CARLO EMANUELE III di Savoia, re di Sardegna

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)

CARLO EMANUELE III di Savoia, re di Sardegna

Valerio Castronovo

Nacque a Torino il 27 apr. 1701, figlio minore di Vittorio Amedeo II e di Anna di Francia. Secondogenito, e perciò non destinato a regnare, ebbe dapprima il titolo di duca d'Aosta e soltanto alla morte del fratello maggiore Vittorio Amedeo nel 1715 gli fu impartita un'educazione conforme ai suoi compiti, ma angusta e ristretta, sorvegliata dall'alto secondo i convincimenti e i canoni personali del padre tesi al sodo e al concreto, senza alcuna reale ispirazione culturale. Banditi il latino e le discipline umanistiche, ridotta la storia alla pura esposizione di gesta militari o alla letteratura oratoria e agiografica di corte, il giovane principe venne addestrato piuttosto all'analisi minuta di problemi tecnici e militari, al maneggio di materie finanziarie e di ingegneria, nell'ambito di una pedagogia assolutista - di maniera e pragmatica. Cresciuto al riparo da qualsiasi curiosità intellettuale, sulla base di precise direttive - volte a rafforzare le attitudini esecutive e di applicazione pratica più che a suscitare l'estro politico e la capacità critica di giudizio, C. E. patì inoltre per tutta l'adolescenza e ancora negli anni successivi la sudditanza all'imperiosa ed eccezionale personalità del padre. Al di là del duro e metodico tirocinio intorno a problemi tali da sollecitare il senso della regola, lo scrupolo pedante e una certa logica di natura essenzialmente deduttiva nello svolgimento delle pratiche quotidiane di amministrazione dello Stato, la stessa prepotente volontà di Vittorio Amedeo II, la sua severità e ruvidezza di modi, l'insofferenza con cui seguiva i lenti progressi del figlio, paragonandoli al carattere intuitivo e alla vivacità d'ingegno del fratello prematuramente scomparso e a lungo compianto, contribuirono a radicare nell'animo del giovane principe un acuto complesso d'inferiorità, un atteggiamento timido e di profonda insicurezza personale, da cui non si sarebbe liberato mai completamente. Per quanto si applicasse coscienziosamente e con serietà d'impegno nell'impadronirsi di cognizioni d'arte militare e di finanza pubblica, in questioni tecniche e in esercizi fisici, al campo e alla caccia, egli non riuscì infatti a far breccia nelle simpatie paterne, né a conquistarsi il rispetto incondizionato della corte e dei consiglieri più intimi. Di costituzione gracile ("meno che mediocre di statura, il capo piccolo, sottili il torso e le gambe, la statura non sciolta"), cresciuto fino a quattordici anni in un ambiente che non aveva badato molto né alla sua salute cagionevole né alla sua scarsa preparazione, sottomesso quindi alla guida coercitiva e quasi ostile del padre, "Carlin" (come continuerà a chiamarlo con una punta di scherno Vittorio Amedeo II anche quando aveva superato da un pezzo la maggiore età) si rassegnò alle angherie paterne e alle piccole vessazioni dell'ambiente familiare nel regolare la sua stessa vita privata, avvezzo com'era "a tremar del padre" ad ogni stormir di vento. Financo all'usciolino del letto arrivò l'invadenza del vecchio sovrano nel voler tener rigidamente sotto controllo, ad ogni passo, la condotta del figlio. Sposato in seconde nozze dal 1724 con la bella Polissena Giustina d'Assia-Rheinfels (dopo essere rimasto vedovo l'anno prima di Cristina Luisa di Baviera), egli fu costretto infatti a temperare i suoi ardori nei rapporti con la consorte da un preciso calendario impostogli dal padre, preoccupato del fascino esercitato dalla nuora. Né valse a dargli maggior fiducia di sé l'ammissione infine, nel 1727, ai principali segreti di Stato e alle udienze dei ministri. La complessa vicenda dell'abdicazione di Vittorio Amedeo II confermò del resto in quale poco conto fossero tenuti l'opinione e le ragioni dell'erede al trono. Non era infatti intendimento del sovrano, con l'atto di rinuncia steso il 3 sett. 1730, allontanarsi una volta per tutte dalla scena politica quanto piuttosto mantenere, per interposta persona, il controllo dei più importanti affari pubblici, se già non covava il fermo proposito di riprendere in mano il potere ove determinate circostanze o l'esito della prova del figlio lo avessero consigliato, come risultò evidente nemmeno un mese dopo, sul finire dell'estate del 1731. L'ordine (il 27 settembre) di arrestare il padre, che aveva notificato a più riprese l'assoluta sua risoluzione di ascendere nuovamente al trono, e di confinarlo al castello di Rivoli (e quindi sotto chiave a Moncalieri sino alla fine dei suoi giorni), fu certamente l'atto più tormentato e drammatico del regno di Carlo Emanuele III. Buon per lui, a lungo dibattuto sulla decisione da prendere, che avesse al suo fianco in quel momento il marchese d'Ormea, deciso con ogni mezzo a sventare il ritorno in auge di Vittorio Amedeo che gli avrebbe precluso il passo verso il pieno esercizio del governo e la definitiva esautorazione dei vecchi ministri del Borgo e di San Tommaso. Sicché, se la rapidità e la fermezza con cui C. E. aveva reagito alle pretese del vecchio re, vincendo la sua iniziale ritrosia e sofferenza d'animo, erano riuscite almeno a liberarlo dall'ombra dispotica del padre, non è men vero che da allora egli finì col dipendere quasi interamente da una tutela non meno ingombrante e dalle implacabili ambizioni dell'Ormea di assommare nelle sue mani le leve effettive del potere. Al successore del Mellarède nella segreteria per gli Interni C. E., inesperto di negozi diplomatici, affidò infatti nel marzo 1732 anche quella per gli Affari Esteri e, l'anno dopo, allo scoppio della guerra di successione polacca, la responsabilità delle trattative più delicate con Vienna, Londra e Parigi. Si dovette d'altra parte al talento diplomatico del marchese d'Ormea, in grado di destreggiarsi con estrema abilità e tenacia fra il Walpole, il Fleury e lo Chauvelin, fra il principe Eugenio e Carlo VI, fra gli uomini della Curia romana e i rappresentanti dei principati italiani, se il Regno di Sardegna, schieratosi infine con la Francia nel conflitto con gli Asburgo, riuscì a strappare (con il trattato di Torino del 26 sett. 1733) un accordo con Parigi che, con la promessa del possesso di tutta la Lombardia, andava ben oltre le più ardite speranze della diplomazia piemontese e sembravano coronare infine un disegno vanamente inseguito per più d'un secolo.

