SFORZA, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SFORZA, Carlo

Gerardo Nicolosi

– Nacque a Lucca il 26 gennaio 1872 da Giovanni e da Elisabetta Pierantoni, secondogenito di quattro fratelli in una famiglia benestante e molto colta. Sul padre, originario di Montignoso in Lunigiana, storico e studioso di Alessandro Manzoni, aveva avuto influenza la cultura della Toscana risorgimentale nella sua declinazione moderata; la madre apparteneva a una ricca famiglia di imprenditori della seta.

Già incline alla cultura umanistica, giovanissimo scrittore di articoli e corrispondenze in varie riviste (Antologia italiana, Illustrazione italiana), Carlo Sforza si laureò in giurisprudenza all’Università di Pisa nel 1895, dove ebbe per maestri tra gli altri Enrico Ferri, Giuseppe Toniolo, Ludovico Mortara. Nel 1896 partecipò al concorso per la carriera diplomatica collocandosi quinto nella scala di merito (Archivio storico diplomatico del ministero degli Affari esteri, ASDMAE, Personale, Serie VII, Diplomatici e consoli cessati, pos. S 10, lettera di Caetani del 29 maggio 1896).

Fu inviato al Cairo come applicato consolare, dove rimase fino al 1897. Il suo ingresso nella carriera diplomatica coincise con il riassetto dell’amministrazione del ministero degli Affari esteri seguito alla caduta di Francesco Crispi e con il ritorno di Emilio Visconti Venosta alla guida della Consulta (luglio 1896-giugno 1898). Alla luce di ciò, assume particolare rilievo la sua destinazione a Parigi come addetto di legazione dal 1897 al 1901, dove fu a contatto con un diplomatico di esperienza come Giuseppe Tornielli-Brusati, un erede della diplomazia cavouriana. Fu una tappa importante della sua carriera, sia perché fu testimone degli eccessi di nazionalismo scatenati dal caso Dreyfus «rimanendone segnato» (Zeno, 1975, p. 46), sia perché partecipe di quel ‘colpo di timone’ della politica estera italiana in direzione della Francia, che aveva in Visconti Venosta uno dei suoi promotori. Chiedendone la promozione a segretario di legazione di II classe, ruolo al quale fu nominato nell’agosto del 1901, il conte Tornielli, usualmente affatto tenero nei confronti del personale a lui sottoposto, lodava in Sforza «la qualità troppo rara oggi, di avere vasta cultura, vivace ingegno e nel tempo stesso diligenza indefessa nei quotidiani lavori» (ASDMAE, Personale, Serie VII, Diplomatici e consoli cessati, pos. S 10, lettera di Tornielli a De Martino del 13 giugno 1901). Destinato a Costantinopoli nell’ottobre del 1901, nel 1903 Sforza chiese e ottenne il trasferimento a Pechino, pensando che dopo una sede in Estremo Oriente sarebbe arrivata una prestigiosa destinazione europea. Nel 1905 fu invece inviato a Bucarest, sede a lui poco gradita ma impostagli dal sottosegretario Guido Fusinato; da lì fu presto richiamato a Roma a causa di un incidente diplomatico, cui seguirono dimissioni poi rientrate.

Nel 1906 Giacomo Malvano individuò in lui il funzionario più idoneo per seguire Visconti Venosta alla conferenza di Algeciras, esperienza oltremodo formativa per la possibilità di lavorare a stretto contatto con il decano della politica estera italiana e per l’eccezionalità della circostanza, che vedeva le maggiori potenze europee confrontarsi sui futuri equilibri del Mediterraneo, un test per vagliare «la saldezza dell’intesa franco-britannica» e, per la diplomazia germanica, «anche l’occasione per misurare il grado di lealtà che ancora l’Italia nutriva verso la Triplice Alleanza» (Di Nolfo, 2006, p. 19). Le note di «piena soddisfazione» che Venosta espresse al ministro Francesco Guicciardini riguardo a Sforza, che della conferenza fu segretario generale, attestano il valore del giovane diplomatico (ASDMAE, Personale, Serie VII, Diplomatici e consoli cessati, pos. S 10, lettera di Visconti Venosta del 6 aprile 1906), che nell’ottobre dello stesso anno fu promosso a segretario di legazione di I classe. Destinato a Madrid, entrò in contrasto con Giulio Silvestrelli, che certo non aveva gradito la scelta di Visconti Venosta e del giovane segretario per Algeciras, attrito subito notato dal ministro Tommaso Tittoni, che poco dopo lo destinò a Costantinopoli. Nella sua seconda missione al Bosforo, dove si fermò dall’inizio del 1907 al luglio del 1909, fu testimone della rivolta dei Giovani Turchi, dell’irreversibile indebolimento dell’autorità del sultano e, da quella privilegiata posizione, dell’annessione della Bosnia Erzegovina da parte del governo di Vienna (ottobre 1908), tappa significativa nel percorso che portò alla Grande Guerra. Anche in questo caso, Sforza non perse occasione per farsi notare dal capomissione Guglielmo Imperiali di Francavilla, che però criticava il suo fare «altezzoso e piuttosto suffisant» (Di Nolfo, 2006, p. 20).

