CARLO III di Borbone, re di Spagna

Enciclopedia Italiana (1931)

CARLO III di Borbone, re di Spagna (fino al 1759 re delle Due Sicilie, senza numero)

MicheIangelo Schipa

Primogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, nacque il 20 gennaio 1716. Già prima di nascere gli era destinato un principato in Italia, grazie ai diritti della madre, nata da un Farnese figlio d'una Medici, a lui bambino riconobbero quei diritti le potenze coi trattati dell'Aia e di Londra (1717 e 1718). Ma solo attraverso una lunga serie d'ostacoli, la regina di Spagna riuscì a rendere il figlio suo effettivamente duca di Parma e Piacenza, nell'ottobre 1732. C., venuto a Livorno ai 27 dicembre 1731, fino all'ottobre 1732 s'era trattenuto in Toscana, della quale s'intitolò "gran principe ereditario", attendendone la successione. Ma, apertasi la guerra di successione di Polonia, Elisabetta inviò il conte di Montemar con un esercito spagnolo alla riconquista delle Due Sicilie, ordinando al figlio di assumerne come generalissimo il comando nominale. In conseguenza questi, dichiaratosi maggiorenne e fuori tutela a diciotto anni (20 gennaio 1734), cominciò da Firenze la sua marcia (24 febbraio 1734). Da Monterotondo lanciò ai popoli del regno un proclama di Filippo V, che dava ragione dell'impresa (14 marzo). Penetrato nel regno, poteva impadronirsene senza difficoltà: il 10 maggio entrava trionfante in Napoli. Cinque giorni dopo giungeva l'atto di cessione che Filippo V, faceva a C. di tutti i suoi diritti sul regno riconquistato.

Distrutto a Bitonto l'esercito austriaco, e poi conquistata rapidamente la Sicilia dal Montemar, ai 2 gennaio 1735 C., assunto il titolo di re delle Due Sicilie, senz'alcun numero, partì da Napoli per vedere i suoi nuovi dominî. Incoronatosi re di Sicilia a Palermo il 3 luglio, il 12 luglio fu di ritorno in Napoli.

Aveva già prima (dal 12 aprile) dichiarato di lasciare interamente ai suoi genitori il governo degli affari esterni del suo regno. Ond'egli niuna parte prese alle laboriose trattative che condussero alla pace generale del 1738, cedendo all'Austria i ducati Farnesiani e a Francesco di Lorena il granducato de' Medici. Anche la scelta della sposa, che cadde su Maria Amalia, figlia appena tredicenne del re di Polonia (ottobre 1737), il giovane re lasciò ai suoi genitori. Quanto poi agli affari interni del regno, anch'essi per circa dodici anni furono regolati conforme al volere della corte di Spagna. Ne fu primo esecutore il conte di Santostefano, stato già aio di Carlo giovinetto ed ora suo maggiordomo maggiore e primo consigliere di stato. Alla sua onnipotenza sottostettero gli altri componenti del Consiglio di stato e i segretarî di stato o ministri; primo il marchese di Montealegre, partito insieme con Carlo dalla Spagna; secondo il toscano Tanucci, che ebbe il segretariato per la giustizia; terzo il siciliano Brancaccio, al quale fu affidata l'amministrazione delle finanze. Più tardi (30 luglio 1737) vi fu anche un quarto ministro per gli affari ecclesiastici e l'istruzione. Mediante tali organi governò C. nei primi quattro anni di regno. Ma, infastiditi tutti dell'arroganza del conte spagnolo, il vecchio Santostefano fu richiamato con un lauto compenso (15 agosto 1738). La carica di maggiordomo maggiore del re passò allora al duca di Sora; ma l'autorità politica, esercitata dal conte, fu ereditata dal Montealegre, che, divenuto ora primo fra i consiglieri, fu lasciato per altri otto anni dominare tutti e tutto, d'ogni anche minima cosa dando conto alla lontana regina Elisabetta, e da lei chiedendo gli ordini.

Sotto quella nuova direzione, C. dovette partecipare alla guerra di successione austriaca, mandando un corpo d'esercito in Lombardia in aiuto dei Franco-Spagnoli. Ma una squadra inglese, apparsa davanti a Napoli ai 19 agosto 1742, minacciando di bombardare la città, forzò il governo a richiamare le truppe e a promettere di tenersi neutrale. Quell'onta, che fruttò alla corte di Napoli il biasimo della Francia e lo sdegno iracondo della Spagna, fu lavata due anni dopo, quando, avviatosi il principe di Lobkowitz con un esercito austriaco alla riconquista delle Due Sicilie, C. riuscì a batterlo pienamente a Velletri (11 agosto 1744). Tale battaglia valse ad eliminare non solamente all'esterno il pericolo austriaco, ma anche nell'interno del regno le speranze e le trame di quanti ancora erano rimasti attaccati alla casa d'Austria.

