CAPITALISMO

Enciclopedia Italiana (1930)

CAPITALISMO (da capitale; fr. capitalisme; sp. capitalismo; ted. Kapitalismus; ingl. capitalism)

Augusto GRAZIANI

Il concetto di capitalismo è stato introdotto nelle discussioni economiche dalla critica socialista. Il Sismondi rappresentava l'immiserimento crescente, le crisi, la disoccupazione, quali effetti della libera concorrenza e dell'applicazione delle macchine, il Fourier e il Saint-Simon rivolgevano i loro attacchi alla classe dirigente, che denominavano borghesia. Nel Manifesto comunista del 1848 più spiccatamente si contrappone il proletariato alla borghesia, la quale viene sostanzialmente identificata con la classe proprietaria dei capitali. Nel Capitale di Marx si mira, più che alla borghesia e alla classe capitalista, al capitalismo come sistema: nella prefazione, il Marx dichiara che egli non ha presentato con colori rosei il capitalista e il proprietario fondiario, ma aggiunge "non si tratta delle persone che in quanto sono personificazioni di categorie economiche, d'interessi, di rapporti di classi determinate" e le sue requisitorie non concernono il capitale come ricchezza prodotta applicata a nuova produzione, cui anzi a suo parere si debbono le condizioni materiali che sole possono formare la base d'una società nuova e superiore, ma riguardano l'appropriazione delle terre e dei capitali, che costituisce il substrato dell'organismo economico attuale.

Le indagini del Marx non solo indussero gli economisti ortodossi ad affinare la critica, ma diedero impulso a nuove ricerche di storia economica e di morfologia; in tali scritti venne accolta la designazione di capitalismo, che ebbe larga fortuna.

Il capitalismo non è caratterizzato soltanto da un'applicazione ampia e sistematica di capitale alla produzione, ma anche dalla scissione della proprietà dal lavoro. Vi ha distinzione profonda fra coloro che dispongono e governano i capitali e coloro che prestano il lavoro, che difettano dei mezzi per istituire l'impresa, avendo la libertà giuridica di disporre della propria attività personale. Questo sistema è il prodotto di un'evoluzione economica correlativa all'incremento della popolazione e alla conseguente estensione e specificazione dei bisogni. Vi sono differenze di sviluppo da paese a paese, ma l'evoluzione delle forme sociali ha attraversato alcuni stadî fondamentali, dei quali diamo un rapido accenno.

Negli albori della civiltà, quando prevale l'economia domestica, pochi e imperfetti strumenti sussidiano la produzione che è limitata ai bisogni individuali e famigliari. In seno alla produzione domestica e accanto a essa sorge l'impresa per schiavi, che la sostituisce in misura via via più considerevole, allorché la popolazione crescente richiede una soddisfazione di bisogni più estesa e più intensa. La schiavitù consente una certa distinzione di operazioni fra i lavoratori o almeno un'associazione semplice del lavoro e quindi rappresenta rispetto all'economia domestica un progresso produttivo; ma l'efficacia di questo perfezionamento è diminuita per altri rispetti. È constatazione assodata dall'esperienza dell'antichità e dalla più recente dei paesi coloniali, che la schiavitù rende psicologicamente impossibile all'operaio di trasferirsi da una specie di lavoro a un'altra. Quindi la necessità della coltura continua di un medesimo prodotto, l'estensione di essa sopra amplissimi territorî, l'abbandono delle terre più sterili, nelle quali il lavoratore non riproduce che le proprie sussistenze. E più generalmente la produzione si può difficilmente restringere, allorché diviene superflua, allargarsi allorché è insufficiente ai bisogni; così è frequente la concentrazione dell'industria e dell'agricoltura presso uno stesso proprietario, e caratteristica l'imperfezione degli utensili, dacché lo schiavo o distrugge o deteriora gli strumenti più delicati. Non vi ha che applicazione scarsa di capitale all'industria. Anche dopo le guerre di conquista dell'Asia Minore e di oltremare, nonostante che Roma si fosse impadronita dei tesori accumulati in Oriente, la ricchezza ottenuta è investita in prestiti improduttivi, in appalti d'imposte, in accaparramenti di terre, in speculazioni aleatorie, ma non si rivolge a potenziare la produzione. Se si considerano le spese enormi di sorveglianza che la schiavitù esige, e le accennate ragioni di minore produttività, si comprende come con la mutazione delle condizioni demografiche, allorché si esigono soddisfazioni più estese e qualificate dei bisogni, tale sistema non possa perdurare.

