anni, e lo è di diritto col matrimonio (articoli 310-311 cod. civ.). Vi sono alcune malattie che, alterando le funzioni psichiche, producono, in misura maggiore o minore, una menomazione della volontà e quindi della capacità che quella presuppone. Le forme più gravi dànno luogo all'interdizione, per la quale il maggiore di età è sottoposto alla tutela; le meno gravi all'inabilitazione per cui egli deve essere assistito, in alcuni atti, dal curatore. Il diritto moderno ha lasciato sussistere poi alcune limitazioni della capacità come conseguenze della condanna penale. Nel campo del diritto privato, le limitazioni sono quelle dell'art. 33 cod. penale. La condanna all'ergastolo, o alla reclusione per più di cinque anni, porta seco, durante la pena, l'interdizione legale del condannato. La condanna all'ergastolo priva inoltre il condannato della patria potestà, dell'autorità maritale, della capacità di testare e rende nullo il testamento fatto prima della condanna.

La donna subisce gravi limitazioni della capacità giuridica nel campo del diritto pubblico (v. appresso). Nel campo del diritto privato, invece, la donna ha nel diritto odierno una capacità per nulla inferiore a quella dell'uomo; specie da noi dopo l'abolizione dell'autorizzazione maritale, (legge 17 luglio 1919, n. 1176). Il fallito subisce, nella nostra legislazione, limitazioni alla sua capacità (art. 699 cod. comm.). Per la capacità giuridica delle persone giuridiche, v. persona giuridica.

Diritto pubblico. - Per quanto il concetto di capacità sia unico e generale, esistono fra i due grandi campi del diritto delle differenze, che, per quanto non essenziali, devono essere messe in luce, sia pure restringendo l'argomento alla capacità delle sole persone fisiche (per le persone giuridiche, v. la voce corrispondente).

Un primo punto di differenza concerne la diversa importanza che ha nei due campi la distinzione fra la capacità di avere diritti e quella di esercitarli (capacità di agire). Contrariamente a ciò che avviene nel diritto privato, essa non trova, di regola, applicazione nel diritto pubblico: nel diritto pubblico, infatti, i rapporti sono strettamente personali, ed è naturale quindi che la capacità dei diritti sia attribuita solo a chi può personalmente esercitarli: la possibilità di separazione s'incontra nei rari casi in cui si tratta di diritti esclusivamente patrimoniali (es. il diritto a pensione spettante a un minore o a un interdetto).

Nel diritto pubblico le forme di capacità relativa sono molto più numerose che nel diritto privato: delle molte cause, che nel diritto pubblico influiscono sulla capacità, quasi nessuna vi influisce al punto di annullarla: tutte la limitano riguardo a questa o a quella categoria di diritti pubblici soggettivi, e l'assoluta incapacità è data soltanto dall'incapacità naturale. Nel diritto pubblico, oltre i requisiti personali che costituiscono vere condizioni di capacità, se ne trovano considerati molti altri, i quali con questa non hanno relazione, ma costituiscono condizioni necessarie per entrare in singoli e determinati rapporti: così, p. es., i limiti massimi di età stabiliti per concorrere ai pubblici impieghi, i titoli di studio richiesti per poter concorrere nei varî casi, le prove di specifica perizia per esercitare certe professioni. Prescrizioni simili mancano nel diritto privato per il principio della libertà delle contrattazioni; nel diritto pubblico sono invece molto comuni ed è importante tenerne conto e non confonderle con quelle relative alla capacità giuridica.