Due anni più tardi, la morte di Filippo V (9 luglio 1746) rese indipendente C. di fronte alla Spagna. Spogliata allora d'ogni potere Elisabetta, l'incubo della sua volontà non gravò più sul re C., e questi, che si era liberato poco prima del Montealegre - sostituito col piacentino Giovanni Fogliani - fu d'allora più accessibile agl'influssi locali, e più sensibile ai bisogni del paese.

Fin'allora Maria Amalia aveva dato al consorte cinque figliuole, ma nessun maschio. La notte del 13 giugno 1747 partorì Filippo - accolto con feste grandiose - purtroppo palesatosi poi scemo di mente, ma seguito in compenso da altri quattro maschi: Carlo Antonio, Ferdinando, Gabriele e Francesco Saverio. A circa dieci mesi dalla nascita di Filippo, i preliminari di pace e poi il trattato finale di Aquisgrana e più tardi, ai 14 giugno 1752, la lega variamente detta di Aranjuez o d'Italia o di garanzia o di Madrid stabilirono che, quando C. succedesse in Spagna al fratellastro Ferdinando VI, privo di prole, il regno delle Due Sicilie dovesse passare a Filippo, allora duca di Parma e di Piacenza, e questi due ducati rispettivamente all'Austria e alla casa sabauda. Con ciò veniva tolto alla discendenza di C. il retaggio delle Due Sicilie. E, poiché fin da allora egli pensava di lasciare in Napoli il suo secondogenito, quando conducesse in Spagna con sé il primo, tutta la sua politica mirò principalmente ad eludere quell'accordo internazionale. Fu soprattutto per questo che il re, mandato il Fogliani al governo della Sicilia (10 giugno 1755), affidò gli affari esteri al Tanucci, uomo di legge e più atto a togliere ogni fondamento giuridico a quello che in Napoli si chiamava un "equivoco". Al raggiungimento di quel fine concorsero le nuove combinazioni politiche determinate dal dilagare in Europa del conflitto marittimo fra la Spagna e l'Inghilterra; per cui nel febbraio 1759 C. vide completamente appagato il suo voto supremo. Demente il re di Spagna e attendendosene la fine da unistante all'altro, C. provvide ad evitare ogni scossa al suo regno futuro, costituendovi da Napoli un governo provvisorio con a capo Elisabetta Farnese. Ai 10 agosto di quell'anno, Ferdinando VI morì; e, venutane a Napoli la nuova quattro giorni dopo, il re, preso da quel giorno il nome di Carlo III, fece da un congresso di periti dichiarare incapace di succedergli il primo suo figlio (8 settembre); rinunziò alle Due Sicilie in favore di Ferdinando IV, suo terzogenito allora (6 ottobre) di otto anni, e la mattina seguente salpò verso i suoi dominî.

Napoli doveva a lui il massimo dei benefici: l'indipendenza con tutti i suoi buoni effetti, dopo duecento trent'anni di servitù allo straniero. Ma se, generalmente, sia come re di Napoli, sia come re di Spagna, egli viene annoverato tra i principi riformatori del secolo, quel merito gli si può riconoscere solo in parte. Le molteplici riforme dovute particolarmente a lui e ai suoi ministri (v. napoli, regno di), parte furono solamente iniziate o tentate, parte abortirono, parte furono revocate; e nel complesso, ad ogni modo furono inadeguate ai molti e gravi e tutt'altro che taciuti bisogni del paese. Il vero e importante moto riformatore nel regno si svolse dopo la sua partenza. Ciò che propriamente di memorabile e duraturo rimase di C. furono le magnifiche costruzioni, ultima iniziata e lasciata incompiuta la reggia di Caserta, destinate quasi tutte a delizia del re; l'impulso agli scavi archeologici; l'Accademia Ercolanese e, in embrione, il Museo e la Biblioteca, divenuti poi nazionali.

Il nuovo trono accrebbe in misura straordinaria non solo l'importanza internazionale della personalità di C., ma altresì la fama delle sue virtù: parsimonia, religiosità, equilibrio di spirito, puntualità, purezza di costume, amore per la magnificenza delle arti. Le passioni però che veramente lo dominarono furono quelle per la consorte e per la caccia. Nel primo anno del suo regno in Spagna, la morte gli rapì Maria Amalia (27 settembre 1760). Allora la corte divenne anche più triste e cupa. Già se ne erano banditi i balli e i banchetti; dopo d'allora non vi si dettero più né concerti, né rappresentazioni teatrali. Unica, grande, assoluta passione di C. rimase la caccia. Irreprensibili, per altro, le sue qualità personali. Come sovrano amò i suoi popoli e ne cercò il bene, ma non si elevò al di sopra della mediocrità. Tuttavia la Spagna, che aveva perduto molta considerazione e importanza sotto gli ultimi suoi predecessori, parve avviarsi durante il suo regno al riacquisto del credito antico.

Da Napoli egli condusse con sé il marchese di Squillace, che fu il primo dei suoi collaboratori nell'opera di riforma. Lo seguirono il conte di Aranda e il conte di Floridablanca. Col ministro napoletano pose subito mano ad alleviare i tributi, a correggere i costumi, ad assicurare la tranquillità pubblica. Iniziò o eseguì riforme così nel campo civile e politico come nell'economico e amministrativo, conforme alle correnti del secolo. Ma, non sempre tempestive e nella forma opportuna, non tutte fruttuose dei risultati voluti e attesi, non sempre ben ponderate, si considerarono come cose imposte da un ministro straniero, che pretendeva obbligare d'un tratto un popolo intero ad abbandonare la sua fisionomia nazionale. Il popolo ne fu mosso ad ira, che produsse danni da un lato, e umiliazioni dall'altro, e amarezze e dolori ad ambe le parti e pose a repentaglio lo stesso trono. Nella settimana santa del 1766 scoppiò in Madrid un sanguinoso tumulto, per cui il re con la famiglia reale fuggì di nottetempo, riparando ad Aranjuez con l'intenzione di togliere a Madrid l'onore di capitale e trasferirla a Siviglia o a Valenza. Da quel proposito riuscì a distorlo, adducendo motivi d'ordine finanziario, il Tanucci, che da Napoli tenne un continuo carteggio con C. Si dovette mandare in esilio lo Squillace; ma la sua partenza non valse a porre termine alle sedizioni che si propagarono anzi in altri punti della Spagna. Più tardi, e terribilmente, a causa della mala amministrazione, scoppiarono rivolte nelle colonie, dove gl'indigeni fecero eccidio degli Spagnoli (a Quito nel 1765, all'Orinoco nel 1776, al Perù nel 1779-82).

Profondamente religioso fino alla superstizione era C.; ma era del pari gelosissimo dei suoi diritti di sovrano. E in grazia di quest'altro sentimento, la religiosità non gl'impedì di regolare in conformità di quei diritti i suoi rapporti col clero spagnolo assai più energicamente che non avesse fatto col clero napoletano. Le sue misure contro il gran numero, contro l'eccessiva ricchezza e la strapotenza degli ecclesiastici culminarono nella strepitosa espulsione dei Gesuiti (1767) e nell'abbassamento dell'Inquisizione, che egli ridusse a semplice strumento di polizia nelle mani dei suoi ministri; mentre seguendo la politica dei suoi predecessori, intese a sbarazzare la monarchia dalla tutela della Santa Sede.

I beni dell'espulsa Compagnia di Gesù furono destinati alla creazione di seminarî e ad altri scopi di cultura, di cui C. s'interessò non meno che dello sviluppo dell'agricoltura, delle industrie e dei commerci. Anzi per ciò che riguarda la pubblica istruzione, quanto si può chiedere alla iniziativa di un sovrano, fu tentato allora in Spagna. Basta ricordare la riforma delle università, l'introduzione delle scienze nei programmi universitarî, il favore accordato alle società economiche. Sennonché il liberalismo del re non giunse fino all'emancipazione del pensiero; non mutò né i metodi, né la generale tendenza dell'insegnamento. C. non capiva che la scienza potesse sottrarsi all'autorità duplice del re e della Chiesa. Avrebbe anche voluto sopprimere la mendicità con stabilimenti di lavoro per le donne e ospedali per gl'invalidi; ma ostacoli finanziariî glielo impedirono. Pensò di ripopolare le parti più deserte del paese con colonie straniere, ma un malinteso nazionalismo gli troncò quell'opera che sarebbe stata grandemente feconda.