La servitù della gleba che si collega al sistema feudale, rendendo fissa e stabile la porzione del prodotto conferita al servo, ne migliora la condizione rispetto a quella dello schiavo, ma pure in questo sistema sono significanti le limitazioni inflitte all'efficacia della industria: l'intrasferibilità del servo senza la trasferibilità della terra impedisce le trasformazioni produttive rese necessarie dall'incremento o dal decremento di domanda di prodotti, l'accumulazione produttiva è pure assai scarsa, e per questi vincoli ben presto tale sistema si rivela incompatibile con l'industria manifatturiera.

Nel regime delle maestranze medievali non vi ha separazione del capitale dal lavoro, del dirigente l'industria dall'operaio. Tra il maestro, il lavorante, il garzone non v'era differenza di condizione sociale; la loro retribuzione era diversa quantitativamente, non qualitativamente; compiuti gli anni di tirocinio, superate le prove, il garzone diveniva maestro. Era fissato dagli statuti della corporazione o della città il numero dei lavoranti e discepoli, che ciascun maestro poteva assumere e alla corporazione assicurato il monopolio di una determinata industria: il tessitore, per esempio, non poteva confezionare le vesti e doveva lasciare ad altro produttore questa occupazione, il falegname di legno bianco non poteva lavorare quello di noce, ecc.; si stabiliva non solo, come dicemmo, la proporzione e il numero complessivo dei lavoratori di ciascuna industria, ma si determinavano le materie che si dovevano adoperare, il modo di trattarle, anche la forma, la grandezza, la qualità dei prodotti e tali prescrizioni si collegavano ad altre che si riferivano alla fissazione dei prezzi di alcuni prodotti e al saggio delle mercedi; multe e pene corporali erano comminate contro i trasgressori, per i quali la punizione più grave era l'espulsione dall'arte. Per la rigida distinzione delle occupazioni, riservate a ogni singola arte, la divisione anche professionale del lavoro era limitata e non proporzionata alle attitudini del lavoratore, e se in una prima fase le norme fissate per l'ingresso nell'arte e per il conseguimento della posizione di maestro, giovavano almeno ad assicurare la capacità tecnica del lavoratore, in una seconda fase costituirono soltanto ostacoli alla facoltà di libera scelta della professione e l'inconveniente si aggravava, perché le corporazioni tendevano a degenerare in corpi chiusi. Cosicché il sistema divenne sempre più improprio alle esigenze di un grande mercato, come improprie anche si manifestarono le ingerenze governative che si sovrapposero e coesistettero parzialmente con esso. D'altra parte per l'incremento della popolazione e la mancanza di terre coltivabili con puro lavoro, sempre più l'operaio era indotto a cedere a un imprenditore la propria forza di lavoro per una mercede fissa.

Sorgeva così una forma economica molto più produttiva ed efficace. Il polo positivo di questo sistema è costituito dall'accumulazione di ricchezza da parte delle classi proprietarie, il polo negativo dall'esistenza di lavoratori che non possono impiegare a proprio rischio il loro lavoro, non trovando terreni coltivabili con la sola attività personale e difettando di strumenti di produzione.

Non è facile stabilire quale sia la genesi della ricchezza accumulata presso le classi proprietarie. Secondo Marx, essa trae le sue origini dai lucri usurarî e dalle conquiste e rapine coloniali; dai profitti del commercio e dell'industria e dagl'investimenti in prestiti. Il Sombart pensa invece, che la ricchezza capitalista abbia le sue fonti prime in rendita fondiaria accumulata, tesi che però più tardi ha alquanto temperata. Egli afferma che, nonostante gli alti prezzi, i profitti dei commercianti medievali erano scarsi; il loro stesso grande numero restringeva ciascuno a una somma limitatissima di affari; essi rivestivano generalmente la qualità di artigiani cui spettava un semplice compenso del lavoro prestato. Invece già dopo il mille le rendite fondiarie sono notevoli, la terra rapidamente cresce di valore come produttrice di derrate e come area costruttiva, per quell'aumento e concentramento di popolazione, che trasformò le piccole città in grandi, i villaggi in città, tante campagne deserte in centri abitati e ricchi di lavoro. Il Sombart aggiunge però che anche il commercio medievale esercitato in condizioni di monopolio poteva talora permettere, per l'enorme distacco fra i prezzi di acquisto e quelli di vendita, profitti tanto alti da lasciare margine per un'accumulazione di patrimonio.

Ma il patrimonio che un produttore industriale o un piccolo mercante si costituiva in tal modo mediante il traffico coi ricchi del Medioevo (sempre principi laici o ecclesiastici o grandi proprietarî fondiarî) era un patrimonio derivato: esso sorgeva da ciò, che parte della ricchezza feudale si concentrava presso gli artigiani. Questi rilievi del Sombart non bastano né a provare che dovunque abbia avuto esclusiva origine fondiaria la prima accumulazione di capitali, né che spetti a tal fonte universalmente una preminenza assoluta rispetto alle altre. Lo Strieder, con un'analisi della formazione dei patrimonî tedeschi, specie studiando le principali famiglie di Augusta, ha provato che i grandi commercianti erano entrati in carriera con poche ricchezze e che queste erano divenute milioni di fiorini solo con la speculazione mercantile, bancaria, mineraria. E così il Heynen per Venezia, ha dimostrato che le prime fortune dei privati provennero dal commercio; donde l'impulso alla grande politica coloniale; la ricchezza era prima prevalentemente mobiliare; solo più tardi aumenta il possesso fondiario.

Quindi, qua le rendite fondiarie e urbane, là i profitti commerciali e dei prestiti, e talora le une e le altre insieme, hanno dato movenza e contenuto all'accumulazione patrimoniale: "dove le città ebbero il mare innanzi a sé, pieno di lusinghe e di ricchezze non lontane e alle spalle un territorio ristretto o montuoso o paludoso, commercio e industria occupano il primo posto, a Genova e Amalfi più che a Pisa, a Venezia più che a Genova a Pisa e Amalfi, in molte città dell'interno il possesso immobiliare concorre con l'accumulazione capitalista. Dove l'anarchia feudale prevalse, il concentrarsi della popolazione nelle città murate e protette fu il fatto primo: i mercatores dei secoli X e XI sono tutti proprietarî di terre, spesso assai bene provvisti e in quei tempi è più facile pensare a un commercio attivato con le rendite fondiarie dove queste erano alte, che non ad acquisto di beni immobili coi risparmi dell'officina e del traffico. Per molte famiglie ricche milanesi si può assodare che sono ricchi campagnoli inurbati, altre vennero invece dalla putredine della società feudale e del patrimonio ecclesiastico: erano piccoli prestatori ad alto interesse, mentre vescovi feudatarî anelavano al danaro: impossessatisi dei loro beni immobili, la fortuna crebbe" (Volpe, Il moderno capitalismo). E bene spesso la rendita fondiaria, come la urbana, fu la conseguenza dell'impiego nella terra e nelle case di capitali già formati nel commercio che venivano mediante esso accresciuti.

Queste le sorgenti dell'accumulazione patrimoniale, ma lo sviluppo di essa e la formazione dell'impresa capitalistica avvennero gradualmente e si protrassero nei varî paesi di Europa fra il sec. XVI e il XVIII. Si verificò una concentrazione metodica di capitali, una specializzazione di funzioni, un'estensione incomparabile del mercato. E questa ricchezza formata dai profitti commerciali, dall'usura, dalle rendite agricole e urbane, che non poteva proficuamente investirsi nel campo chiuso dell'industria corporativa, s'adoperò a impiegare nella produzione una schiera di lavoratori, che le trasformazioni agrarie (sostituzione della grande pastorizia all'agricoltura patriarcale decentrata, costituzione di latifondi, chiusure di terreni comuni, espropriazioni violente) cacciavano dalle campagne. Così venne prendendo il posto dell'industria artigiana la fabbrica disseminata, ossia il lavoro a domicilio e il lavoro sparso in piccole officine, ma per conto di un nuovo imprenditore capitalista, e più tardi sorse la fabbrica accentrata, come gli stabilimenti per il lavaggio e per le gualchiere, dove lavoravano anche in gran numero le donne. E sullo scorcio del sec. XVIII l'azione di un nuovo fenomeno, le grandi macchine, rende ancora più significante il processo di prevalenza dell'impresa accentrata e di divaricazione fra il lavoratore e il conduttore dell'azienda. Le corporazioni già erano disorganizzate prima che legalmente se ne decretasse l'abolizione: la libertà giuridica del lavoro viene promulgata in Toscana nel 1770; in Francia col celebre editto promosso dal Turgot nel 1776, nel preambolo del quale il diritto di lavorare è proclamato proprietà d'ogni uomo e proprietà la più sacra e più imprescrittibile di tutte. I corpi d'arte furono ristabiliti dal Clugny nel 1781, definitivamente soppressi dalla costituente francese il 4 agosto 1789.

L'impresa capitalistica, secondo il Sombart, è differente da tutte le forme economiche precedenti, per l'esistenza autonoma del negozio, per il sorgere di un organismo economico indipendente al disopra dei singoli uomini che si occupano degli affari. Anche nel Medioevo vi erano di queste unità superiori all'individuo, ma erano unità naturali (la famiglia, la tribù, il villaggio, la corporazione). Ora è una unità astratta, il negozio, guidata soltanto dalla ricerca del profitto e con la tendenza alla completa razionalizzazione di tutti i procedimenti economici. Ma più che la separazione della persona dell'imprenditore dall'impresa è la libera iniziativa congiunta alla responsabilità per le perdite, che caratterizza l'impresa moderna capitalistica. Vi ha possibilità di applicare la quantità di capitale e di lavoro che sembra più conveniente, di scegliere la sede e i metodi che si ritengono più idonei; elasticità di lavoro e di organizzazione, di dimensione, opzione delle forme più varie di costituzione dell'impresa, cosicché essa consente e promuove la più estesa accumulazione, la divisione economica, tecnica, territoriale del lavoro, l'applicazione incessante di perfezionamenti industriali, e suscita l'espansione del commercio mondiale. Certo ciascuno tende al massimo reddito, che talora può non coincidere col massimo prodotto, ma la produzione avviene in guisa da soddisfare maggior numero di bisogni, e in modo più intenso e qualificato, che con qualunque dei sistemi precedenti, sicché senza un ordinamento preventivo si costituisce un equilibrio, per cui, a dati saggi di retribuzione, si richiamano quei servizî produttivi, che conferiscono prodotti i quali normalmente possono vendersi a prezzo remuneratore. Ma se incontestati sono i pregi dell'economia capitalistica nel rispetto della produzione, le si sono mosse obiezioni nel rispetto della distribuzione della ricchezza.

