MADERNO, Carlo. - Figlio di Paolo e di Caterina Fontana, sorella dell'architetto Domenico Fontana, nacque intorno al 1556, data accettata quasi unanimemente dalla critica e già indicata da Pascoli e Baglione. Non esistono documenti neppure sul luogo di nascita, ma negli atti notarili si dichiara sempre nativo di Capolago, villaggio sulla riva meridionale del lago di Lugano, presso Bissone.
Non si conosce la data esatta del suo arrivo a Roma; il primo documento relativo al suo soggiorno risale al novembre del 1576, quando ricevette un pagamento per lavori svolti presso il cantiere di S. Luigi dei Francesi, di cui era architetto lo zio Domenico (Hibbard, p. 335; se non altrimenti specificato nel testo si fa riferimento all'edizione italiana, del 2001, della monografia sul M.), con il quale da allora in poi lavorò costantemente.
Il M. ebbe tre figli. I primi due furono Paolo, figlio naturale legittimato, nato presumibilmente nel 1592, e Carla Caterina (poi divenuta monaca): entrambi nacquero prima del matrimonio, celebrato verosimilmente alla fine del 1598, con Elisabetta Mariottini, vedova dello scultore e antiquario Giovanni Battista Della Porta (Hibbard). Il M. si sposò poi altre due volte dopo la morte di Elisabetta: nel 1603 con Angela Calina, vedova di Jacopo Zanni, e nel 1621 con Elisabetta Malucci, vedova di Claudio Tebalducci: da questo terzo matrimonio il M. ebbe una figlia, Giovanna Battista, nata nell'ottobre del 1621.
Inizialmente residente presso S. Pietro, dal 1601 e fino alla morte abitò nell'attuale via dei Banchi Nuovi. La casa, di proprietà della Compagnia di S. Giovanni dei Fiorentini, faceva parte del compenso che il M. ricevette per i lavori di completamento della chiesa (Del Piazzo, p. 43).
Il M. è ricordato principalmente per due opere romane: la facciata di S. Susanna e il completamento di S. Pietro in Vaticano, ma il catalogo dei suoi lavori è ampio e complesso e comprende non soltanto edifici religiosi; egli fu anzi uno dei protagonisti del processo di rinnovamento dell'architettura residenziale e civile dei primi anni del Seicento, come attestano i suoi interventi in numerosi palazzi romani. Il suo ruolo in fabbriche quali palazzo Borghese o palazzo Barberini fu determinante, come dimostrato da studi recenti (Waddy, 1990).
In effetti il M. lavorò, oltre che - come già ricordato e in maniera preminente - con lo zio Domenico, anche con Flaminio Ponzio, con il Vasanzio (Jan van Santen) e con il Domenichino (Domenico Zampieri) e rilevò e proseguì, alla loro morte, incarichi già assegnati a Francesco Capriani da Volterra e a Giacomo Della Porta. In importanti fabbriche, come quella del palazzo Barberini, il M. fu affiancato dal nipote Francesco Borromini e da Gian Lorenzo Bernini.
Se dunque il M. partecipò alla realizzazione e al completamento di un grande numero di opere, alcune di notevolissima importanza, nella maggior parte dei casi il suo contributo si intreccia con quello di altri artisti, primo fra tutti, appunto, lo zio Domenico. È certo che - data l'enorme mole di lavoro - il M., il più qualificato assistente di Fontana, acquistò sempre maggiore autorità e fama tra i contemporanei. Nel tempo ricoprì molteplici cariche, relative ai lavori commissionatigli sia nella sfera pubblica sia in quella privata: egli fu infatti architetto della Fabbrica di S. Pietro (1602), del Tevere (1610), architetto papale o dei Sacri Palazzi (1623), del Popolo romano (1623) e della Camera apostolica. Le fonti camerali testimoniano inoltre il suo continuo impegno come commissario delle palificate di Fiumicino, a partire dal 1608.