La spedizione nel Milanese diede modo a C. E., impaziente di imporsi al rispetto dei sudditi e sulla scena internazionale, di mettere in mostra notevoli doti di coraggio personale e di talento militare, in qualità di comandante supremo delle forze franco-piemontesi sul fronte italiano. Impadronitosi prontamente di Vigevano, mentre i suoi luogotenenti avanzavano su un altro versante senza incontrare eccessiva resistenza, il sovrano sabaudo faceva ingresso il 10 dic. 1733 a Milano, ottenendo dopo un assedio di venti giorni la resa del castello. Nel giro di un mese, tra il gennaio e il febbraio 1734, anche le piazze di Pavia, Serravalle, Novara, Arona, Tortona furono costrette a capitolare. Pareva così, dopo l'assunzione ufficiale da parte di C. E. del governo della Lombardia, che l'intesa con Parigi dovesse dare tutti interi i suoi frutti. Era mancata tuttavia l'adesione esplicita della Spagna (legatasi alla Francia nel primo "patto di famiglia" borbonico) al trattato di Torino, mentre le pretese di Elisabetta Farnese, erede dei ducati di Parma e Piacenza, su Napoli e la Sicilia - in coincidenza con l'offensiva di don Carlo di Borbone nell'Italia meridionale - per farne altrettanti appannaggi (insieme con i suoi possessi) dei propri figli, già costituivano un pesante motivo di incertezza e di discordia interna fra gli alleati. Di fatto a nulla valsero gli sforzi del governo sabaudo per coinvolgere dalla propria parte anche l'Inghilterra nel complesso gioco diplomatico tendente a scongiurare un ritorno in forze della Spagna sullo scacchiere italiano e mediterraneo. Né sortì esito migliore la brillante vittoria riportata a Guastalla (19 sett. 1734) da C. E., guadagnatosi ancora una volta gli allori sul campo con una condotta audace e impavida a conclusione di una campagna militare particolarmente abile e fortunata. Aggirato dalle trattative segrete condotte dal Fleury con l'imperatore conclusesi con la firma dei preliminari di Vienna (3 ott. 1735), e alle prese a Torino con il ritorno in forze del partito filoaustriaco, il re di Sardegna dovette rassegnarsi il 16 ag. 1736 ad accedere, sia pur con non poche riserve, all'accordo stipulato fra la Francia e l'Austria che, escludendolo dal possesso della Lombardia, gli lasciava unicamente la scelta fra tre soluzioni (Novarese e Vigevanese, Novarese e Tortonese, Tortonese e Vigevanese) oltre all'acquisto dei feudi imperiali delle Langhe. D'altra parte, se la conquista del Milanese non aveva comportato grandi difficoltà al di là di un'accorta strategia militare (grazie anche alla dislocazione del grosso dell'esercito austriaco nella Slesia e verso il Reno), assai più ardua s'era presto rivelata l'amministrazione del territorio così rapidamente assoggettato. La nobiltà lombarda non aveva nascosto infatti la sua avversione per i Savoia, sia per antichi risentimenti, sia per il timore di perdere le larghe franchigie e i privilegi di cui aveva goduto fino allora sotto il governo austriaco. E questo nonostante che C. E. si fosse preoccupato di confermare, come suo primo atto, le precedenti costituzioni e magistrature, e avesse poi chiamato a far parte della giunta di governo alcuni degli esponenti più illustri dell'aristocrazia e della borghesia di toga locale. Di fatto, in seguito alle crescenti difficoltà di acquisire alla causa sabauda le più importanti famiglie milanesi, e di fronte soprattutto al disegno ormai scoperto e vincente della corte di Madrid (in ciò assecondata dalla Francia) affinché l'esclusione dell'Austria dalla penisola preludesse alla creazione di un sistema di Stati legati ai Borbone in funzione antisabauda, fu giocoforza per il re di Sardegna scegliere il minore dei mali e sottoscrivere quindi (il 3 febbr. 1739) il trattato di Vienna del 18 nov. 1738 che restituiva la Lombardia all'Austria attribuendogli in cambio il Novarese e il Tortonese con la fortezza di Serravalle a ridosso della Repubblica di Genova. La rinuncia definitiva al Milanese fu un amaro boccone per il sovrano sabaudo, che sull'acquisto della Lombardia aveva puntato tutte le sue carte per uscire dalle condizioni di debolezza e di minorità cui il Piemonte sembrava votato dopo la scomparsa di Vittorio Amedeo II. In compenso, il pericolo di un accerchiamento da parte dei Borbone era stato scongiurato attraverso un complesso sistema di contrappesi che garantivano quanto meno un certo equilibrio nella penisola, con il ritorno dell'Austria in Lombardia, l'assegnazione del granducato di Toscana a Francesco Stefano di Lorena, e il riconoscimento di don Carlo di Borbone a re di Napoli e di Sicilia col possesso anche dello Stato dei Presidi. Il breve intermezzo di pace, prima dello scoppio della guerra di successione austriaca, diede modo inoltre a C. E. di rafforzare le strutture amministrative e finanziarie interne. In verità, egli aveva ereditato un regno che già l'efficace opera riformatrice del padre aveva ammodernato negli ordinamenti economici e militari, reso più solido e dinarnico nell'impianto burocratico e nella macchina fiscale, e più attento allo sviluppo dei rapporti internazionali. Per C. E. si trattava essenzialmente di assicurare la continuità di tale politica e non tanto di mutare indirizzo; e proprio a questo riguardo s'erano manifestate sino all'ultimo le preoccupazioni di Vittorio Amedeo II ed erano poi emerse le inquietudini dei vecchi ministri rimasti orfani di una guida tanto dispotica quanto sicura e geniale. Tuttavia l'affidamento a un uomo di grande esperienza e di polso fermo come il marchese d'Ormea aveva aiutato il sovrano sabaudo a superare il disorientamento e le incertezze interiori del suo esordio politico. Né d'altra parte egli era, come il padre, una personalità insofferente di obiezioni e contraddizioni, o gelosa sino all'eccesso delle prerogative dell'assolutismo monarchico. La sua vocazione di "primo servitore dello Stato", il suo stesso metodo di lavoro minuzioso e pedante nel disbrigo scrupoloso di ogni pratica di governo, il suo sodo e cauto realismo erano tali da conciliargli il consenso del ceto di avvocati-burocrati, di causidici e di giuristi borghesi, di neotitolati di corte, sulla cui integrale dedizione già il padre aveva fatto assegnamento per ricostruire le fondamenta dello Stato sabaudo. Onde, se non riuscì a divenire popolare nei circoli più esclusivi di corte (nonostante le sue iniziative per rendere più vivace e meno austero il clima della capitale dopo il lungo regno del padre che aveva bandito ogni parvenza di fasto e cerimoniale), ebbe in compenso a guadagnarsi la stima e la devota collaborazione dei quadri esecutivi dell'amministrazione centrale e periferica, adusati alla laboriosa routine di una macchina statale che sentivano ormai quasi come propria, e tagliati quasi sulla stessa falsariga del sovrano, assiduo e solerte nell'esercizio dei compiti più minuti di governo, attento alle formalità e alla gerarchia, grave e ponderato nei modi, sensibile più alle questioni e alle procedure della buona e sollecita amministrazione che alle grandi intuizioni e sintesi politiche.