Si è affermato che l'impresa capitalistica si regge sullo sfruttamento del lavoratore, sulla tenuità delle mercedi e sul prolungamento della giornata di lavoro; che vi ha la tendenza a un concentramento sempre maggiore dell'industria, all'eliminazione delle piccole imprese. L'introduzione delle macchine sarebbe anche essa concausa di prolungamento della giornata di lavoro e dell'impiego di donne e fanciulli nelle fabbriche, come di un eccesso relativo della popolazione operaia. Ne risulterebbe un'armata di riserva costituita dai disoccupati, che concorrerebbero quindi a deprimere il salario degli occupati. L'accumulazione di ricchezza a un polo (i capitalisti) sarebbe in pari tempo accumulazione di miseria, di lavoro tormentoso, di servitù, d'ignoranza, di brutalità, di degradazione morale al polo opposto. Ma ciò stesso preparerebbe, secondo il Marx, la dissoluzione del sistema capitalistico e l'avvento del collettivismo.

Ora, per quanto nell'industria manifattrice la grande impresa abbia acquistato crescente estensione, non è punto scomparsa la piccola impresa, essendo la prima limitata dall'ampiezza del mercato e avendo la seconda una preminenza nella produzione specializzata, laddove il prodotto richiede forma particolare e senso artistico. E nella produzione agricola la piccola e media coltura non solo non scompare, ma tende a consolidarsi e ad accrescersi, anche nei paesi in cui era prevalente la grande coltura; la specificazione e l'intensificazione delle produzioni richieste dall'incremento della popolazione, meglio si ottengono nelle aziende minori e specie dove la proprietà è congiunta al lavoro. E tra i miglioramenti più cospicui è la divisione di terreni troppo vasti e la costruzione di case coloniche; col frazionamento adeguato alla capacità di coltura paesi vecchi poterono resistere alla concorrenza dei paesi extra-oceanici. L'introduzione delle macchine, sulla fine del secolo XVIII, determinò disoccupazione della classe operaia, non bastando l'incremento del consumo provocato dalla diminuzione del prezzo dei prodotti a richiamare i lavoratori all'industria. Una tale diminuzione consente un risparmio ai consumatori e favorisce l'incremento dell'accumulazione dei capitali, che almeno in parte saranno impiegati in mercedi. E prescindendo dal considerare che talvolta la macchina è impiegata accanto al lavoratore, pur quando lo è in sostituzione di esso, la sua introduzione avviene spesso gradualmente e non può dirsi che sia causa della creazione di una popolazione eccessiva, ora espellendo, ora richiamando gli operai all'industria, anche per quelle eventuali influenze compensatrici già accennate. Le fluttuazioni industriali si collegano ad altri elementi. Si distinguono turbamenti occasionali dell'equilibrio economico da variazioni secolari (che si connettono a modificazioni di quelli che potrebbero dirsi gli assi strutturali dell'organismo economico) e da grandi oscillazioni generali e periodiche, le quali si manifestano con larga e lenta ondata di ascesa, cui corrisponde una discesa relativamente rapida. È la prospettiva di alti profitti che adduce i risparmî verso determinate produzioni, in cui si manifesta tendenza al rialzo del prezzo, e da queste il movimento si propaga ad altre che elaborano le ricchezze stesse o che sono a esse strumentali. Le imprese a più alto costo debbono poi essere eliminate, quando avviene il declino dei prezzi, e ciò porta a disoccupazione e ruina, dopo le quali si ricostituisce l'equilibrio. Ma non è a ritenere che, dato un ordinamento economico diverso, si potrebbero evitare tali perturbazioni; esse anzi sarebbero forse più gravi, mentre con una condotta sana degli istituti di credito si attenuano le conseguenze e forse anche può diminuirsi la frequenza di tali perturbazioni.

