CAPITELLO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1993)

CAPITELLO

C. Barsanti

Modulo architettonico fondamentale connesso con un sostegno (colonna, pilastro, lesena, anche eventualmente addossati a pareti, nel qual caso si ha un semicapitello) e con altre membrature, in modo più o meno complesso, entro sistemi che canonizzati danno luogo nell'Antichità a speciali tipologie dette 'ordini' (Vitruvio, De architectura, III-IV). Nel Medioevo l'eredità antica del c. è testimoniata da un'ingente e varia casistica e anche dalla diffusione del termine in relazione con una perdurante anche se non determinante nozione degli ordini. Così Isidoro di Siviglia (Etym., XIX, 10, 22-24) ricorda le colonne doriche, ioniche, tuscaniche e corinzie, a cui aggiunge significativamente quelle 'attiche', a sezione non circolare, fornendo del c. la seguente etimologia: "Capitolia dicta quod sint columnarum capita, quasi super collum caput". La definizione è ripresa da Rabano Mauro e da Vincenzo di Beauvais (Reudenbach, 1980); in essa si riconoscono antiche suggestioni antropomorfiche e congiuntamente proporzionali che ebbero rinnovata fortuna durante il Rinascimento.Il termine c. risulta ampiamente registrato nei glossari delle raccolte di testi e citazioni pertinenti ai materiali artistici (Schlosser, 1892; Mortet, Deschamps, 1911-1929; Lehmann-Brockhaus, 1942-1944; 1955-1960). Merita particolare menzione l'iscrizione dedicatoria di un c. di S. Savino di Piacenza (1100 ca.), in cui esplicitamente la corporazione dei mandriani (bubulci) ne vanta l'offerta al santo titolare, qualificando il manufatto per la sua bellezza ("[...] tibi [...] hoc bellum cum cespite dant capitellum"; Porter, 1915-1917, III, p. 271). A questo esempio altri se ne potrebbero collegare, ove ancorché il termine non sia espresso, la firma del maestro esecutore è apposta al c., specie se figurato, sottolineandone così l'importanza: Saint-Benoît-sur-Loire, c. firmato da Unbertus (Vergnolle, 1985b); Bernay, abbaziale di Notre-Dame, c. con il nome di Isembardus (Grodecki, 1950, pp. 34-35, fig. 6); Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica, c. già in S. Maria di Aurona con l'iscrizione: "Iulianus me fecit sic pulcrum" (Testi, 1904); Monreale, duomo, c. nel chiostro con firma Romanus (Salvini, 1962, pp. 202, 273); Ferentino, duomo, c. del ciborio di Drudus de Trivio, ca. 1240. Da tale circostanza si deduce altresì un ideale punto d'arrivo del c. medievale, quello di un'autonoma invenzione ed elaborazione, nella fattispecie a figure, addirittura con scene narrative, che si distacca dalla serialità omogenea che era propria della tradizione antica (presto arricchita peraltro da numerose varianti con componenti figurali: Mercklin, 1962). Tuttavia l'eredità degli 'ordini' raccolta da Isidoro non viene cancellata, come pure risultano numerose le trascrizioni del testo vitruviano, che dà luogo, almeno in un caso noto di età carolingia (Sélestat, Bibl. Humaniste, 17, già 360/1153 bis, c. 36r) a interpretazioni grafiche di c. (Bischoff, 1971). Indizi del tutto simili si ricavano da codici di Saint-Benoît-sur-Loire del sec. 11°, valorizzati per una possibile relazione con i c. del porche della stessa abbaziale (Roma, BAV, Reg. lat. 596, c. 27r: due disegni di torri con varie forme di c.; Vergnolle, 1985b, p. 120). Il filo delle testimonianze grafiche, entro una certa misura anche teoriche, diviene più consistente a partire dal sec. 13° (per es. negli alzati del taccuino di Villard de Honnecourt, Parigi, BN, fr. 19093, cc. 10r, 31v, 32v; nelle sagome e nei disegni dei grandi cantieri gotici). Disegni di c. vengono espressamente menzionati e discussi nei documenti (Annali della Fabbrica del duomo di Milano) e di recente se ne è ravvisato uno (Milano, Arch. Storico Civ. e Bibl. Trivulziana, Raccolta Bianconi, tomo II, sezione in pianta) attribuibile all'architetto Jean Mignot (Cadei, 1991, pp. 95-96). In ogni caso il tenore funzionale di tali testimonianze fa seguito alla riduzione degli aspetti formali dell'articolazione del c., come emerge bene anche da un semplice confronto con il ricupero della terminologia più sofisticata nella trattatistica moderna d'ispirazione vitruviana (Morolli, 1986).Con le prove grafiche e teoriche non vanno confuse quelle meno dirette che si possono attingere all'iconografia dei manoscritti (o della scultura e della pittura), perché in tal caso si pone il problema di fonti che possono essere diverse e indipendenti dalla produzione reale (Sauvel, 1948). Tuttavia raffigurazioni ben classificate cronologicamente e per ambiti culturali, come le tavole dei canoni (Nordenfalk, 1938), offrono un repertorio di c. che può suggerire scambi, come per l'immissione di temi zoomorfi e stilizzazioni vegetali comuni all'oreficeria e ai tessuti, ed estranei al c. di tradizione antica. Per altro verso proprio tra i resti di un manufatto in avorio di età carolingia ritrovato nell'abbazia di Seligenstadt si rinviene la tipologia ionica più aderente ai modelli antichi (Büchler, Zeilinger, 1971). L'architettura raffigurata in immagini e oggetti conferma la diffusione del c. come modulo onnipresente e ben distinguibile. Nella porta di bronzo dell'oratorio di S. Giovanni Evangelista nel battistero Lateranense a Roma (1195) si sono ravvisati echi delle prime forme di c. a crochets introdotti dai Cistercensi nel Lazio (Iacobini, 1990, pp. 90-91, tav. XCI).La documentazione dei c. modellati in stucco (Borg, 1972, pp. 117-118), che percorre tutto il Medioevo, mostra a sua volta la rilevanza di aspetti primariamente formali del c., che andavano oltre la funzione riconosciutagli di mediazione tra sostegno e struttura. Infatti la parte propriamente modellata, se pur non si tratta di esemplari del tutto fittizi a cornice di rilievi o di decorazioni parietali, si circoscrive a un mero rivestimento, a fingere fogliami o raffigurazioni: si vedano per l'età carolingia i casi di S. Salvatore a Brescia, di S. Benedetto di Malles, di Germigny-des-Prés e di Paderborn (base d'imposta ritrovata nella Bartholomäuskapelle; Mayer 1961-1963); per il sec. 11° S. Pietro al Monte sopra Civate e Saint-Remi di Reims, e ancora in Sassonia gli esempi dalla cripta di St. Servatius di Quedlinburg alla recinzione della Liebfrauenkirche di Halberstadt. Il culto per il c. come necessario ingrediente formale è confermato dai complementi pittorici che integrano versioni apparentemente semplici e riduttive (Poitiers, Saint-Hilaire; Camus, 1989) e da versioni interamente finte in pittura: Lorsch, decorazione interna della Torhalle, anche se tutta da verificare nei dati autentici; Corvey, c. dipinti in rispondenza a quelli scolpiti nel Westwerk (Claussen, in Saint-Germain d'Auxerre, 1990); Treviri, St. Maximin, sequenza di c. e colonnette nelle pitture della cripta; Milano, S. Nazzaro Maggiore, c. dipinto sull'ingresso della cappella di S. Lino; Aosta, cattedrale, tracce di c. dipinto nella navata; Acquanegra sul Chiese, S. Tommaso, ciclo a scene separate da colonne dipinte con c. di varia foggia (Toesca, 1987); Modena, duomo, c. a crochets dipinti a seguito della rielaborazione campionese nel primo sec. 13° (Autenrieth, 1984).A tali surrogazioni o integrazioni in superficie, che si affidano alla memoria dei tipi tradizionali e più correnti, fa riscontro un'invenzione radicalmente nuova identificabile nel c. 'cubico' (ted. Würfelkapitell; ingl. cushion capital) in varianti sempre rispondenti all'essenziale geometrizzazione del passaggio da una sezione circolare (colonna) a una quadrangolare, per l'appoggio di una struttura, normalmente la ricaduta di un arco (Dehio, Bezold, 1892; Evers, 1967). Mentre il c. corinzio antico, di gran lunga il tipo più conosciuto e variamente imitato per tutto il Medioevo, risolve questa transizione nella sagoma flessuosa del kálathos rivestito di foglie, affidando all'abaco che vi si appoggia l'immissione del modulo quadrangolare, il c. cubico proietta in ampie superfici parallelepipede il modulo quadrato, ritagliandolo verso il basso sugli spigoli in modo da raggiungere la base circolare. Ci sono versioni rigorosamente geometriche che prestano alle quattro facce l'aspetto di un semicerchio. A tali semplici volumi si aggiunge in fasi ulteriori l'arricchimento di riempitivi ornamentali e figurati (Kluckhohn, 1955), oppure un'articolazione volumetrica 'a festoni' (scalloped o scallop type). Affini possono considerarsi altre versioni elementari del c. di tipo 'scantonato', da alcuni detto 'cubico lombardo' (o 'prelombardo'; Rivoira, 19082), da altri semplicemente 'cubico' (Enlart, 19273), mentre di recente se ne è isolata una variante detta ad angles abattus rectilignes (Cabanot, 1982). Tali versioni si distinguono da quelle del c. cubico nato in ambito germanico per tagli meno rigorosamente geometrici e hanno diffusione ovunque. La loro empirica conformazione ha fatto pensare a un'origine da semplici sbozzature già documentate in monumenti antichi. Anche così si fronteggiava l'intensificata richiesta del grande rinnovamento architettonico che si avviò intorno all'anno Mille. In tale congiuntura si afferma come complemento del c. un modello che si ispira al pulvino tardoantico e che così viene denominato, ma che meglio si definisce base d'imposta (franc. tailloir; ted. Kämpfer). Si tratta di una pietra parallelepipeda che interponendosi tra il c. e la muratura che vi si appoggia compensa le discrepanze dimensionali e anche di compagine, specie quando il c. non appositamente eseguito, eventualmente un pezzo antico in riuso, necessiti di una tale mediazione. Per questo motivo assume talora una forma troncoconica o troncopiramidale rovesciata. In ogni caso l'abaco, pertinente strettamente al c., è di necessità quadrato, mentre la base d'imposta può essere anche rettangolare (Viollet-le-Duc, 1854a; Deichmann, 1982, p. 528). Naturalmente anche la base d'imposta può assumere una particolare dignità di lavorazione.Sostanzialmente affine alla base d'imposta è, per identiche motivazioni tecniche, il c. 'a stampella' (ted. Krückenkapitell), di profilo trapezoidale, concepito per raccordare spessori consistenti a piccole colonne, per es. in logge di piccole dimensioni, nelle polifore, nelle aperture dei campanili in genere e infine nei chiostri. Specialmente in quest'ultimo caso si hanno varianti riccamente ornate, a cominciare dagli esempi ispano-visigoti del sec. 7° (interno di San Pedro de la Nave, Zamora). Nei chiostri si afferma altresì, in relazione con l'uso di colonne binate (in senso trasversale rispetto al muro sostenuto), il c. 'a coppia' (Viollet-le-Duc, 1854b). Si prospetta dunque un'estrema varietà di impieghi e di scelte che solo si comprende nel quadro dell'intero svolgimento dell'architettura, nel quale il c. ereditato dall'Antichità assume un più spiccato ruolo funzionale, non strettamente vincolato agli 'ordini' (Vergnolle, 1985), adattandosi flessibilmente alle situazioni più disparate (Viollet-le-Duc, 1854b).

Riuso dei capitelli antichi

Il fenomeno del riuso dei c. investe largamente la Tarda Antichità e il suo proseguimento nel Medioevo si rivela sul piano storico tra i fattori di più tangibile continuità tra le due epoche, oltre che come tramite incomparabile di formule, altresì di trasmissione di modi propri dei tipi antichi. Si conseguiva per questa via una presenza diretta di modelli anche più incombente di quella esibita da superstiti monumenti antichi in rovina. Studi recenti dimostrano che tale immissione nei contesti medievali, lungi dall'essere solo di comodo per sopperire alla penuria di materiali e di mezzi, entra nel circolo di nuove istanze compositive e inventive (Deichmann, 1982; Greenhalg, 1984; Settis, 1986; Vergnolle, 1990b). Mancano tuttora inventari esaustivi dei materiali riusati ma ricerche mirate non necessariamente ai soli c. convalidano l'impressione che i risultati sistematici raggiunti dalla Tarda Antichità nel riuso di intere serie omogenee di pezzi siano venuti meno per le crescenti difficoltà di ricupero. Tuttavia restano singoli casi in cui la disponibilità rimane aperta, ed è naturalmente quello di Roma, dove sino al sec. 12° l'esecuzione di nuovi c. è piuttosto l'eccezione che la regola (Herrmann, 1988). In generale si possono notare sforzi di sistemare almeno per gruppi i pezzi riusati, come si fa del resto per le colonne (nel S. Salvatore di Brescia, nella cripta di S. Salvatore a Montecchia di Crosara, sec. 8°-9°), provvedendo talora all'imitazione di un pendant per conseguire una certa similarità (basilica di Aquileia, transetto, sec. 9°). Per converso non è rara l'introduzione di c. di qualità, anche con impegnative rielaborazioni dei singoli pezzi, come nel duomo di Pisa (Tedeschi Grisanti, 1990), contravvenendo al rigore tipologico degli ordini antichi. Caso unico di esplorazione esauriente e vastissima di serie di c. riusati integrati da serie moderne è quello del S. Marco di Venezia (trecento c. riusati su seicentoquaranta censiti, di cui quindici antichi o tardoantichi, duecentosessantacinque tardoantichi romano-orientali, venti bizantini, il resto dell'età della costruzione con preponderante nucleo del sec. 11°; Corpus der Kapitelle, 1981). Si conferma anche qui, nella sopravvivenza del modulo e nella sua diffusione non inferiore a quella dell'Antichità, la tendenza ad accogliere assortimenti e varianti morfologiche di ogni genere. Il fenomeno è di tale vastità da potersi confrontare con i rivolgimenti lessicali e sintattici che dalla lingua latina portarono alle lingue romanze. È sintomatico che solo nel sec. 15°, nel più precoce ambiente umanistico toscano, riaffiori l'aspirazione al ricupero degli ordini attraverso l'uniformità seriale dei capitelli. L'apprezzamento che Giovanni Gherardi da Prato dà del battistero di Firenze (1425 ca.) si fonda, per intenderlo come tempio antico (Thoenes, 1980), su una qualità omogenea e insieme gerarchizzata dei c. - tale criterio è poi chiaramente sancito da L.B. Alberti nel De re aedificatoria (a cura di G. Orlandi, Milano 1966, I, p. 73) -, non rispondente peraltro al vero: i c. riusati nell'ordine inferiore interno sono certo antichi ma non omogenei, mentre lo sono quelli d'imitazione medievale dell'ordine superiore interno e dell'esterno. Dunque si può concludere che anche nel battistero fiorentino il riuso rappresenti un filone di autentica e ininterrotta trasmissione del patrimonio formale antico, oltre che un aspetto di autentica integrazione dell''antico' nella produzione 'moderna'.Nel riuso dei c. si rivelano talora intenti di esibizione dell'Antichità in funzione di un'ideologia del potere che si richiama all'Impero romano e a una connessa legittimazione cristiana. Colonne e c. sono portati da Ravenna ad Aquisgrana e a Centula/Saint-Riquier per volere di Carlo Magno, e così a Magdeburgo per volere di Ottone I. Riusi ingenti di significato politico-religioso si possono considerare quelli voluti dai papi della Riforma della Chiesa, e tali si possono considerare quelli promossi dall'abate Desiderio di Montecassino, o vagheggiati da Suger per la sua abbazia di Saint-Denis (Brenk, 1983). Motivazioni analoghe si possono sostenere per dichiarate riprese delle formule antiche (duomo di Spira; duomo di Pisa). La colonna ebbe in simili casi una sorte non necessariamente coincidente, talora anzi prevalente, rispetto al c., per le più rare possibilità di restituzione e di ricupero, almeno nelle proporzioni monumentali. A questi materiali si guardava talora come a vere e proprie reliquie (Bandmann, 1979; Deichmann, 1982). Ma vi sono casi in cui i c. stessi sono usati come deposito di reliquie vere e proprie (St. Michael di Hildesheim; Keller, 1975; si veda anche Declercq, 1983). Nelle interpretazioni simboliche (da Onorio di Autun a Sicardo di Cremona) è alle colonne che tocca l'onore di rappresentare gli apostoli, e tuttavia Beda considera i c. praecordia fidelium doctorum; altrove il c., sulla base di citazioni paoline, è detto caput Christi (Reudenbach, 1980). Allusioni simboliche si sono ravvisate nei c. con teste, sulla base di raffigurazioni della miniatura (Cames, 1973).