Il lavoro del M., apprezzato dalla committenza papale, fu tuttavia sottoposto al giudizio critico di molti dei suoi contemporanei. Curcio sottolinea che il M., benché considerato da Lomazzo "bono a disegnare", aveva pur sempre avuto una formazione pratica e perciò veniva giudicato negativamente dagli accademici, soprattutto da F. Zuccari che, all'interno dell'Accademia di S. Luca, sosteneva il primato di un'architettura fondata, come la pittura e la scultura, sul disegno. L'eco di questo conflitto caratterizzò anche il dibattito sorto in seguito alle decisioni di Paolo V di mutare il S. Pietro michelangiolesco. Per queste ragioni il M., pur essendo una delle figure più rilevanti sulla scena artistica romana, in alcuni cantieri era subordinato, almeno formalmente, ad altri artisti, fossero questi un pittore, come il Domenichino, o un colto segretario, come Giovanni Battista Agucchi, cosicché il suo ruolo sembrò essere talvolta solo quello di un mero esecutore di idee altrui, (Id., 1999, p. 193).
Quando il cardinale Felice Peretti, committente di D. Fontana, salì al soglio pontificio col nome di Sisto V, anche l'importanza del M. crebbe notevolmente, tanto che nel 1588, egli, con i fratelli, i quali lo avevano raggiunto e lavoravano nell'impresa di famiglia, ottenne la cittadinanza romana.
I cantieri dei Fontana erano numerosi e dislocati in diversi punti della città e a Domenico venne affidata la realizzazione del grande piano edilizio per Roma. Durante il pontificato di Sisto V il M. ricevette anche incarichi di natura prettamente tecnica, quali il trasporto e la collocazione delle statue dei Dioscuri di fronte al palazzo del Quirinale, l'erezione degli obelischi a S. Maria Maggiore (1588), al Laterano (1587-88) e in piazza del Popolo (1587-89), ma soprattutto la sistemazione dell'obelisco Vaticano, impresa che lo stesso M. volle fosse ricordata nel suo epitaffio.
Con la morte di Sisto V (27 ag. 1590) ebbe inizio il declino di Fontana, che nel 1594, accusato di gravi irregolarità amministrative, fu costretto ad allontanarsi da Roma per rifugiarsi a Napoli, dove concluse la sua carriera come architetto del re. Svincolato dalla dipendenza dallo zio, il M. ereditò la direzione dell'impresa dei Fontana, confermando il prestigio raggiunto.
Il capolavoro del M. può essere considerato la facciata della chiesa di S. Susanna a Roma. In nessun'altra delle sue numerose opere riuscì a raggiungere la stessa armonia nella sapiente fusione delle tradizioni importate dall'Italia settentrionale con l'architettura romana.
Su richiesta di Camilla Peretti, sorella di Sisto V, la chiesa nel 1586 fu donata dal pontefice alle suore cistercensi, che decisero di annettervi un convento. Il lavoro, commissionato a Francesco da Volterra, fu ultimato solo dopo la sua morte, avvenuta tra il 1594 e il 1595, probabilmente da D. Fontana e dal M., a quel tempo impegnati nel cantiere di palazzo Rusticucci. Questi ultimi erano stati assunti dal cardinale G. Rusticucci con regolare contratto, già dal 1592 Fontana e dall'aprile 1593 il M., come coarchitetti per dirigere i lavori di trasformazione di S. Susanna in chiesa parrocchiale, cambiamento reso necessario dalla demolizione di S. Sebastianello. Dopo il 1593, tuttavia, il nome di Fontana non compare più nei documenti. Nel 1593-96 il M. lavorò al coro, che ricorda quello più imponente della cappella Sistina in S. Maria Maggiore, sotto il quale realizzò una cripta a pianta ovale, sperimentando nuove modalità di sfruttamento dello spazio (Scotti, 2001, p. VI); eseguì poi i lavori nella navata, dove le modifiche rispetto alla preesistenza non furono comunque di grande rilievo. Importante testimonianza del suo intervento è il disegno di Stoccolma (Nationalmuseum, CC.160), firmato da "M. architecto" e attribuito dubitativamente anche ad Alessandro Castaldi, per la decorazione del soffitto della navata (Hibbard, pp. 126 s.; Pallottino, p. 322).