Né è vero che il capitalismo necessariamente si fondi sulla riduzione del salario al minimo saggio e sul prolungamento delle ore di lavoro. Non può negarsi che in una prima fase dell'economia capitalistica il salario si sia avvicinato al minimo saggio e che la mercede minima, eccitando a procreazione imprevidente, tendesse a rendere quasi normale questo minimo saggio. Inoltre le masse di operai agglomerate nei centri urbani si affollavano nelle peggiori abitazioni con immenso danno fisico e morale; negli opifici non si aveva cura dell'igiene, nessun provvedimento preventivo per gl'infortunî; si impiegarono senza freno donne e fanciulli, si abusò del pagamento diretto o indiretto dei salarî in derrate di consumo. E mentre ciò avveniva per l'industria e il commercio, in alcuni paesi le campagne conservavano ordinamenti semifeudali coi latifondi, ove i contadini restavano ignoranti, mal pagati, male nutriti, male vestiti, male alloggiati. Tutto questo si avverò nei primi due terzi del sec. XIX, cioè nel periodo in cui Marx scrisse e osservò, e più specialmente in Inghilterra, ove dagli stessi documenti raccolti e pubblicati con ammirabile sincerità nelle inchieste parlamentari egli trasse il materiale per i foschi suoi quadri (C. Ferraris, Socialismo e riforma sociale, in Riforma sociale, 1900). Anche in Italia si lamentavano analoghi inconvenienti: la durata del lavoro di undici, dodici ore e in taluni stabilimenti anche di quindici, era frequente ancora nel 1876. E anche successivamente alla promulgazione della legge sul lavoro dei fanciulli continuarono abusi e sfruttamenti, sinché non venne rinvigorita l'ispezione delle fabbriche nella maggior parte dei paesi d'Europa e d'America.

Tali fenomeni rappresentano però un periodo ora superato nella maggior parte dei paesi d'Europa e d'America, e in una seconda fase del sistema capitalìsta si manifestarono considerevoli miglioramenti morali e materiali della classe lavoratrice. Le condizioni si possono dire invertite rispetto al periodo precedente e si è parlato di una economia di alti salarî. Entro dati limiti l'incremento di salario non significa incremento di costo di lavoro, anzi il lavoro dell'operaio diviene più produttivo in ragione delle migliorate condizioni di lui, come la riduzione della giornata di lavoro è compensata dall'intensità dell'opera; e tutto ciò promuove ancora l'introduzione successiva di perfezionamenti produttivi. Di conserva con l'incremento delle mercedi e con la riduzione della giornata di lavoro si emanarono provvedimenti igienici diretti a impedire l'impiego precoce degli operai, a tutelarne la salute nelle fabbriche, a prevenire gl'infortunî, a indennizzarne i danni, ad assicurare pensioni di vecchiaia e di invalidità, ecc. E mentre i primi incrementi di mercedi dettero modo agli operai di associarsi e preparare i fondi di resistenza, le coalizioni favorite dall'ordinamento stesso della fabbrica acquistarono sempre maggiore influenza e rafforzarono gli operai stessi nella contrattazione e nel conseguire gli accennati provvedimenti benefici di legislazione sociale, che ebbero nei varî paesi diverso sviluppo, ma che tendono a estendersi a categorie anche inferiori della classe lavoratrice.

Sarebbe troppo lungo il ricordare le vicende del movimento operaio e della legislazione sociale nei varî paesi. Riassumiamo taluni caratteri del salario in questa seconda fase dell'economia capitalista.