Dall'Alto Medioevo all'età romanica

Catalogazioni sistematiche, peraltro ancora in corso o solo agli inizi, come il Corpus della scultura altomedievale in Italia (edito dal CISAM), il Recueil général des monuments sculptés en France pendant le Haut Moyen Age (IVe-XIe siècles), il Corpus of Anglo-Saxon Stone Sculpture (edito dalla British Academy), forniscono già, insieme con altre ricerche variamente estese e localizzate, anche per i c. un'idea sufficientemente chiara del confronto tra l'eredità antica e le nuove forme sperimentate in Occidente dopo il crollo dell'Impero romano. Da una parte si conferma l'esemplarità prevalente del c. corinzio, sia nelle versioni a foglie lavorate sia in quelle più stilizzate a foglie lisce, già presenti nelle tipologie tardoantiche. Vi è una diffusa casistica nei piccoli formati destinati a cibori, a pergulae presbiteriali, ma anche a cripte, con casi estremi di semplificazione, dove foglie e racemi possono essere richiamati talora con elementari graffiti (cripta di S. Secondo di Asti). Non ebbero seguito (se si eccettua un esemplare attribuibile al sec. 8°-9° nella cripta di S. Procolo a Verona; Sogliani, 1988), ma sono considerati originale invenzione in relazione con la cultura longobarda del sec. 7°, alcuni c. 'alveolati' riusati nella cripta di S. Eusebio a Pavia (Romanini, 1991, p. 18). Nella fase 'liutprandea' del secolo successivo sembrano prevalere rievocazioni dell'antico corinzio (c.d. tempietto longobardo di S. Maria in Valle a Cividale). Larga e varia è l'esemplificazione in area francese (Hubert, 1938) e spagnola (Schlunk, 1974). Più rare le riprese del c. ionico (Auxerre, Saint-Germain, cripta; Fulda, St. Michael; Roma, S. Saba; Unterregenbach, cripta, ora a Stoccarda, Württembergisches Landesmus.), non a caso selezionato con intento classicheggiante nell'ordine superiore della Torhalle di Lorsch. Diversamente, nella renovatio del sec. 9° si manifesta una preferenza per il corinzio che collima con il favore accordato in generale ai modelli basilicali paleocristiani (Krautheimer, 1942). Da segnalare come caso estremo di lusso materico la presenza un tempo di c. corinzi (e di basi; identificati in pezzi superstiti presso il Louvre a Parigi) fusi in bronzo nella Cappella Palatina di Aquisgrana (Kreusch, 1968). Nella dimensione monumentale sono altresì degne di menzione le serie del tipo a foglie lisce, accompagnate da raffinate basi d'imposta di avanzata età carolingia nel St. Justinus di Höchst (Meyer-Barkhausen, 1933; Jacobsen, 1988) e nel Westwerk di Corvey. Anche se estranei all'irrecuperabile proporzionalità degli ordini antichi, questi c. ne costruiscono una sui rapporti interni (Kottmann, 1970). Questo tipo del c. corinzio resta destinato a grande successo nella successiva fioritura ottoniana e anche nell'età romanica, per es. in ambito padano, toscano e catalano (Vergnolle, 1990b). L'esemplarità antica resta il punto di riferimento naturale, come si è mostrato per il gruppo dell'abbaziale di Saint-Sever (Vergnolle, 1986); né va dimenticato che sulle foglie lisce potevano essere dipinti i loro particolari. Singolare a Firenze (S. Pier Scheraggio, S. Miniato) la soluzione che assembla foglie lisce in blocchetti laterizi separati come in un paramento murario (metà sec. 11°). Rielaborazioni del corinzio con foglie lavorate o non lavorate assumono talora formulazioni complicate e pletoriche, come nei gruppi ben datati dell'oratorio di Ansperto presso S. Satiro a Milano, dell'872, e della pieve di San Leo, dell'881-882 (Arslan, 1953).Si considera come speciale invenzione di età ottoniana il già detto c. cubico, che compare in forme rigorose per la prima volta nel St. Michael di Hildesheim (ma poi a Essen, cattedrale; Ottmarsheim, Sainte-Marie; Dehio, Bezold, 1892, pp. 676-677; Evers, 1967), di ampia diffusione europea (Vignory, Montier-en-Der, Como, ecc.) e destinato a ulteriori elaborazioni sino alla tarda età romanica e oltre. Tardive formulazioni laterizie perdurarono in area padana sino al 14°-15° secolo.Affine, ma di ben più circoscritta espansione, nella Sassonia e nel Basso Reno, sporadicamente altrove, è il c. 'a fungo' (ted. Pilzkapitell; Knoche, 1971), che si può pensare dedotto dalla forma delle basi, talora usate disinvoltamente in luogo dei c. (come, per es., nella cripta di Notre-Dame-du-Port a Clermont).In età altomedievale hanno altresì inizio e si continuano nel sec. 11° forme più sommariamente scantonate, a cui si tendeva ad attribuire (Rivoira, 19082) un'origine lombarda su basi cronologiche poi largamente rivedute, mentre se ne riscontra un'ampia diffusione in varie regioni dell'Italia (Umbria) e della Francia (Cabanot, 1982). Questo tipo di sbozzatura (épannelage) costituisce una base strutturale per ulteriori e più complesse formulazioni in cui a residui di corredo fogliaceo si aggiungono svariati innesti ornamentali, zoomorfi e figurati. Già Viollet-le-Duc (1854b, pp. 488, 491, fig. 10) riteneva una volumetria simile come nucleo originario del c. medievale e la definiva "un cono tronco rovesciato, compenetrato da un cubo che termina in una proiezione orizzontale".Requisiti strutturali e di corredo ornamentale si differenziano già nell'Alto Medioevo secondo precoci ripartizioni regionali che, pur non da intendersi rigidamente, accompagnano l'avvio di nuove identità culturali territorialmente distinguibili, entro le quali si verificano tuttavia scambi. Queste identità territoriali corrispondono in gran parte a quelle rappresentative dei maggiori filoni dello sviluppo dell'architettura e della scultura nel sec. 11°, dalla Catalogna, all'Aquitania, alla Normandia, al bacino renano-mosano, alla Sassonia, alla fascia alpina, alla Lombardia, alla Puglia, e così via.Gli scambi non avvengono solamente tramite il recupero e il trasporto a notevole distanza di pezzi antichi, ma anche attraverso la chiamata di maestranze da regione a regione. Così il vescovo Meinwerk, nel 1017, chiama a costruire la Bartholomäuskapelle di Paderborn graecos operarios, al che si deve l'insolito épannelage dei c. con alte basi d'imposta (ancorché non possano dirsi bizantineggianti nei particolari, tanto che graecos è stato spesso interpretato come proveniente dalle zone grecizzate d'Italia, dove peraltro dominava allora il riuso di pezzi antichi).Ricca di scambi e portatrice di una produzione di c. che non ha eguali in Europa è la penisola iberica, dove fiorisce la grande civiltà del Califfato, che si esprime in grandi architetture come la moschea di Córdova, con c. prevalentemente ispirati a modelli bizantini e antichi. Si tratta di tipi corinzi a foglie lisce, oppure a foglie lavorate con netti e forti incavi. Ne trasse ispirazione una parte notevole della successiva produzione romanica iberica (Mayer, 1924). È degno di nota che a Pisa, uno tra i massimi centri del riuso di materiali antichi, sia pervenuto anche un c. cordovano del sec. 10°, singolare rielaborazione del c. composito, munito di iscrizione cufica con firma del maestro Fath (Baracchini, 1986).

Età romanica

Procedendo nel sec. 11° si assiste, in concomitanza con una crescente attività architettonica che si espande in quasi tutte le contrade europee, alla più frequente realizzazione di serie organiche di capitelli. Nella serialità si innestano spesso vigorose invenzioni plastiche, per cui si può ben dire che mai come nella lunga fioritura che si svolge dalla prima metà del sec. 11° sin entro il 13° le sorti del c., modulo per eccellenza architettonico, s'identificano con quelle della stessa scultura, con la cui storia esso finisce con l'immedesimarsi. Qui ci si limita a seguire piuttosto le principali declinazioni morfologiche e tipologiche. Non a caso le più grandi imprese plastiche implicano non solo i fregi e i portali, ma spesso, con l'apporto dei maggiori maestri, i c., i quali entrano sempre più frequentemente nel congegno di complessi programmi iconografici anche nelle facciate, nei chiostri di ambizione monumentale e più avanti in edifici profani, come porte di città (Dufour Bozzo, 1989) e sedi del potere. Entro tali sviluppi le nuove basi strutturali acquisite si confrontano con rinnovato ricorso ai modelli antichi.Ancora entro i primi lustri del secolo si datano le parti più antiche di Saint-Philibert di Tournus, rappresentative per la tipologia 'meridionale' del c. in confronto con quella ottoniana (Henriet, 1990). Intorno al 1020 si situa la prima serie di c. di Sant Pere de Rodes (Fau, 1978), con rivestimenti ornamentali vegetali detti a fleurons, che trovano affinità in esemplari di Saint-Philibert di Tournus e diramazioni nelle regioni centrali della Francia (cattedrale di Le Puy; Durliat, 1984). Legata fedelmente al tipo corinzio è invece ancora la serie realizzata per la ricostruzione della basilica di Aquileia voluta dal patriarca Poppone e consacrata nel 1031 (Buchwald, 1966; Le paysage monumental, 1987, p. 120ss.). Secondo una proposta cronologica che identifica il porche pervenuto di Saint-Benoît-sur-Loire con la costruzione promossa dall'abate Gauzlinus intorno al 1026, i c. con figure e scene narrative, uno dei quali reca la firma del maestro Unbertus, sarebbero tra i primi organicamente elaborati insieme con la parte fogliacea di derivazione corinzia (Vergnolle, 1985b; per una diversa interpretazione Schmitt, 1981).Avvisaglie in questo senso avrebbero presentato molto prima i c. della cripta di Saint-Bénigne di Digione, tra il 1001 e il 1017, anche se la compagine attuale è un contesto non affidabile (Schlink, 1978; per una cronologia più tardiva, giustificata con la lavorazione après la pose, Salvini, 1978). Singolari affini innesti di figure s'incontrano nei c. della cripta di S. Salvatore al monte Amiata, consacrata nel 1035 (Giubbolini, 1990). In altri ambiti (Normandia, regione renano-mosana) permane l'attaccamento a forme più semplici e tradizionali. In Normandia in particolare al nucleo importante e ben databile dei c. di Bernay (Grodecki, 1950) seguono svolgimenti recentemente chiariti in modo esemplare (Baylé, 1991, p. 107ss.). Nel duomo di Spira è possibile il confronto tra la prima fase 'salica' e la complessa ristrutturazione della seconda metà del secolo, in cui intervengono ricuperi classicheggianti (Lehmann, 1951) e tipologie minori con varia forma e ornamentazione (Kubach, Haas, 1972). Nel duomo di Pisa, con la restituzione della colonna monolitica si accompagna pure quella del c. anticheggiante, riservando le maggiori variazioni alle serie degli ordini superiori (Sanpaolesi, 1965); nell'abside maggiore, pur con concessioni a varianti di riuso, si abbozza il ritorno a una sovrapposizione di ordini. Nel S. Marco di Venezia il riuso privilegia inversamente le colonne, mentre nei maggiori c. domina una rievocazione raffinata di forme tardoantiche (Corpus der Kapitelle, 1981). Nel Poitou appare, intorno al 1060, nelle absidi di Saint-Hilaire di Poitiers, una caratteristica tipologia di c. detto 'a foglie grasse' (Camus, 1987).L'impulso a più feconde invenzioni plastiche appartiene all'Aquitania (chiostro di Moissac, concluso nel 1100; Saint-Sernin di Tolosa) e poi alla Borgogna, con i grandi c. del deambulatorio di Cluny III, per i quali la maggioranza degli studiosi accetta ora la cronologia al 1095 ca., dove si ripresenta il confronto tra un complesso programma figurativo e un superstite esemplare di rievocazione corinzia (Conant, 1930; Vergnolle, 1972; Naredy Reiner, Naredy Reiner, 1986). Anche la penisola iberica propone complessi precoci, come per es. l'atrio del Panteón de los Reyes a San Isidro di León, iniziato nel 1074 ca. (Robb, 1945; Durliat, 1990), a cui segue, alle soglie del secolo seguente, la ricca serie della stessa collegiata, con motivi figurali e ornamentali su una struttura memore della serie precedente, e poi, con qualche incertezza cronologica ma probabilmente in parallelo o poco dopo Moissac, il chiostro del monastero di Silos e i c. della cattedrale di Jaca (Moralejo Alvarez, 1979).In Italia, mentre in Lombardia si avviano pure rielaborazioni anticheggianti, ma in una prevalente varietà di riprese ornamentali di per sé più rappresentative (S. Abbondio di Como, S. Ambrogio di Milano; Arslan, 1953) e destinate a grande diffusione per il tramite di quella che è stata denominata la 'corrente comasca' della scultura romanica europea (Francovich, 1935-1936), le più elevate invenzioni plastiche appaiono nel duomo di Modena (primi lustri del sec. 12°), in cui domina la figura di Wiligelmo. Il tipo corinzio è selettivamente riservato e finemente elaborato all'interno (Peroni, 1987), come avviene nel Saint-Sernin di Tolosa (Lyman, 1976; Durliat, 1986) e in chiese del Mezzogiorno francese; invece all'esterno dominano i temi a figure (semicapitelli delle arcate e c. delle loggette) e vi si può osservare una ripresa consapevole e originale da un c. antico con maschere fogliate, ora all'interno, adattato ad acquasantiera (Rebecchi, 1984; Pagella, 1984).A Bari e in Puglia si conserva una ricca documentazione di c., che inizia precocemente nel sec. 11°, oltre che con riusi dall'antico, con penetrazione di modi orientali (cattedrali di Taranto, Vieste, poi S. Nicola e cattedrale di Bari), ma anche con sperimentazioni di tipi a foglia liscia, come nel S. Basilio di Troia, o cubici, in S. Nicola alle Tremiti (Alle sorgenti del Romanico, 1975). Altri sviluppi nel Mezzogiorno si ancorano a vicende politico-culturali e religiose (Montecassino, Salerno, promozione normanna).Ulteriori linee di sviluppo dell'area italiana settentrionale non possono prescindere da una personalità centrale per il sec. 12° come Nicolò, scultore attivo anche fuori d'Italia, a Königslutter in Bassa Sassonia (1136 ca.), dove è sintomatico il confronto tra i c. o i semicapitelli nicoliani e quelli cubici legati alla tradizione locale (Gosebruch, 1980; Nicholaus e l'arte del suo tempo, 1985). I c. nicoliani partono dai modelli modenesi, ma li svolgono con arricchimento ridondante di particolari ornamentali e di panneggi: il repertorio più vario è a Piacenza (c. all'interno del duomo; Lomartire, 1991), poi nella cattedrale di Ferrara (esterno) e in S. Zeno di Verona, dove almeno alcuni c. dell'interno gli vanno restituiti.Sotto l'etichetta di 'maestri campionesi' si suole iscrivere anche una serie di c., tra cui il gruppo della torre Ghirlandina di Modena (1170 ca.) con rari soggetti profani (c. dei Giudici; Grandi, 1984, p. 545).Un rinnovamento che investe anche il c. e che porta nella direzione dell'assorbimento di modi francesi si trova nella grande personalità di Benedetto Antelami, con particolare chiarezza nel battistero di Parma (dopo il 1196), anche se si sono sollevati dubbi sulla pertinenza al suo intervento, giustificabili al più per la serie superiore interna (Quintavalle, 1989; 1990). Con pochi esemplari a figure (tra cui Daniele nella fossa dei leoni soccorso da Abacuc) ricorrono raffinate rielaborazioni del corinzio e ornamentalizzazioni del tipo cubico; in talune semplici stilizzazioni si ha un'avvisaglia dei nuovi tipi gotici. Il panorama di tutto l'Occidente offre, nel corso del sec. 12°, paralleli fenomeni di straordinaria fecondità inventiva, da ridurre qui a poche segnalazioni.Per la Spagna va citato il grande maestro Mateo (portico de la Gloria di Santiago de Compostela, a cui si collegano i c. dell'interno della cattedrale) e i c. della cattedrale di Pamplona, pure della seconda metà del secolo (Yarza, 1979).Per la Francia, oltre al Poitou e alla Normandia, che continuano con tradizioni proprie (nella seconda si sviluppano nuovi modi ornamentali alla Trinité di Caen; Baylé, 1979; 1991), una ricca produzione di c. presenta l'Alvernia, che è stata oggetto di un'ampia classificazione iconografica (Świechowski, 1973). Continua la produzione dei c. nei cantieri tolosani con nuove fasi stilistiche di minuta eleganza (nei pezzi provenienti da Notre-Dame-de-la Daurade; Horste, 1982; Seidel, 1986). L'area francese resta la più studiata e articolata in molteplici filoni regionali. Nella Borgogna basti ricordare i c. di Vézelay e di Autun.In Inghilterra dopo il 1066 vale la stretta unità politica e culturale con la Normandia (da cui il termine 'anglonormanno'; Zarnecki, 1979), ma con sviluppi presto autonomi, per es. nella continuità ornamentale tra i fusti dei sostegni e i c. (cattedrale di Durham). La cattedrale di Canterbury offre una casistica ricchissima, specie nella prima fase 'anselmiana' (Gem, 1984; Kahn, 1991). L'importazione di tipi e modi dalla Normandia intorno al 1070 sembra dedursi anche dall'antica testimonianza di un trasporto attraverso la Manica di c., basi e colonne (Gem, 1987).La Provenza, dopo inizi sperimentali paralleli a quelli delle regioni circonvicine, ha in comune con altri ambiti mediterranei la rimeditazione di modelli antichi (Lassalle, 1970; Borg, 1972). Non mancano grandiosi cicli a figure, come nel chiostro di Saint-Trophime ad Arles; meno ricco ma vario è quello di Saint-Sauveur di Aix-en-Provence (Thirion, 1985), con cui ha rapporti, pur con svolgimenti autonomi, il chiostro di S. Orso ad Aosta (Barberi, 1988).A Roma si affermano i raffinati laboratori dei Cosmati, pure con radicato sostrato classicheggiante, con largo raggio di espansione, anche per il tramite dell'esportazione di pezzi finiti, come i c. del chiostro dell'abbazia di Sassovivo, del 1229 (Claussen, 1987; Wiener, 1991, p. 280ss.). Nelle singolarità della produzione a Roma (S. Lorenzo f.l.m.) e nel Lazio rientra la rielaborazione diffusa del c. ionico, sintomo di diretto confronto con i modelli antichi (Voss, 1990). Nell'Italia meridionale, specie in Campania e Puglia, ma anche in Abruzzo e Molise, la produzione dei c. ha punte di grande qualità e interesse negli amboni (Toesca, 1927, p. 851ss.; Lehmann-Brockhaus, 1942-1944; Pace, 1980), con prevalenti rielaborazioni anticheggianti. Anche in Sicilia consegue allo sviluppo architettonico promosso dai Normanni una grande produzione di capitelli: a Monreale nei c. interni del duomo prevale ancora il reimpiego di c. antichi, mentre nella ricchissima serie del chiostro s'incontrano correnti e maestri di diversa provenienza (Salvini, 1962). La successiva fioritura federiciana innestò anche nella produzione dei c. le prime suggestioni del Gotico francese (Castel del Monte, castello di Prato).Nell'Europa centrale le vicende dei c. si possono seguire nei cantieri delle cattedrali e delle grandi abbazie (indirettamente ben documentati per la regione renano-mosana; Kubach, Verbeek, 1976-1989). Nell'area germanica resta tenace l'eredità ottoniana del c. cubico, che svolge raffinate variazioni di profili nell'abbaziale di Paulinzella (Möbius, 1966), nel Saint-Pierre et Saint-Paul di Rosheim, in Alsazia, ecc. (Viollet-le-Duc, 1854b, p. 505). Il tipo festonato (scalloped) ha speciale diffusione in area britannica.In questo quadro i c. possono documentare forse meglio di altri manufatti scambi a largo raggio tra regioni diverse. Ciò vale per es., oltre che per il citato caso di Nicolò a Königslutter, per la penetrazione di maestranze lombarde nella zona renana (duomo di Magonza; Kautzsch, 1922). Cruciale è il caso dei tramiti indotti dalle vie di pellegrinaggio tra Francia e Spagna (Durliat, 1990).Particolare spicco assumono i c. di stretta derivazione francese prodotti a Gerusalemme e a Nazareth nel contesto dell'architettura dei crociati (Buschhausen, 1978; Jacoby, 1984; Pace, 1984; Folda, 1986).La ricchezza produttiva del c. romanico sollecita una trattazione piuttosto storica che tipologica della materia, tuttavia non dominabile in termini sintetici, per cui occorre rinviare all'architettura e alla scultura in generale. Proprio per questo motivo la moderna letteratura artistica ha presto avvertito l'interesse emblematico del c. come momento focale del rapporto tra architettura e decorazione. Da una parte permane la suggestione degli ordini antichi, dall'altra questi ultimi risultano soverchiati da una libertà di rielaborazione e di reinvenzione (Vergnolle, 1985a), per cui nuovi tipi, pur cronologicamente e topograficamente identificabili, non possono in alcun modo rientrare nella classificazione teorica vitruviana: questo fu in termini più o meno espliciti il giudizio degli artisti del Rinascimento, che pure si valsero nelle loro scelte di non pochi tramiti di trasmissione dell'età precedente.Una classificazione empiricamente descrittiva per gruppi tipologici è stata tuttavia più volte tentata. Ruskin (1900, II, pp. 130-136; III, p. 271), applicandosi alla casistica veneziana, accantonava ogni classificazione storica escogitando criteri astratti, da una parte riducendoli all'alternativa tra sagome 'concave' e 'convesse', dall'altra esemplandoli su fantasiose categorie naturalistiche (i quattro ordini basati sui fiori, compresi il tulipano e la magnolia appena dischiusa). Altri preferivano ricorrere all'impiego della terminologia e degli schemi già applicati ai materiali antichi (Möllinger, 1891). Così suonava invece la classificazione sommaria di Lasteyrie (1912, pp. 605-634): c. sbozzati, cubici, corinzi, a fogliami, istoriati (ove la distinzione tra 'corinzi' e 'a fogliami' sottolinea il diffuso rivestimento vegetale non necessariamente di acanto regolare). Affini, e per taluni versi più persuasive, le proposte formulate da Bond (1905; 1913), particolarmente valide per l'enucleazione di tipi semplicemente modanati. Hamann (in Hamann, Rosenfeld, 1910, p. 4ss.), sulla base dello straordinario patrimonio di c. del duomo di Magdeburgo (in cui convergono diversi apporti, anche di origine francese), preferiva proporre i seguenti punti d'indagine, che meglio facevano fronte alla peculiare fisionomia del c. medievale: 1) forma di base; 2) forma e impostazione dell'ornato; 3) rapporto dell'ornato con la forma del nucleo e grado di pertinenza dell'ornato al nucleo; 4) carattere rappresentativo dell'ornato e suo grado di stilizzazione e di 'naturalismo' (per quest'ultimo concetto valgono ovviamente i riflessi dei modelli antichi oltre che, in un secondo tempo, il ricorso all'osservazione della natura). Dunque un orientamento morfologico-formale flessibile, dedotto a posteriori dalla varietà dei materiali, senza suddivisioni schematiche. Anche gli studi più recenti confermano insieme l'interesse del confronto con i modelli antichi e la conclusione degli svolgimenti autonomi del c. medievale (Moralejo, 1986; Vergnolle, 1990a).La spiegazione funzionalistica del nuovo ruolo del c. prospettata con grande acume da Viollet-le-Duc (1854b), non priva di fascino in un'ottica mirata a un'architettura che ha come traguardo quella gotica, doveva essere più tardi ridimensionata da una considerazione più attenta ai valori della scultura, di cui i c., affrancati da un lessico modulare vincolante, diventavano i naturali portatori. Non stupisce perciò che la classificazione per tipi sia stata soppiantata da approfondimenti che toccano i rapporti interni tra elaborazione plastica e struttura del capitello. Tale indirizzo è stato suggestivamente adottato da Focillon (1931, p. 133ss.), per il quale le decorazioni e le raffigurazioni introdotte nel c. ne ricevono un positivo condizionamento formale (dialectique ornamentale, loi du cadre): vi si adattano deducendo dalla volumetria stessa efficaci stimoli di poetica elaborazione. Riflessioni su questa linea sono state sviluppate da Baltrušaitis (1931), Gantner (1941), Messerer (1964) e altri. Obiezioni vennero da Shapiro (1932, in Schapiro, 1977), che rilevava il pericolo di un formalismo critico riduttivo. In effetti il confronto tra plastica e architettura si svolge coinvolgendo anche il rapporto tra contenuti 'ornamentali' e 'programmatico-illustrativi'.Nell'ambito degli studi iconologici più recenti il c. è stato guardato come modulo per eccellenza 'trasmettitore di significati', prospettando così il ricupero del c. a un lessico che non è più quello degli ordini in se stessi, ma semmai un loro riflesso semiologico (Bandmann, 1979; Onians, 1988, pp. 91ss., 98; Casartelli Novelli, 1991). Sul versante meramente iconografico una presa di posizione per il prevalere di fonti ornamentali nei c. era stata quella autorevole di Mâle (1948⁸); un caso interessante di identificazione di fonti specifiche etrusche per motivi ornamentali dedotti da sarcofagi è stato ravvisato nei c. del S. Pietro di Tuscania (Noehles, 1961-1962). Ricerche su singoli c. o serie organiche hanno tuttavia messo in luce soggetti tra i più vari e complessi: dalla mitologia antica (Adhémar, 1939; Forsyth, 1976), peraltro interpretabile in relazione con fini moraleggianti (Español Bertran, 1986), ai cicli evangelici e agiografici (Świechowski, 1973; Blum, 1981; Seidel, 1986), agli eroi di saghe nordiche (Will, 1988). Il c. risponde talora con stringatezza ed efficacia agli exempla dei sermoni (Jacoby, 1982) e si è voluto anche per taluni temi ravvisarvi il portatore di polemiche teologiche o dottrinarie (c. del 'lupo a scuola', nel duomo di Parma; Quintavalle, 1974, p. 181, n. 108). Supporti ideologici presentano non lievi difficoltà di identificazione e interpretazione, come risulta in particolare per i c. di Cluny III (Diemer, 1988; Stratford, 1988). Nel quadro del rapporto dell'arte medievale con l'Antichità, e in particolare dell'applicazione del termine 'rinascita', come si è voluto per il sec. 12°, i c. sono inclusi prevedibilmente tra gli esempi sintomatici della libertà, anzi dell'arbitrio con cui i temi antichi vengono ripresi (Sauerländer, 1982, p. 681).Queste premesse incidono in varia misura su studi recenti impegnati nell'esplorazione di grandi complessi architettonici e di aree comprendenti significative produzioni di capitelli. Una rinnovata curiosità investe anche la tecnica esecutiva, dalla sbozzatura ai minimi particolari ornamentali. Un punto che entra spesso in discussione riguarda la lavorazione del c. prima o dopo la posa in opera. Viollet-le-Duc (1854b, p. 491) pensava a una generalizzata esecuzione prima della posa in opera, che a maggior ragione prevarrebbe, con tendenza a una certa standardizzazione, nei cantieri gotici. Lasteyrie (1912, pp. 605-606) sosteneva una casistica più frequente prima della posa in opera, specie nell'età romanica, nella quale in effetti, come nell'Antichità (Heilmayer, 1970), si conoscono molti esempi di c. non finiti, posti in opera solo sbozzati forse con l'intenzione di un completamento in opera poi non realizzato (Arens, 1948). Anche su questo si sono soffermate ricerche recenti (oltre la già citata discussione sui c. di Saint-Bénigne di Digione, per i c. di Spira, Kubach, Haas, 1972; per quelli di Canterbury, Kahn, 1991, che alla fig. 37 illustra un c. cubico con tracciato preparatorio per il tipo scalloped). Si può segnalare anche una sperimentazione di sbozzatura riprodotta in laboratorio (Valin Johnson, 1989). Una finitura dei c. dopo la posa in opera è stata sostenuta peraltro anche per l'età gotica (Lasteyrie, 1927, p. 322).Nella discussione sulla lavorazione del c. vanno considerati documenti iconografici specifici come il lapicida intento all'allestimento di un c. scolpito nel tralcio animato del portale dei Principi nel duomo di Modena (Peroni, 1984, p. 293) o altre raffigurazioni (Binding, Nussbaum, 1978, nrr. 3, 13, 22, 23, 28, 126, 170, 198). In tutti questi rari ma significativi esempi la lavorazione del c. appare sempre eseguita prima della posa in opera.

Età gotica

Incunaboli dell'architettura gotica come l'abbaziale di Saint-Denis (fase sugeriana) non sembrano presentare innovazioni sensibili per quanto riguarda i c., che semmai ripiegano su tipi corinzi a foglie in concomitanza con la conquista di nuovi spazi per i programmi figurativi e narrativi delle vetrate (Clark, 1986, p. 109). La fisionomia del c. è più esplicitamente coinvolta nelle prime grandi cattedrali gotiche di Chartres, Amiens e Reims, dove sono piuttosto i c. dei portali dell'esterno a partecipare a complessi programmi figurativi; a Notre-Dame di Parigi si sono notate all'interno formule prevalentemente tradizionali (Clark, 1985), del resto concomitanti con la ripresa di sostegni monocilindrici che rievocano le colonne. I c. delle tribune della cattedrale di Laon recano varianti di figure immesse all'interno di maglie vegetali. Il rapporto con i precedenti romanici è stato limpidamente configurato, anche se non è rigidamente riscontrabile ovunque, da Viollet-le-Duc (1854b, p. 508ss.), appuntando sempre l'interesse alla base d'imposta. Quando si ha il sostegno più semplice, monocilindrico, come in Notre-Dame di Parigi, una grande base d'imposta è deputata ad accogliere un'articolazione estremamente complessa di nervature (con conseguente adozione di appropriati provvedimenti nell'apparecchiatura degli archi tramite il tas de charge, e cioè di un sistema di passaggio da conci orizzontali, inclusivi di spigoli e modanature curvi, a quelli radiali costitutivi dell'arco; Viollet-le-Duc, 1868). In successive fasi gli angoli morti della base d'imposta vengono sagomati in corrispondenza della ricaduta delle nervature, mentre l'adozione sempre più diffusa di sostegni complessi (a sezioni cantonnées con aggregazione di colonnette) favorisce il ricupero di uno svolgimento frazionato e individuato del capitello. A sua volta il c. a svolgimento continuo aveva avuto precedenti romanici individuati non a caso nell'Ile-de-France (Cameron, 1976). È stata pure messa in evidenza la possibilità estrema di una omologazione di nervature e articolazioni del sostegno che porta all'annullamento del c. (Choisy, 1899; si veda il concetto di continuous order in Bony, 1983, pp. 538-539), come per es. a Mussy-sur-Seine, nel vestibolo della sala capitolare della cattedrale di Chester, in S. Bartolomeo di Kolín in Boemia. Tale soluzione, apparentemente la più consequenziale, a livello teorico, per l'architettura gotica, è in realtà soverchiata dal permanere del c., che si conferma come sedimento storico insopprimibile del lessico architettonico.Nella sua interna organizzazione viene considerata caratteristica invenzione gotica il c. a crochets. Il termine francese è universalmente usato (ma esiste il calco tedesco Knospenkapitell) per indicare una singolare stilizzazione del ripiegarsi terminale della foglia a guisa di bulbo o gancio, in una forma in cui il modello corinzio è sempre meno riconoscibile (Viollet-le-Duc, 1859). Versioni con protuberanze, talora anche piccole teste stilizzate, sui vertici superiori erano note nell'architettura normanna, arieggianti già a crochets (Brutails, 1908, p. 95). Il tipo a crochets non è però esclusivo e si assortisce con formule tradizionali o con varianti che puntano a svolgimenti di curiosità naturalistica, con fogliami diversi di effetto pittorico: ritorna dunque in forme inedite il rivestimento ornamentale con percorsi che sono stati oggetto di studio (Lasteyrie, 1927, p. 237ss.; Behling, 1964), in cui si immettono nuovi spunti fantastici (Baltrušaitis, 1960) e curiosità naturalistico-botaniche (Nelson, Stalley, 1989). Con l'eccezione di taluni chiostri a c. figurati, che continuano la tradizione dei ricchi programmi iconografici romanici, si assiste a una progressiva rinuncia ai tipi istoriati. I c. gotici sono pertanto preminentemente classificati in base alla diversa combinazione degli ordini di foglie e dei modi di trattare la componente vegetale, entro cui figure animali o umane assumono un ruolo meramente complementare. A parte si possono considerare soluzioni che sviluppano semplici cornici d'imposta, come nella cattedrale di Tréguier e nella Sainte-Croix di Bernay (Lasteyrie, 1927, pp. 341-342). Il semicapitello appare sempre più frequentemente, assortendosi con la tipologia della mensola che in età romanica aveva avuto una grande fortuna nei peducci di semicolonne e archetti pensili, con protomi figurate di varia forma (Lasteyrie, 1927, p. 344ss.; Sennhauser, 1970, fig. 22ss.; Armandi, 1989).L'ossatura architettonica gotica estremamente complessa e frazionata, e d'altra parte prodotta da cantieri organizzati con razionale suddivisione di compiti, fornisce c. per colonnette, trifori, logge, raggiere di rosoni, in serie numerose e via via più standardizzate attraverso il diffuso impiego di sagome. Questi meccanismi rendono possibile anche la trasmissione di formule e modi, mentre continua la migrazione di maestri e architetti da un cantiere all'altro. All'espansione di fenomeni architettonici legati all'attività di ordini monastici come i Cistercensi, e poi degli Ordini mendicanti (Wiener, 1991), corrisponde anche quella del c., in particolare a crochets (e del semicapitello: Enlart, 1894, p. 267ss.), che risultano in armonia con intenti di programmatico rigore ed essenzialità della struttura (Cadei, 1978; 1980).Tra Duecento e Trecento le scelte di sobrietà suggerite dall'architettura mendicante non si circoscrivono ai monumenti propri degli Ordini ma si alternano anche in altri edifici chiesastici e profani (per es. i broletti lombardi) con forme più ricche. Basti rievocare a confronto i tipi asciutti dell'arnolfiana Santa Croce di Firenze con i rigogliosi c. del duomo di Orvieto. Per l'area italiana, come anche per quelle transalpine, problemi particolari sono posti dal confronto fra tradizioni di cantiere e interventi di grandi personalità di architetti (Nicola Pisano, Arnolfo, Giovanni Pisano, i Parler, Jacopo Talenti, Antonio di Vincenzo, ecc.). La varietà delle soluzioni non è inferiore a quella della precedente età romanica, ma la sudditanza al contesto strutturale porta all'abbandono di quella consustanziale plasmazione di materia scultorea, anche se essa può manifestarsi entro formule di nuova invenzione, come nel caso estremo del duomo di Milano, dove i c. dell'interno configurano un giro di nicchie munite di guglie e pinnacoli, divenendo i protagonisti di uno spazio contratto e illuminato in modo assai diverso dai modelli transalpini ai quali si guardava (Cadei, 1991).Mentre la casistica del c. gotico continua a lungo in tutta Europa anche oltre il sec. 15°, con sviluppi che investono soprattutto il naturalismo dell'ornato vegetale (Lasteyrie 1927, p. 340), nella culla stessa delle prime sperimentazioni rinascimentali, a Firenze, è possibile constatare come il ritorno alle tipologie anticheggianti - che attingono peraltro a precedenti e tramiti prevalentemente tardoantichi o anche medievali - si leghi strettamente alla rinuncia ai complessi sostegni tardogotici a vantaggio della restituzione della colonna come supporto elettivo (Gosebruch, 1958; Saalman, 1958). Il ricupero degli ordini vitruviani tardò ad affermarsi nella teoria anche dopo Alberti, come mostrano le incertezze di Filarete, e nella pratica addirittura sin dopo il 1500 (Tigler, 1963, pp. 95-97).

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Area bizantina

Nel panorama della scultura architettonica bizantina la produzione dei c. si configurò, fino a tutto il sec. 6°, come un fenomeno di rilevanti proporzioni, collegato soprattutto ai grandi opifici che lavoravano il marmo proconnesio, i cui manufatti, oltre a rifornire le fabbriche costantinopolitane, erano esportati in tutte le regioni dell'impero. Sono proprio i c. prodotti da quegli opifici attivi nell'orbita costantinopolitana che possono essere a pieno titolo classificati come c. bizantini, sebbene tale definizione sia motivatamente estensibile anche a quegli esemplari lavorati altrove, presso botteghe attive regionalmente, le quali, pur aggiornando forme e repertori alle tendenze di gusto della capitale, continuarono a produrre sulla scorta di antiche tradizioni autoctone.La documentazione relativa ai c. dei secc. 4°-6°, vale a dire dalla fondazione di Costantinopoli (325) al regno di Giustiniano (527-565), con il quale si concluse l'egemonica espansione territoriale e politica dell'impero d'Oriente, si presenta dunque quanto mai composita e differenziata, riflettendo implicitamente il policentrismo culturale dell'impero stesso.Con la progressiva contrazione del territorio dell'impero a seguito delle invasioni arabe in Siria, Palestina, Egitto e Africa settentrionale, parallele a quelle slave nell'entroterra balcanico, si restrinse ovviamente anche l'area geografica della diffusione dei c. bizantini, la cui documentazione è oltretutto di difficile definizione cronologica. In assenza di esemplari datati fino al sec. 9°-10°, risulta assai problematico delineare con coerenza le fasi attraverso le quali si pervenne alle forme e ai decori dei c. del periodo medio e tardobizantino, che mostrano una sintassi strutturale e un lessico ornamentale ormai distanti da quei modelli classici che per lungo tempo avevano rappresentato un costante referente. Non mancarono tuttavia in quei c. - come d'altronde in altri aspetti della produzione artistica - emblematici richiami al passato che adombrano il tenace conservatorismo caratterizzante l'arte bizantina sino al concludersi della sua parabola storica.

Età protobizantina

Premessa indispensabile per mettere a fuoco quel particolare momento che vide il formularsi dello stile della scultura architettonica bizantina è il decoro plastico del protiro teodosiano della Santa Sofia di Costantinopoli (404-415).Gli scultori s'ispirarono evidentemente a modelli classici, ma nel riproporre il tradizionale lessico ornamentale dell'ordine corinzio palesarono una mutata sensibilità formale, percepibile in una latente dissoluzione del rigore compositivo nei rapporti proporzionali e nei valori tridimensionali, così come si avverte un disinteresse per l'esuberante naturalismo delle forme vegetali. Affiora piuttosto quella tendenza verso trascrizioni geometrizzanti e astratte degli elementi fitomorfi - rivelata per es. dalla paratattica giustapposizione delle foglie di acanto scolpite sulle grandi imposte corinzie (Schneider, 1941, tavv. 14-16) - che è forse uno degli aspetti stilistici più connotanti della scultura decorativa bizantina (Deichmann, 1956).Alla graduale metamorfosi dei c. di tradizione classica contribuirono in modo piuttosto rilevante anche i sistemi di produzione su scala industriale adottati da opifici che, come quelli delle isole di Taso e Proconneso, per abbreviare i tempi di lavorazione elaborarono forme notevolmente semplificate. Si verificò del resto anche il caso che la sommaria rifinitura di alcuni manufatti, in particolare basi, c. corinzi, ionici e ionici a imposta, così messi in opera, acquisisse valore di 'forma finita'.Nell'ambito della vasta documentazione pervenuta, quella dei manufatti del Proconneso è senza dubbio la più importante poiché essi registrarono immediatamente le sperimentazioni in atto e quindi l'evoluzione stessa della struttura decorativa dei capitelli. È il caso per es. del c. corinzio nelle sue differenziate accezioni tipologiche codificatesi nel corso dei secc. 4°-6°, dalle varianti del normale corinzio a quelle identificate dalle volute 'a lira' o a V, oppure dall'emergenza di un medaglione dal kálathos. Tra i molti esempi che scandiscono le fasi di questo percorso i più significativi sono senz'altro i c. del tipo di quelli recuperati nel relitto di Marzamemi (Kapitän, 1980), che configurano il tipo standard d'esportazione prodotto dalle officine costantinopolitane tra la fine del sec. 5° e la prima metà del 6° (Barsanti, 1989, pp. 111-125; Sodini, 1989).Le specifiche caratteristiche formali di questa categoria di c. individuano infatti l'ultima tappa della mutazione del c. corinzio classico. In essi appare subito evidente la sensibile riduzione della struttura e dell'apparato decorativo: le elici e i caulicoli sono stati soppressi e anche l'orlo del kálathos è scomparso, mentre le volute sono suggerite da un semplice profilo a spigolo vivo; le foglie infine, in numero ridotto e molto schematizzate, aderiscono al kálathos con contenuto aggetto plastico rendendo assai più compatta la tettonica stessa del c. (Kautzsch, 1936, pp. 61-62).All'interno di questa struttura decorativa ridotta è altrettanto palese il disinteresse per una forma naturalistica, comprovato dalla riproduzione superficiale e grafica dei morfemi vegetali ed evidenziato specificamente dalla c.d. maschera d'acanto. Questo astratto diagramma, che prende forma dalle piccole figure geometriche in negativo generate dal contatto dei lobi appuntiti delle fogliette esterne, predomina nella percezione ottica sull'immediata individuazione delle singole foglie, risaltando in modo ancor più netto in quei c. - per es. i compositi in opera nelle gallerie di S. Vitale a Ravenna (Deichmann, 1976, pp. 99-100) - caratterizzati da un più risentito trattamento a giorno che trasforma le due corone di foglie di acanto in un vero e proprio involucro bidimensionale.Connessa molto probabilmente a sistemi meccanici e ripetitivi di lavorazione, e quindi con valore di formula riassuntiva, la maschera d'acanto divenne tuttavia una peculiare sigla stilistica connotante l'acanto 'bizantino', una definizione questa che si può comunque legittimamente estendere anche all'acanto finemente dentellato, altro grande protagonista della scultura architettonica protobizantina.Derivato dal repertorio della scultura microasiatica di età severiana, questo raffinato trattamento, che smaterializzò l'unità della foglia di acanto scomponendola in piccoli dentelli, fece il suo ingresso nella plastica decorativa costantinopolitana intorno alla metà del sec. 5°: la sua prima apparizione è infatti datata dagli splendidi c. compositi della basilica di S. Giovanni di Studios (453 ca.), nei quali sono stati peraltro riconosciuti i prototipi di quell'incredibile numero di analoghi esemplari prodotti ed esportati in quasi tutte le regioni dell'impero fino alla metà del sec. 6° (Kramer, 1968; Sodini, 1982; Barsanti, 1989, pp. 141-146).La smaterializzazione dell'acanto finemente dentellato risalta ancor più nella tipologia dei c. 'a foglie mosse dal vento', dove gli elementi vegetali sembrano vibrare nel loro rigonfiarsi e nel loro ripiegarsi, accentuando il ritmo dinamico di tutta la composizione decorativa, che richiama esplicitamente modelli classici severiani (Strube, 1983). Particolarmente diffusi nelle regioni orientali dell'impero (per le quali si può forse parlare quasi di una tradizione autonoma), questi c. sono documentati sia nella versione con foglie tutte girate nella stessa direzione (Iznik, Iznik Mus.; Keşoğlu, 1972-1973, nr. 1) sia nelle più innovative redazioni con foglie mosse in direzioni opposte (Aleppo, madrasa Ḥalāwiyya; Guiglia Guidobaldi, 1990, p. 293; Istanbul, Gülhane Camii; Tezcan, 1989, fig. 389), ovvero contigue e ripiegate 'a farfalla', una variante che caratterizza una serie di esemplari di manifattura costantinopolitana della prima metà del sec. 6°, come i compositi di Ravenna (quelli con il monogramma di Teodorico e quelli in opera nella basilica di S. Apollinare in Classe), nonché i singolari c. della chiesa di S. Teodora ad Arta (Pulu-Papadimitriu, 1987-1988).Ancor più disintegrate e astratte appaiono infine le foglie di acanto finemente dentellato incorniciate da un sottile listello, che, simili a piume, qualificano una variante dei compositi (Istanbul, Ali Fakih Camii; Dervişbey, 1992; Cairo, moschea di Qalāwūn; Kautzsch, 1936, nr. 448) diffusa anche, come nel caso dei c. in opera nelle finestre absidali della basilica di S. Demetrio a Salonicco (Kautzsch, 1936, nr. 442), nella versione con quattro colombe al posto delle volute. A questi ultimi c. si possono accostare gli ancor più originali esemplari del tipo 'trizonale', con decori vegetali scanditi in tre fasce orizzontali che lasciano spazio sotto gli angoli dell'abaco a quattro colombe, testimoniato in particolare da quelli emersi dallo scavo della c.d. chiesa cupolata di Meryamlik - la cui fondazione è legata al nome dell'imperatore Zenone (474-491) -, da quelli reimpiegati nel protiro della porta d'Oro a Costantinopoli, nonché dalla più numerosa serie riutilizzata in quella straordinaria panoplia di spoglie costantinopolitane che è S. Marco di Venezia (Barsanti, 1989, pp. 148-150).Altra multiforme categoria di c. di tradizione classica elaborata in epoca protobizantina è quella del tipo 'bizonale' (Kitzinger, 1946; Deichmann, 1965; Panayotidi, 1970-1972). Il repertorio che caratterizza questi c. è costituito nella maggioranza dei casi dalla combinazione incrociata di tre tipi di decorazione nella zona inferiore, a foglie di acanto finemente dentellato, a canestro vimineo e a cestello metallico, con tre tipi di decorazione nella zona superiore, a protomi ferine (sia rade sia intercalate da altre protomi, da animali interi o da altri elementi), ad aquile e a colombe angolari (Guidobaldi, 1989).Le nove combinazioni possibili furono tutte sperimentate negli ateliers costantinopolitani dei secc. 5°-6°, con una precedenza cronologica per quelli con le due zone senza netta divisione, laddove le figure degli animali - per es. nei c. di Ravenna (Mus. Arcivescovile; Olivieri Farioli, 1969, nrr. 43-44), della basilica C di Anfipoli (Pallas, 1977, fig. 64), di Susa (Mus. Archéologique; Kitzinger, 1946, nr. 21) o in quelli riutilizzati nella Grande moschea di Kairouan (Harrazi, 1982, nrr. 211-218) - sembrano emergere dalla sottostante corona fogliata, rispetto agli esemplari in cui invece gli animali scolpiti nella zona superiore si appoggiano o sono artigliati a un cordolo o a un listello che delimita il sottostante canestro vimineo (Istanbul, Santa Sofia; Cairo, Coptic Mus.; Kautzsch, 1936, nrr. 522-523; Lione, Trésor de la Cathédrale; Guidobaldi, 1989) o il cestello metallico, decorato con palmette (Cartagine, Mus. de Carthage; Fıratlı, Russo, 1991, fig. 218), tralci (Spalato, Arheološki muz., da Salona; Kautzsch, 1936, nr. 517; Parenzo, basilica eufrasiana; Terry, 1988, nr. 14; Fıratlı, Russo, 1991, nrr. 13-14), girali (Salonicco, S. Demetrio; Kautzsch, 1936, nr. 515) e altri ornati, anche scanditi in tre zone (Istanbul, madrasa della moschea di Davud Paşa; Guiglia Guidobaldi, 1988). Tutti gli esemplari appartenenti a questo secondo gruppo presentano la decorazione della zona inferiore ritagliata a giorno dal nucleo marmoreo, una caratteristica tecnico-stilistica che ne assicura la datazione alla prima metà del sec. 6° (Sodini, 1984, pp. 35-45).Il processo di trasformazione che subì la tradizionale tipologia del c. ionico fu senz'altro sostanziale. Con la progressiva scomparsa degli ordini architettonici architravati, sostituiti da sistemi ad archeggiature, i c. ionici lasciarono ben presto il posto ai c. ionici a imposta, un nuovo tipo che riuniva in un'unica massa il ruolo e le forme del c. ionico e della soprastante imposta a piramide tronca rovesciata.Non sorprende dunque il fatto che la tradizionale produzione dei c. ionici, vero e proprio monopolio degli opifici di Taso - che esportavano per lo più pezzi sommariamente lavorati con ornati semplicemente incisi sul nucleo marmoreo -, declinasse sensibilmente intorno alla fine del sec. 5° (Hermann, Sodini, 1977) rispetto a quella sempre cospicua dei c. ionici a imposta, localizzabile presso botteghe attive in vari centri sia della Grecia sia dell'Asia Minore.L'evoluzione di questo tipo di c. si può individuare in modo piuttosto chiaro in base al rapporto proporzionale delle due zone e alle caratteristiche stilistiche dell'ornamentazione. Un punto di arrivo è rappresentato dalle redazioni strutturali elaborate in età giustinianea, caratterizzate dalle volute (anche contigue) disposte diagonalmente sotto gli angoli dell'abaco (i c. costantinopolitani in opera nelle gallerie dei Ss. Sergio e Bacco e della Santa Sofia e quelli del S. Giovanni a Efeso; Vemi, 1989). Eccezionalmente vario è il loro repertorio decorativo, come del resto quello delle più semplici imposte (o pulvini), sovente sovrapposte ad altri tipi di c. per garantire un più ampio piano d'appoggio alla ricaduta dell'arco, così come sono estremamente varie le composizioni realizzate anche nella raffinata tecnica a giorno. Gli ornati più diffusi furono gli elementi fogliari, i girali vegetali, le baccellature, le croci, i clipei o i serti con monogrammi, cornucopie e anche figure animali. Al contrario la zona ionica conservò, tranne alcuni inserti ornamentali sull'echino, una decorazione tradizionale, come esemplificano tra gli altri i c. della basilica A di Anfipoli, del S. Leonida a Lechaion (Corinto), del S. Demetrio a Salonicco, della Santa Irene a Costantinopoli e del S. Giovanni a Efeso (Barsanti, 1989, pp. 156-170; Vemi, 1989).Sul volgere del sec. 5° un'aria di novità pervase gli ateliers della capitale, presso i quali si cominciarono a sperimentare nuove strutture decorative che, pur restando ancora legate alla tradizione classica, preludevano all'imminente distacco da essa.Vero e proprio capolavoro di quel clima di rinnovamento è il ben noto c. con maschere fogliate da Mudanya (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 225), che s'impone per la straordinaria raffinatezza dell'esecuzione e per la peculiarità della struttura. L'abbinamento di due composizioni decorative così diverse, figurata e corinzia, attuato nella forma del c. doppio (una tipologia già presente nel repertorio classico), esalta il fascino del pezzo evidenziando la magistrale resa formale della metà figurata. Gli elementi fitomorfi dei due mascheroni, intercalati da una cornucopia (soggetti simbolici esauguranti di chiara derivazione classica; Mazza, 1982), dai quali scaturisce l'ondulato andamento delle emergenze, sono riprodotti con grande aderenza alla realtà e con un'attenzione quasi lenticolare. Il rilievo, nonostante i netti contrasti chiaroscurali, giunge ancora a esiti plastici, apprezzabili soprattutto nel trattamento dei volti, perfettamente caratterizzati nei lineamenti fisiognomici e nell'intensità espressiva.Partecipano della medesima tendenza stilistica altri notevoli c., molto probabilmente lavorati presso la stessa bottega costantinopolitana, decorati con plastici trofei di cornucopie e maschere teatrali (ugualmente nella redazione doppia, ma con una metà pseudocomposita con un'unica corona di grandi foglie; Severin, 1989) o con ghirlande intrecciate, tutti motivi di gusto squisitamente antico. La loro struttura decorativa appare come una libera interpretazione del corinzio, di cui però non restano ormai che il profilo e le volute simulate da girali vegetali (Strube, 1984, figg. 46-53, 77). Queste originali forme non sono che un preludio alle novità in procinto di emergere negli ateliers della capitale, novità che si concretizzarono nella creazione del c.-imposta, vero e proprio punto di arrivo dell'intero percorso del c. protobizantino, sia in termini strutturali sia soprattutto dal punto di vista estetico.Il tessuto decorativo avvolgente che caratterizza questi c., estendendosi senza soluzione di continuità dall'astragalo all'abaco, annullò infatti la plastica articolazione in zone dei c. classici. Proprio questa assoluta novità nella concezione dell'ornato venne sperimentata nello straordinario decoro plastico del S. Polieucto, la celebre fondazione costantinopolitana del 524-527 legata al nome della nobile Anicia Giuliana. Per le sculture, vere e proprie 'invenzioni plastiche' messe a punto per questo edificio, fu elaborato un originale repertorio ornamentale nel quale si coniugano, in inedita sintesi, esotici elementi d'ispirazione sasanide e naturalistici motivi classici. Le composizioni, altrettanto inedite e innovative, come quelle ritagliate sulle grandi imposte, presentano trame vegetali ordinate in schemi simmetrici e speculari, con un perfetto equilibrio tra fondo e superficie del fragile rilievo (Deichmann, 1977-1978; Strube, 1984). Ogni elemento architettonico del S. Polieucto mise del resto alla prova l'inesauribile inventiva degli scultori, che si estrinsecò in una multiforme serie di originali e virtuosistiche composizioni ornamentali lavorate per lo più a giorno sulle cornici, sui pilastri e, in particolare, sulle imposte e sui c.-imposta, come i fragili involucri con rade trame romboidali includenti foglie o croci raggiate, ovvero come il fitto tessuto vimineo che inquadra pannelli trapezoidali contenenti palmette con nastri (i c. del tipo 'a pativ', il nastro regale sasanide, replicati anche per il S. Vitale a Ravenna; Deichmann, 1976, pp. 106-112), che forse più degli altri ornati rinviano al repertorio sasanide. Di gusto decisamente più naturalistico appaiono invece le composizioni, ugualmente lavorate a giorno, con un cantaro o con tre cornucopie sovrapposte da cui fuoriescono, rispettivamente, tralci vitinei e foglie di acanto (Harrison, 1986; 1989); si tratta di un ricco repertorio tecnico-ornamentale, che fu tra l'altro variamente rielaborato in un'ampia serie di contemporanei c.-imposta, la cui esecuzione è stata in più casi attribuita proprio a quegli artefici (Peschlow, 1983; Strube, 1984; Guiglia Guidobaldi, 1988; Barsanti, 1989; Russo, 1989).Si deve ai medesimi scultori, dopo l'esplosione creativa del S. Polieucto, anche l'ideazione del decoro plastico assai più calibrato delle pressoché contemporanee fondazioni giustinianee, in cui il repertorio si ricompose in una più rigorosa unità tematica e stilistica.Furono comunque ideate altre nuove forme di c., come il tipo polilobato dei Ss. Sergio e Bacco, con raffinati ornati fogliari ritagliati sulle superfici alternatamente concave e convesse, e come i già ricordati c. ionici a imposta con uno stilizzato decoro fitomorfo. Nello stesso edificio vanno altresì segnalati due c.-imposta con una delicata ornamentazione a tralci fogliati che recano, come del resto i polilobati, i monogrammi imperiali (Kautzsch, 1936, nrr. 557, 587; Strube, 1984, fig. 88).Per la Santa Sofia furono invece creati gli originali c. di tipo pseudoionico (definito anche Kesselkapitell) con l'echino rigonfio e inusitatamente espanso, racchiuso dentro un involucro di stilizzate foglie di acanto che accolgono al centro i monogrammi di Giustiniano e Teodora (Kautzsch, 1936, pp. 194-196; Strube, 1984, p. 94) e con un abaco sviluppato a guisa di pulvino. Qui l'ornamentazione sembra espandersi senza soluzione di continuità sulle rabescanti superfici parietali e quindi, in rapporto al dorato decoro plastico dell'edificio (Dagron, 1984, p. 229), smaterializzarsi nelle auree cangianze dei mosaici; stesso effetto è proposto dalle imposte e dagli architravi delle finestre, sulle quali furono ritagliate con grande perizia tecnica trame geometriche asimmetriche contrappuntate da fragili elementi vegetali: un tipo di ornamentazione in cui il fondo è ancor più percepito come assenza, cioè come oscurità, in contrasto con la luminosità della superficie (Strube, 1984, figg. 93-94). Di straordinaria eleganza sono inoltre i motivi a girali o a tralci fitomorfi che avvolgono i c. ionici a imposta (Strube, 1984, figg. 95-98).La ridondanza ornamentale che caratterizzò questo particolare momento della decorazione architettonica (di cui si colgono i riflessi anche nel S. Vitale a Ravenna e nella basilica B di Filippi) non fu però un fenomeno generalizzato poiché a essa si contrappose - difficile dire se per reazione - una tendenza assolutamente antitetica che, infatti, come testimoniano alcuni edifici contemporanei (Santa Irene a Costantinopoli e S. Giovanni a Efeso), privilegiò anche per i c. nitide forme stereometriche con semplici croci, dischi e clipei monogrammatici; ed è a questa 'austera' corrente stilistica che risale evidentemente la creazione dei c.-imposta 'a pannelli', incorniciati da lisce modanature, da eleganti serti d'alloro o da orbicoli annodati che accolgono sul piano di fondo croci, dischi, foglie e clipei monogrammatici (si segnalano in particolare un esemplare con i monogrammi di Giustiniano e Teodora a Istanbul, Arkeoloji Müz.; Kautzsch, 1936, nr. 618, e quelli dell'esedra di Yalova con i monogrammi di Giustino II e della moglie Sofia; Kramer, 1988), che ebbero notevole diffusione, aggiornati nelle scelte ornamentali, sino all'età paleologa.Di riflesso alle invadenti esportazioni dei manufatti costantinopolitani, sovente accompagnate da artefici specializzati che ne avrebbero curato la rifinitura e la messa in opera nei luoghi di destinazione - e la cui presenza fu evidentemente densa d'implicazioni per la diffusione delle raffinate tecniche e dei repertori della capitale -, si manifestarono nel corso dei secc. 5°-6° notevoli trasformazioni nella produzione scultorea sviluppatasi nelle altre regioni dell'impero bizantino, condizionando o addirittura prevaricando - come accade in area ellenica (Sodini, 1977) - l'identità stilistica stessa delle tradizioni locali.In Egitto, in Palestina, in Siria e nelle regioni sudorientali dell'Asia Minore, la Licia, l'Isauria e la Cilicia, gli influssi costantinopolitani non vennero recepiti passivamente, anzi furono a diversi livelli occasione di rinnovamento e d'inedite sperimentazioni.L'acanto finemente dentellato, per es., s'inserì prepotentemente, rigenerandolo, nel repertorio della decorazione architettonica a partire dalla fine del 5° secolo. Gli elementi costitutivi dei c., che sino ad allora avevano conservato una morfologia sostanzialmente naturalistica, di tradizione classica locale, furono completamente sezionati in piccoli dentelli triangolari che ne annullarono otticamente la consistenza plastica; tale trattamento era del resto agevolato dal fatto che gran parte di queste sculture erano lavorate in un morbido calcare che consentiva una resa di maggior nettezza geometrica. Ne offrono significativa testimonianza, per la Siria, i c. della chiesa est di Baqirba, di Ebd e della chiesa di Madba'a (Strube, 1983, tavv. 12 e, 17a, c); per la Cilicia, i c. della chiesa IV di Kanlıdivanı (Forsyth, 1961); per l'Isauria, quelli della chiesa orientale di Alahan Monastir (Forsyth, 1959; Avruscio, 1988); infine, per la Licia, quelli delle chiese di Muskar e di Alakilise (Harrison, 1972; Strube, 1983).Nel corso della prima metà del sec. 6° si registrarono altresì, soprattutto in Siria, alcune novità nella struttura dei c., individuabili nelle partizioni trizonali dell'ornamentazione (chiesa di Qaṣr ibn Wardān e moschea di Kafr Runa; Strube, 1983, tavv. 9, 10a) o negli inserti di archeggiature (basilica a transetto di al-Bara, moschea di Kafr Runa; Strube, 1983, tavv. 10d, 11a), nonché nell'immissione di astratti motivi geometrici nelle composizioni fitomorfe (chiesa di Madba'a; Strube, 1983, tav. 16b-d).Rientrano nell'ambito di queste novità anche i singolari c. della chiesa della SS. Trinità nel santuario di S. Simeone Stilita il giovane al mons Admirabilis, datati al 541-551 ca., caratterizzati da un'originale struttura bizonale con canestro vimineo particolarmente rigonfio, al quale si sovrappone un plastico girale d'acanto con animali, scene venatorie o di genere (Djobadze, 1986).Altrettanto inusuale è un c. rinvenuto negli scavi di Daphne presso Antiochia - una delle rare testimonianze della produzione scultorea della grande metropoli siriaca - che nella sua redazione 'doppia', metà corinzia e metà con calici fogliari e canestro vimineo cilindrico che ospita nella parte inferiore un monogramma, coniuga in una sintesi assolutamente inedita forme decorative e di tradizione costantinopolitana locale (Mundell Mango, 1981; Kiefer, 1986, nr. 3).In area siriaca permasero comunque tendenze più conservatrici, come si avverte per es. nei c. del sec. 6° di Resafa (de' Maffei, 1988), e anche in area nord-mesopotamica si manifestò un tradizionalismo nella decorazione architettonica, sebbene anche qui il sec. 6° fosse foriero di novità, come segnala una serie di c. a rigonfio canestro con intrecci viminei o con girali di Nisibis, di Mayyāfārqīn e di Dara (Bell, 1913; Mundell Mango, 1982; de' Maffei, 1988). L'inconsueta redazione strutturale di questi c., più che a modelli costantinopolitani, rinvia a esempi della Cilicia (Sodini, 1987) e, soprattutto, ai presunti c. della Nea Ekklesia di Gerusalemme, inaugurata nel 542, i quali offrono tra l'altro un'importante testimonianza sull'evoluta produzione scultorea palestinese (Wilkinson, 1987, nrr. 139-145; de' Maffei, 1988), cui si affiancò tuttavia nel corso del sec. 6° una produzione di manufatti lapidei ancora tenacemente fedele a un repertorio di antica tradizione locale (de' Maffei, 1988; Segal, 1988; Vaccarini, 1989).Di notevole interesse è altresì la situazione dell'Egitto, dove si svilupparono due opposte tendenze, l'una alimentata dall'entroterra copto, volta costantemente a sganciarsi dalla dipendenza dalle più colte opere marmoree, l'altra legata alle sempre vitali tradizioni greco-romane di Alessandria, che ripropose invece senza sostanziali modifiche i modelli d'importazione, come testimoniano appunto l'arredo scultoreo del santuario di S. Menna nella Mareotide (Severin, 1987) e i numerosi c., nella maggioranza spoglie alessandrine, riutilizzati nelle moschee del Cairo (Kautzsch, 1936; Severin, 1981; 1991).Assolutamente eccezionali sono infine i c. della basilica giustinianea del Sinai, un vero e proprio eclettico campionario dei tipi più in voga nella prima metà del sec. 6° (dalla Mesopotamia alla Siria e alla Palestina, dall'Egitto a Costantinopoli) liberamente interpretati (il modello è spesso appena intuibile) da artefici locali - probabilmente sulla scorta di suggerimenti e indicazioni dell'architetto o del committente - con un linguaggio formale ingenuo e irrazionale (Guiglia Guidobaldi, 1990).L'intenzionale disomogeneità tipologica e l'assenza di qualsiasi corrispondenza o simmetria nella disposizione di questi c., verificate in rapporto ad altri esempi della prima metà del sec. 6°, hanno permesso inoltre di accertare che tale tendenza di gusto troverebbe i suoi più significativi precedenti in area siriaca (per es. la chiesa di Ksedjbeh del sec. 5°, con quattro diversi tipi di c. creati ex novo), piuttosto che negli edifici della capitale bizantina o nell'area di sua diretta influenza, dove infatti si riscontra una maggiore omogeneità o quanto meno una certa coerenza nella distribuzione dei c. di diverso tipo.

