CAPECE ZURLO, Giovanni Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CAPECE ZURLO (Zurolo), Giovanni Antonio

Raffaele Barometro

Nacque nei primi anni del sec. XVIII, a Napoli, in una delle più importanti famiglie del patriziato napoletano, iscritta fin da antica data al seggio di Capuana e insignita, nel 1727, del titolo di principe, che fu poi ereditato dallo stesso Giovanni Antonio. Questi seguì i suoi studi a Napoli, e la sua formazione culturale, che si può collocare negli anni 1720-25, risentì moltissimo della reviviscenza delle contese giurisdizionalistiche e dei fermenti anticuriali, che in quegli anni si svilupparono a Napoli: fermenti suscitati dallo stesso governo austriaco, successo già dal 1707 a quello spagnolo, e poi esaltati dal Giannone con la pubblicazione, tra gli anni 1721-23, della Istoria civile. L'influsso del Giannone fu, sotto questo aspetto, determinante, in quanto il C. si pose nella sua scia nel combattere gli abusi che da secoli la Chiesa perpetrava ai danni del potere civile. In seguito egli, sullo slancio dell'attività riformatrice dei primi anni del regno autonomo di Carlo di Borbone, si batté per l'affermazione dell'autorità regale, che egli riteneva, soprattutto nell'amministrazione della giustizia, sovrana. Fermamente convinto di ciò, sosteneva che l'autorità ecclesiastica era riuscita a limitare la sovranità civile solo grazie alla "stupidezza, o superstizione dei popoli, unite alla somma diligenza ed accortezza degli ecclesiastici".

Il C. ebbe un ruolo di primo piano negli anni 1746-48, allorché scoppiarono incidenti a Napoli per l'introduzione nel Regno del tribunale del S. Uffizio. Come "eletto" rappresentò, insieme con Gennaro Caracciolo, principe di Forino, il seggio di Capuana nella "Deputazione circa le operazioni e pregiudizi, che risultano dal preteso Tribunale del S.to Uffizio", in seno alla quale fu parte molto attiva nella stesura di alcune memorie, inviate al re Carlo contro le irregolarità, che continuamente commetteva la curia arcivescovile di Napoli.

Ricordiamo soprattutto la memoria del 20 febbr. 1747, con la quale i deputati, ricordando al re che la città di Napoli era stata sempre "la più amante ed interessata verso il culto divino", chiedevano l'allontanamento dalla città di quei canonici troppo "zelanti" nelle questioni di fede, e, quella del 13 aprile dello stesso anno, con la quale i deputati chiedevano che si condannasse come "pubblico perturbator dello Stato, chiunque attentasse contro l'osservanza del Real Editto". Il "real editto", o "dispaccio reale", emanato da Carlo di Borbone il 29 dic. 1746, tendeva a eliminare gli abusi dei "qualificatori e consultori" della curia, i quali, col pretesto di accuse di eresia, processavano e incarceravano ecclesiastici e laici, senza nemmeno chiedere al re quell'assenso, che, appunto col "reale dispaccio", divenne obbligatorio chiedere.

E fu proprio su questo problema che il C. sostenne una vivace polemica con i "curiali" napoletani, sostenendo l'illegittimità delle loro pratiche e la necessità di chiedere il regio exequatur, prima di intraprendere qualsiasi processo, che doveva poi essere non "informativo", ma basato su prove e testimonianze concrete. A più riprese denunciò le violazioni all'editto del 1746 da parte degli ecclesiastici, i quali, uniti a "molti spiriti deboli, e pochi intesi di questa materia anche secolari", affermavano pubblicamente che il dispaccio non doveva avere esecuzione, e che i vescovi del Regno non erano tenuti a rispettarlo. Nel 1748 il C., mettendo a frutto la sua polemica contro la curia vescovile di Napoli e l'esperienza acquisita nella partecipazione alla Deputazione contro il S. Uffizio, scrisse la sua Breve raccolta di varie notizie contro le operazioni e pregiudizij,che risultano del preteso e mai conosciuto tribunale del S. Officio, che però non fu mai pubblicata: la qual cosa, date le notevoli argomentazioni addotte a sostegno dell'anticurialismo, fu di non poco danno a tutto il movimento anticurialista, e proprio nel momento in cui esso produceva il suo massimo sforzo (l'opera è conservata manoscritta alla Bibl. naz. di Napoli, Ms. XI. C. 7. ff. 1-219).

Dopo questi anni non si hanno più notizie biografiche del C., né dell'anno della sua morte, che dové avvenire dopo il 1764, anno in cui egli inviò a Carlo III una supplica in cui, ancora una volta, denunciava le violazioni ecclesiastiche alle leggi regie del 1746.

La Breve raccolta... del C. va inserita nel vasto movimento anticurialista, che alla metà del Settecento suscitò in Napoli una ricca pubblicistica di notevole livello culturale: ma, mentre le opere dei vari Brancone o Fraggianni, per citarne solo alcune, non riuscirono ad elevarsi dal tono di una occasionale polemica contro l'introduzione nel Regno del tribunale del S. Uffizio, il C., invece, trasse spunto da essa per affrontare un problema ben più vasto: la necessità della prevalenza del potere civile su quello ecclesiastico. Dopo uno studio sull'origine e la diffusione del S. Uffizio, il C. mette in evidenza, nella sua opera, i soprusi dei vari tribunali ecclesiastici, contro i principi dello stesso Cristo, che non aveva esitato a sottoporsi al giudizio di Pilato. Il C. passa quindi ad esaminare la situazione di vari Stati, soprattutto di quelli che avevano accolto il S. Uffizio, giustificando, quella accettazione con le diverse esperienze in fatto di leggi e la diversa tradizione culturale e religiosa: nel Regno di Napoli era impensabile, sostiene il C., tale introduzione, perché contravveniva a tutte le leggi del Regno, ma, soprattutto, era assurdo per la città di Napoli, che godeva di particolari "privilegi" e "grazie". Sostenendo la superiorità del potere politico a tutti i livelli, il C. soprattutto afferma che l'amministrazione della giustizia, ecclesiastica o civile che fosse, doveva essere controllata dalla magistratura ordinaria e, per essa, dal re, che, se "non è Giudice, né prefetto, né Giureconsulto, non è Sacerdote né Vescovo", pure "vuole stare inteso della maniera e modo di procedere" nel campo della giustizia, onde assicurarsi che nei "Tribunali residenti nel suo Stato abbia il suo luogo la giustizia, e che in quelli non si annidino... l'oppressione e la tirannia". Proprio queste ultime parole ci danno l'esatta misura del credo culturale e politico, al quale, molto coerentemente, il C. ispirò la sua attività di uomo pubblico.

Fonti e Bibl.: Napoli, Museo dell'Arch. di Stato, Ms. C 49: N. Fraggiani, Breve raccolta di notizie che servir possono per i Deputati contro il S. Officio..., ff. 388-390, 398-402; L. Amabile, Il S. Officio della Inquisiz. in Napoli, II, Città di Castello 1892, pp. 105-107; F. Bonazzi, Famiglie nobili e titolate del Napolitano..., Napoli 1902, p. 52; F. Ponzetti, L'attività del S. Officio dell'Inquisiz. nel Regno di Napoli dal 1734 al 1762, in Iapigia, VII (1936), p. 174; L. Marini, P. Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento..., Napoli 1950, pp. 115-116; E. Malato, Introduzione a P. Giannone, Pozzuoli 1956, pp. 167-168.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE