Michelstaedter, Carlo

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia (2012)

Carlo Michelstaedter

Fabrizio Meroi

Il pensiero di Carlo Michelstaedter, figura di primo piano nel panorama filosofico europeo dell’inizio del Novecento, è stato spesso interpretato – sulla scorta, peraltro, di elementi concettuali effettivamente presenti nella sua riflessione – come un pensiero dagli esiti ascetici e individualistici. In realtà – e la critica più recente lo ha ormai ampiamente riconosciuto – si tratta di un pensiero non privo di contenuti di carattere specificamente politico e che, soprattutto, culmina in un potente richiamo alla dimensione comunitaria dell’agire umano: tratti, questi, che permettono di collocare Michelstaedter, a pieno diritto, nel solco della grande tradizione della filosofia civile italiana.

La vita

Carlo Raimondo Michelstaedter nasce il 3 giugno 1887 a Gorizia, all’epoca città dell’Impero austro-ungarico, da una famiglia di ebrei italiani assimilati che poteva vantare, nel suo albero genealogico, almeno un paio di nomi importanti (i rabbini Abramo Vita Reggio e Isacco Samuele Reggio). Il padre, Alberto, prima agente di cambio e poi direttore della filiale goriziana delle Assicurazioni generali di Trieste, coniuga la propria attività lavorativa con spiccati interessi letterari: ben noto negli ambienti culturali della città, è tra l’altro presidente del locale Gabinetto di lettura. La madre, Emma Coen Luzzato, è una donna di grande sensibilità, alla quale Michelstaedter resterà sempre legatissimo. Carlo ha un fratello e due sorelle maggiori: Gino, che nel 1893 emigra negli Stati Uniti e si toglie la vita, a New York, nel 1909; Elda, che come la madre sarà deportata dai nazisti e troverà la morte ad Auschwitz; infine Paula, l’unica sopravvissuta della famiglia nel secondo dopoguerra (Alberto muore nel 1929), che conserverà per molti anni i materiali che ora costituiscono il Fondo Michelstaedter della Biblioteca statale isontina di Gorizia.

Dopo aver ottenuto il diploma allo Staatsgymnasium goriziano nel luglio del 1905, Michelstaedter si reca a Firenze, nell’ottobre seguente, per trascorrervi un periodo da dedicare prima di tutto alla sua passione per l’arte. A Firenze, però, finirà per trattenersi ben più a lungo del previsto. Frequenta l’Accademia di belle arti e, soprattutto, si iscrive ai corsi di lettere dell’Istituto di studi superiori (dove seguirà le lezioni, tra gli altri, di Francesco De Sarlo, Guido Mazzoni, Pasquale Villari e Girolamo Vitelli).

Inizia così, per il giovane Carlo, un quadriennio di intense esperienze intellettuali ed esistenziali, vissute principalmente a Firenze, ma anche a Gorizia e a Pirano, località dell’Istria nella quale trascorre parte delle vacanze estive dal 1908 al 1910.

Da un lato, vi sono le numerose letture e, in particolare, l’incontro con l’opera di alcuni autori che risulteranno decisivi nella sua formazione così come nel determinare taluni orientamenti del suo stesso pensiero. All’iniziale infatuazione per Giosue Carducci e Gabriele D’Annunzio (che contribuiscono ad alimentare in lui un ideale ‘eroico’ di vita e di creazione artistica) fa seguito il più meditato interesse per Giacomo Leopardi, Lev N. Tolstoj ed Henrik Ibsen (oltre che per i tragediografi greci, i Vangeli e la musica di Ludwig van Beethoven). Sul piano più squisitamente filosofico, profonda è l’influenza dei presocratici (Parmenide, Eraclito, Empedocle) e del Platone ‘socratico’, mentre controverso è il rapporto con Arthur Schopenhauer: pur essendo, in larga misura, debitore nei confronti della sua filosofia, Michelstaedter prende tuttavia le distanze dal suo ‘imperfetto’ pessimismo.

Dall’altro lato, vanno ricordati diversi momenti che segnano in maniera indelebile l’esistenza di Carlo. Anzitutto, l’ardente amicizia con Nadia Baraden, un’esule russa alla quale dà lezioni di italiano all’inizio del 1907, che prima di suicidarsi gli scrive delle lettere il cui sorprendente contenuto è stato recentemente rivelato (cfr. S. Campailla, Il segreto di Nadia B. La musa di Michelstaedter tra scandalo e tragedia, 2010, pp. 27-33). Poi, nella primavera dello stesso anno, l’amore per la compagna di studi Jolanda De Blasi; un amore che, osteggiato dai genitori, avrà breve durata, ma rappresenta comunque, per lui, un passaggio cruciale, dai risvolti non esclusivamente sentimentali. Ancora, la stessa morte del fratello Gino nel febbraio del 1909, che mette a durissima prova il suo equilibrio emotivo. Infine, nell’estate del 1910, la relazione con la goriziana Argia Cassini, che ispira sia “I figli del mare” che “A Senia”, i due capolavori della produzione poetica michelstaedteriana. Né si devono dimenticare gli amici più cari: a Firenze, i compagni di studi Gaetano Chiavacci e Vladimiro Arangio-Ruiz, futuri editori delle sue opere ed esponenti di rilievo della cultura filosofica italiana del Novecento; a Gorizia, Enrico Mreule e Nino Paternolli. Il legame più significativo è senz’altro quello con Mreule, figura dalla personalità assai complessa (cfr. su di lui C. Magris, Un altro mare, 1991), che Michelstaedter vede a un certo punto come colui che ha saputo realizzare l’ideale di vita e di pensiero al quale egli stesso avrebbe desiderato conformarsi.

Nel giugno del 1909, dopo avere sostenuto tutti gli esami previsti dal suo cursus studiorum presso l’Istituto fiorentino, Michelstaedter ritorna a Gorizia per lavorare alla stesura della tesi di laurea. La completa nell’autunno dell’anno seguente e, poco dopo averla inviata a Firenze, il 17 ottobre 1910 si toglie la vita sparandosi con una rivoltella.

L’opera

L’opera di Michelstaedter è, di fatto, interamente postuma. Tranne quattro articoli usciti su quotidiani locali tra il 1907 e il 1910 (cfr. Carlo Michelstaedter. Far di se stesso fiamma, 2010, pp. 191-93), tutti gli altri scritti sono stati infatti pubblicati dopo la sua morte (a partire dalla pionieristica edizione curata negli anni 1912-13 da Arangio-Ruiz per i tipi di Formiggini). Ed è, questo, un dato che deve essere sempre tenuto presente. Siamo cioè di fronte a un corpus letterario e filosofico che non ha mai assunto una forma definitiva, espressione di una volontà ultima in vista della stampa, ma che è rimasto invece allo stato di annotazione, di scrittura privata, di documento epistolare o, nel caso della tesi di laurea e delle tesine di passaggio d’anno compilate da Michelstaedter nel 1906, nel 1907 e nel 1908 (per queste ultime cfr. C. Michelstaedter, Scritti scolastici, a cura di S. Campailla, 1976), di elaborato da presentare in un contesto accademico. E tuttavia – va subito precisato – si tratta comunque di testi di una forza e di una densità straordinarie, che anticipano per molti versi alcuni dei momenti più alti della filosofia europea del Novecento e che permettono di considerare Michelstaedter come uno dei maggiori pensatori del principio del secolo da poco concluso. Né, peraltro, il suo contributo si esaurisce nella produzione di carattere specificamente letterario e filosofico. Egli fu anche autore, infatti, di una cospicua serie di dipinti e – soprattutto – di disegni che costituiscono, a tutti gli effetti, parte integrante della sua opera e che sono stati ormai unanimemente riconosciuti in tutto il loro valore e in tutta la loro peculiarità (cfr. L’immagine irraggiungibile. Dipinti e disegni di Carlo Michelstaedter, saggio introduttivo di D. Bini, catalogo generale delle opere a cura di A. Gallarotti, 1992).

Ma, certamente, Michelstaedter è anzitutto poeta e filosofo. Sul versante lirico, ha lasciato dei componimenti di varia ispirazione e di diverso spessore. Se le poesie dei primi anni risentono in modo evidente di suggestioni petrarchesche, carducciane, dannunziane e – in particolare – leopardiane, quelle dell’ultimo periodo, dal “Canto delle crisalidi” e “Onda per onda batte sullo scoglio” a “I figli del mare” e “A Senia”, raggiungono viceversa un notevole grado di originalità e – ciò che più conta – riescono a tradurre in versi, con esiti di indiscutibile pregio, i contenuti più profondi della riflessione teorica (cfr. C. Michelstaedter, Poesie, a cura di S. Campailla, 1987). Sul versante filosofico, vanno sicuramente menzionati sia i taccuini, gli appunti di lavoro, gli scritti narrativi e quelli d’occasione, nei quali compaiono spesso argomenti e motivi che non si ritrovano nei testi maggiori (cfr. Parmenide ed Eraclito.Empedocle. Appunti di filosofia, a cura di A. Cariolato, E. Fongaro, 2003; Sfugge la vita, a cura di A. Michelis, 2004; L’anima ignuda nell’isola dei beati. Scritti su Platone, a cura di D. Micheletti, 2005; La melodia del giovane divino, a cura di S. Campailla, 2010), sia un gruppo di brevi composizioni a struttura dialogica, tra le quali spiccano il Dialogo tra Carlo e Nadia, in cui gli spunti di carattere autobiografico si intrecciano con la meditazione sui temi della ‘libertà’ e del ‘bisogno’, e il Dialogo tra Diogene e Napoleone, che si risolve in una discussione problematica della prospettiva filosofica dello stoicismo antico (cfr. Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, 1988, pp. 95-131). Né si deve dimenticare il ricco epistolario, assai prezioso sia ai fini della ricostruzione della biografia michelstaedteriana, sia perché in molte lettere trovano spazio delle vere e proprie digressioni di natura concettuale (cfr. Epistolario, a cura di S. Campailla, 1983, 20102).

I testi più importanti sono però, senza alcun dubbio, Il dialogo della salute (1910) e La persuasione e la rettorica (1910). Il primo, attraverso una conversazione immaginaria tra i personaggi di Rico e Nino (gli amici Mreule e Paternolli), mette in scena una controversia, di stampo inequivocabilmente socratico-platonico, che ha per oggetto le contraddizioni della condizione umana, costitutivamente sospesa tra la vita e la morte e, al contempo, perennemente in bilico tra il richiamo del piacere, le costrizioni della società e l’anelito a una forma superiore di esistenza (cfr. Il dialogo della salute e altri dialoghi, cit., pp. 25-94). Il secondo è la tesi di laurea, capolavoro di Michelstaedter, nella quale egli illustra, utilizzando tra l’altro una grande varietà di stili e di moduli espressivi, la propria concezione filosofica, che vede l’uomo di fronte a una drammatica alternativa: l’autenticità della via alla «persuasione» o l’inautenticità del mondo della «rettorica».

L’orizzonte della «persuasione»

L’inizio della Persuasione e la rettorica è folgorante. L’essere umano vi è presentato come un «peso» che «pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende». La sua è una situazione, per così dire, di radicale indigenza ontologica, perché desidera naturalmente scendere verso il basso ma, se anche viene lasciato andare, «in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga». In sostanza, «sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere». E qualora, d’altra parte, riuscisse in qualche modo a porre termine alla sua corsa e al suo desiderio, verrebbe meno, con ciò, la sua stessa natura: «Se in un punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso». Michelstaedter può così concludere:

La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse sé stesso, esso avrebbe finito d’esistere. – Il peso è a sé stesso impedimento a posseder la sua vita e non dipende più da altro che da sé stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso (La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, 1995, pp. 7-8).

Dove è evidente che il termine vita svolge la funzione di vox media, indicando, da un lato, l’esistenza comune, che consiste in un continuo tendere a obiettivi sempre diversi ma sempre deludenti ed è costantemente dominata dalla «volontà» (ed è qui determinante l’influenza di Schopenhauer); dall’altro, un’esistenza che potrebbe invece rappresentare, essa sì, un vero punto d’arrivo, l’«esser persuaso», ma che porterebbe contemporaneamente alla cessazione della vita stessa.

Non sembrerebbe esservi, dunque, alcuna via d’uscita. Senonché questo è – per l’appunto – solo l’inizio, solo il punto di partenza della riflessione michelstaedteriana. Se Michelstaedter si fermasse qui, avrebbero ragione coloro che hanno visto – o ancora vedono – nel suo pensiero una teorizzazione della morte come unica possibile via di avvicinamento a una realtà autentica (e nel suo suicidio, conseguentemente, una sorta di estrema attestazione di fedeltà, sul piano esistenziale, alle idee professate sul piano teorico). Ma egli procede nella sua ricerca. La sua opera è il frutto dell’incapacità di rassegnarsi all’evidenza derivante dai primi risultati della sua indagine filosofica; il frutto – detto altrimenti – del disperato tentativo di schiudere uno spiraglio di autenticità, di «persuasione», nella dimensione della finitezza, della vita che può essere effettivamente vissuta. In questa direzione, posto che la «qualunque vita» che noi tutti abitualmente viviamo è illuminata – ma sarebbe più corretto dire: oscurata – dal «dio benevolo» del «piacere» che ci proietta, adulandoci, in un futuro vuoto tale da allontanarci sempre di più dalla pienezza del presente, si rende necessario ascoltare, viceversa, la voce del «dolore» che, mentre quella del «piacere» ci dice «tu sei», alimentando così l’illusione di un’identità individuale fondata sulla semplice soddisfazione dei bisogni, ci dice invece «tu non sei», rivelando in tal modo il fondo reale delle cose e distruggendo al contempo quell’illusione:

Dappertutto lo stesso dolore della vita che non si sazia e crede di saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza dell’una coscienza col fluire delle altre coscienze, per cui alla breve illusione si manifesti la sua impotenza ed essa si trovi a volere disperatamente: senza riposare sulle date cose che sicure aspettavano il suo futuro.

E interrotta la voce del piacere che le dice tu sei – sente solo il sordo mormorio del dolore fatto distinto che dice: tu non sei, mentre pur sempre essa chiede la vita (La persuasione e la rettorica, cit., p. 27).

La «via alla persuasione» sarà allora quella in grado di fondare una nuova, inusitata forma di identità della persona, che non poggi sulle fragili basi dell’identificazione dell’individuo con le risposte che egli dà – anzi: che crede di dare – alle proprie richieste e alle proprie esigenze, ma che sia il prodotto di un supremo esercizio di presa di possesso di se stesso, così come di ogni cosa in se stesso, e di concentrazione nel presente. Questo percorso è accennato già nel primo capitolo della prima parte della Persuasione, nel quale troviamo scritto, ad es.: «Colui che è per sé stesso […] non ha bisogno d’altra cosa che sia per lui […] nel futuro, ma possiede tutto in sé». Oppure: «La persuasione non vive in chi non vive solo di sé stesso». O, ancora, con riferimento all’espressione platonica del Gorgia: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita: l’anima ignuda nelle isole dei beati» (pp. 9-10). Ma è nel terzo e ultimo capitolo, sempre della prima parte dell’opera, che la strada che Michelstaedter intende tracciare viene indicata con una maggiore precisione. Intanto, colui che si incammina sulla via della «persuasione» deve saper vivere nell’attimo presente, forte di una consapevolezza della possibilità di morire che nulla ha a che fare con la volgare «paura della morte» (e che è stata vista, da molti, come un’anticipazione dell’«essere-per-la-morte» heideggeriano):

Chi vuol aver un attimo solo sua la vita, esser un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve inpossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie; poiché niente in lui chiede più di continuare; niente è in lui per la paura della morte – niente è così perché così è dato a lui dalla nascita come necessario alla vita (p. 33).

Poi, egli deve sottrarsi definitivamente alle lusinghe del «piacere» e farsi coraggiosamente carico del «dolore», differenziando così totalmente il proprio cammino da quello dei più:

Chi vuole fortemente la sua vita, non s’accontenta, temendo di soffrire, a quel vano piacere che gli faccia schermo al dolore, perché questo continui sotto cieco, muto, inafferrabile; ma anzi la persona di questo dolore prende e […] s’afferma là dove gli altri sono annientati dal mistero; poiché egli ha il coraggio di strappar da sé la trama delle dolci e care cose che conforta a esser ancora giuocati nel futuro, e chiede il possesso attuale; quello che per gli altri è mistero poiché trascende la loro potenza, per lui non è mistero, che l’ha voluto ed in ciò s’è affermato (pp. 34-35).

Ma il tratto davvero caratterizzante di colui che aspira alla «persuasione» risiede nella capacità di essere e di agire secondo non la modalità del «chiedere», bensì quella del «dare». «Tutto dare e niente chiedere: questo è il dovere», scrive Michelstaedter, rivelando – tra l’altro – la matrice squisitamente etica del suo pensiero. Questa «attività che non chiede» può essere definita un «beneficio», «che fa non per avere, ma facendo dà»; e non si traduce, concretamente, in una banale forma di ‘filantropia’ («Far beneficio non è dare o fare agli altri quello che essi credono di volere: far l’elemosina al povero, sanare gli ammalati, sfamare, dissetare, vestire»), ma in una ferma esortazione a condividere la scelta di rinunciare alla «vita illusoria» e di optare per la vera vita:

Non dare agli uomini appoggio alla loro paura della morte, ma toglier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mezzi a che sempre ancora la chiedano, ma dar loro la vita ora, qui, tutta, perché non chiedano (pp. 42-43).

Infine, il punto d’arrivo dell’esperienza di ricerca della «persuasione» viene tratteggiato da Michelstaedter, nella pagina conclusiva di questa prima parte della sua tesi di laurea, in un passo dai toni quasi visionari nel quale l’urgenza di una contrazione del tempo ordinario raggiunge il suo limite estremo:

Solo, nel deserto egli [l’uomo nella via della persuasione] vive una vertiginosa vastità e profondità di vita. Mentre la φιλοψυχία [l’amore alla vita] accelera il tempo ansiosa sempre del futuro e muta un presente vuoto col prossimo, la stabilità dell’individuo preoccupa infinito tempo nell’attualità e arresta il tempo. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente (p. 49).

La società della «rettorica»

Ma, come viene detto subito, all’inizio della seconda parte della Persuasione, «gli uomini si stancano su questa via, si sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte». Né, d’altro canto, essi si accontentano della vita che quotidianamente vivono, irrimediabilmente avvinta dai lacci delle singole relazioni determinate dalla necessità di soddisfare i bisogni, più o meno elementari, che scandiscono il ritmo della loro esistenza. Sorge così l’esigenza di trovare un punto di riferimento, «un valore stabile che non s’esaurisce nel giro delle relazioni particolari», qualcosa che possa sostituire – è proprio questo che Michelstaedter intende – l’insostenibile «persuasione» nella sua azione di ‘superamento’ della «qualunque vita»: «Di fronte alla qualunque relazione limitata finita essi non la vivono come semplice correlativo, ma da uomini che hanno la persuasione». Più esattamente: «Al di sotto della relazione elementare che li vince per la loro paura della morte, essi fingono un correlativo alla persuasione che si fingono d’avere». Ecco come Michelstaedter descrive la condizione degli uomini che, per sfuggire all’illusione del «piacere», si abbandonano a quella di un «valore assoluto»:

Sono ancora cosa fra le cose, schiavi del più del meno, del prima del dopo, del se del forse, in balìa dei loro bisogni – paurosi del futuro, nemici a ogni altra volontà, ingiusti a ogni altrui domanda; affermano ancora in ogni punto la loro inadeguata persona. Ma questo è tutto apparenza, questa non è la loro persona; sotto, sotto permane la loro persona assoluta, che s’afferma assolutamente nel valore assoluto, che ha il valore assoluto (La persuasione e la rettorica, cit., pp. 53-54).