Età medio e tardobizantina

Con il concludersi del sec. 6°, la storia della scultura architettonica bizantina diviene estremamente problematica: per quasi tre secoli infatti, tranne rarissime eccezioni, non esistono materiali datati. È dunque assai difficile ritesserne diacronicamente il percorso e molte incertezze dipendono pure dal fatto che la produzione scultorea medio e tardobizantina è un campo d'indagine solo in minima parte esplorato.Ben poco chiarificante è del resto anche la documentazione scultorea della capitale. I reperti riferibili a un periodo compreso tra la fine del sec. 6° e la fine del 9° sono pressoché inesistenti e anche la definizione cronologica di quei c. che sono stati attribuiti al regno di Basilio I (867-886) è del tutto ipotetica poiché, in assenza di un concreto riscontro archeologico, si appoggia esclusivamente a una valutazione stilistica che, se pure convincente, allo stato attuale delle conoscenze non può essere però altrimenti comprovata. Non esistono in effetti confronti chiarificanti per un esemplare a canestro della basilica della Chalkoprateia a Costantinopoli, collegato al restauro di quell'imperatore (Betsch, 1979, p. 286), né per la serie di c. bizonali con colombe addorsate e protomi leonine, ora riutilizzati nel S. Marco di Venezia (Deichmann, 1981, nr. 184) - identificati ipoteticamente, alla luce di una criptica testimonianza testuale, con quelli del palazzo del Kainourgion costruito appunto da Basilio I -, sebbene la loro struttura decorativa, ancora aderente alla canonica partizione bizonale, possa eventualmente segnalare una precedenza rispetto alle successive versioni (secc. 11°-13°) prive di corona fogliare. Piuttosto esigua e con molte zone d'ombra è inoltre la consistenza dei materiali pertinenti ai secoli seguenti: rispetto alle centinaia di c. protobizantini, il numero degli esemplari medio e tardobizantini si riduce infatti a poche decine. Tale situazione ha lasciato spazio all'ipotesi di una netta recessione in questo specifico campo produttivo, dovuta alla definitiva chiusura delle cave del Proconneso e alla conseguente cessazione dell'attività delle botteghe locali già nel 7° secolo. Ciò avrebbe favorito la pratica del reimpiego, soprattutto nell'ambito di edifici, come le chiese, il cui impianto - a croce greca inscritta - richiedeva allora ben pochi c. (Betsch, 1979, p. 257ss.). L'ipotesi è assai opinabile poiché nella vicina Bitinia esiste una cospicua serie di reperti scultorei medio e tardobizantini che attesta con chiarezza la continuità produttiva delle botteghe che lavoravano il marmo proconnesio - come d'altronde quei manufatti che furono esportati nel corso dei secc. 10°-13° in Bulgaria, in Russia e in Occidente (Barsanti, 1989, pp. 95-98) -, fornendo, tra l'altro, utili informazioni su quella che doveva essere la contemporanea decorazione architettonica e liturgica di Costantinopoli (Barsanti, 1988).Solo attraverso il sistematico censimento e la classificazione di questi e altri materiali (soprattutto in Asia Minore) sarà possibile mettere a fuoco l'evoluzione dei c. medio e tardobizantini e individuarne le caratteristiche formali, localizzandone i principali centri di produzione, sebbene alla luce dei pezzi noti si possa già delineare un preliminare quadro d'insieme.Per quanto riguarda la struttura dei c., appare chiaro che le tipologie di tradizione classica, tranne alcune isolate sopravvivenze, furono generalmente soppiantate dai c.-imposta di forma cubica squadrata, scafoide, oppure svasata, ai quali si affiancano numerosissime imposte 'a stampella' di forma trapezoidale. Dei c. antichi rimase tuttavia memoria nel repertorio pittorico medio e tardobizantino, per il quale basti citare l'esemplare testimonianza offerta dal Menologio di Basilio II (Roma, BAV, Vat. gr. 1613), dalle tavole dei canoni di numerosi manoscritti dei secc. 11°-12° (tra i quali il Vangelo di Parma, Bibl. Palatina, Pal. 5, e il Vangelo di Venezia, Bibl. Naz. Marciana, gr. Z. 540) e dai mosaici del S. Salvatore in Chora (od. Kariye Cami), a Costantinopoli (1315-1320).Nei c. più antichi predominano decorazioni molto sobrie derivate dal tipo 'a pannelli' di età giustinianea, come segnalano alcuni esempi riferibili probabilmente alla prima metà del sec. 7°: i c. di Maximianupolis in Tracia (Komotini, Archaeological Mus.; Pallas, 1977, figg. 80-81), il c. della c.d. colonna di Giuliano ad Ankara (Kautzsch, 1936, nr. 683), alcuni c. del Santo Sepolcro di Gerusalemme, riconducibili forse al restauro del 614-630 (Corbo, 1981, I, p. 151), nonché un c. di Atene (Byzantine Mus.; Sotiriu, 1924, fig. 16), siglato forse dal monogramma dell'imperatrice Irene (797-802).In prosieguo di tempo il lessico ornamentale si arricchì notevolmente con composizioni sempre più addensate e di astratto effetto rabescante. A esse corrispondono, sul piano formale, il gusto per il modellato di superficie e l'uso frequente della tecnica a incrostazione, che conferisce all'ornato il levigato effetto bidimensionale degli smalti e del niello (Buchwald, 1962-1963, pp. 172-181; Šuput, 1977; Pazaras, 1987). Non si distanziano da questa corrente di gusto neppure le c.d. sculture a due piani dei secc. 12°-13°, sulle quali la plastica emergenza delle figure animali si staglia contro un piano di fondo istoriato da una fitta ragnatela di linee e forme vegetali stilizzate che s'intersecano in sinuosi ritmi compositivi a guisa di arabeschi (Grabar, 1976, pp. 24-26).Nel repertorio decorativo dei c. medio e tardobizantini, scomparse le forme naturalistiche, furono privilegiati gli elementi fogliari stilizzati, tralci e girali ibridati, palmette, astratti motivi geometrici, nonché svariati tipi di rosette (spiraliformi, stellari, multipetale, concave e convesse) singole o in serie, coordinate da elementi vegetali o da nastri più o meno fittamente annodati. Piuttosto frequenti furono altresì le figure animali, gli zódia reali o fantastici, particolarmente diffusi nel repertorio iconoclastico e attualizzati dai sempre più dilaganti influssi islamici; più rare invece le figure sacre. Va inoltre sottolineato che questi stessi motivi caratterizzarono anche gli altri elementi scultorei degli edifici, i plutei, le cornici e gli epistili dei témpla, determinando un vero e proprio continuum ornamentale.In molte composizioni decorative si riconoscono assai spesso stilemi orientaleggianti, che se da un lato richiamano l'antico repertorio sasanide, dall'altro riflettono invece la contemporanea produzione artistica islamica. Sia nel decoro plastico delle chiese di S. Gregorio Teologo a Tebe e della Panaghia di Skripu in Beozia, realizzato da una stessa maestranza tra l'872 e l'874, sia soprattutto in quello della chiesa nord del monastero di Costantino Lips (907) a Costantinopoli si individuano infatti precise citazioni di motivi sasanidi che evocano del resto le raffinate mode orientali di gusto antichizzante che tanto successo riscossero nella corte macedone (Grabar, 1963, p. 90ss.). Interpretate negli edifici ellenici da modesti artefici, queste esotiche ornamentazioni furono elaborate con sottile eleganza dagli scultori costantinopolitani, che seppero conferire alle stilizzate composizioni ritagliate sulle superfici marmoree - come si vede per es. nelle aquile dalle ali dispiegate, nei bouquets di palmette e nei motivi fogliari che si dipartono dal piede di una croce sulle imposte delle finestre (Mango, Hawkins, 1964, figg. 17-18, 23-25, 30) - una consistenza quasi metallica.La diffusione di analoghi ornati si registra in una serie di c. microasiatici (in particolare si segnalano quelli di Manisa, Mus. Manisa e di Iznik, Iznik Mus.; Kautzsch, 1936, nrr. 712, 715), caratterizzati appunto da elementi fogliari e palmette assai vicini a quelle del monastero costantinopolitano. Una simile vicinanza rivela lo stilizzato tralcio che decora un'imposta di Tărnovo (Arheologitcheski muz.), in Bulgaria, forse proveniente da Preslav, dove infatti, alla fine del sec. 10°, scultori-decoratori della capitale collaborarono alle erigende fabbriche della residenza dei sovrani bulgari (Grabar, 1963, p. 113ss.; Barsanti, 1989, p. 96). Un significativo riflesso dello stesso repertorio si ritrova altresì sulle imposte datate alla fine del sec. 10°-inizi 11° del katholikón del monastero di Senofonte al monte Athos (Pazaras, 1987-1988).Ben più consistente, soprattutto in Grecia, fu la diffusione - mediata da manufatti tessili, ceramici e metallici - delle mode islamiche, come attestano le numerosissime ornamentazioni con caratteri cufici o pseudocufici riprodotti sovente sugli elementi architettonici con la raffinata tecnica dell'incrostazione (Sotiriu, 1933; Miles, 1964), nonché il rabescante lessico ornamentale delle già citate sculture a due piani.S'inserisce in questa corrente di gusto anche il decoro plastico della chiesa della Thetokos a Hosios Lukas nella Focide (seconda metà del sec. 10°), dove tuttavia la predominante ornamentazione ispirata al repertorio islamico si coniuga con alcune singolari rivisitazioni classicheggianti, configurate specificamente dai c. del naós e del témplon (Grabar, 1976, nr. 44; Buras, 1980). I c. del naós sono infatti caratterizzati da due differenti strutture decorative: l'una mostra un'originale versione del corinzio con foglie di acanto alternate a palmette attentamente definite nei dettagli, come del resto le plastiche volute e la rosetta che le separa; l'altra s'impone invece per un'ornamentazione decisamente anticlassica. La fitta trama di elementi fogliari ibridati coordinati da sottili nastri che generano figure geometriche accoglie anche piccole figure di cherubini e il tetramorfo; negli angoli, concavi nella parte inferiore, si dispongono palmette; il modellato del tutto superficiale fa ancor più risaltare l'effetto astratto della composizione, che richiama il repertorio islamico, come d'altronde l'ornamentazione della fascia d'abaco comprendente anche caratteri pseudocufici fioriti.La citazione classicheggiante diviene ancor più esplicita in alcuni dei c. del témplon, vere e proprie copie di modelli corinzi (evidentemente gli esemplari classici riutilizzati nella lité), la cui plasticità contrasta peraltro con la stilizzata decorazione fitomorfa del sovrastante epistilio e anche con lo stile mediobizantino degli altri c. decorati con nastri bisolcati annodati e rosetta centrale. Un tipo di c. che si ritrova anche, poco più tardi, nel témplon del katholikón (1011) dello stesso monastero, dove è abbinato a c. decorati con tirsi e foglie di vite che replicano invece un modello giustinianeo, e nelle contemporanee chiese di S. Luca dei Campi in Beozia (dove vennero riproposti anche gli originali c. della Theotokos) e di S. Luca ad Aliveri in Eubea (Grabar, 1976, nrr. 45-45bis).Sempre in area ellenica vanno ricordati i c. del tipo 'a pannelli', con stiacciati nastri annodati e rosette, in opera nella Panaghia ton Chalkeon (1028) a Salonicco (Grabar, 1976, nr. 47). Insieme ai precedenti, essi rappresentano un importante punto di riferimento cronologico per inquadrare la contemporanea produzione scultorea, il cui sviluppo, in prosieguo di tempo, continua a essere quasi sempre documentato da una serie di materiali ancora in opera nel loro originario contesto architettonico, offrendo utili informazioni sui principali centri produttivi (Atene, Corinto, Tebe, Eubea, Laconia), sino ai più tardi esiti di età paleologa testimoniati dalle sculture di Arta e di Mistr'a.Tra i molti esempi che documentano questo percorso e le svariate tipologie decorative si segnalano in particolare: i piccoli c. a doppia voluta simmetrica e palmetta del témplon del monastero di Hosios Meletios presso Megara (1100 ca.; Grabar, 1976, nr. 85), un c. di Kabala (Archaeological Mus.; sec. 11°) con grandi rosette a patera, croci fogliate e orbicoli intrecciati sugli angoli, che richiamano il repertorio giustinianeo (Feld, 1969-1970, tav. 75, 3), i c. della Panaghia Kosmosoteira di Pherai (sec. 12°), decorati con grandi foglie d'acanto e medaglioni con monogrammi o 'a pannelli' con grandi palmette (Feld, 1969-1970, tav. 75, 2, 5-6), un esemplare del sec. 12° con croce e zódia a Giannina (Mus. of Giannina; Grabar, 1976, tav. LXXVIII), un altro di Atene (Byzantine Mus.; sec. 13°), sul quale emerge una mostruosa figura animale (Grabar, 1976, nr. 110), i piccoli c. con bugna aggettante del témplon della chiesa della Dormizione di Apidia in Laconia, della fine del sec. 13° (Grabar, 1976, nr. 151), e infine i c. decorati con croci fogliate e aquile bicipiti (lo stemma paleologo) della Porta Panaghia presso Trikkala, in Epiro, del 1283 (Grabar, 1976, nr. 155).In alcuni centri della Grecia penetrarono anche influssi occidentali, come a Tebe (Grabar, 1976, tav. XCVIII) e, soprattutto, ad Arta, la capitale del despotato dell'Epiro, dove le forme e gli ornati di alcuni c. in opera nella Parigoritissa rivelano un carattere prettamente romanico (Orlandos, 1963).A Mistr'a, la capitale della Morea bizantina, si ravvisa invece un forte tradizionalismo anche nella scultura decorativa, testimoniato per es. da una serie di c., come quelli dell'Evangelistria e della Pantanassa, che ripropongono ancora nella prima metà del sec. 15° manierate rivisitazioni di modelli del sec. 10° e dell'11° (Millet, 1910; Grabar, 1976, nr. 153).Di notevole interesse è altresì un omogeneo gruppo di sculture della Tessaglia, del monte Athos e della Macedonia, che è stato cronologicamente circoscritto agli anni 1274-1317 e la cui esecuzione è stata attribuita a una stessa maestranza. Queste sculture, caratterizzate da un decoro a fitti intrecci di nastri e di tralci fitomorfi impreziositi da incrostazioni (le imposte del katholikón del monastero di Chiliandari al monte Athos e i c. in forma di bulbo dell'ambone della Santa Sofia di Ocrida), segnalano infatti una sempre attuale adesione alle mode islamiche (Pazaras, 1987).Se per il periodo che parte dalla fine del sec. 10° l'area greca offre la possibilità di ricostruire in modo sufficientemente chiaro l'evoluzione della produzione scultorea, altrettanto non si verifica in Asia Minore, dove un rilevante numero di materiali scultorei oramai decontestualizzati, erratici o riutilizzati in edifici seriori, è totalmente privo di referenti cronologici (Barsanti, 1988). Tuttavia le coordinate offerte dalla situazione storica del territorio ne suggeriscono una probabile datazione tra la fine del sec. 9° e la fine dell'11°, in quel periodo di rinascita socio-economica che precede l'avanzata selgiuqide. Va però precisato che la fine del sec. 11° non rappresenta un tassativo termine ante quem per tutti i materiali scultorei dell'Asia Minore: l'attività in questo settore delle regioni costiere occidentali continuò molto probabilmente fino al sec. 12° e oltre, come testimoniano le già citate sculture della Bitinia e alcuni c. di Didyma, confrontabili con quelli della chiesa nord del monastero del Pantocratore a Costantinopoli, datati alla metà del sec. 12° (Peschlow, 1975, nrr. 12-15).La decorazione dei c. microasiatici è multiforme e nel suo differenziarsi si possono individuare le caratteristiche tecniche e stilistiche di alcuni centri produttivi fioriti in Cappadocia, in Frigia (soprattutto nell'area delle antiche cave del marmo docimitico) e nelle regioni ioniche, i cui manufatti si qualificano per la pregevole esecuzione. Il repertorio, alquanto originale, non trova riscontro in quello greco, se non nel comune orientamento verso composizioni inorganiche, più o meno addensate (gli esemplari di Smirne, di Bursa, di Nicea, di Pergamo, di Manisa, di Selçikler, di Eğridir e di Dişli; Kautzsch, 1936, nrr. 699, 707, 712-713, 818; Grabar, 1976, nrr. 13-15, 23; Belke, Melsich, 1990, figg. 119, 122, 124-127); come in Grecia si registra comunque la tendenza a rielaborare, spesso in modo originale, c. protobizantini. Predominano quelli ispirati al tipo bizonale (del quale scompare però l'originaria scansione in due zone), con aquile dalle ali dispiegate (Eğridir, madrasa di Dundar; Belke, Melsich, 1990, figg. 125, 127; Iznik, Iznik Mus.; Keşoğlu, 1972-1973, nr. 3), con protomi umane (Pamukkale, Mus.; Barsanti, 1988, tav. VIII, 1), anche tra loro abbinate (Konia, Konia Mus.; Barsanti, 1988, tav. VIII, 2), e con colombe addorsate (Trebisonda, Santa Sofia; Talbot Rice, 1968, fig. 9b), una categoria di c. che, oltre a essere variamente documentata in Grecia (Beroia, Edessa, 1000 ca.; Tegea, nella versione 'a due piani', seconda metà sec. 12°; Volos e Kalamata, sec. 13°; Panayotidi, 1970-1972, nrr. 52-54, 59, 76), è presente anche a Costantinopoli (oltre ai già citati esemplari del S. Marco di Venezia, quelli di Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 232, 234-236), così come se ne colgono significativi riflessi nelle aree d'influsso bizantino, in particolare nella produzione scultorea pugliese del sec. 11° (cattedrali di Taranto e di Otranto; Alle sorgenti del romanico, 1975, nrr. 176, 236-237).Anche la rielaborazione di c. giustinianei con tirsi e foglie di vite ebbe una certa diffusione, soprattutto in area greco-balcanica, relativamente alla quale, oltre ai già ricordati c. del témplon del katholikón di Hosios Lukas, si segnalano quelli di Preslav e di Tărnovo (sec. 10°) in Bulgaria, di Serrai e di Kalambaka in Grecia, del sec. 12° (Sotiriu, 1935; Grabar, 1976, nr. 64; Sodini, 1984, pp. 248-249); per Costantinopoli si vedano invece i già menzionati c. del Pantocratore e un esemplare nell'Arkeoloji Müz. (Fıratlı, 1990, nr. 236). Lo stesso accade per i c. polilobati, di cui compaiono versioni completamente lisce (S. Giovanni di Efeso, Didyma e Nea Moni a Chio; Peschlow, 1975, nrr. 9-11; Buras, 1982, figg. 125-127), con ornati a incrostazioni e con aquile (katholikón del monastero di Dochiario al monte Athos; Nicopoli, Archaeological Coll.: Barsanti, 1987). Piuttosto interessanti sono inoltre le riprese dei c.-imposta 'a pativ' (Iznik, Iznik Mus.: Keşoğlu, 1972-1973, nr. 10) e di altri motivi del repertorio protobizantino, come il canestro vimineo (Smirne; Kautzsch, 1936, nr. 818), le griglie asimmetriche (Antigoni; Kautzsch, 1936, nr. 677) e il cantaro con tralci fogliati (Iznik, Iznik Mus.; Kautzsch, 1936, nr. 724), nonché alcune irrazionali redazioni dei corinzi (Bursa, Archaeological Mus.; Grabar, 1976, nr. 12).Nella Costantinopoli paleologa, sullo sfondo del nostalgico clima culturale dell'ultima rinascita artistica della capitale bizantina, queste rivisitazioni antiquarie divennero deliberati richiami al passato; quel passato di cui ben poco restava dopo il sessantennio di occupazione latina (1204-1261), che aveva visto l'avido saccheggio e la vandalica distruzione dei tesori e delle collezioni di antichità che sino ad allora erano state le tangibili testimonianze delle glorie della capitale e del suo ruolo di depositaria della cultura antica. Latente è infatti in tutte le manifestazioni artistiche dell'epoca paleologa il desiderio di rivivere il passato attualizzandolo con scelte volte a recuperare le tradizioni dei grandi momenti storici e artistici della capitale; scelte erudite, per lo più ispirate da una committenza d'élite, alla quale, non a caso, si può ricondurre anche una serie di sculture antichizzanti, la cui sorprendente ma ambigua fedeltà ai modelli antichi ne ha sovente ostacolato una corretta valutazione cronologica.Il decoro plastico della chiesa sud del monastero di Costantino Lips, costruita tra il 1282 e il 1304 da Teodora, la moglie dell'imperatore Michele VIII Paleologo, per es., fu intenzionalmente armonizzato a quello del sec. 10° della contigua chiesa (Mango, Hawkins, 1968). Per la chiesa di S. Andrea in Chrysei (od. Koca Mustafa Paşa Camii), restaurata intorno al 1284 dalla principessa Teodora Raulina, nipote di Michele VIII, furono invece ideati alcuni c. decorati con foglie di acanto spinoso palesemente ispirati a modelli del sec. 6° (Mathews, 1976, fig. 1, 13-14). Anche nel parekklésion della chiesa della Pammakaristos, costruito tra il 1310 e il 1315 da Maria, vedova del generale Michele Glabas Tarchaniotes, furono messi in opera c. analoghi e altri decorati con trofei di cornucopie, che ripropongono ugualmente il repertorio giustinianeo (Mathews, 1976, fig. 36, 30 e 32; Betsch, 1979, pp. 285-286), mentre invece nella finestra absidale si trova un'imposta con ornati palesemente ispirati al repertorio della chiesa del sec. 10° di Costantino Lips (Mathews, 1976, fig. 36, 22). Anche i c. del tipo 'a pannelli' del Tekfur Sarayı, senz'altro riferibili al medesimo periodo, rinviano a un modello del sec. 6° (Feld, 1969-1970).Non meno significativi sono gli otto piccoli c. rinvenuti nel territorio di Silivri, l'antica Selymbria, forse pertinenti alla chiesa o alla residenza costruite prima del 1341 da Alessio Apokaukos, recanti il suo monogramma e quello del suo rango di parakoimómenos, che riflettono tra l'altro la diffusa consuetudine della prima epoca paleologa di siglare con il proprio nome le committenze più importanti, richiamandosi intenzionalmente all'esempio offerto dalle fondazioni giustinianee (Grabar, 1976, nr. 136).Restano infine da ricordare tre piccoli c. decorati con busti di apostoli e di santi guerrieri, uno dei quali rinvenuto nella cisterna della Pammakaristos, ai quali si aggiunge una serie di piccole mensole analogamente figurate del S. Salvatore in Chora, sontuosamente ricostruito dal logoteta Teodoro Metochite negli anni 1315-1320 (Grabar, 1976, nrr. 130, 135, 140; Hjort, 1979, figg. 77-78; Fıratlı, 1990, nrr. 238-239), dove si trovano anche altri due c. con busti angelici per i quali è stata però suggerita una datazione al sec. 11° (Belting, 1972; Grabar, 1976, nr. 8; Hjort, 1979, figg. 41-53). Si segnala inoltre un piccolo c. di Istanbul (Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 240) sulla cui fronte è scolpito il busto aureolato di un sovrano biblico.Seppur caratterizzato da un modellato sommario, il primo gruppo di sculture mostra una resa plastica piuttosto disinvolta, di gusto decisamente naturalistico, sottolineata anche da una certa scioltezza nei chiasmi delle figure e da un morbido chiaroscuro, soprattutto sulla superficie dei volti con grandi occhi a mandorla pervasi da un intenso páthos. Come in altre opere scultoree figurate del sec. 14° si colgono quelle stesse sensuali, ma astratte, cadenze stilistiche di molta arte protobizantina; basti citare nello specifico settore della scultura il sarcofago del Principe e il rilievo da Bakirköy (Fıratlı, 1990, nrr. 81, 89). La stessa reminiscenza s'incontra del resto assai frequentemente anche nella pittura paleologa, legata agli eruditi interessi antiquari di quella ristretta élite aristocratica alla quale si può ricondurre appunto la serie di c. antichizzanti considerati.Infine, i due c. con busti di angeli del S. Salvatore in Chora, la cui precoce datazione è forse da rimeditare, stilisticamente si discostano alquanto dagli altri. Le figure appaiono infatti bloccate all'interno dei medaglioni e la loro immobilità è sottolineata anche dalle ali che ne seguono la curvatura, nonché dalla resa più asciutta del panneggio privo di netti contrasti chiaroscurali, ben confrontabile con quello delle figure che decorano gli arcosoli del sec. 14° nello stesso edificio (Hjort, 1979, figg. 62, 64-67, 69-70). Purtroppo i volti sono stati completamente abrasi, ma ciononostante le figure s'impongono per la suggestiva iconicit'a, ben lontana da quella tensione emotiva profondamente umana che traspare al contrario nelle inquiete figure degli apostoli scolpite sul piccolo c. della Pammakaristos, che forse, più degli altri, offre una significativa attualissima testimonianza del clima culturale della capitale paleologa e, soprattutto, dell'ultimo grande momento della scultura bizantina.