Alla forza intrinseca di questo solido e disciplinato apparato burocratico, e alla sua ormai collaudata capacità di far fronte in maniera efficace ad ogni congiuntura, C. E. affidò il compito di restaurare le finanze dello Stato dopo i gravi impegni assunti nel corso della guerra. D'altra parte, il fatto che la campagna militare del 1733-34 si fosse svolta interamente fuori del Piemonte contribuì a che gli inizi del suo regno non coincidessero con un eccessivo appesantimento del carico fiscale sulle Comunità. Fu così possibile dar pieno corso alla perequazione dei tributi fondiari per il Piemonte (definitivamente sancita nel maggio 1731 a coronamento dell'opera di riforma intrapresa dal padre) ed estenderla progressivamente alla Savoia e alle province di nuovo acquisto. Con le compilazione del catasto, che si proponeva "un'equitativa distribuzione dei pubblici pesi ed il giusto sollevamento di quelli che fino ad ora hanno contribuito nel pagamento dei medesimi più del dovere", vennero aboliti i gravami che cadevano sulle spalle dei Comuni per l'alloggio e lo stipendio delle soldatesche, oltre ai cespiti del "gioatico" e del "cotizzo" (imposte sul bestiame e sulle arti e mestieri), sulla cui determinazione influivano di norma i maggiorenti locali avvezzi a scaricarne i maggiori oneri sui censiti più poveri (salvo per quei comuni, più indebitati o meno provvisti di propri redditi, che avessero assoluto bisogno di tali entrate per far quadrare i loro bilanci). Rimasero tuttavia in piedi le forti diseguaglianze nelle aliquote medie per giornata di terra fra le diverse località, a scapito soprattutto delle province più montuose o collinari, che erano anche le meno fertili in fatto di produttività agricola. L'applicazione del nuovo catasto consentì ad ogni modo un considerevole e costante aumento delle entrate, grazie soprattutto all'incremento dei tributi maggiori dovuti al riordinamento perequativo. D'altra parte, se per coprire le spese di guerra fu necessario ricorrere all'infeudamento di parecchie terre, all'alienazione di tassi e taglie e all'appalto di alcuni uffici e servizi, è anche vero che le gabelle generali, i tributi ordinari e quelli minori non subirono variazioni rilevanti mentre vennero scartate le misure più pericolose di vendita indiscriminata di cariche della magistratura e di titoli di nobiltà. Largo fu per contro il ricorso ad imposizioni straordinarie di vario genere, con esclusione tuttavia (rispetto al periodo della guerra di successione) del diritto di macina, del quartiere d'inverno, del doppio comparto grani e di altri provvedimenti più gravosi per le collettività.

Di fatto, fu cura di C. E. evitare, nella ripartizione dei vari carichi fiscali, sperequazioni tali da pregiudicare l'equilibrio economico del paese e da vanificare l'indirizzo politico antinobiliare appena inaugurato. Nel bilancio della finanza di guerra fra il 1733 e il 1738 ebbero a prevalere più i prestiti e le alienazioni che i tributi straordinari, e quanto ai primi si cercò prontamente di riscattarli in parte o integralmente con vari accorgimenti, mentre per i secondi si badò a non calcare la mano sulle Comunità locali e sui contribuenti più deboli. Si impose così all'aristocrazia feudale il pagamento della "cavalcata" e, nelle contribuzioni straordinarie varate tra il 1734 e il 1736, si escluse l'aggravio dei "cotizzi" e delle "arti", a sollievo degli artigiani, dei lavoratori e dei piccoli proprietari agricoli. Anche nelle imposizioni eccezionali di guerra riguardanti la città di Torino il sovrano e i suoi consiglieri, stabilito il principio di una tassazione "proporzionata alla facoltà e rendite di ognuno", finirono col ripartire i maggiori oneri sulla nobiltà, sulla borghesia curiale e di toga, sui banchieri e mercanti e sui più cospicui detentori di titoli del debito pubblico.

Lo stesso indirizzo, attento a far valere le prerogative dell'assolutismo regio e a ridurre la potenza dei corpi privilegiati, venne perseguito nei riguardi della feudalità ecclesiastica. Già nel corso delle operazioni di perequazione e quindi nella formazione definitiva dei catasti, prima Vittorio Amedeo II e poi C. E. avevano insistito nelle istruzioni agli intendenti perché si giungesse, agli effetti di una più equa ripartizione delle imposte e della eliminazione di abusi e immunità, a una severa collettazione dei beni ecclesiastici e a una integrale rilevazione dei vari corpi religiosi. Il decreto con cui Clemente XII aveva revocato (il 6 ag. 1731) il concordato del 1727, risultato, a suo giudizio dell'abdicazione di Benedetto XIII alle pretese giurisdizionali di Vittorio AmedeoII, e la sospensione quindi delle nomine dei prelati alle abbazie e ai benefici vacanti avevano provocato del resto una nuova fase di acuti dissidi fra il governo di Torino e la corte di Roma. Tra il 1731 e il 1735, con l'occupazione armata dei feudi pontifici e con una serie interminabile di astiose e durissime polemiche fra la Curia e i giureconsulti piemontesi, il conflitto sulle rispettive ragioni s'era trasformato in uno scontro aperto senza alcuna apparente possibilità di mediazione. Sebbene i termini della controversia si mantenessero pur sempre ancorati ai motivi tipici del pragmatismo assolutistico, senza sconfinare sul terreno minato del più coerente giusnaturalismo o delle più moderne anticipazioni illuministiche, la vertenza con Roma non sembrava dovesse trovare una qualche via d'uscita, fermo Clemente XII nel non ammettere alcuna possibilità di ripensamento e altrettanto risoluto C. E. a non muover passo che potesse minimamente compromettere i risultati raggiunti dal padre nella regolamentazione giuridico-economica dei rapporti con il clero piemontese e le gerarchie ecclesiastiche. Tale situazione di ostinata intransigenza si sarebbe sicuramente protratta a lungo se il governo sabaudo non si fosse spinto, senza alcuno scrupolo, a trar partito dall'accanita persecuzione della cancelleria papale nei confronti del Giannone. Difatto la vergognosa transazione seguita alla proditoria cattura del più illustre esponente dell'anticurialismo italiano (attirato da Ginevra in Savoia grazie a un tranello ordito dall'Ormea e imprigionato quindi nell'aprile 1736 nel castello di Miolans, prima di venir trasferito nelle carceri di Torino) servì a C. E. per conquistarsi la benevolenza del pontefice e dare infine avvio alle trattative per la riconciliazione. Nonostante il rifiuto opposto dal sovrano (contrariamente al parere del marchese d'Ormea) di consegnare lo scrittore napoletano alla corte di Roma, per rinchiuderlo piuttosto nel castello di Ceva (ove il Giannone sarebbe rimasto sino al settembre 1744 prima di finire suoi giorni, quattro anni dopo, nelle segrete della cittadella di Torino), bastarono infatti l'ordine d'arresto steso dal governo sabaudo ancor prima di una precisa richiesta da Roma e la trasmissione quindi al S. Ufficio delle carte dell'esule trafugate a Ginevra, perché il pontefice s'inducesse con un breve del 4 maggio 1737 a notificare il suo desiderio di giungere senza altre dilazioni a una composizione dell'annosa controversia. Il compiacimento di Roma nei confronti della decisione assunta dal governo sabaudo giunse anzi a tal punto da dar piena soddisfazione all'Ormea anche nella nomina dei plenipotenziari incaricati di condurre in porto i negoziati avviati nell'agosto 1737 e conclusisi quindi il 5 genn. 1741 sotto il nuovo pontefice Benedetto XIV (particolarmente gradito alla corte di Torino, per aver svolto una parte di rilievo nella stipulazione degli accordi del 1727) con la firma di due concordati in materia beneficiaria e feudale.