Questo ingannevole «valore assoluto» è la «conoscenza finita», il «sapere». Come scrive in modo estremamente efficace Michelstaedter, «l’uomo si ferma e dice: io so» (p. 54); e, dicendo ciò, «si vuol “costituire una persona” con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha». Si affaccia così lo scenario della «rettorica», che altro non è, allora, se non «l’inadeguata affermazione d’individualità» (p. 57).

Il «sapere» rappresenta dunque un primo ambito nel quale la «rettorica» esercita la sua funzione di contraltare, per così dire, della «persuasione». E alla critica del «sapere» Michelstaedter dedica, nel primo e nel secondo capitolo della seconda parte della Persuasione, pagine che colpiscono per la loro violenza e che ribadiscono costantemente l’indissolubile nesso che lega tra loro i due obiettivi della polemica: il «sapere» e, appunto, la «rettorica». Il «sapere» finisce per diventare lo «scopo della vita»:

Ci sono le parti del sapere, e la via al sapere, uomini che lo cercano, uomini che lo danno, si compra, si vende, con tanto, in tanto tempo, con tanta fatica.

Ed è proprio perciò che «fiorisce la rettorica accanto alla vita». Molto semplicemente, «gli uomini si mettono in posizione conoscitiva e fanno il sapere» (pp. 58-59). Un «sapere», quello al quale pensa Michelstaedter, che è anzitutto quello della filosofia, come è testimoniato dalla pagina in cui viene criticato il cogito cartesiano («Cogito non vuol dire “so”; cogito vuol dire cerco di sapere: cioè manco del sapere: non so», p. 60) e, soprattutto, dal notissimo excursus – intitolato Un esempio storico – in cui, attraverso la narrazione di un immaginifico apologo, viene delineato lo sviluppo del pensiero antico da Socrate e Platone ad Aristotele: uno sviluppo che, per Michelstaedter, è in realtà un processo di decadenza, che culmina appunto nel «sistema» aristotelico, il quale «ancora vive fra noi, se pur sotto nuove vesti», e si risolve in ultima analisi in un vuoto «teorizzar sulle cose» (p. 73). Ma il «sapere» è anche quello della scienza, che «via via soppianta» la filosofia e pretende di superarne le «esaltazioni metafisiche» e di arrivare alla «conquista della verità» mantenendo un proficuo «contatto con la realtà» (p. 74). Ma – obietta Michelstaedter – questa pretesa è anch’essa illusoria. La scienza, infatti, fallisce nel suo tentativo di fondazione di una conoscenza che si vorrebbe oggettiva – molte pagine di questa sezione della Persuasione, come, ad es., quelle sulle nozioni di ‘esperienza’ e ‘causalità’, possono essere senz’altro inserite nel filone dell’antiscientismo primonovecentesco – e, al contrario, non ottiene altro scopo se non quello di ‘istituzionalizzare’ la «rettorica del sapere»:

Nella degenerazione della persona sapiente per la ricerca del sapere, la scienza colla sua materia inesauribile e il suo metodo fatto di vicinanza di piccoli scopi finiti – colla sua posizione conoscitiva che esperimenta oggettivamente e ripete sempre la stessa minima reazione dell’organismo, che non solo non esige, ma non tollera la persona intera – colla sua necessità della specializzazione – ha calato le radici nel più profondo della debolezza dell’uomo ed ha dato ferma costituzione per tutti i secoli avvenire alla rettorica del sapere (p. 83).

Il principale ambito di affermazione della «rettorica» è rappresentato però dalla società, della quale Michelstaedter tratta, a partire da una riflessione su testi di Georg Wilhelm Friedrich Hegel e di John Stuart Mill, nel terzo capitolo di questa seconda parte dell’opera (che si apre – vale la pena di notare – con l’impietoso ritratto di un «grosso signore», prototipo dell’uomo della «rettorica», dietro il quale si cela la figura del padre dell’autore, Alberto). La società può essere davvero definita il «regno della rettorica», dal momento che in essa gli uomini «si son fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca convenzione» (p. 95). Pur di non rinunciare alla certezza che i suoi bisogni minimi trovino adeguata soddisfazione («la società gli largisce sine cura tutto quanto gli è necessario»), il singolo individuo accetta di essere ridotto a una sorta di meccanismo e, al prezzo della perdita della propria libertà, acquista la «sicurezza» (p. 96). Una sicurezza che, però, si fonda sulla violenza: se il lavoro è «violenza sulla natura», infatti, la proprietà – scrive Michelstaedter senza mezzi termini, chiamando direttamente in causa due solidi cardini della vita sociale – è «violenza verso l’uomo» (p. 97). Ed è proprio alla luce di questo assunto di fondo, nel quale risuona, certamente, anche l’eco della lettura di pagine di Karl Marx e di Georges Sorel, che si sviluppa, nel prosieguo del capitolo, una spietata analisi del corpo sociale e delle dinamiche che lo contraddistinguono (un’analisi che da diversi critici è stata accostata a quelle svolte, in seguito, nell’ambito della Scuola di Francoforte). Michelstaedter insiste, in particolare, sulla «riduzione della persona» che si produce quando si cade nella rete di relazioni dalla quale dipende il buon funzionamento della macchina della società:

L’uomo che ha assunto la persona sociale […] ha fondato la sua vita sulla contingenza delle cose e delle persone, e della carità di queste vivendo da queste dipende pel suo futuro, né ha in sé vigore a conservarsi ciò che non per suo valore gli appartiene (pp. 103-04).

Addirittura, Michelstaedter arriva a sostenere che «tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo» e che, nello specifico, «ogni sostituzione delle macchine al lavoro manuale istupidisce per quel tanto le mani dell’uomo», provocando così, a poco a poco, una progressiva degenerazione, anche e proprio sul piano fisico, delle precipue funzionalità dell’essere umano: «Gli occhi finiranno per non vedere ciò che invano vedrebbero, le orecchie di sentire ciò che invano sentirebbero – il corpo dell’uomo si disgregherà ... si verserà» (pp. 104 e 106-07). Verrà infine il momento – e le parole di Michelstaedter, scritte nel 1910, non possono non apparire profetiche – in cui «gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera», ma – egli chiarisce subito – per vedere molti degli effetti nefasti dell’azione della società sull’individuo non è affatto necessario attendere:

Parlo del futuro per aver il caso di limite, ma gran parte del futuro è nel presente. Già ora nessun uomo nasce più nudo ma tutti con la camicia, tutti già ricchi di ciò che i secoli hanno fatto per render loro facile la vita. E i più sono quelli che se la tengono con ogni cura. Già ora l’uomo trova quanto gli è necessario in una forma prestabilita, e crede di sapere la vita quando ha imparato le norme di questa forma ed ottiene senza pericolo ciò che gli è necessario (p. 119).

E la «camicia» di cui si parla in questo brano, la «camicia rettorica», viene descritta – mediante l’uso di un’espressione piuttosto sinistra che, però, rende assai bene l’idea di quello che è il punto di vista michelstaedteriano – come una vera e propria «camicia di forza», intessuta di «tutte le cose nate dalla vita sociale», che vengono puntualmente e meticolosamente così elencate: «1°. i mestieri, 2°. il commercio, 3°. il diritto, 4°. la morale, 5°. la convenienza, 6°. la scienza, 7°. la storia» (pp. 119-20).

Michelstaedter ‘politico’

A fronte di una condanna della società tanto circostanziata e così ben motivata – al di là dei rapidi cenni contenuti nel paragrafo precedente, le indagini e le valutazioni della seconda parte della Persuasione sono spesso particolari e sempre argomentate –, può sembrare difficile parlare di una dimensione propriamente ‘civile’ del pensiero di Michelstaedter. Tanto più che il suo discorso non riguarda solamente la società europea dell’inizio del Novecento – anche se, certamente, è dall’osservazione di quest’ultima che esso trae essenzialmente origine – ma, in una prospettiva più generale, l’intera civiltà occidentale nel suo complesso, indipendentemente dalle varie forme che essa ha assunto nel corso del proprio sviluppo (e infatti, come viene spiegato nella seconda Appendice critica alla Persuasione, è nella stessa Grecia antica che affonda le sue radici la connotazione «rettorica» dell’idea di ‘città’ che appartiene alla nostra cultura). Del resto – lo si accennava inizialmente – Michelstaedter è stato oggetto, in passato, di diverse interpretazioni che hanno presentato la sua riflessione teorica come una filosofia dai toni marcatamente ascetici e individualistici. Ed è innegabile, in effetti, che vi sia in lui una vena di questo tipo (basti pensare alla centralità, nella sua opera, del concetto di solitudine e dell’immagine del «deserto»). Ma vi è sicuramente, in Michelstaedter, anche una vena che, senza minimamente alterare il significato della sua esperienza intellettuale ed esistenziale, può essere qualificata come civile. Alludo in primo luogo alla presenza, nei suoi scritti minori, di importanti spunti di carattere specificamente politico e, più esattamente, antiborghese. Ora, è chiaro che una precisa componente antiborghese è presente, in modo più o meno esplicito, nelle stesse pagine della seconda parte della Persuasione alle quali si è già fatto riferimento: pagine che si ispirano largamente, per fissare gli obiettivi critici che le caratterizzano, alla società – appunto – borghese che costituiva l’ambiente nel quale Michelstaedter concretamente viveva, sia nei periodi fiorentini che in quelli goriziani. Ma, in questo caso, la pars destruens non sembra essere accompagnata da una pars construens. Accanto al versante della feroce critica di determinati aspetti della vita borghese, cioè, non sembra esservene uno veramente propositivo, che riveli, in Michelstaedter, la carica progettuale propria di una coscienza autenticamente politica. Né pare di poter attribuire troppo valore ai passi dell’epistolario nei quali egli inveisce contro la ‘borghesia’ in generale o certi suoi ‘rappresentanti’ in particolare. Come quando esclama, in una lettera alla famiglia scritta tra il 6 e il 7 novembre 1906:

Son felice di non aver partecipato al banchetto di quella fetida borghesia, morte alla borghesia, evviva il libero arbitrio, evviva il metodo storico, evviva il suffragio universale, evviva la ‘scuola unica’! (Epistolario, cit., pp. 152-53).