Mentre nella prima fase, essendo il salario prossimo al minimo saggio, esso varia correlativamente al prezzo delle derrate alimentari, nella seconda fase, invece, cessa la perfetta corrispondenza fra le oscillazioni di questi prezzi e il movimento dei salarî monetarî, così che talora in periodi di riduzione dei prezzi dei viveri, come p. es. dopo il 1890, lungi dal manifestarsi una contrazione, si verifica un movimento ascensionale dei salarî. Inoltre, mentre gl'incrementi della produttività industriale difficilmente si riflettevano sul saggio delle mercedi, ora il salario tende ad aumentarsi con la produttività del lavoro e la partecipazione al profitto acquista carattere effettivo di reale incremento del salario e sorgono forme di retribuzione che interessano il lavoratore al maggior successo dell'impresa (varie specie di salarî a premio in connessione anche ad applicazione della organizzazione scientifica del lavoro). Il salario-tipo che va istituendosi, specie in Inghilterra, cancella le differenze di retribuzione fra operai di diversa categoria quando eseguiscano il medesimo prodotto, senza che ciò impedisca di dare ulteriore retribuzione all'operaio che superi la produttività normale. Ne avviene una selezione di lavoratori in base alla rispettiva abilità, più che in ragione del diverso grado di opzione delle varie schiere della popolazione lavoratrice; anche l'inferiorità del salario femminile va restringendosi a quelle produzioni nelle quali è veramente inferiore il rendimento della donna, tendendosi, a parità di risultato, all'uguaglianza delle retribuzioni.

Questo miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice è difficile a documentare quantitativamente, anche perché le statistiche dei salarî si riferiscono a pochi rami professionali, perché il saggio del salario non rappresenta nemmeno il guadagno complessivo degli operai, e più perché il salario reale (la quantità dei prodotti che col salario monetario possono acquistarsi), che ha sostanziale importanza, si può calcolare con precisione anche minore del nominale. Ecco alcuni indici più significativi. In Inghilterra si calcola che i salarî industriali siano cresciuti negli ultimi 50 anni dell'anteguerra dal 50 al 100% a seconda delle varie industrie e con oscillazioni nel saggio d'incremento: anzi un declivio si è in qualche anno manifestato, p. es. negli ultimi del sec. XIX con ripresa nel 1906 e 1907, ma a lunghi periodi l'ascensione è indubbia e potente. Dalle più recenti inchieste britanniche sul lavoro si desume che quelle classi lavoratrici dispongono di un risparmio complessivo di 511 milioni di sterline, e questa cifra è data dai rappresentanti delle classi operaie organizzate. Negli Stati Uniti i salarî sono anche più elevati; la media del risparmio per ogni operaio tocca i 600 dollari; gl'ispettori del dipartimento del lavoro hanno accertato che nelle abitazioni degli operai americani si trovano mobili di lusso, specchi, e non di rado anche pianoforti; molti operai hanno anche l'automobile.

In Italia fra il 1870 e il 1903 si constata un'elevazione ragguardevole dei salarî, specie nelle industrie metallurgiche, navali e nelle tessili. Dal 1862 al 1904 i salarî nominali aumentano come da 100 a 183, i reali come da 86 a 181 nelle industrie tessili; in quelle della carta come da 100 a 196, i salarî nominali, e come da 86 a 293 i salarî reali; nelle chimiche come da 100 a 183 i nominali, da 86 a 181 i reali; nelle industrie edilizie come da 100 a 183 i salarî dei muratori, come da 100 a 215 quelli dei manovali, come da 100 a 172 quelli dei garzoni e in complesso come da 86 a 186. Aumenti pure si rilevano fra il 1907 e il 1909. Nel dopoguerra il salario nominale aumenta fortemente rispetto all'anteguerra, ma bisogna tener conto del deprezzamento della moneta e dell'aumento del costo della vita. Dai dati della Cassa nazionale per assicurazione infortunî si rileva che sino al 1921 i salarî aumentano più del costo della vita. Il costo della vita per le classi operaie urbane è stato nella media del 1921, a parità di consumo, cinque volte maggiore che nel 1914, mentre i salarî nominali erano cinque volte e mezzo maggiori. Ma dalla metà del 1921 il costo della vita è diminuito più lentamente che i salarî, cosicché il salario reale nel 1923 poteva ritenersi in media quasi uguale a quello dell'anteguerra.