Mentre nel diritto privato la capacità delle persone è regolata da poche norme generali, che la disciplinano in modo completo per tutte le categorie di rapporti, nel diritto pubblico essa trova invece numerose norme, che la regolano diversamente e spesso incompletamente per i singoli rapporti. È possibile, perciò, che in alcune situazioni i requisiti di capacità non siano affatto determinati. In questi casi, l'analogia a cui bisogna ricorrere è quella di altre situazioni ancora di diritto pubblico e, in mancanza, varranno i principî generali che si possono trarre dalle norme particolari del medesimo. Alle norme del diritto privato si potrà ricorrere, solo quando si tratti di rapporti pubblicistici che, per il loro contenuto prevalentemente patrimoniale, presentano stretta analogia con quelli del diritto privato. Vi sono dei casi in cui le leggi di diritto pubblico si richiamano alla capacità di dititto privato, sia genericamente (godimento dei diritti civili) sia con riguardo a particolari istituti (l'interdizione, l'inabilitazione): ciò prova che talora il diritto pubblico assume come requisito di capacità per i suoi rapporti la capacità del diritto privato; e dimostra, d'altra parte, che, fuori di tali casi, non si può ritenere la stessa capacità civile fondamento o elemento di quella pubblicistica, ma che le due sono in generale indipendenti. In alcuni casi poi, nei quali è richiesta una data capacità di diritto privato, essa può costituire, più che un elemento o un requisito di quella pubblicistica, un semplice presupposto: tale, p. es., la capacità di obbligarsi, necessaria per ottenere certe autorizzazioni di polizia, il cui uso implica l'esercizio di un commercio o di altra attività regolata dal diritto privato.

Le cause che influiscono in modo vario sulla capacità di diritto pubblico sono le seguenti: la prima e più generale è la qualità di cittadino. Mentre la cittadinanza non è oggi condizione per il godimento dei diritti civili (art. 3 cod. civ.), è invece la base e il fondamento dei diritti pubblici soggettivi, almeno dei più caratteristici e importanti. Si comprende la ragione di tale differenza. I diritti privati sono concessi per la realizzazione di fini meramente individuali, mentre i diritti pubblici sono un riflesso dell'organizzazione dello stato, il quale assegna a ciascuno un compito, una serie di facoltà e di doveri, per il proseguimento dei suoi fini sociali: riferendosi l'organizzazione ai soli componenti lo stato, a essi soli si riferiscono quei diritti che della medesima sono effetto.

Dei diritti pubblici, però, alcuni sono più essenziali e più strettamente inerenti all'organizzazione, altri meno. Di qui una gradazione negli effetti della cittadinanza sulla capacità di diritto pubblico: tali effetti sono massimi; per i diritti politici, minori per quelli di libertà e minimi per i diritti civici.