O come quando, in un’altra lettera alla famiglia di pochi giorni dopo, si scaglia contro un conoscente imputandogli, tra le altre cose, «il suo fare borghese» (p. 158). Si tratta infatti, evidentemente, di un astio spontaneo – corroborato dall’uso di facili slogan – e di un’antipatia dovuta a ragioni personali, più che di un sentimento derivante da una meditata riflessione su questioni di ordine sociale e politico. Altrove, però, le cose sembrano stare diversamente. Penso anzitutto al cosiddetto Discorso al popolo (il titolo è di Chiavacci, curatore nel 1958 dell’edizione Sansoni delle Opere di Michelstaedter), un testo composto, con ogni probabilità, tra il 31 agosto e il 13 ottobre del 1909. In esso, egli immagina di parlare a una folla di operai che – come aveva appreso dai giornali – si erano riuniti per protestare contro la condanna dell’anarchico spagnolo Francisco Ferrer e si rivolge loro esortandoli alla ribellione:

Voi sarete schiavi in eterno se non arriverete a smascherare la miserabile ipocrisia della potenza borghese, che copre di fiori le sue difese e nasconde in seno il pugnale (Discorso al popolo, 1909, in Id., La melodia del giovane divino, cit., p. 86).

E, dopo averli rimproverati per aver accolto con un applauso il passaggio casuale di un aeroplano, li invita ancora, con maggior energia, a rovesciare l’ordine borghese e ad affrettare l’avvento del «nuovo mondo»:

Fratelli, voi avete applaudito al simbolo della potenza che vi schiaccia. – Ma vi scuoterete voi dalla vostra inerzia, v’unirete tutti, porterete ognuno il contributo del suo amore fraterno, e della sua forza disperata, nata dalla diuturna sofferenza – e allora sarete invincibili, allora questo vano edificio della potenza borghese che vi domina e che voi rispettate, che vi domina soltanto perché voi lo rispettate, crollerà tutto con le sue leggi, le sue istituzioni, la sua scienza vana, la sua morale ipocrita – gli eserciti dei preparatori, gli eserciti degli esecutori della tirannide spariranno: scienziati, impiegati, soldati saranno razze estinte, nel nuovo mondo (p. 87).

Sarà, insiste con forza, proprio questo «nuovo mondo», il mondo

dove regnerà l’uomo, l’uomo del lavoro, l’uomo sano nel corpo e nella mente, l’uomo che non avrà bisogno di leggi ingiuste, e perché ingiuste complicate, per esser sicuro del suo fratello (p. 87).

Un mondo nel quale l’uomo troverà in sé la forza per costruire un sistema sociale rivoluzionario: «la sua fede, e il lavoro comune, e la compagine stretta dall’amore fraterno – gli saranno governo e legge e difesa nel regno del lavoro e della giustizia» (pp. 87-88). È insomma un testo, questo del 1909, il cui contenuto, da un lato, si ricollega per certi versi a quello di altri testi anteriori (l’«amore fraterno» dei passi citati, ad es., ricorda l’«amore universale» dello scritto su Tolstoj uscito sul «Corriere friulano» del 18 settembre 1908: cfr. C. Michelstaedter, Tolstoi, 1908, in Id., La melodia del giovane divino, cit., p. 208) o posteriori (cfr. C. Michelstaedter, Acerbo è il frutto, 1910, in Id., La melodia del giovane divino, cit., p. 114: «impugnerai la spada contro le istituzioni […], combatterai in tutti i modi il principio della viltà (φιλοψυχία) concreto nella società»); dall’altro, «attesta una tentazione profonda, che potrebbe rappresentargli [a Michelstaedter] quel futuro che invece non avrà» (S. Campailla, Alla ricerca del tesoro che non c’è, introduzione a C. Michelstaedter, La melodia del giovane divino, cit., p. 28). Un testo che, in ogni caso, conferma pienamente l’esistenza, accanto al Michelstaedter ‘apolitico’ delle opere maggiori (della Persuasione così come del Dialogo della salute), anche di un Michelstaedter ‘politico’ – e, dunque, pensatore civile.

La dimensione comunitaria

Ma, a ben guardare, la vena civile di Michelstaedter alimenta anche molte pagine della stessa Persuasione (pagine che, comunque, si pongono rispetto a quelle appena ricordate in una relazione di stretta continuità). Già l’idea del «tutto dare e niente chiedere» – che, come si è visto, costituisce l’elemento veramente decisivo nell’ambito della definizione dei tratti precipui dell’uomo che si avvia alla «persuasione» – implica l’apertura all’universo dei rapporti condivisi e, insieme, la possibilità – anzi, la necessità – di gettare le basi per una comunità di individui in senso proprio. Una comunità che, naturalmente, non abbia le caratteristiche della società della «rettorica», ma che rappresenti una forma di convivenza nella quale si possa realizzare – magari in maniera «iperbolica», per riprendere un’espressione cara a Michelstaedter – l’ideale della «persuasione». Michelstaedter non pensa cioè, evidentemente, alle subdole «comunità amichevoli», nelle quali «chi biasima un male o l’apparenza d’un male degli altri si afferma implicitamente libero da quello, e concede a quelli che lo ascoltano d’esserne liberi anch’essi», e nelle quali «ognuno vive della morte di chi è fuori della comunità» (Il dialogo della salute e altri dialoghi, cit., p. 56); pensa, invece, a un sodalizio autentico in cui al «giro delle relazioni» si sostituisca una comunione vera con il «mondo», come viene spiegato in un passo della Persuasione altamente significativo, nel quale la filosofia michelstaedteriana rivela infine la sua dimensione squisitamente comunitaria (e, anche, l’influenza della suggestione evangelica):