In Inghilterra pure nella media generale i salarî reali dal 1919-20 si calcola abbiano raggiunto il limite dell'anteguerra con qualche maggiore vantaggio dei lavoratori non qualificati rispetto ai qualificati: il tenore di vita che potrebbe dirsi del lavoratore medio è anzi piuttosto migliorato, con molte differenze però da industria a industria: queste le conclusioni accolte nella relazione Colwyn dopo disamina accurata di indagini statistiche e di deposizioni testimoniali di competenti (Report of the Committee on National Debt and Taxation, 1927).

Se dunque non può dirsi, come asseverano taluni corifei del capitalismo, che ad esso spetti la gloria di avere inaugurato il millennio della prosperità e della pace, debbono considerarsi anacronistiche e fallaci le affermazioni di coloro che proclamano il dogma dell'immiserimento delle classi lavoratrici. Queste hanno ottenuto salarî che consentono loro un tenore di vita relativamente elevato, sì che può dirsi abbiano partecipato e partecipino all'incremento di benessere materiale e morale. Il capitalismo perciò, e nel rispetto della produzione e in quello della distribuzione, manifesta superiorità spiccata sugli altri sistemi che lo precedettero, e su tutti i sistemi imperniantisi sulla collettivizzazione dei mezzi produttivi, nei quali si urterebbe contro la fondamentale difficoltà dell'assegnazione rispettiva dei compiti e si dovrebbe ad ogni modo attuare una distribuzione che toglierebbe i maggiori impulsi all'operosità e all'accumulazione; se si aggiunge la forte coercizione, intollerabile in paesi avanzati in civiltà, si scorge come essi necessariamente addurrebbero a decremento enorme di produzione e ad arresto di progresso economico e sociale.

Bibl.: Come diciamo nel testo, tardi è entrata nella scienza economica la voce capitalismo e pure recenti sono le indagini sulle forme dell'impresa e dell'economia. Per orientamento generale sulla definizione del concetto di capitalismo cfr. R. Passow, Kapitalismus, eine begrifflich-terminologische Studie, Jena 1918. Per studî sulla evoluzione delle forme d'impresa e d'economia, oltre il Capitale del Marx (il 1° vol. tradotto in italiano, Torino 1886), v. K. Bücher, Die Entstehung der Volkswirtschaft, 12ª ed., Tubinga 1917; W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, 2ª ed., Lipsia 1916; J. Strieder, Studien zur Gesechichte der kapitalistischen organisationsformen, Monaco-Lipsia 1914. È molto utile per lo studio dell'opera del Sombart la traduzione e riduzione di G. Luzzatto, Firenze, e la sua analisi: Le origini e gli albori del capitalismo, in Nuova rivista storica, Milano-Roma-Napoli 1922; A. Loria, La Morphologie sociale, Bruxelles-Parigi 1905; G. Volpe, Il moderno capitalismo, in Raccolta di scritti storici in onore del prof. Romano, Pavia 1907; C. Barbagallo, L'oro ed il fuoco (capitale e lavoro attraverso i secoli), Milano 1927; id., Le origini della grande industria contemporanea, 2 voll., Venezia 1929-30. Per il capitalismo antico il lettore italiano può consultare l'opera di G. Salvioli (1ª ed. francese: Le capitalisme dans le monde antique, Parigi 1907), Il capitalismo antico, 2ª ed., postuma, Bari 1929. Per l'esame dei caratteri generali del capitalismo si può dire che dovrebbero citarsi tutti i trattati di economia politica e molte monografie: Hanno particolare interesse quelle di A. Loria, L'analisi della proprietà capitalista, Torino 1889; La costituzione economica odierna, Torino 1889; La sintesi economica, Torino 1905; I procedimenti della riforma economica, Torino 1922; Corso d'economia politica, Torino 1927; il libro del Pareto, Les systèmes socialistes, Parigi 1903. Libro riassuntivo: Hartley Withers, In difesa del capitalismo, trad. di Angelo Crespi, Bari 1922.

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