Col primo C. E. veniva investito del vicariato perpetuo trasmissibile ai suoi successori sui feudi pontifici, contro il ritiro delle truppe sabaude e il pagamento annuo di un calice di duemila scudi d'argento alla Camera apostolica. Col secondo venivano confermate le clausole stabilite nel 1727in merito ai diritti di nomina del re ai benefici ecclesiastici (escluse le chiese cattedrali di Acqui, Casale ed Alessandria) e la Curia rinunciava ai 1.500 scudi sull'abbazia di Lucedio, in cambio della facoltà di imporre pensioni anche a favore di sudditi stranieri sopra i benefici semplici eccedenti il reddito di 100 scudi e su quelli residenziali eccedenti i 150, ma soltanto per le somme al di sopra di queste cifre e soltanto nel caso esse non superassero il terzo dei frutti del beneficio (con esclusione dei benefici parrocchiali e di quelli dei vescovati di Acqui, Casale e Alessandria). Seguiva infine, il 6 genn. 1742un'istruzione di Benedetto XIV con cui si regolavano, previa approvazione di C. E., alcune materie di giurisdizione, di exequatur e di immunità rimaste in parte in sospeso dopo il 1727.Essa sanciva, in particolare, l'obbligo dei vescovi esteri aventi giurisdizione nello Stato di deputare un vicario generale per giudicare nelle questioni civili e criminali quelle cause pertinenti al loro foro; la facoltà ai tribunali laici di giudicare nel "possessorio" le vertenze dei benefici e delle decime, escluso il "petitorio" spettante alla potestà ecclesiastica; la facoltà dell'exequatur ai brevi ed alle bolle apostoliche, eccettuate le bolle dogmatiche in materia di fede per i giubilei e le indulgenze, i brevi della Sacra Penitenzieria, ecc.; l'impegno regio di prestazione del braccio secolare ai tribunali vescovili; la concessione della visita dei vescovi ai luoghi pii, eccettuati quelli di fondazione regia o di regia protezione; la soggezione al censo dei beni ecclesiastici divenuti tali dopo il 1620; l'esclusione della licenza preventiva delle autorità laiche per la visitazione delle diocesi e la convocazione dei sinodi; e, insieme ad alcune norme restrittive per i giudizi e gli atti delle curie vescovili, la limitazione del diritto di asilo. In sostanza, C. E. e i suoi ministri si preoccuparono soprattutto di ribadire le prerogative giuridiche e finanziarie dell'assolutismo regio, senza altri intendimenti di carattere ideologico o dottrinale. Come la spregiudicata compiacenza nei confronti della Curia era servita, tramite l'arresto del Giannone, a riaprire i negoziati con Roma, così le più rigide professioni di lealismo e di ortodossia in materia religiosa (confermate dalla contemporanea epurazione dall'università di Torino di alcuni docenti accusati di giansenismo) erano state poste innanzi nel corso delle trattative per conseguire precisi obiettivi di interesse patrimoniale e fiscale, considerati assolutamente preminenti su ogni altro motivo di politica ecclesiastica, conforme alla natura eminentemente conservatrice ed empirica del giurisdizionalismo piemontese.

Avviata in tal modo la soluzione delle più spinose questioni interne, C. E. poté volgere il suo maggior impegno alla politica estera nell'arduo tornante dei rapporti internazionali aperto dalla guerra di successione austriaca. Per il sovrano sabaudo si trattava questa volta, dopo la cocente delusione subita dall'esito dell'alleanza con la Francia, di sventare la pericolosa prospettiva di un'egemonia incontrastata dei Borboni in Italia, resa quanto mai attuale dagli intricati maneggi della Farnese e dalle manifeste ambizioni dei figli Carlo e Filippo, sempre più rinvigorite dall'appoggio dei ministri francesi. In questa situazione parve al marchese d'Ormea che il miglior partito fosse quello di appoggiarsi all'Inghilterra, la unica potenza che avesse interesse all'equilibrio in Europa, e muoversi di conseguenza trattando prudentemente con l'uno e con l'altro dei due schieramenti contrapposti, ma non perdendo mai di vista l'atteggiamento del governo di San Giacomo. E quando da Londra s'indusse infine Maria Teresa sulla via di un serio approfondimento delle trattative con i Savoia, pochi mesi bastarono a C. E. per risolversi all'abbandono definitivo del blocco borbonico e alla stipulazione con Vienna di una convenzione militare provvisoria stesa il 10 febbr. 1742, seguita dalla firma il 13 sett. 1743 del trattato di Worms. Con questo accordo, che fu l'ultimo capolavoro della sagacia diplomatica dell'Ormea (scomparso nel maggio 1745), il Regno di Sardegna otteneva da Maria Teresa la promessa del Vigevanese, del territorio pavese fra il Po e il Ticino, dell'Oltrepò pavese con Bobbio, Piacenza e parte del circondario, e della contea d'Anghiara nell'alto Novarese, e da Giorgio II d'Inghilterra un sussidio annuo di 200.000 sterline. La campagna militare non fu facile come nel 1733. C. E. si trovò a fronteggiare un'offensiva spagnola sul versante padano in una cruenta battaglia a Camposanto sul Panaro (8 febbr. 1743) e dovette accorrere subito dopo sulle Alpi a ricacciare le forze borboniche che avevano invaso la Savoia, per rassegnarsi quindi allo spostamento sullo stesso territorio piemontese delle principali operazioni militari. Respinto con grande dispendio di forze un tentativo di sfondamento nemico in Val Varaita sul finire del 1741, il sovrano sabaudo si trovò l'anno dopo impegnato a chiudere il passo ai Gallo-ispani nel cuore stesso dei suoi domini: persi la contea di Nizza e il caposaldo di Demonte, allo sbocco della Val di Stura, il grosso dell'esercito piemontese al comando del Leutrum dovette ritirarsi entro le mura di Cuneo, soccorsa infine dopo lunghi mesi di assedio da C. E. che, pur battuto dagli avversari alla Madonna dell'Olmo (30 ag. 1744), riuscì a spezzare in qualche modo l'accerchiamento della città e a rifornirla dei mezzi necessari per tener testa fino alla ritirata degli invasori. Ma l'anno successivo la poderosa offensiva a tenaglia delle forze borboniche sembrò dovesse travolgere le ultime resistenze dell'esercito austro-sardo. Di tutto il Piemonte soltanto la cittadella di Alessandria non era ancora caduta in mano al nemico e già si profilava la minaccia di un ingresso in guerra di Genova che aveva aderito all'alleanza franco-spagnola. D'altra parte, di fronte all'inadeguatezza dei soccorsi austriaci e all'andamento negativo della campagna militare, persino a Torino si erano levate voci di aperto dissenso sulla condotta di ministri e capi militari, mentre l'insofferenza verso i gravami straordinari imposti dal conflitto s'era fatta strada pericolosamente fra i ceti più umili e in alcuni ambienti della borghesia cittadina, Fu inevitabile in questa drammatica situazione sondare a Parigi la possibilità di avviare negoziati separati di pace, facendo assegnamento sulla disponibilità di massima del d'Argenson, ministro degli Esteri di Luigi XV, per un rimaneggiamento della carta politica della penisola tendente ad escludere la presenza dell'Austria. Che si trattasse di una reale predisposizione di giungere a un qualche accomodamento rompendo con l'Austria, o piuttosto (come pare più verosimile) di un abile espediente per guadagnar tempo, diffidando C. E. della doppiezza borbonica e non intendendo comunque cadere sotto il predominio francese, sta di fatto che i pochi mesi fra l'inverno del 1745 e la primavera del 1746 bastarono ai Piemontesi per riprendere fiato e per mettere a punto un indirizzo strategico più efficace. Passato all'offensiva con la riconquista di Asti e la liberazione di Alessandria dall'assedio dei Francesi, l'esercito sabaudo riuscì, grazie a questi due primi successi, a risollevare il morale della popolazione e a mobilitare nuove energie per poi congiungersi con il corpo di spedizione austriaco, già ripresosi in forze in Lombardia e nel Parmense, e marciare insieme su Novi e Genova. Prima ancora di rioccupare Nizza, C. E. prese Savona e, già in contrasto con Vienna per la spartizione delle conquiste, preferì non distrarre il grosso delle sue armate nell'assedio di Genova per riversarle su un altro scacchiere, alla difesa della Val di Susa, dopo che, invasa nuovamente la Savoia, la coalizione gallo-ispana si apprestava a scendere in Piemonte attraverso il valico del Monginevro. Respinto con la brillante vittoria al colle dell'Assietta (19 luglio 1747) l'ultimo tentativo dei Borbonici di capovolgere le sorti della guerra, il sovrano sabaudo poté affrettare le trattative di pace, ma non riuscì a conseguire tutto quanto egli s'era proposto di fronte alle direttive imposte in sede diplomatica delle principali potenze. Il trattato di Aquisgrana (18 sett. 1748) gli attribuì il Vigevanese con il confine al Ticino, il Vogherese, l'Oltrepò pavese con Bobbio, e la contea d'Anghiara, ma non il possesso di Piacenza (dove l'amministrazione sabauda s'era insediata nel febbraio 1744), per cui gli fu riconosciuto soltanto il diritto a succedere dopo la linea di Filippo di Borbone, figlio dell'ultima Farnese. Né gli vennero concesse Modena e Reggio, che erano state chieste in cambio di Nizza e del Finale sulla cui sorte del resto le clausole del trattato di Worms del 1734 erano quanto mai ambigue. In compenso il Regno di Sardegna aveva acquisito una maggior compattezza e coesione territoriale, ed era stato scongiurato infine il rischio di una preponderanza franco-spagnola nella penisola che avrebbe annullato le speranze della monarchia sabauda di espandersi e di crescere di potenza in Italia. Fu così possibile a C. E. arrotondare nel 1752 i suoi possessi con il riscatto dal vescovo di Novara della Riviera d'Orta e l'investitura l'anno successivo, da parte di Benedetto XIV, del feudo pontificio di Masserano (acquistato poi, nel 1767 in signoria diretta, dai Ferrero-Fieschi), unitamente all'occupazione sempre nel 1753 della Maddalena e delle isole adiacenti. Ma, soprattutto, la diplomazia sabauda riuscì (grazie anche alle nozze nel 1750 dell'erede al trono Vittorio Amedeo con la sorella di Ferdinando VI di Spagna, Maria Antonietta) ad assecondare le propensioni della corte di Madrid a liberarsi della soggezione ai disegni di egemonia dalla corona francese, e a regolare nel migliore dei modi le partite finanziarie e i problemi di confine ancora aperti con il governo austriaco. Anche in queste circostanze, fu un'autentica fortuna per C. E. trovarsi a fianco ministri e consiglieri di statura non comune, a cominciare dall'Ossorio (già ambasciatore a Londra e successore del marchese di Garzegno alla segreteria degli Esteri) e dal Bogino, chiamato dopo la morte dell'Ormea a condividere ogni risoluzione sui più importanti affari di Stato.