Finché l’uomo vive, egli è qui, – e là è il mondo, finché egli vive vuole possederlo, finché egli vive, in qualche modo s’afferma: e chiede, entra nel giro delle relazioni – ed è sempre lui qui e là il mondo diverso da lui. Ma di fronte a ciò che era per lui una data relazione, nella quale affermandosi egli chiedeva di continuare, ora egli deve affermarsi non per continuare, deve amarlo non perché esso sia necessario al suo bisogno, ma per ciò ch’esso è: deve darsi tutto ad esso tutto per averlo: poiché in esso egli non vede una relazione particolare ma tutto il mondo, e di fronte a questo egli non è la sua fame, il suo torpore, il suo bisogno d’affetto, il suo qualunque bisogno, ma egli è tutto: poiché in quell’ultimo presente deve aver tutto e dar tutto: esser persuaso e persuadere, avere nel possesso del mondo il possesso di sé stesso – esser uno egli e il mondo (La persuasione e la rettorica, cit., pp. 43-44).

Non solo «esser persuaso», dunque, ma anche «persuadere»: è questo l’approdo ultimo della ricerca teorica di Michelstaedter. Una ricerca che si apre allora all’orizzonte della pluralità e che – vale la pena di insistere su questo punto – si pone come obiettivo, tra l’altro, anche la riformulazione, in termini radicalmente nuovi, di concetti come quelli di «giustizia» ed «educazione», ai quali sono dedicate diverse pagine – rispettivamente – della prima e della seconda parte della Persuasione.

Questa dimensione comunitaria della filosofia di Michelstaedter è ormai un dato assodato in sede critica ma, in passato, è stata più volte messa in discussione. Il suo, del resto, è un pensiero assai complesso, che si presta facilmente alle interpretazioni più svariate. Appare oggettivamente difficile, però, negare l’esistenza, in esso, di tale dimensione: una dimensione che, pur in un quadro teorico generale nel quale non mancano singoli motivi che sembrano condurre nella direzione di una soluzione meramente individualistica della problematica esistenziale, è tuttavia un chiaro indice della precisa volontà, da parte di Michelstaedter, di creare i presupposti per poter immaginare – e attuare concretamente – una società improntata non allo spirito della «rettorica», ma a quello della «persuasione»; per – egli scrive – «crear sé ed il mondo» (La persuasione e la rettorica, cit., p. 45).

Opere

Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano 1983, 20102.

Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, Milano 1988.

La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Milano 1995.

Sfugge la vita. Taccuini e appunti, a cura e con saggio introduttivo di A. Michelis, trascrizione dei testi dai manoscritti e note di R. Allais, postfazione di M. Cerruti, Torino 2004.

La melodia del giovane divino. Pensieri racconti critiche, a cura di S. Campailla, Milano 2010.

Bibliografia

S. Campailla, Espressionismo e filosofia della contestazione in Michelstaedter, in Id., Scrittori giuliani, Bologna 1980, pp. 103-31.

P. Piovani, Michelstaedter: filosofia e persuasione, a cura di F. Tessitore, «Nuova antologia», 1982, 1, pp. 208-20.

M. Cacciari, Interpretazione di Michelstaedter, «Rivista di estetica», 1986, 22, pp. 21-36.

A. Asor Rosa, “La persuasione e la rettorica” di Carlo Michelstaedter, in Letteratura italiana. Le opere, 4° vol., Il Novecento, t. 1, L’età della crisi, Torino 1995, pp. 265-332.

A. Negri, Il lavoro e la città. Un saggio su Carlo Michelstaedter, Roma 1996.

Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di S. Cumpeta, A. Michelis, Udine 2002.

M. Dalla Valle, Dal niente all’impensato. Saggio su Carlo Michelstaedter, Padova 2008.

E sotto avverso ciel luce più chiara. Carlo Michelstaedter tra nichilismo, ebraismo e cristianesimo, a cura di S. Sorrentino, A. Michelis, Troina 2009.

A. Arbo, Michelstaedter Carlo Raimondo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 74° vol., Roma 2010, ad vocem.

G. Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter, Milano-Udine 2010.

Carlo Michelstaedter. Far di se stesso fiamma, a cura di S. Campailla, catalogo della mostra, Gorizia 2010-2011, Venezia 2010.

L’inquietudine e l’ideale. Studi su Michelstaedter, a cura di F. Meroi, Pisa 2010.

Si veda inoltre il sito http://www.michelstaedter.it che presenta il materiale del Fondo Michelstaedter, di proprietà del Comune di Gorizia, e offre informazioni sul personaggio.

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