Gli stranieri sono esclusi non solo dai diritti politici in senso stretto (elettorato attivo e passivo: statuto, art. 40, legge elettorale, testo unico 2 settembre 1928, n. 1993, art.1), ma anche dalla possibilità di ricoprire le cariche sindacali e quelle degli enti locali (r. dec. 1 luglio 1926, n. 1130, art. 2; legge podestarile 4 febbraio 1926, n. 237, articoli 3 e 9; legge 27 dicembre 1928, sull'ordinamento della provincia), e di essere assunti negl'impieghi dello stato e delle amministrazioni pubbliche (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2960, art.1, n.1; r. decr. di pari data, n. 2839, art. 35; regol. 12 febbraio 1911, n. 297, art. 92): l'eccezione, per l'insegnamento superiore, è stata abolita (art. 115 del r. decr. 30 settembre 1923, n. 2102). L'esclusione degli stranieri non è limitata alle attività pubbliche, per il cui esercizio si acquista la qualità di organi dello stato, ma si estende anche alle attività e professioni di pubblico interesse esercitate privatamente: alla professione di notaio, di avvocato e di procuratore legale (legge notarile 16 febbraio 1913, n. 89; legge forense 25 marzo 1926, n. 453, art. 12 e 20); di medico, chirurgo e farmacista (con molte limitazioni, per altro: testo unico 26 aprile 1928, n. 1313, art. 2); di guardia particolare giurata (legge di pubblica sicurezza, testo unico 6 novembre 1926, n. 1848, articoli 135, 139); d'insegnante privato (r. decr. 6 maggio 1923, n. 1054, art. 113; r. decr. 4 settembre 1924, n. 1533, art. 24). I diritti di libertà, rappresentando il lato negativo dell'organizzazione, sono invece concessi a tutti gli abitanti dello stato, siano cittadini o stranieri: tuttavia la libertà degli stranieri incontra qualche particolare limitazione ignota ai cittadini. La più importante di queste riguarda la libertà stessa di abitare nel territorio dello stato: la legge sottopone a un rigoroso controllo l'ingresso e la permanenza degli stranieri nel regno (legge citata di p. s., articoli 143-150) e dà facoltà ai prefetti di vietarne il soggiorno in dati comuni per ragioni interessanti la difesa militare dello stato (art. 149), al ministro dell'interno e ai prefetti delle provincie di confine di decretarne l'espulsione dal regno per ragioni d'ordine pubblico, a tutti i prefetti, per le stesse ragioni, di allontanarli o respingerli dalla frontiera o di dirigerveli mediante foglio di via obbligatorio (articoli 149, 151-153). Oltre a ciò, esistono diritti che gli stranieri non possono acquistare, come quelli, p. es., sui benefici ecclesiastici (art. 15 della legge 13 maggio 1871, n. 214, e art. 22 del concordato approvato con legge 27 maggio 1929, n. 810; v. poi, per altre limitazioni, gli articoli 125 e 148 della citata legge di p. s.). I diritti civici, quelli cioè che concernono l'ammissione al godimento dei servizî pubblici prodotti dallo stato nella propria attività, sia giuridica, sia sociale, sono concessi indifferentemente a qualunque persona: per essi gli stranieri sono parificati ai cittadini e possono come questi ottenere giustizia, essere difesi nella persona e negli averi, accedere agl'istituti d'istruzione e ottenere i varî titoli di studio, valersi di tutti i servizî di comunicazione, di trasporto, ecc. Regolata da norme speciali è soltanto l'erogazione della beneficenza e dell'assistenza agli stranieri (legge 17 luglio 1890, n. 6972, art. 77; regol. 5 febbraio 1891, n. 99, articoli 112-116). Ciò riguarda gli stranieri in genere; vi è però una categoria, quella degli abitanti delle provincie geograficamente italiane, soggette ad altri stati, la quale gode di una posizione che molto si avvicina a quella dei cittadini. Gl'italiani non regnicoli possono essere nominati agl'impieghi pubblici e alle amministrazioni degli enti locali; non sono soggetti alle limitazioni di polizia riguardanti gli stranieri, né possono essere espulsi dal regno (v. le leggi e gli articoli citati sopia).

Una seconda causa d'ordine generale è il sesso. In passato il sesso femminile si diceva causa di incapacità quasi assoluta nel campo del diritto pubblico e le disposizioni che talora ammettevano le donne ad alcuni rapporti pubblicistici, erano da ritenersi eccezionali e da interpretarsi restrittivamente. Tutto ciò, però, anche in passato, era esatto soltanto riguardo ai diritti politici, intesa pure l'espressione in senso molto comprensivo: quanto, invece, ai diritti di libertà e al godimento dei pubblici servizî e istituti, nessuna restrizione esisteva particolare alle donne.

Per questo, la legge del 17 luglio 1919, n. 1176, sulla capacità giuridica della donna, per quello che interessa il diritto pubblico ha innovato soltanto in materia di partecipazione delle donne alle pubbliche attività. "Le donne - dispone l'art. 7 - sono ammesse a pari titolo degli uomini ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gl'impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l'esercizio di diritti o di potestà politiche o che attengono alla difesa militare dello stato, secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento". A causa di questa specificazione (che fu fatta con decreto 4 gennaio 1920, n. 39) l'antica regola resta completamente invertita: le donne sono ammesse a tutte le professioni e a tutti gl'impieghi: le eccezioni contenute nel detto decreto sono di stretta interpretazione. Il decreto però non si occupa di elencare se non le professioni (es. di capitano e padrone di navi) e gli impieghi pubblici (quelli cui è connessa la qualifica di grande ufficiale dello stato, quelli di direttore generale e gradi superiori, di prefetto, di ministro plenipotenziario di 2ª classe e di console di 1ª classe; quelli, qualunque sia il grado, del Consiglio di stato, della Corte dei conti, dell'ordine giudiziario, dei corpi di pubblica sicurezza e di tutti i corpi armati; ecc.) da cui la donna è esclusa: quanto ai diritti politici in senso stretto, non v'è che la regola dell'art. 7 della legge, per cui, dai diritti e potestà politiche le donne sono sempre escluse, salvo che vi siano espressamente ammesse da leggi speciali. Fra queste leggi, una importante fu emanata in data 22 novembre 1925, n. 2125, sull'ammissione delle donne all'elettorato amministrativo (v. anche, per la formazione delle liste elettorali femminili, il decreto 4 febbraio 1926, n. 256, e gli art. 2 e 4 della legge 10 luglio 1926, n. 1194). Queste disposizioni si devono ritenere indirettamente abrogate con le leggi che hanno abolito l'elettività delle cariche comunali e provinciali: conservano, però, il loro valore in quelle parti che stabiliscono la capacità delle donne di essere nominate a determinati uffici onorarî dei comuni e delle provincie (consultori, rettori); conservano inoltre un valore di principio, come si vede da alcune norme speciali (es. legge 21 giugno 1928, n. 1773, per l'elezione di alcuni componenti delle commissioni censuarie comunali).

L'età è, fra le cause modificatrici, quella che maggiormente presenta frammentarietà e singolarità di disposizioni.

Cominciando anche qui dalla capacità richiesta per la partecipazione a pubbliche funzioni, troviamo che, lungi dal valere come regola generale la maggiore età del diritto privato, la più ampia varietà domina la materia. Per l'elettorato politico, l'età maggiore, che pure è la regola, può non essere necessaria (legge elettorale, art. 2); mentre poi per alcune cariche è richiesta un'età superiore ai 21 anni (senatore 40, deputato 25, ecc.); così anche per la professione di notaio sono richiesti 24 anni, 30 per la direzione di una scuola privata, e per l'ufficio di conciliatore 25; per altri uffici e professioni è sufficiente l'età maggiore (magistrato, podestà, segretario comunale, procuratore legale, medico, ecc.). La regola, però, più generale in fatto di età è quella riguardante l'ammissione ai pubblici impieghi (18 anni), la quale è applicabile, per tale generalità, anche per altri impieghi, oltre quelli statali e comunali, per i quali è stabilita espressamente (v. il decr. 30 dicembre 1923, n. 2960, art.1, n. 2; il regolamento 12 febbraio 1911, n. 297, art. 93).

Per il rapporto d'impiego hanno inoltre importanza i cosiddetti limiti di età; il compimento di quell'età (fissata secondo i casi, ai 65, ai 70, ai 75 anni) oltre la quale l'impiegato non può restare in servizio, importa una vera incapacità. Ciò vuol dire che nel diritto pubblico, oltre l'età giovanile, anche quella senile può esser causa d'incapacità.

Nel campo dei diritti di libertà, si devono ritenere norme relative alla capacità non solo quelle che richiedono una determinata età (di 18 o di 21 anni) per essere iscritti fra gli esercenti certe professioni o per ottenere certe licenze di polizia (art. 75 del regolamento 7 novembre 1920, n. 1191, sulle caldaie a vapore; art. 51 del decr. 31 dicembre 1923, n. 3041, sulla circolazione stradale; articoli 31, 43, 132, 135 della legge di p. s.): ma anche quelle che vietano a chi non ha compiuto una certa età l'esercizio di una qualsiasi azione materiale (legge di p. s., art. 201; legge 10 dicembre 1925, n. 2277, art. 24): la pena che accompagna tali divieti importa la mancanza, al di sotto di quell'età, di una libertà ehe si acquista solo più tardi. Lo stesso sembra doversi dire nei casi in cui la sanzione, anziché ai minori dell'età prescritta, viene applicata ad altre persone responsabili di fare osservare la limitazione (esercenti pubblici, direttori di cinematografi o di locali di pubblici spettacoli: legge di p. s., articoli 74, 75, 77, 99; legge 10 dicembre 1925, articoli 21 -23): sia pure indirettamente, resta anche qui limitata la libertà del minore. Che poi lo scopo della limitazione sia la tutela del minore stesso, non ha nessuna importanza: è questo lo scopo di molte incapacità e, nel caso presente, la tutela del minore serve di mezzo a un fine di polizia o d'igiene sociale. Infine, si deve osservare che tutte queste norme riguardano particolari attività e che manca una regola generale sull'età in rapporto alla libertà: per cui, in assenza di norme espresse, è da ritenersi l'età irrilevante per questo genere di diritti pubblici.