Dietro questi e altri personaggi (artefici in vario modo e in tempi diversi dell'abile politica di irrobustimento e di espansione dello Stato sabaudo, sia pur senza l'eccezionale finezza diplomatica e la capacità di dominare la situazione del marchese d'Ormea), C. E. poteva comunque allineare un esercito di terra, insieme a un primo embrione di marineneria, notevolmente rafforzatosi negli ultimi anni grazie alle cure vigili e assidue da lui dedicate all'incremento dei reggimenti stranieri (svizzeri e tedeschi per lo più) e alla riorganizzazione delle milizie locali attraverso una sorta di leva di massa dalle varie province che aveva dato eccellenti risultati nel corso dell'ultima guerra, soprattutto quando il Piemonte si era trovato a fronteggiare in condizioni disperate le ripetute invasioni dei Galloispani. Se può parere eccessivo l'appellativo di "Federico italiano" attribuito da taluni al sovrano sabaudo, è comunque un fatto che sotto C. E. il vigoroso impulso assicurato al riordinamento dell'apparato militare consentì al Regno di Sardegna di disporre di uno strumento agile e preparato, in grado non solo di rispondere pienamente alle mutevoli congiunture diplomatiche e alle più impegnative prove sul campo, ma anche di aggregare intorno alla dinastia una più larga e organica partecipazione popolare.

Proprio nell'opera di consolidamento dei quadri militari, più che in altri campi, si manifestarono del resto la serietà d'impegno e le doti d'efficienza del sovrano sabaudoi insieme alle sue suggestioni più intime di natura marziale e militaresca. In verità già Vittorio Amedeo II si era preoccupato di rendere l'esercito più flessibile a una guerra di movimento e di allargarne gli effettivi con la costituzione di alcune compagnie di volontari e partigiani reclutati fra i ceti più umili. Non che l'appello alle plebi rurali e alla borghesia urbana più minuta avesse dato sempre i risultati che la monarchia sabauda si riprometteva, nel senso di assicurarle la dedizione incondizionata o la partecipazione spontanea e consapevole delle classi popolari. Non v'è dubbio tuttavia che, almeno nella fase più difficile dell'ultima guerra, quando con l'occupazione nemica di buona metà del Piemonte sembrava che le sorti del conflitto fossero irrimediabilmente segnate, numerosi popolani e uomini del contado avessero preso le armi per difendere le loro terre e sostenere la resistenza dell'esercito. C. E. non mancò del resto di introdurre qualche novità nei regolamenti militari: sebbene i più alti gradi rimanessero appannaggio di norma dei soli nobili, fu tuttavia stabilito, per tenerli più soggetti al sovrano e abbassarne gli arbitrii, che essi dovesseroguadagnarsi la promozione cominciando la carriera dal ruolo di soldato o di cadetto; e per i corpi del genio e dell'artiglieria, dove valevano soprattutto la competenza e la preparazione tecnica, anche ad elementi provenienti dalla borghesia venne consentito infine l'accesso alle cariche più elevate.

L'incremento delle spese militari, che già costituivano la voce principale d'uscita del bilancio dello Stato, e i pesanti impegni finanziari assunti in via eccezionale durante la guerra di successione austriaca (più di 110 milioni di cui nemmeno un terzo Coperto dai sussidi inglesi e dai tributi levati da Modena, Piacenza e dalla Riviera di Ponente) ridussero all'estremo le risorse economiche del paese. La moltiplicazione nel corso del conflitto di imposizioni straordinarie di vario genere, l'avocazione alle casse regie del "cotizzo" e del "giocatico" lasciati fino al 1742 a quei comuni che erano privi di altre consistenti entrate, la riapertura del gioco del lotto, l'alienazione di nuove terre e di alcune gabelle non bastarono a coprire che in minima parte le spese occorrenti. Né a far quadrare i conti furono sufficienti l'inasprimento del carico fiscale sull'aristocrazia con ripetuti ricorsi alla "cavalcata", al sesto del reddito dell'annata sui beni feudali annessi a giurisdizione e alla quarta del reddito sui beni smembrati dalla giurisdizione feudale oltre ai vari balzelli imposti su titoli di nobiltà, sugli stabilì, sul censi e sugli interessi da prestito. Anche la facoltà ottenuta nel 1747 da Benedetto XIV di imporre una contribuzione straordinaria sui beni ecclesiastici immuni servì a ben poca cosa. Fu necessario, anche per il mancato apporto delle province della Savoia e del contado di Nizza occupate dai Francesi, erigere nuovi luoghi di Monte, rivolgersi all'estero per altri prestiti, e porre in circolazione tra il 1745 e il 1749 otto milioni di biglietti di credito. Soltanto dal 1751 in avanti C. E. poté cominciare a smantellare il complesso edificio della finanza di guerra, ma con molta gradualità tanto che ancora dodici anni dopo rimanevano in vigore alcune imposizioni straordinarie e non tutto il debito della Corona era stato liquidato. D'altro canto parte dei redditi così levati continuò ad esser destinata al pagamento dei debiti della "cassa di riserva" del sovrano.