Nella politica estera mutò rotta, rispetto alla neutralità, tenuta tanto da lui in Napoli negli ultimi anni, quanto in Spagna da suo fratello. Lo preoccupava e amareggiava il dominio dell'Inghilterra su Gibilterra; e già da Napoli egli s'era stretto all'Austria, vagheggiando legami di parentela, che furono poi attuati, con Maria Teresa, in guerra allora con la Prussia, alleata dell'Inghilterra. Da anni la Francia guerreggiava contro gl'Inglesi. Stipulando il "patto di famiglia" nel 1761, C. pose la Spagna accanto alla Francia sul terminare della guerra dei Sette anni. Ma fu atto poco fortunato: ché la pace di Parigi tolse alla Spagna la Florida (1763). Quattro anni dopo l'occupazione spagnola delle Maldive fu per accendere una nuova guerra, scongiurata con una non onorevole obbedienza all'imposizione inglese. Si guerreggiò invece con poca fortuna contro il Marocco, che si opponeva allo stanziamento di cristiani sulla costa africana da Orano a Ceuta (1773), mentre la pirateria delle tre reggenze barbaresche disturbava i traffici degli Spagnoli.

In Napoli intanto la regina Maria Carolina, non più tollerando la tutela spagnola, destituiva il Tanucci (1776) e apriva un dissidio fra le due corti e fra i due re, padre e figlio, che costituì la maggiore amarezza di C. nei suoi ultimi anni. Nel fervore di quel contrasto, egli si offrì mediatore tra la Francia e l'Inghilterra, ritornate a lotta per la ribellione delle colonie americane. Non ascoltato, dichiarò anch'egli la guerra all'Inghilterra, sperandone il riacquisto di Gibilterra e la Florida. Ma la pace di Versailles (1783) se gli restituì Minorca e la Florida, non gli concesse quell'importantissima piazzaforte. Allora il lungiveggente Aranda propose al re di conservare per sé Cuba, Portorico e una posizione nell'America del sud, e di dividere il resto delle "Indie" in tre grandi regni per i suoi infanti, soggetti a lui come ad imperatore e obbligati a tributo di prodotti naturali verso la madre patria. Ma personaggi troppo alti, interessati al mantenimento del vecchio stato di cose, impedirono che il grandioso e ardito disegno fosse accolto. Da allora il re attese a vivere in pace coi Barbareschi, al quale fine contrasse un patto d'amicizia e commercio con la Turchia. Vi si piegò facilmente Tripoli: Tunisi accettò una tregua; Algeri riluttante, dopo due non fortunate spedizioni spagnole, dovette anch'essa piegarsi. Un doppio matrimonio col Portogallo riamicò alla Spagna quel regno limitrofo (1785). E così in pace con tutti, salvoché col figliuolo di Napoli, C. chiuse la lunga vita ai 14 dicembre 1788.

Il suo più recente storico, dopo aver accuratamente esposto tutta la sua svariata azione come re di Spagna, giunge a questa conclusione: che "esiste una sproporzione impressionante tra l'opera di C. e la gloria da lui raccolta". La sua posterità ha potuto essere ingannata circa il suo valore effettivo, giudicandolo non in sé solo, ma al confronto del fratello e del figlio, che lo ingrandiscono di tutta la loro insufficienza. Similmente la sua gloria come re di Napoli rifulse maggiormente perché lo precedette il lunghissimo periodo di dominazione straniera e gli tenne dietro, salvo il periodo delle riforme, una monarchia vituperata per la sua ferocia reazionaria, per il suo oscurantismo e per la sua natura plebea.

Bibl.: Per l'azione svolta a Napoli, M. Schipa, Il regno di Napoli al tempo di Carlo Borbone, 2ª ed., voll. 2, Milano, Roma, Napoli 1923. Per il governo in Spagna, F. Rousseau, Règne de Charles III d'Espagne (1758-1788), voll. 2, Parigi 1907; cfr. anche M. Lafuente, Historia general de España, XIV e XV, Barcellona 1889; M. Danvila y Collado, Reinado de Carlo III, voll. 6, Madrid 1891; G. Desdevises, L'Espagne de l'ancien régime, Parigi 1897. E. Pacheco y de Leyva, El Conclave de 1774 à 1775. Acción de las Cortes Católicas en la supresión de la Companía de Jesús según documentos españoles, Madrid 1915; M. Pérez, Las reformas de Carlo III en el régimen local de España, Madrid 1919; M. Conrotte, La intervención de España en la independencia de los Estados Unidos de la América del Norte, Madrid 1920; id., Espana y los paises musulmanes durante el ministerio de Floridablanca, Madrid 1909; A. Bourguet, Le duc de Choiseul et l'alliance espagnole, Parigi 1906.

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