L'irrilevanza sembra poi regola generale rispetto ai diritti civici. Gli studenti universitarî, qualunque sia la loro età, possono non solo godere de varî servizî d'istruzione, ma anche regolare secondo la loro esclusiva volontà il piano dei loro studî (regol. universitario 6 aprile 1924, n. 674, articoli 67, 71, ecc.). I servizî postali e ferroviarî vengono prestati a qualunque persona, anche di età minore, direttamente: le norme regolamentari, che prescrivono agli uffici postali di consegnare la corrispondenza diretta ai minori ai rispettivi genitori e tutori, quando questi ultimi ne facciano una formale richiesta (richiesta, che per la corrispondenza ordinaria deve essere integrata da un'autorizzazione giudiziaria), nulla tolgono alla completa capacità dei minori medesimi nei riguardi dell'amministrazione. Tali norme hanno solo lo scopo di conciliare questa capacità coi poteri che le leggi civili attribuiscono agli esercenti la patria potestà sui beni, sull'educazione e sulla condotta morale dei minori.

Questa stessa funzione - di conciliare la capacità pubblicistica dei minorenni col riguardo dovuto all'istituto civile della patria potestà - crediamo che abbiano le norme che pongono la necessità della vidimazione paterna sulle istanze degli studenti delle scuole medie (decreto 4 maggio 1925, n. 653, art. 130), e, nel campo dei diritti di libertà, quelle che sottopongono la concessione di una licenza di polizia, o l'iscrizione fra gli esercenti certe professioni, al consenso dei genitori o tutori (legge di p. s., art. 43, 74; legge sulla caccia, 24 giugno 1923, n. 1420, art. 16; dec. cit. sulla circolazione stradale, art. 51; decr. 31 gennaio 1901, n. 36, sui passaporti per l'estero, art. 3). Ciò è naturale effetto dei conflitti evidenti in cui le norme sulla capacità nel campo del diritto pubblico si trovano spesso con quelle diverse del diritto privato. Quando il legislatore non detta norme riguardo a tali conflitti, si deve ritenere che le norme del diritto privato non debbono avere influenza. Così, posto che il minorenne può essere impiegato e che nessuna norma accorda al genitore ingerenza nei diritti del figlio in tale qualità, è certo che questi può da solo esercitare tutti i diritti inerenti al rapporto: non solo riscuotere gli stipendi e ogni accessorio, ma anche presentare ricorsi amministrativi e giurisdizionali e intentare azioni per la difesa dei suoi diritti. I dubbî della giurisprudenza in proposito sono causati dalla vecchia ed errata concezione del diritto privato come un diritto comune da applicarsi anche ai rapporti pubblicistici tutte le volte che mancano per essi norme particolari. Solo sono da farsi delle riserve per i casi in cui il ricorso o l'azione possano avere delle conseguenze patrimoniali al di fuori del rapporto d'impiego. Inoltre, i minorenni impiegati sono soggetti a tutte le forme di responsabilità stabilite a sanzione dei doveri derivanti dal rapporto, compresa la responsabilità civile, senza che abbia influenza la norma del diritto privato che esclude per i minori la responsabilità contrattuale (cod. civ., art. 1306): questa norma è conseguenza dell'incapacità del minore di entrare in rapporti contrattuali, o speciali in genere: se tale incapacità nel diritto pubblico manca, manca anche la conseguenza.

L'infermità di mente non dà luogo nel diritto pubblico a speciali istituti, quali sono l'interdizione e l'inabilitazione nel campo del diritto privato. Tuttavia, gl'istituti privatistici dispiegano in molti casi i loro effetti sulla capacità di diritto pubblico, in quanto le leggi fanno ad essi richiamo in modo esplicito e diretto (es. legge elettorale cit., art. 107, n.1) o in modo implicito (legge notarile, art. 10; legge forense, art. 12, n. 2; ordinamento giudiziario 30 dicembre 1923, n. 2786, art. 10, n. 2; legge di pubblica sicurezza, articoli 11, 132, 135). L'infermità mentale ha inoltre rilevanza per sé stessa, anche quando cioè non dà luogo ad alcuna constatazione o provvedimento da parte dell'autorità giudiziaria. Essa può esser causa di esclusione o di dispensa dagl'impieghi pubblici (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2960, art.1, n. 5, 51) e, quando raggiunga particolare gravità e pericolosità, può esser causa di privazione della libertà personale, con l'internamento in case di custodia e di cura (legge di p. s., art. 154; legge 14 febbraio 1904, n. 36, sugli alienati, art. 1).