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Islam

La dilagante espansione dell'Islam dall'Asia centrale al Medio Oriente all'Africa settentrionale sino alla Spagna, portò gli Arabi a contatto di più evolute civiltà artistiche che rappresentarono un punto di riferimento per la nascente arte musulmana differenziandone peraltro stilisticamente il successivo sviluppo. Ed è proprio su tale eclettico sfondo che si colloca la produzione dei c. islamici, la cui storia non è stata ancora complessivamente delineata nella molteplicità delle tendenze e delle componenti che presiedettero alla loro evoluzione formale.Un primo incontro denso d'implicazioni per la nascente arte islamica fu quello con l'Iran sasanide e con le regioni bizantine dell'Oriente mediterraneo, che divennero peraltro i nuovi centri del potere dei califfi omayyadi, i quali elessero come proprie residenze Gerusalemme e Damasco. Qui sorsero grandi complessi monumentali a gloria della fede islamica e dei califfi stessi, alle cui fabbriche parteciparono maestranze provenienti dalle diverse regioni conquistate. Tale collaborazione diede vita a uno stile eclettico nel quale si coniugarono in sintesi originali le tradizioni siriache, egiziane, bizantine, sasanidi e quelle più squisitamente arabe, ma nel quale predominarono, tuttavia, forme e repertori bizantini e sasanidi, come segnalano i decori scultorei e musivi delle fondazioni di ῾Abd al-Malik (685-705) sull'Ḥarām al-Sharīf di Gerusalemme - la Bāb al-Raḥma, la moschea al-Aqṣā e la Qubbat al-Ṣakhra (Cupola della Roccia) - e quelli delle sontuose residenze califfali di Khirbat al-Mafjar, di Mshattà e di al-Muwaqqar.I c. del complesso di Khirbat al-Mafjar, sorto in prossimità di Gerico nel secondo quarto del sec. 8°, replicano per es., senza sostanziali modifiche, modelli corinzi del 5°-6° secolo. Se si eccettua l'inserto di un fiore o di calici di semipalmette tra le volute o sull'abaco, nonché un più contenuto aggetto del piano d'abaco, il disegno e la resa plastica delle foglie d'acanto, caratterizzate da un modellato alquanto morbido, non mostrano sostanziali schematizzazioni (Hamilton, 1946; 1959). Un analogo stile classicheggiante caratterizza anche i contemporanei c. di Mshattà (Trümpelmann, 1962, pp. 42-45). Appare invece più incisiva la stilizzazione dell'acanto nei c. corinzi e in quelli di tipo 'bizonale' a canestro messi in opera nella moschea al-Aqṣā (Hamilton, 1948; Wilkinson, 1987), che, danneggiata dal terremoto del 747-748, fu ricostruita e ampliata dal califfo abbaside al-Mahdī (775-785). Ma se in questa serie di c. si registra una stretta dipendenza da modelli di tradizione classica, in quelli a imposta del palazzo di alMuwaqqar, costruito dal califfo Yazīd ibn ῾Abd al-Malik (720-724) a N di ῾Ammān, si colgono piuttosto influssi sasanidi (Hamilton, 1948). Le loro esotiche composizioni fitomorfe trovano in effetti dei significativi antecedenti negli ornati scolpiti su una serie di esemplari iranici di epoca sasanide, quali i c. di Bīsūtūn, Qal῾a-yi Kuhna, Isfahan e Ṭāq-i-Bustān. Una medesima tendenza stilistica si manifesta anche nella decorazione plastica della Grande moschea di Ḥarrān, presso Urfa, che fu la residenza favorita di Marwān II (744-755); l'edificio fu ristrutturato molto probabilmente nell'830 (Creswell, 19692, I, pp. 406-409).Fece seguito a queste prime sperimentazioni un periodo formativo che condusse, sul volgere del sec. 8°, a esiti senz'altro più innovativi, come testimonia una serie di c. di manifattura abbaside provenienti dalla zona di Raqqa, nella regione dell'Eufrate. Questi c. rivestono tra l'altro notevole importanza nell'evoluzione dell'ornamentazione islamica e in particolare per la genesi dell'arabesco, una composizione di gusto astrattizzante con elementi fitomorfi a intrecci sempre più complessi e che in seguito divenne appunto la grande protagonista del c. islamico. Nella decorazione di questi c., che conservano in parte la struttura corinzia, predomina infatti la palmetta, una forma pseudovegetale già ampiamente diffusa nei repertori iranici di epoca presasanide. Eliminate le foglie di acanto, il corpo del c. venne avvolto da un fregio di palmette e di semipalmette (del tipo esploso, piumato o a cuore) coordinate in elaborate composizioni da sinuosi steli vegetali o da sottili nastri che generano un continuum ornamentale assai simile all'arabesco vero e proprio. Sotto tale prospettiva i c. di Raqqa configurano dunque un nuovo stile nel quale il naturalismo di tradizione classica cede il posto a una decorazione modulare con una ritmica e simmetrica ripetizione degli ornati (Dimand, 1937); uno stile che si definì compiutamente nei decori plastici di poco successivi di Samarra, la sontuosa, ma effimera residenza abbaside fondata dal califfo al-Mu῾taṣim a N di Baghdad nell'836, abbandonata già nell'890. I c. di Samarra, caratterizzati oltretutto da un'inusitata struttura a bulbo decisamente anticlassica (per la quale comunque è stata suggerita un'eventuale derivazione da modelli copti), sono interamente ricoperti da una stilizzata ornamentazione modellata nello stucco con diverse forme pseudovegetali, oppure completamente lisci. Va altresì sottolineato il fatto che negli edifici di Samarra, per es. nel palazzo di Hārūnī del califfo al-Mutawakkil (847-861), i c., privi di specifiche funzioni portanti, divennero elementi puramente decorativi nell'ambito di organismi architettonici modulati su strutture pilastrate ai cui angoli si addossavano infatti le colonne (Golvin, 1974). Analoghi c., senza specifica funzione strutturale, vennero replicati nella moschea di Ibn Ṭūlūn al Cairo (876-877), i cui decori plastici, esemplati appunto su quelli di Samarra, propongono il medesimo gusto per ornamentazioni che si sviluppano senza soluzione di continuità sulle superfici architettoniche. I motivi ornamentali variano; predominano comunque vasi, dal lungo collo e con il corpo che si apre in fioroni, portatori di fiori lanceolati, palmette a cinque lobi e altri motivi derivati dal tralcio di vite (Golvin, 1974, pp. 107-108).Assolutamente privi di qualsivoglia ornamentazione sono invece i c. a bulbo della Grande moschea di Kairouan, che qui riacquistarono tuttavia un loro specifico ruolo funzionale sulla sommità o alla base delle colonne. La datazione di questi esemplari si colloca comunque in epoca relativamente più tarda, probabilmente nel sec. 11°, rispetto alla fase aghlabide dell'edificio (836). A questa fase, legata al nome di Ziyādat Allāh (817-838), nella quale vennero riutilizzati centinaia di c. di spoglio, classici e bizantini, si possono invece ricondurre alcuni piccoli c. messi in opera nel tamburo della cupola sopra il miḥrāb, decorati con una corona di schematici elementi fogliari. Sempre nella Grande moschea di Kairouan si segnalano inoltre alcuni c. di epoca ziride o hafside (sec. 11°), di forma accentuatamente cilindrica, decorati con grandi foglie individuate da lisce emergenze scandite da incisioni verticali (Golvin, 1970, p. 7). La diffusione dei c. a bulbo, nella versione puramente stereometrica, è altresì testimoniata dai numerosi esemplari di ambito egiziano, impiegati soprattutto nei miḥrāb delle moschee fatimidi e mamelucche del Cairo (per le sale e per le corti vennero invece costantemente riutilizzati c. di spoglio) e dell'Asia centrale, come attestano infatti gli esempi di Bukhara, Uzghen e Samarcanda (Golvin, 1970, p. 73).Relativamente all'Asia centrale si segnalano inoltre i particolarissimi c. della moschea di Balkh in Afghanistan, costruita probabilmente nella prima metà del sec. 8°, all'epoca dell'invasione araba. Essi sono in realtà degli involucri che cinghiano la sommità del fusto delle massicce colonne; ma quel che più conta è la loro decorazione, ispirata al repertorio abbaside di Samarra, coordinata senza soluzione di continuità agli ornati in stucco che si distendono uniformemente sulle membrature architettoniche dell'edificio (Golombek, 1969).Nell'area nordafricana e soprattutto in Spagna, all'indomani della conquista islamica (711) e della fondazione dell'emirato omayyade (756), in parallelo a un'intensa attività edilizia promossa dagli emiri prima e quindi dai califfi, si sviluppò una prestigiosa produzione scultorea che perdurò nei secoli seguenti, espandendosi a partire dal sec. 10° pure nei domini nordafricani degli Almoravidi e degli Almohadi. Particolarmente ampia fu soprattutto la produzione dei c., dei quali è pervenuta peraltro un'importante documentazione, sovente datata, che consente di ripercorrerne l'evoluzione formale dal 9° fino al 15° secolo.La prima tappa di tale evoluzione è testimoniata dai c. che furono lavorati ex novo per l'ampliamento della Grande moschea di Córdova, realizzato dall'emiro ῾Abd al-Raḥmān II tra l'832 e l'848. Questa serie di c., come del resto numerosi altri esemplari contemporanei che sono stati altrove individuati, rivelano innanzi tutto le tendenze di gusto della committenza emirale, che privilegiò l'imitazione di modelli classici. Le diverse tipologie, esemplate su quei modelli antichi, romani o visigoti, che gli scultori al servizio di ῾Abd al-Raḥmān II avevano del resto sotto gli occhi - nella prima redazione architettonica della Grande moschea di Córdova, fondata da ῾Abd al-Raḥmān I nel 786-787, furono infatti messi in opera c. di spoglio -, non possono essere tuttavia classificate complessivamente come copie pedisseque, poiché i modelli vennero rielaborati sia nella struttura sia nell'ornamentazione. Inoltre, se la fonte d'ispirazione scaturisce costantemente dai modelli classici, la tecnica scultorea è di tradizione schiettamente visigota. È del resto assai probabile che quelle sculture fossero lavorate da artefici locali che operavano ancora sulla scorta di esperienze maturate appunto durante la dominazione visigota; essi, pur adeguandosi alle scelte dettate dalla committenza, reinterpretarono i modelli, intervenendo soprattutto nella resa plastica dell'acanto, che mostra infatti un modellato poco chiaroscurato e un frequente uso del taglio obliquo e del trapano (Cressier, 1984-1985). Nei riguardi di questi c. va inoltre sottolineato il fatto che la distribuzione delle diverse tipologie nell'ambito dei colonnati che scandiscono la sala di preghiera è regolata, soprattutto nella nave assiale, da corrispondenze e simmetrie attentamente studiate (Ewert, Wisshak, 1981; Cressier, 1984-1985).L'intenzionale recupero dell'antico che caratterizza questa prima fase si rivelò denso d'implicazioni per la successiva produzione dei c. ispano-musulmani di epoca califfale, che rimase sostanzialmente fedele alle scelte classicistiche della committenza emirale, pur aggiornandone forma e repertorio. Nell'ambito dei c. cordovani della prima metà del sec. 9° si possono tra l'altro individuare i prototipi di quella tipologia composita, caratterizzata da una struttura piuttosto allungata, quasi cilindica, per lo più con tre corone di foglie d'acanto e con un echino a sezione tondeggiante, che ebbe ampia diffusione nei decenni successivi.La seconda metà del sec. 9° e i primi decenni del 10° coincidono con un periodo di transizione che vide il consolidarsi del classicismo e parallelamente il perdurare delle tradizioni tecniche visigote che in epoca califfale, con gli splendidi c. del Salon Rico (954-957) a Madīnat al-Zahrā', vennero totalmente rigenerate in uno stile assolutamente nuovo, il quale sigla d'altronde un momento straordinariamente creativo nella produzione artistica ispano-musulmana. Nell'ambito di Madīnat al-Zahrā', grandiosa fondazione concepita come nuovo centro amministrativo e residenziale e legata al nome del primo califfo ῾Abd al-Raḥmān III (912-961) - iniziata nel 936 e quindi proseguita dal figlio al-Ḥakam II (961-976), ma interrotta nel 978-979 -, si può infatti ripercorrere il suddetto percorso stilistico. I c. compositi della moschea palatina (941-942), di fattura piuttosto sommaria, sono caratterizzati da due corone di foglie di acanto con nervature in forma di spighe, tipiche del repertorio visigoto; anche i c. della terrazza superiore mostrano una lavorazione a cesello tipicamente visigota. Tale accentuato visigotismo potrebbe essere forse collegato alla presenza nei cantieri di Madīnat alZahrā' di artefici mozarabi, appartenenti a quella minoranza cristiana che venne sottomessa e arabizzata appunto nei primi anni del califfato di ῾Abd al-Raḥmān III. Particolarmente interessante è poi la serie di c. di tipo composito e corinzio recuperati nell'area della terrazza sopra il Salon Rico - la cui datazione può essere circoscritta al 950 -, che prefigurano emblematicamente i c. del Salon Rico di poco successivi (954-957), come segnala in particolare l'elaborato fitto ritaglio delle ornamentazioni vegetali. Le epigrafi dei marmorari del Salon Rico informano che le opere iniziarono sotto la direzione di Sunayf e numerosi c. della sala recano iscritto il nome dell'artefice su una piccola cartella rettangolare, mentre l'iscrizione relativa alla fondazione corre sulla cornice dell'abaco.La maggior parte dei c. in questione, di tipo composito e corinzio, collocati in serie alternate secondo una ritmica già adottata nella moschea palatina, è caratterizzata da una struttura che replica le eleganti proporzioni dei prototipi classici, tranne l'echino dei compositi, che assume una forma accentuatamente semicircolare. Tutti i c. s'impongono per una lavorazione (completata in situ, dopo la loro messa in opera) estremamente raffinata e attentamente rifinita sin nei minimi dettagli dell'ornamentazione, testimoniando l'elevato livello tecnico degli scultori al servizio dei califfi. Con virtuosistica perizia venne infatti ritagliato a elementi geometrici ogni singolo ornato, trasformando tutta la decorazione in un'immateriale e astratta trama vegetale. Lo stile raffinato e la tecnica sapiente potrebbero essere ricondotti forse all'esperta manualità di artefici bizantini o musulmani, ma educati da quei maestri bizantini che furono invitati alla corte cordovana per collaborare alle fabbriche dei palazzi califfali. Di gusto ancor più astratto appaiono le ornamentazioni dei c. del palazzo orientale, edificato tra il 974 e il 975 dal califfo al-Ḥakam II. Essi mostrano infatti una più libera interpretazione degli elementi vegetali, con un arricchimento di gusto orientale - con palesi richiami alle mode abbasidi - del repertorio fitomorfo, organizzato in composizioni sempre più fitte e rabescanti che obliterarono le foglie d'acanto, delle quali non resta altro che la venatura mediana individuata sovente anche da un motivo a treccia.Queste estrose libertà non impedirono tuttavia agli scultori cordovani di imitare modelli precedenti, manifestando in questo una sorta d'involuzione creativa, come attestano, per es., i c. compositi completamente lisci messi in opera nella Grande moschea di Córdova (Pavón Maldonado, Sastre, 1969) nelle addizioni di al-Ḥakam II (965) e di al-Manṣūr (987).Sulla scia dello stile dei c. creati per il palazzo orientale di Madīnat al-Zahrā' si orientò in prosieguo di tempo l'evoluzione dei c. ispano-musulmani, come testimoniano i notevoli esemplari del palazzo Aljaferia di Saragozza, capitale di uno di quegli stati indipendenti dei Reyes de Taifa costituitisi all'indomani della caduta del califfato, fondato appunto durante il regno di Abū Ja'far al-Muqtadir (1046-1081), dinasta di pura stirpe araba. L'elemento nuovo di questi c. consiste nel fatto che l'acanto è completamente scomparso e le foglie sono diventate semplici scomparti che accolgono esotici ornati vegetali e floreali; la medesima flora di ispirazione abbaside, in cui predominano diverse specie di palmette, pigne e melagrane, decora anche le volute e l'echino. Nella seconda serie di c. dell'Aljaferia si nota altresì un sensibile allungamento della struttura e una più netta astrazione delle foglie, che contengono complessi intrecci di ornati vegetali organizzati in forma di arabesco; inedita è inoltre la forma architettonica attribuita alle volute, che sembrano quasi imitare gli archi stessi del palazzo (Gómez-Moreno, 1951, p. 226; Ewert, 1991). Un analogo stile caratterizzò la produzione dei c. nel regno taifa di Toledo, come esemplifica un c. proveniente forse dal palazzo reale di Ma'mūn, della metà del sec. 11° (Brisch, 1961). Rispetto ai c. califfali e a quelli di Saragozza quelli toledani mostrano tuttavia un'ornamentazione ritagliata senza profondi sottosquadri sulla superficie marmorea. In quegli stessi anni in Africa settentrionale nelle grandi fondazioni almoravidi del Marocco - come la Grande moschea di Tlemcen, la moschea di Marrakech e la moschea di al-Qarawiyyīn a Fez, queste ultime datate al regno di ῾Ali b. Yūsuf (1106-1142) -, alle quali collaborarono anche scultori spagnoli, vennero messi in opera soprattutto c. di tipo composito a foglie lisce; in essi fa la sua prima apparizione, specificatamente in quelli di Tlemcen, una singolare metamorfosi dell'unica corona di foglie di acanto che, saldate tra loro alla base, generano una sorta di fregio continuo a meandro (Marçais, 1954, p. 235).Le successive fondazioni almohadi, la moschea di Tinmal (1153-1154) e la Kutubiyya di Marrakech (1162 ca.), offrono al contrario una collezione di c. modellati in stucco, estremamente ricca di forme che ben poco conservano dei modelli antichi (Ewert, 1991). I c. della Kutubiyya ne evocano tuttavia meglio il ricordo nella doppia corona di foglie di acanto, forse anche perché il riutilizzo di una serie di c. omayyadi (probabilmente provenienti da Madīnat al-Zahrā') poté servire da modello agli scultori almohadi. L'antica tipologia corinzia e composita si prestò tuttavia a libere interpretazioni che preannunciavano la nascita di un c. propriamente islamico. La plasticità degli elementi dei c. antichi venne bloccata e riassunta nella massa stessa del c., che acquisì allora una struttura organizzata in due volumi sovrapposti: un cilindro che continuava la colonna e un parallelepipedo che riceveva la ricaduta dell'arco. Come nei c. di Tlemcen, le foglie sono saldate alla base, ma le loro nervature sono segnate da un'incisione che sale dall'astragalo per fermarsi sotto il lobo ripiegato, conferendo alla corona d'acanto la forma di un vero e proprio meandro. Il parallelepipedo superiore, che dapprima continua ad accogliere le volute tradizionali, l'echino semicircolare e i caulicoli a doppia foglia, ai quali si aggiunge sovente un tassello mediano, in un secondo tempo si semplifica ospitando solo una palmetta che, nascendo dalla sottostante corona foliare, collega le due parti (Marçais, 1954, pp. 236-237; Ewert, 1991).Una qualità tecnica notevolmente modesta caratterizza invece i contemporanei c. spagnoli, come quelli del Patio de las Banderas nell'Alcazar almohade di Siviglia e quelli compositi, di marmo nero, riutilizzati nell'Alhambra di Granada, che segnalano una sensibile decadenza nella locale produzione scultorea (Torres Balbás, 1949, pp. 51-52).Un rinnovato impulso artistico si manifestò a partire dal sec. 13° sia in Spagna sia in Marocco con le fondazioni merinidi e nasridi, nell'ambito delle quali si completò e si definì l'evoluzione del c. ispano-musulmano secondo quelle forme preannunziate dai già citati esempi di epoca almohade. Come attestano i raffinati c. dell'Alhambra di Granada e quelli delle moschee di Sidi bou Medine e di Sidi ben Ḥassan a Tlemcen, nonché i c. della madrasa al-῾Aṭṭārīn di Fez (1350-1355), la netta divisione tra le due parti appare completamente realizzata. La zona cilindrica è invariabilmente avvolta dal meandro di foglie, mentre il sovrastante parallelepipedo si ricopre di una ricca ornamentazione floreale e vegetale modellata sovente nello stucco, con fitte composizioni arabescate, che nel tempo divennero di gusto sempre più manierato e barocco (Marçais, 1954, pp. 340-342). Per il sec. 13° si segnalano inoltre i singolari c. mudéjar di Santa Maria la Blanca a Toledo (1250 ca.), decorati con foglie di acanto 'al vento' coordinate da intrecci di nastri il cui stile denota un forte influsso islamico (Marçais, 1954, p. 366; Pavón Maldonado, 1973).Nel corso dei secc. 13° e 14° fanno la loro apparizione in area nordafricana e spagnola anche le decorazioni a muqarnas, che ampia diffusione avevano avuto soprattutto in area orientale a partire dal sec. 11° e dalla Persia erano dilagate rapidamente in Iraq, nelle fondazioni ayyubidi siriane ed egiziane e in Anatolia, dove se ne fecero interpreti gli scultori selgiuqidi nell'ambito delle esuberanti decorazioni plastiche della Grande moschea di Dunaysir (1204), della Grande moschea e dell'ospedale di Divriği (1228), in cui si ricordano inoltre i grandi c. cubici ad angoli smussati con stilizzate decorazioni vegetali coordinate a elementi pseudogeometrici che coronano massicci pilastri ottagonali. Tra i molti esempi si segnalano inoltre i raffinati c. a muqarnas della madrasa Cacabey a Kirşehir (1273). In altre fondazioni selgiuqidi, invece, accanto ad alcune fantasiose rielaborazioni di modelli corinzi, per es. i c. dei portali della madrasa Karatay (1251) e della madrasa Ince Minareli (1258) a Konia e quelli della moschea Eşrefoğlu a Beyşehir (1296), vi sono c. con esotiche decorazioni a palmette e altri elementi pseudovegetali, come quelli nel portale del Bimarhane di Amasya, del 1308 (Öney, 1988).Restano infine da segnalare alcuni c. islamici di ambito italiano, come un esemplare di stile califfale esistente a Pisa (Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana; Baracchini, 1986, fig. 11) e un altro riutilizzato nella chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi a Palermo (Scerrato, 1979, p. 327, fig. 98), dove si ricorda anche un c. di stile aghlabide, paragonabile ai già citati esemplari della Grande moschea di Kairouan, conservato nel Mus. Regionale (Bellafiore, 1990, fig. 6), nonché i c. dell'ambone della Cappella Palatina, che, pur di epoca normanna, mostrano una stilizzazione dell'acanto senz'altro di ascendenza islamica (Scerrato, 1979, fig. 39). Particolarmente interessanti sono inoltre due c.-imposta di forma cubica svasata riutilizzati nel santuario dei Ss. Vittore e Corona a Feltre, decorati con un'iscrizione a caratteri cufici fioriti e stilizzati girali vegetali impreziositi da incrostazioni a piombo, che creano un effetto paragonabile al niello; datati al sec. 11°-12°, la loro manifattura è stata attribuita ad ambito siciliano (Alpago Novello, 1974).

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