La facciata fu portata a termine dal M. nel 1603, e, come osserva Wittkower "per i "cognoscenti" [(] deve essere stata una rivelazione, proprio come la Galleria Farnese di Annibale Carracci o i quadri religiosi del Caravaggio. Infatti, con questo unico lavoro [(] l'architettura si mise al passo con gli avvenimenti rivoluzionari nella pittura". Essa presenta una soluzione-tipo che fu ripresa numerose volte a partire da S. Pietro; ed è ancora Wittkower a darne una descrizione particolarmente efficace: "è basata su una concentrazione progressiva, di una chiarezza quasi matematica di intercolunni, ordini e decorazione verso il centro. La triplice proiezione del muro è coordinata con il numero degli spazi tra le colonne che sono saldamente racchiusi negli ordini; l'ampiezza di tali spazi aumenta verso il centro e la superficie del muro viene a poco a poco eliminata in un processo che capovolge lo spessore del muro [(]. L'ordine superiore sotto il semplice frontone triangolare è concepito come una realizzazione più leggera della fila inferiore, con pilastri che corrispondono alle mezze e tre quarti di colonne sottostanti" (p. 92). La facciata così concepita si rende partecipe dello spazio antistante, non è una costruzione isolata ma fa parte dell'ambiente e può essere considerata quasi come una parete della piazza.
Negli ultimi anni del secolo il M. intraprese la realizzazione di una delle più importanti residenze urbane del tempo, il palazzo di Asdrubale Mattei, marchese di Giove e marchese di rocca Sinibalda. Si tratta dell'unico edificio interamente costruito dal Maderno.
Alla morte di G. Della Porta (1602), architetto di Clemente VIII, il M. ne rilevò gli incarichi, rimanendo al servizio della famiglia Aldobrandini anche dopo la morte del papa (1605). Oltre alla villa di Frascati, il M. progettò per gli Aldobrandini il palazzo poi Doria-Pamphili su via del Corso e la cappella di famiglia in S. Maria sopra Minerva a Roma.
In questa come in altre fabbriche del tempo ebbe un ruolo determinante Agucchi, segretario e consigliere culturale di Pietro Aldobrandini a partire dal 1596. Della residenza di Frascati rimane una sua lunga descrizione del 1611, densa di riferimenti al mondo antico (D'Onofrio, 1963, pp. 79-115).
Nel luglio 1603 il M. e G. Fontana furono chiamati a succedere a Della Porta nella direzione del cantiere della Fabbrica di S. Pietro. Nel 1605, poco dopo la sua elezione, Paolo V, aderendo alla decisione della congregazione cardinalizia, ordinò la distruzione dell'antico corpo, demolizione che iniziò il 29 marzo 1606, e bandì il concorso a inviti per la trasformazione a croce latina del progetto michelangiolesco.
Al concorso furono invitati, tra gli altri, Ponzio, architetto del papa, G. Fontana, il M., Girolamo Rainaldi, Niccolò Branconio, Ottavio Turriani, D. Fontana, Giovanni Antonio Dosio e Lodovico Cardi. Fra tutti venne scelto il progetto del M. e un modello ligneo molto elaborato fu subito dopo realizzato da Giuseppe Bianchi da Narni.
Fu dunque il M. il protagonista di "uno dei compiti più importanti, ma anche più ingrati, dell'edilizia romana del Seicento", perché "tutti si sentivano autorizzati a mettere a confronto il suo lavoro col progetto di Michelangelo; e se i critici benevoli gli riconoscevano il merito di essere riuscito, nelle circostanze date, a salvare quanto più possibile del progetto del "divino", quelli mal disposti gli rimproveravano il fatto stesso di essersi impegnato in una gara così impari" (Thoenes, p. 49).
Le complesse vicende costruttive relative agli interventi del M. in S. Pietro sono state ricostruite da Hibbard attraverso l'analisi dei disegni e dei documenti. Una prima serie di progetti elaborata dal M. è testimoniata dai fogli conservati agli Uffizi (già analizzati da Caflisch, 1934), UA100, UA101, UA264; quest'ultimo disegno, il più vicino a quanto effettivamente realizzato, si compone di due fogli, quello superiore raffigura la pianta michelangiolesca, quello inferiore il progetto del M., con il prolungamento della navata, le cappelle laterali e il portico. La soluzione delineata in quest'ultimo foglio deve essere stata molto simile a quella che servì da base per il modello ligneo di Bianchi, il che ha fatto supporre a Hibbard di poter considerare l'aprile 1607 il terminus ante quem per la datazione del disegno (il modello fu infatti eseguito tra l'aprile e il novembre del 1607; il primo pagamento a Bianchi è dell'aprile 1607). Le fondazioni per il basamento, iniziate l'8 marzo dello stesso anno, seguirono un diverso disegno (né di Michelangelo né del M.; Hibbard, p. 215) e i lavori furono comunque bloccati dopo pochi mesi, quando, l'11 sett. 1607, il papa annunciò di voler costruire la facciata del Maderno. Fu così dato avvio alle demolizioni nel cortile della Pigna e alla costruzione della facciata e contemporaneamente il M. dovette rielaborare anche le soluzioni per la navata (le dimensioni erano ormai fissate definitivamente), la cui versione ufficiale è del giugno del 1608.
Delle diverse fasi del progetto per la facciata rimangono alcune testimonianze, tra cui un disegno, derivato da un'incisione di Giovanni Maggi e conservato al Victoria and Albert Museum di Londra (Benedetti, 2003, p. 126) in cui vediamo una soluzione simile a quella effettivamente realizzata. Dopo aver progettato la facciata il M. fu incaricato di aggiungere i campanili, non come li aveva originariamente concepiti (sopra le cappelle orientali), ma come torri ai fianchi della facciata. Paolo V, infatti, quando già l'opera era arrivata a conclusione, ordinò la costruzione di due campanili laterali per far apparire la facciata "più larga et più proportionata alla grandezza del tempio vecchio, fatto secondo l'architettura di Michelangelo Bonaroti" (Avviso del 5 sett. 1612: ibid., p. 124). I campanili, iniziati alla fine del 1612 dal M., che li interruppe all'altezza della terrazza superiore alla morte del pontefice, furono ripresi da Bernini, che realizzò quello di sinistra, demolito nel 1646 con decreto di papa Innocenzo X, a causa delle lesioni che il suo peso procurava alla facciata. Sebbene l'aggiunta dei due campanili a facciata quasi conclusa alterasse in parte la compattezza della prima progettazione, il M. riuscì comunque a conservare in questo nuovo contesto l'originaria idea michelangiolesca (Thoenes). Probabilmente quindi il pilastro con paraste a fascio che delimita la facciata e che la divide dal campanile è stato così ideato per legare le due nuove torri alla facciata propriamente detta. La conclusione della prima fase del progetto finale della facciata è del 1612, con l'apposizione dell'iscrizione che celebra il papa Paolo V, delimitata verso l'esterno dalle lesene corrispondenti all'area occupata dai campanili.
Il prospetto e la pianta documentati da un'incisione di M. Greuter, della metà del 1613, ci restituiscono in maniera sostanzialmente esatta (tranne i campanili nel prospetto) il progetto del Maderno. Quanto alla decisione del giugno 1608, riguardo alla realizzazione della navata centrale, il M. dovette continuare a rielaborare il suo progetto anche durante la costruzione stessa, che si protrasse fino al 1626. Il M. doveva trovare una soluzione che rispondesse allo spirito del progetto michelangiolesco e, al contempo, procedere a una diversificazione. "La capacità del Maderno, valutata in questa ottica, denota la scelta per una crescita che insieme si connettesse e contemporaneamente sapesse ripensare autonomamente le suggestioni formali dell'impegnativa preesistenza [(]. L'una o l'altra modalità però, tenute insieme da una convinta adesione alla tensione formale e alle proporzioni monumentali dell'edificio esistente" (Benedetti, 2003, p. 130).
La scelta adottata dal M. per il prolungamento sviluppava una grandiosa navata centrale "a tunnel processionale" (ibid.) che assorbiva il quarto braccio di Michelangelo e navate laterali minori con cappelle. Il M. si adeguò alla tensione monumentale del complesso preesistente, reinterpretandola sia nella spazialità della navata centrale, che diventa asse coordinatore del nuovo impianto teso verso l'altare, sia nell'esterno.
Quella che Benedetti definisce l'"idea colonnare" del progetto michelangiolesco fu per il M. lo spunto per ideare una facciata stratificata profondamente innovativa: i diversi piani progrediscono dalla periferia verso il centro, con la successione, peraltro già sperimentata dallo stesso M. in S. Susanna, di lesene e colonne alveolate nella muratura (meno profondamente quelle centrali), un movimento accentuato visivamente - alla stregua di una correzione ottica - dalla lieve inclinazione dei piani del portico centrale timpanato e dall'uso della scialbatura color ocra sul travertino della parete di fondo (i recenti restauri della facciata, condotti e diretti da Sandro Benedetti, hanno reso possibile la verifica sia dell'inclinazione delle pareti, sia delle scelte cromatiche originali). Questo tipo di organizzazione della superficie muraria fu ampiamente imitato da Pietro Berrettini da Cortona, da Borromini, da Carlo Rainaldi, da Martino Longhi il Giovane, fino al Settecento in Italia e nel resto d'Europa (ibid.).
A S. Giovanni dei Fiorentini il M. completò, tra il 1608 e il 1618 circa, la chiesa iniziata da Antonio Cordini da Sangallo il Giovane e poi ripresa da G. Della Porta. Ma Hibbard (p. 186) riporta la notizia che il nome del M. viene riferito a S. Giovanni dei Fiorentini già dal 1598 e solo dopo più di un anno (maggio 1599) comincia a essere citato nei documenti della congregazione. Al 12 ag. 1608 risale il primo pagamento; nel cantiere era anche presente Breccioli.
A partire dallo stesso anno in cui intraprese i lavori alla chiesa dei Fiorentini, il M. è documentato nel cantiere di S. Andrea della Valle, dove fu impegnato per un arco di tempo di vent'anni (1608-28; è tuttavia possibile ipotizzare che il M. fosse impegnato nel cantiere già dal 1600: Hibbard).
Il M. ebbe al suo fianco il giovane Borromini anche in altre occasioni. Per esempio, nel cantiere, da lui diretto, di restauro di S. Maria della Rotonda (1625-28), dove Borromini eseguì i disegni dei suoi progetti per i campanili e dei capitelli corinzi del pronao, nel palazzo del Monte di pietà, nella progettazione della chiesa di S. Ignazio e a palazzo Barberini.
Il M. morì a Roma all'età di 73 anni, il 31 genn. 1629. Fu seppellito in S. Giovanni dei Fiorentini, nella tomba di cui aveva ottenuto la concessione nel novembre 1623; il cui progetto della lastra era stato disegnato da Borromini.
Dall'Inventario dei beni di famiglia (redatto il 2 marzo 1629, a circa un mese dalla sua morte e trascritto in Hibbard, pp. 113-115) apprendiamo che il M., nonostante il prestigio acquisito negli anni, non aveva accumulato particolari ricchezze e proprietà, pur conducendo una vita agiata. Curcio osserva che il suo "era un salotto da borghese benestante e conservatore", e mette in evidenza che nella "sala" campeggiava il ritratto dell'architetto, "affiancato significativamente da quelli di Sisto V e di San Carlo Borromeo [(]. Dominava ovunque [(] una sorta di memoria nostalgica dell'età sistina e delle prime imprese condotte nei decenni a cavallo del secolo" (1999, p. 288). Nell'inventario sono elencati i libri posseduti dal M., ventinove (numero esiguo se paragonato alle biblioteche di Breccioli e di tanti altri suoi contemporanei) e tra questi soltanto sei erano libri di architettura (ibid., pp. 289-291, con relative schede).
Per Frey il M. "appartiene ancora alla corrente artistica del secolo XVI, in quanto si attiene all'unità della massa, alla forma raccolta ed al linguaggio tradizionale del dettaglio" e tuttavia "definisce i problemi latenti, elabora logicamente i motivi tradizionali e da' loro unità ed eguaglianza di formazione" (p. 16). Ma sostanzialmente egli è stato sempre definito un artista barocco, il primo artista barocco. Una definizione ambigua, cui tuttavia, secondo Hibbard, il M. deve la propria fama.
Nel Museo civico di belle arti di Lugano si conserva un ritratto anonimo del M. che, secondo Donati, è raffigurato anche in un rilievo della tomba di Sisto V.
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