Grande importanza ha per la capacità giuridica la condotta civile, morale e politica delle persone. I relativi istituti sono prevalentemente di diritto pubblico e hanno solo parziali conseguenze sulla capacità civile. L'inverso può dirsi soltanto per l'istituto del fallimento, che, interessando principalmente la capacità di diritto privato, è causa nel campo del diritto pubblico d'incapacità relativamente ai diritti politici e ad alcuni diritti di libertà (legge elettorale, art. 107, n. 2; legge comunale, art. 25, 146; legge podestarile, art. 9; il testo unico 17 ottobre 1922, n. 1401, art. 14, e i cit. articoli 31, 132, 135 della legge di p. s.). Gli altri istituti, del tutto pubblicistici, sono i seguenti.

La condanna penale. - Prescindendo dal contenuto naturale di molte condanne, che consiste di per sé nella privazione della libertà personale, si deve tener conto degli effetti che qualunque condanna produce sulla capacità; anche posteriormente alla sua esecuzione. Tali effetti variano secondo la categoria dei varî diritti soggettivi e, sullo stesso diritto, secondo la natura e l'entità del reato: cfr. l'art. 107, n. 4-10, della legge elettorale; l'art. 6 della legge podestarile; gli articoli 1, 3, 63, 66 del decreto sullo stato giuridico degl'impiegati; gli articoli 27, 183-186 della legge sulle pensioni 21 febbraio 1895, n. 70; gli art. 12, n. 3 e 51 della legge forense; gli articoli 10, 42, 90, 122, 124 della legge di p. s.; ecc. Gli effetti della condanna possono cessare in seguito alla riabilitazione (cod. pen., art. 100; cod. proc. pen., art. 629 segg.). Esiste poi una pena, il cui contenuto riguarda esclusivamente la capacità nel campo del diritto pubblico. Essa è l'interdizione dai pubblici uffici, la quale può essere temporanea o perpetua; importa, oltre la perdita della capacità di ottenere o conservare qualsiasi impiego pubblico, la perdita del diritto elettorale, della qualità di membro del parlamento, dei titoli accademici (e in conseguenza dell'esercizio di qualunque professione per la quale questi sono necessarî), del beneficio ecclesiastico, ecc.: art. 20 del codice penale.

L'ammonizione e il confino di polizia. - Si tratta di provvedimenti amministrativi, che colpiscono la condotta moralmente o politicamente irregolare e hanno effetti interessanti soprattutto i diritti di libertà, la possibilità di ottenere autorizzazioni di polizia, la capacità elettorale e ogni altra che ne è conseguenza (legge di p. s., articoli 10, n. 2, 166, 193; legge elettorale, art. 107, n. 11: per quest'ultima gli effetti durano cinque anni dopo la cessazione dello stato di ammonizione o di confino).

Anche al di fuori di questi provvedimenti, la capacità può essere diminuita per mancanza di condotta moralmente o politicamente regolare: mancanza giudicata discrezionalmente e insindacabilmente dall'amministrazione. Essa toglie la capacità di adire qualunque impiego dello stato e di ogni altro ente pubblico, o di continuare nel rapporto d'impiego se già costituito, di far parte delle associazioni sindacali, di esercitare le professioni legali, quelle sanitarie, quella d'ingegnere, ecc. (r. decr. 30 dic. 1923, n. 2960, art. 1, n. 3, 6, 64, lett. f; legge di p. s.. art. 216; decreti 23 ottobre 1925 n. 2113; 6 maggio 1926, n. 747, art.1; 1 luglio 1926, n. 1130, art.1; 6 gennaio 1927, n. 57; 27 ottobre 1927, n. 2145, art. 3; 26 aprile 1928, n. 1313, art.1, n. 2). Per condotta politica irregolare si deve intendere, secondo le citate fonti, non solo l'appartenenza ad associazioni e partiti che svolgano attività contraria all'ordine nazionale dello stato, ma anche qualunque azione o manifestazione che ponga la persona in condízioni d'incompatibilità con le direttive politiche del governo.