L'esigenza di far fronte alle enormi spese di guerra del 1742-1748 e quindi l'opera di ricostruzione del paese, dopo un conflitto che aveva devastato non poche province, comportarono in caso un ulteriore giro di vite nei confronti di immunità, privilegi, canoni e decime, anche se nella fissazione delle quote (diversamente da quanto si tentava di fare in altri Stati guadagnati al dispotismo illuminato) non si arrivò in Piemonte ad adottare più moderni e coerenti criteri di proporzionalità e tantomeno di progressività delle imposte. Continuò a prevalere piuttosto l'indirizzo che dalla seconda metà del Seicento aveva caratterizzato la politica finanziaria dei Savoia, tendente ad accentuare il carico fiscale sulla nobiltà e sui gruppi più abbienti o privilegiati della borghesia, con un più attento accertamento dei redditi e con una maggiore severità nell'avocazione di feudi non acquistati a titolo oneroso, o nell'eliminazione di franchigie e immunità particolari, ma senza perseguire obiettivi precisi di riduzione delle imposte indirette e di reale eguaglianza contributiva in quelle dirette. A questa linea tradizionale C. E. apportò ben poche correzioni, limitandosi per il resto in tempi di pace a una più oculata vigilanza sulla determinazione e sulla riscossione delle imposte indirette, e a una più rigida selezione degli stanziamenti pubblici con la drastica riduzione delle spese superflue.

Di fatto fu pur sempre sull'agricoltura e sui ceti rurali che ricadde il maggior peso della guerra e dell'opera di ricostruzione. Mancò tuttavia uno sforzo sistematico per ampliare le risorse agricole del paese e risollevare le sorti delle categorie campagnole meno abbienti. Se l'applicazione del catasto valse a ridurre certe arbitrarie posizioni di privilegio della aristocrazia fondiaria e varie immunità di cui godeva il clero, che insieme possedevano (esclusa qualche zona) la maggior parte delle terre, scarse furono le iniziative per migliorare le condizioni di contadini, mezzadri ed enfiteuti. Non mancarono, in verità, anche sotto C. E. istruzioni e raccomandazioni agli intendenti e ai funzionari delle province di intervenire contro prevaricazioni e abusi di grandi proprietari nell'applicazione dei contratti agricoli e nel riparto dei prodotti e delle scorte, né mancarono esplicite prescrizioni per una più severa sorveglianza sulle modalità di formazione dei ruoli delle imposte nei singoli Comuni, ad evitare che sindaci e maggiorenti si arrogassero il diritto di far ogni cosa a loro modo scaricando addosso ai possidenti e ai contribuenti più modesti l'onere maggiore dei tributi. La sopravvivenza di molti ordinamenti feudali non consentì tuttavia la promozione di un robusto stuolo di fittavoli né il passaggio a forme di conduzione più redditizie: soltanto in alcune zone dove più intenso era il fenomeno dell'assenteismo dei grandi proprietari (chiamati a corte o investiti di cariche pubbliche tali da impedir loro la gestione diretta delle proprietà) venne faticosamente emergendo un ceto di intermediari e di imprenditori agricoli, ma non ancora una solida borghesia rurale. D'altra parte, per molteplici motivi, i primi quattro lustri del regno di C. E. non coincisero con una fase favorevole per l'agricoltura piemontese: a un lungo periodo di siccità che decimò i raccolti delle campagne tra il 1734 e il 1735 si aggiunsero infatti i pesanti gravami fiscali, le requisizioni forzate e le devastazioni arrecate dal passaggio e dalle ripetute scorrerie dei vari eserciti, specialmente durante l'ultimo conflitto per la successione austriaca. Non a caso, pertanto, ancor più che sotto Vittorio Amedeo II s'accrebbe il malcontento dei ceti rurali più umili per un'esistenza, alle soglie dell'indigenza e dell'estrema povertà, non meno grama che nell'età precedente. L'abbassamento dei privilegi della grande nobiltà e del clero non fu tale infatti da dischiudere a braccianti e contadini la speranza di un reale miglioramento delle loro condizioni materiali di vita. Ebbero modo piuttosto di farsi avanti, e talora di arricchirsi, alcuni agenti e fattori di grossi proprietari, ma spesso grazie a uno sfruttamento ancor più esoso ed oppressivo della manodopera. Sicché, insieme al vagabondaggio e al contrabbando, quale via d'uscita per sottrarsi a prepotenze e sopraffazioni o per procurarsi altrimenti di che soddisfare i bisogni più elementari dell'esistenza, crebbero anche gli episodi di resistenza e di conflittualità sociale contro padroni e notabili locali e si diffusero in ogni provincia le pressioni, talora tumultuose, su intendenti e autorità per interventi del governo che mettessero freno alla tracotanza dei grandi feudatari, frenassero le malversazioni e le angherie degli amministratori, o riducessero i gravami fiscali. La massa di imposte e gabelle moltiplicatesi durante e dopo l'ultima guerra, era divenuta particolarmente insopportabile per i piccoli coltivatori. Ridotti a vivacchiare fra debiti e ipoteche, essi non riuscirono infatti a togliersi di dosso in molti Comuni l'imposta del "gioatico", né si videro ridotto l'obbligo di levare una quantità di sale proporzionata al numero del loro bestiame, col risultato che furono costretti a ridurre l'allevamento e a rinunciare così all'unica possibilità di incrementare i propri redditi. Per quanto assecondata da varie misure, la coltivazione del gelso non aveva assunto ancora una diffusione tale da interessare la gran massa dei piccoli proprietari agricoli, né i lavori di dissodamento e di bonifica intrapresi nel Vercellese, nel Novarese e nei circondari di Alessandria e di Tortona diedero immediatamente risultati positivi o interessarono comunque le piccole unità produttrici su base familiare.

D'altra parte, assai più che l'agricoltura lasciata in balia dei vecchi regolamenti annonari e singolarmente chiusa ai nuovi indirizzi fisiocratici, l'opera di rafforzamento delle basi economiche dello Stato perseguita da C. E. sulle orme del padre ebbe a riguardare soprattutto l'industria manifatturiera. è vero che, rispetto all'indirizzo fortemente mercantilista inaugurato a suo tempo da Carlo Emanuele II, l'interventismo statale nella promozione delle attività industriali non costituì un'autentica novità. Ma l'originalità, e l'efficacia, delle iniziative varate tra la prima e la seconda metà del Settecento consistette piuttosto nel coordinamento organico dei provvedimenti via via assunti per dar vita a una più moderna e consistente organizzazione imprenditoriale e di mercato. Sotto C. E., in particolare, si estese e venne ulteriormente perfezionato, prima di qualsiasi decisione operativa, il sistema delle ispezioni e degli studi preliminari intorno alle condizioni reali di ogni settore e alle loro effettive potenzialità in rapporto alla localizzazione delle fonti energetiche, alla presenza della manodopera occorrente, alla disponibilità di strade e vie di comunicazione, con un occhio vigile ai problemi della disoccupazione e dell'incremento demografico. Inoltre ogni passo della politica economica, sia che riguardasse l'adozione di particolari misure doganali, sia che comportasse lo stanziamento di prestiti in danaro o la concessione di privilegi di categoria, venne preceduto da un confronto talora serrato e in piena libertà di posizioni e criteri di preferenza economica. C. E. lasciò, in particolare, ampio spazio al dibattito fra i vari gruppi di interesse contrapposti nel caso dell'industria serica e di quella laniera, la prima preoccupata di un'espansione protetta delle manifatture di lana che avrebbe potuto sottrarle manodopera specializzata e provocare per ritorsione la chiusura di molti suoi sbocchi all'estero, la seconda protesa a superare con gli aiuti governativi le sue condizioni di inferiorità e ad allargare il mercato interno. E se le risoluzioni di C. E. finirono con l'avvantaggiare gli investimenti lanieri e la crescita in forze di un robusto stuolo di fabbricanti di filati e di panni, non è men vero che si cercò di compensare all'occorrenza con pratico buon senso la protezione doganale e i forti anticipi concessi alla manifattura laniera mediante opportuni svincoli a favore di filatori e commercianti serici o con provvedimenti alquanto generosi per lo sviluppo degli impianti di stoffe di seta, il miglioramento dei metodi di fabbricazione e il collocamento di trame e organzini.