Oltre queste condizioni soggettive, le quali sulla capacità influiscono in modo relativamente generale, ve ne sono altre, la cui influenza è ristretta ad alcune categorie di rapporti. Fra queste ultime, ha grande valore nell'attuale diritto italiano la partecipazione alla vita economica nazionale, in qualità di datore di lavoro, di lavoratore o di proprietario di beni. Tale partecipazione, che risulta dal pagamento di un contributo sindacale o di un tributo diretto allo stato, ha importanza decisiva sulla capacità elettorale politica (testo unico 2 sett. 1928, n. 1993).

Un'altra condizione di applicazione limitata consiste nel saper leggere e scrivere. L'analfabetismo, mentre non è di ostacolo al godimento dei diritti politici, né all'esercizio di alcuni dititti patrimoniali (il diritto pubblico, anzi, ammette la sottoscrizione di quietanza a mezzo di crocesegno: r. decr. 18 novembre 1923, n. 2440, articoli 55, 66, 67), è invece di ostacolo all'ammissione a qualunque impiego, anche subalterno (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 2960, art. 111), e, per i nati dopo il 1885, al conseguimento di qualunque autorizzazione di polizia (legge di p. s., art. 11).

Nel diritto italiano, come in genere negli ordinamenti moderni, non ha rilevanza per la capacità giuridica la profeisione religiosa (legge 19 giugno 1848, n. 735, art. unico, riprodotto nell'art. 5 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello stato). Può avere, invece, effetti vari sulla capacità la professione di ministro di un culto. Essa, infatti, mentre costituisce uno dei titoli per la capacità elettorale politica (legge elettorale, art. 2, lett. d), è causa d'incapacità per alcuni pubblici uffici, quali quello di notaro, di giurato, di podestà, di esattore. Riguardo, poi, ai ministri del culto cattolico, una più larga incapacità deriva ad essi dall'articolo 5 del concordato 11 febbraio 1929, pubblicato come legge interna dello stato 27 maggio 1929, n. 810. Il detto atticolo dispone: "nessuno ecclesiastico può essere assunto o rimanere in un impiego od ufficio dello stato italiano, o di enti puhblici dipendenti dal medesimo, senza il nulla osta dell'ordinario diocesano. La revoca del nulla osta priva l'ecclesiastico della capacità di continuare ad esercitare l'impiego o l'ufficio assunto".

Le cause che abbiamo visto influire sulla capacità di diritto pubblico secondo l'ordinamento italiano, s'incontrano quasi tutte, con effetti diversi, ma sostanzialmente corrispondenti, negli ordinamenti degli altri stati.

È assolutamente universale l'esclusione degli stranieri dai diritti politici. Quanto ai pubblici impieghi, pur essendo egualmente regola l'esclusione, alcuni ordinamenti stabiliscono qualche eccezione per determinati uffici esclusivamente tecnici (d'ingegnere, d'insegnante superiore): ma, quando ciò avviene, sono stabilite particolari condizioni. Talora la nomina può essere esclusa discrezionalmente dal governo, come negli ordinamenti tedeschi; altrove lo straniero, se nominato, deve fare espressa rinunzia per sé e per i suoi figli all'esenzione dal servizio militare (Spagna); altrove ancora la nomina di stranieri ha il carattere di un semplice contratto di diritto privato e non conferisce lo stato giuridico proprio del pubblico impiego (Giappone). Valgono pure riguardo agli stranieri larghe limitazioni circa i diritti di libertà, compresa la possibilità della loro espulsione dallo stato per ragioni d'ordine pubblico.