Ad ogni modo, l'esito più interessante dell'interventismo riformatore di C. E. fu la progressiva comparsa sulla scena, dietro l'impulso e il controllo diretto delle autorità govemative, di un nuovo ceto di fabbricanti e di mercanti-imprenditori, svincolatisi dalle restrizioni delle antiche corporazioni, dotati di capitali liquidi e di attrezzature, sorretti da anticipi o da prestiti a lunga scadenza e talora a fondo perduto, in grado pertanto di superare rapidamente la fase della lavorazione artigianale e di inserirsi in più ampi circuiti di mercato. Non è un caso, del resto, che fra i padroni delle più importanti manifatture di lana, di seta, di tele, i titolari di fucine, o i concessionari di cave e miniere, si contassero durante e dopo l'ultima guerra non pochi fra i più cospicui prestatori di danaro, acquirenti di tassi e luoghi di Monte, appaltatori di uffici e di servizi commerciali. è significativo inoltre che, attratti dalle nuove e più remunerative opportunità di reddito offerte dall'attività industriale, e dalle varie forme di protezione accordate dallo Stato, si infoltisse durante il regno di C. E. la schiera dei membri del patriziato convertitisi agli affari, neotitolati di toga ma anche nobili di alto lignaggio, provvisti di maggiori sostanze, o di vedute più moderne e audaci al di là dei tradizionali pregiudizi di casta nei confronti delle arti e dei negozi. è vero che questo nuovo ceto di borghesia industriale, per quanto integrato da alcuni esponenti dell'aristocrazia più intraprendente, non giungerà, ad onta delle sue proiezioni espansive, a far sentire tutto il suo peso sull'indirizzo politico generale e sull'apparato statuale. La sua crescita in forze cominciò tuttavia a spezzare certi vecchi rapporti di equilibrio nelle province e in alcuni centri urbani, a segnare l'arretramento di artigiani e produttori minori, a scompaginare statuti vincolistici nel commercio dei prodotti e vecchie consuetudini nella regolamentazione del lavoro. Non solo la vita economica acquisì così aspetti e ordinamenti più moderni, ma anche la lotta sociale venne assumendo toni e dimensioni più avanzati con il primo profilarsi di un mercato del lavoro sottratto in parte alle tradizionali prescrizioni e garanzie delle corporazione artigiane o al consolato dall'alto delle autorità pubbliche. S'accrebbe in queste condizioni la massa dei salariati e dei lavoranti nelle fabbriche di panni, nei filatoi di seta o nelle miniere, reclutati fra i contadini più miseri e nullatenenti per i quali l'uso dei diritti civici non bastava più per tirare avanti, e fra garzoni e mastri artigiani ridotti a mal partito dalle speculazioni e dalle pratiche monopolistiche di colleghi appartenenti a Università più forti e privilegiate, o costretti a soccombere sul mercato di fronte alla incalzante pressione delle nuove manifatture.

Il lungo periodo di pace seguito alla conclusione del conflitto per la successione austriaca consentì d'altra parte alla monarchia sabauda di riassorbire senza gravi scompensi e lacerazioni, anche se non d'esorcizzarli, questi e altri motivi di più acuto contrasto sociale determinati dalle trasformazioni in atto nell'ordinamento economico e dalla riorganizzazione dello Stato. Tenutosi prudentemente lontano dalla guerra dei Sette anni, salvo a interporre all'ultimo momento i suoi buoni uffici tra la Francia e l'Inghilterra per far valere i diritti sabaudi su Piacenza, ma senza alcun risultato di rilievo rispetto alle clausole del trattato di Aquisgrana (tranne il conseguimento di un indennizzo dal governo di Parigi per le rendite del Piacentino), C. E. si limitò infatti negli anni successivi a destreggiarsi con molta cautela fra Austria e Francia per rendere stabile la posizione del Regno di Sardegna come elemento decisivo nel sistema di equilibrio (né avrebbe potuto fare altrimenti) e a cercare di risolvere i dissidi tradizionali con Genova per questioni commerciali e di confine. Sua cura preminente fu piuttosto di inserire rapidamente nella compagine sabauda le province di nuova annessione, di proseguire l'opera di riordinamento e di sviluppo delle risorse economiche della Sardegna attraverso le iniziative del Bogino ma senza lo slancio innovatore del padre, di sviluppare buoni rapporti commerciali con le potenze marittime attraverso i porti franchi di Nizza, Sant'Ospizio e Villafranca, e di piegare infine al centralismo regio l'altera nobiltà savoiarda, tenace nel difendere ad oltranza le più antiche consuetudini feudali e riluttante a mettersi al passo con le misure fiscali e amministrative varate negli ultimi anni (solo nel dicembre 1771 fu possibile la redenzione delle rendite feudali in Savoia e la cancellazione di ogni servitù personale). Anche in Val d'Aosta vennero abolite le ultime vestigie di autonomia locale: dopo un editto del 1762 che ordinava i Comuni valdostani a somiglianza del Piemonte e della Savoia e proibiva le congregazioni dei capi di casa, fu infine soppressa nei 1766 anche l'Assemblea degli stati generali.

Avviandosi alla fine del suo lungo regno C. E. volle ribadire ancora una volta, con le costituzioni del 1770, lo spirito informatore della sua opera di governo, attenta più a consolidare e a integrare la politica del padre che a tentare nuove strade, e restia comunque ad allontanarsi dai canoni collaudati di un dispotismo empirico fondato sulla buona amministrazione e sulla solidità dei metodi di governo e altrettanto chiuso ad ogni fermento politico e culturale.

Nulla di sostanziale egli introdusse o aggiunse infatti alle vecchie costituzioni del 1729 (estese dal 1770 anche alle province di nuovo acquisto) nelle materie civili e comunali, quando già stavano affermandosi altrove le idee di un Verri e di un Beccaria. Sicché la pena di morte fu confermata anche per le trasgressioni più lievi e per i reati d'opinione, e la tortura continuò ad essere prescritta e anzi aggravata, così come venne ribadita la diversità di pene fra nobili e plebei. Lo stesso indirizzo, di consacrazione definitiva delle norme e delle direttive emanate dal padre, C. E. seguì in campo culturale, con la riconferma nel 1772 per larga parte delle costituzioni dell'università di Torino del 1729, e più in generale con l'asservimento di ogni iniziativa nell'istruzione scolastica come nell'editoria ai più rigorosi precetti della ragion di Stato. Predilette le discipline tecnico-scientifiche (fisica, matematica, ingegneria, medicina ecc.) purché professate in un ambito strettamente funzionale ai programmi di sviluppo delle risorse economiche e di riordinamento delle basi dello Stato; ammessi gli studi giuridici soprattutto quando si mostrassero sensibili alla difesa della sovranità del principe e dei diritti regi contro la Chiesa ma senza eccessive audacie giurisdizionalistiche o pericolosi sconfinamenti in materia ideologica e dottrinale; tenuto sotto stretta sorveglianza l'insegnamento della storia come della letteratura, nel timore di qualsiasi stimolo all'esercizio critico e ad una autonoma espressione speculativa, C. E. impose nella politica culturale un regime da caserma e di ottuso conformismo assai più severo ed esclusivo che in qualsiasi altro settore della vita sociale. Se l'apertura dei più alti gradi dell'istruzione superiore (attraverso il Collegio delle provincie o l'Accademia reale) ai figli della nobiltà minore e della borghesia agiata venne perseguita dopo il 1730 con la stessa determinazione che era stata di Vittorio Amedeo II e con ulteriore dispendio di mezzi, onde aggregare stabilmente alla dinastia ed educare ai nuovi compiti dello Stato una robusta schiera di elementi provenienti dalla borghesia degli affari e delle professioni urbana e provinciale, non è men vero che identici rimasero i criteri ispiratori di tale politica, intesa a spezzare il monopolio aristocratico delle cariche pubbliche e quello dei gesuiti nell'istruzione secondaria, ma attenta e vigile in pari tempo a escludere dai programmi e dai metodi di insegnamento qualsiasi formulazione men che ortodossa e ogni eventuale suggestione di matrice illuministica. Il primo decennio di regno di C. E. costituì in questo senso un tornante decisivo, nella misura in cui al riaccendersi della controversia con la Chiesa su questioni di natura finanziaria e amministrativa il sovrano sabaudo badò a che non seguissero ben più pericolose polemiche su questioni teologiche e di ordinamento chiesastico. Di qui l'allontanamento nel 1736 dall'università di alcuni docenti come il Mallete il Campiani, più invisi alle gerarchie ecclesiastiche e alla Curia di Roma per le loro discussioni in tema di infallibilità del papa e di autorità del concilio, il bando decretato contro qualsiasi manifestazione che potesse dare adito a sospetti di giansenismo, l'occhiuta sorveglianza nei confronti di tutte le opere provenienti dall'estero, sino al cinico episodio dell'arresto del Giannone, seguito infine nel 1739, dopo un lungo mercanteggiamento con la corte pontificia, dalla messa in congedo del Krust, l'ultimo superstite di quella schiera di docenti dell'ateneo torinese a lungo perseguitati dai gesuiti per le loro proposizioni fra agostiniane e gianseniste, non ancora allontanato dal suo posto perché ritenuto all'occorrenza un'utile moneta di scambio nelle trattative in corso con Roma. Né l'atteggiamento di C. E. mutò sostanzialmente dopo il concordato del 1741: rimasero in vigore o si accentuarono all'università le norme più restrittive sulla disciplina degli studenti e sui loro obblighi religiosi, come per altro verso le forme di sorveglianza e di controllo politico sui docenti (in cambio di un miglioramento del loro trattamento economico). Anche la stampa dei libri, la circolazione di opere straniere, e la stessa riedizione di raccolte di trattati diplomatici o di altri testi storico-genealogici di autori locali pacificamente ammessi e consacrati a corte negli anni precedenti, vennero da allora sottoposte a più rigidi interventi censori, confermati dall'editto del giugno 1750, sebbene, come già in altre circostanze, il governo piemontese ribadisse l'esclusione di qualsiasi interferenza delle autorità ecclesiastiche. D'altra parte, anche nel campo delle arti figurative il conservatorismo mentale e il bigottismo del sovrano ebbero modo di farsi valere senza alcun ritegno e senso della misura, onde si giunse a dare alle fiamme nel 1739 numerosi dipinti del Tintoretto, del Veronese e di altri celebri maestri, per qualche nudo ritenuto disdicevole e offensivo dai confessori di corte. Quanto alla scultura e all'architettura, si continuò a dare preferenza assoluta agli esponenti più rappresentativi dell'accademismo aulico e di maniera (dal Beaumont a Benedetto Alfieri, alla scuola di arti plastiche del Martinez).

Insomma, in ogni aspetto dell'esercizio di governo C. E. portò avanti la politica di accentramento monarchico e di riordinamento delle istituzioni civili inaugurata dal padre con uno stile e un metodo di condotta più grigio e chiuso, entro l'orizzonte per il resto già empirico e tradizionale del riformismo sabaudo. Alla mancanza di un'autentica capacità creativa, di quelle doti di estrosa genialità e di inventiva che erano state tipiche di Vittorio Amedeo II, egli supplì con un impegno assiduo e tenace nel perseguire i suoi obiettivi, conforme a una personalità che, se non brillò per ampiezza di orizzonti e vivacità di spirito, ebbe comunque a compensare in qualche modo tali difetti con la serietà d'applicazione e con doti non comuni di discernimento pratico e di ponderazione. Del resto, al di là dei due intermezzi bellici (in cui C. E. diede, in ogni caso, buona prova di sé riuscendo tra non poche difficoltà ad allargare le dimensioni territoriali dello Stato sabaudo e a confermarne l'autorità nel complesso gioco dell'equilibrio europeo), la stessa eredità ricevuta in pegno dal padre sembrava ancorarlo per forza di cose a una politica di cauta conservazione. Né d'altra parte egli era, per temperamento, per abito mentale e per intima devozione ai principi politici e religiosi più ortodossi, uomo da correre il rischio di un idillio fra filosofia e prassi di governo, tra intellettuali illuministi e monarchia secondo i più maturi moduli ideologici e civili dell'assolutismo riformatore affermatisi in Toscana e in Lombardia. Di natura chiusa e riservata, restio ad allontanarsi da palazzo per rinverdire la popolarità fra la gente comune che era stata del padre (salvo ad accordare udienze a chiunque si presentasse a corte per inoltrare suppliche e ricorsi), ligio alla convinzione che "i re sono come certe statue che si pongono sulle colonne per essere ammirate da lontano", egli si preoccupò essenzialmente di governare da vicino la complessa macchina burocratica dello Stato e la vita di corte secondo la più rigida etichetta e un preciso cerimoniale. Della nobiltà che si trovava intorno continuò a diffidare, contraccambiando certi suoi astii latenti con un'estrema parsimonia nell'attribuzione di cariche e di onorificenze; ma anche nei confronti dei magistrati e dei funzionari con cui più era in familiarità il suo contegno fu quanto mai prudente e cauteloso: lente le promozioni, rinviati all'infinito gli spostamenti d'ufficio, escluse le folgoranti progressioni di carriera dei più giovani (com'era avvenuto durante il regno di Vittorio Amedeo II), assai più oculate le scelte dal basso e nel conferimento degli uffici minori di provincia.

Colpito, passati ormai i settant'anni, dai primi segni di idropisia e da una lenta tisi senile, morì nel castello di Stupinigi il 20 febbr. 1773. Dai tre successivi matrimoni (l'ultimo nel 1737 con Elisabetta Teresa di Lorena, sorella di Francesco di Lorena), ebbe vari figli: Vittorio ed Emanuele Filiberto (morti nel 1725 e nel 1735), Vittorio Amedeo, il futuro re di Sardegna, Carlo Rinaldo, Carlo Francesco e Benedetto Maurizio.

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