Il sesso, specie dopo la grande guerra, ha cessato nella maggior parte dei paesi civili di costituire una causa di minorazione della capacità. L'ammissione della donna all'elettorato amministrativo e politico, mentre rappresentava pel passato un'eccezione limitata agli stati scandinavi, alla Danimarca e ad alcuni stati australiani, dopo il rinnovamento di costituzioni e di legislazioni, che seguì ovunque alla fine della guerra, costituisce la regola generale degli stati europei e nordamericani. In Europa, l'elettorato femminile è escluso completamente soltanto dalla Francia, dalla Svizzera e dagli stati balcanici; la Rumenia e la Spagna hanno concesso alla donna, come l'Italia, il solo voto amministrativo. Riguardo ai pubblici impieghi, l'equiparazione è pure generalmente stabilita: in alcuni stati addirittura nelle leggi costituzionali (es. costituzione di Weimar del 1919, art. 128). Viceversa in alcuni ordinamenti, come in quello francese, manca ancora una regola generale: l'ammissione o l'esclusione delle donne sono caso per caso stabilite, restando aperta la discussione nel caso, non infrequente, di silenzio della legge. La tendenza odierna nella giurisprudenza francese, è nel senso d'interpretare questo silenzio a favore della capacità.

Riguardo all'età, i singoli ordinamenti presentano la più grande varietà di disposizioni. Per la sola capacità elettorale, l'età varia entro i termini seguenti: 18 anni in alcune repubbliche americane e in Turchia; 20 anni in Germania, in Austria e in Isvizzera; 21 anni in Inghilterra, in Francia e in Italia; 23 nella Svezia e nella Norvegia; 25 in Danimarca, in Olanda e in Spagna. Per l'ammissione agl'impieghi, non solo varia la regola stabilita in ciascun ordinamento, ma spesso accanto alla regola sono stabilite numerose eccezioni e non di rado manca ogni regola generale, valendo per ciascuna amministrazione un limite particolare. Lo stesso si dica per ciò che attiene al godimento di alcuni diritti di libertà, per il quale quasi mai si richiede l'età maggiore del diritto civile, ma un'età di solito inferiore, che può variare fra i 14 e i 18 anni.

La precedente condotta, specie quando abbia dato luogo a condanne penali o a provvedimenti amministrativi, è causa dovunque d'incapacità o di diminuzione di diritti. È regola generale, invece, l'irrilevanza, agli effetti giuridici, della confessione religiosa e anche, dati i principî liberali imperanti nella maggior parte degli stati, la fede politica e l'appartenenza a qualunque partito o associazione. La condotta politica, tuttavia, dell'impiegato è presa variamente in considerazione, talora anche con effetti penali, da alcuni ordinamenti (p. es., codice penale germanico, §§ 43 segg., 82 segg.).

Un'incapacità tutta particolare è sancita in Francia contro i membri delle famiglie che già regnarono nello stato: essi sono esclusi da qualunque carica elettiva e da qualunque ufficio civile e militare; i capi di tali famiglie sono pure privati della libertà di risiedere o soggiornare, anche temporaneamente, sul territorio francese (legge 22 giugno 1886).

Bibl.: Ranelletti, Capacità e volontà nelle autorizzazioni e concessioni amministr., iun Riv. ital. per le scienze giuridiche, VII (1894); Schönborn, Alterstufen u. Geschäftsfähigkeit in öff. Recht, in Archiv. f. off. R., 1909; S. Romano, L'età e la capacità delle persone nel dir. pubbl., in Riv. di dir. pubbl., III (1911), parte 2ª, p. 141; id., L'età e la responsabilità civile verso lo stato ecc., ibid., XIX (1927), parte 1ª, p. 253; id., Corso di dir. costituz., 2ª ed. Padova 1928, p 154; Schultzenstein, Die Polizeifähigkeit der natürlichen Personen, in Verwaltungsarchiv, 1921; S. D'Amelio, Il suffragio elettorale femminile, in Riv. di dir. pubbl., 1926, parte 1ª, p. 145; Moreau, Précis de dr. const., Parigi 1928, pp. 157, 161, 432, 438; Brand, Beamtenrecht, Berlino 1928, pp. 84 segg., 557 esgg.; W. Jellinek, Verwaltungsrecht, Berlino 1929, p. 149 segg.

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