Promosso consigliere di legazione di II classe, fu destinato nel 1909 a Londra e, dopo alcuni mesi in cui fu capo di gabinetto del ministro Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, nel 1910 fu inviato a Budapest con patenti di console generale. Nel marzo del 1911 sposò la contessa Valentina Errembault de Dudzeele, figlia di un diplomatico belga, che fu ottima ambasciatrice. Dopo il matrimonio, dal quale nacquero i due figli Fiammetta e Galeazzo Sforzino, fu nuovamente destinato a Pechino ma questa volta con credenziali di inviato straordinario e ministro plenipotenziario, in un Paese dilaniato dallo scontro tra la dinastia imperiale e i sostenitori della Repubblica. Rientrato in Italia a guerra già iniziata, in qualità di rappresentante italiano presso il governo serbo fu destinato a Corfù, dove giunse il 29 giugno 1916. Già vicino all’interventismo democratico, mostrò simpatia per la lotta del popolo serbo, considerandone la causa nazionale analoga a quella italiana e avvertendo subito Sidney Sonnino che «l’idea predominante fra i serbi [era] l’unità verso l’Adriatico» (Sforza a Sonnino il 24 ottobre 1916, in Sonnino, Carteggio 1916-1922, a cura di P. Pastorelli, 1975, p. 85). Qui maturò in lui l’idea dell’importanza per l’Italia di un’intesa con il nascente Stato iugoslavo, ciò che lo metteva in dissidio con il ministro degli Esteri, favorevole a un accordo con Nikola Pašić, ma non fino al punto di una «compromissione dannosa dei postulati fondamentali dell’Italia con la questione adriatica» (Sonnino, Carteggio 1916-1922, cit., lettera a Sforza del 28 dicembre 1917, p. 355).

Alla fine del 1918 Sforza fu inviato nuovamente a Costantinopoli come alto commissario per l’attuazione dell’armistizio con l’Impero ottomano, dove si confrontò con il movimento kemalista. «Unico in Italia e forse non solo in Italia» a capirne la reale natura, fu «tenace assertore dell’abbandono di quei vantaggi territoriali che ci aveva concesso il trattato di Sèvres» (Quaroni, 2018, p. 74). Le posizioni antisonniniane e transigenti sulla questione adriatica favorirono la sua nomina a sottosegretario per gli Affari esteri nel primo governo Nitti, sebbene il suo nome negli ambienti liberal-democratici circolasse già come possibile guida della Consulta. Nominato senatore del Regno per la 7ª categoria nell’agosto del 1919, fu confermato anche nel secondo gabinetto Nitti, per poi arrivare con il governo Giolitti V (giugno 1920-luglio 1921) alla carica di ministro degli Affari esteri.

Nei molti profili biografici di Sforza non ci sono cenni a un’importante riforma dell’amministrazione centrale del ministero da lui realizzata con r.d. 19 settembre 1920 n. 1468, che sostituiva il criterio funzionale di distribuzione degli affari con quello geografico, con un ampliamento delle competenze del segretario generale, carica allora rivestita da Salvatore Contarini.

Nella sua veste di ministro portò a compimento il suo disegno di ‘pace adriatica’ con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, grazie anche a una sagace azione diplomatica con i governi di Londra e Parigi, con i quali era in ottimi rapporti. Con quel trattato l’Italia rinunciava alla Dalmazia (eccetto Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa), veniva attestato il confine stabilito con il Patto di Londra e si conveniva l’indipendenza completa di Fiume.

Si trattava del punto di arrivo di una linea perseguita da Sforza sin dai ‘tempi di Corfù’, una «concezione illuminata», come ebbe a dire Mario Toscano (Bracco, 1998, p. 23), che gli costò l’accusa di ‘rinunciatarismo’ da parte degli ambienti nazionalisti. Tale sua posizione non si spiegava soltanto con i motivi ideali di una mazziniana solidarietà tra nazioni libere, ma perché era convinto che una politica di superamento dei conflitti presentasse per l’Italia dei vantaggi assai maggiori della tradizionale politica dell’equilibrio (Quaroni, 2018, p. 74).

Nel gennaio del 1922 Sforza fu destinato a Parigi con credenziali di ambasciatore, carica dalla quale si dimise con telegramma del 31 ottobre 1922, lo stesso giorno in cui si insediava il governo Mussolini, giudicando la politica estera prospettata dal duce come una «somma di sentimenti e di risentimenti» che avrebbe necessitato di «uomini che in ogni campo [avessero concordato] col pensiero del nuovo governo» (Documenti diplomatici italiani, Settima serie, 1922-1935, p. 1). In una successiva comunicazione, Sforza spiegò a Benito Mussolini di aver maturato la decisione non condividendo «alcune idee del suo discorso di Napoli» (ASDMAE, Personale, Serie VII, Diplomatici e consoli cessati, Carlo Sforza, pos. S 10, Sforza a Mussolini, 1° novembre 1922), riferendosi al raduno al teatro San Carlo del 24 ottobre dello stesso anno, quando il duce, oltre alle solite manifestazioni di disprezzo nei confronti dell’ordine liberale, aveva salutato in apertura gli amici della «sponda dalmatica tradita» (B. Mussolini, Il discorso di Napoli, in Il popolo d’Italia, n. 255).

Le dimissioni di Sforza non furono ben viste dalla diplomazia: Contarini si disse «dolorosamente sorpreso» del fatto che il gesto fosse stato reso pubblico attraverso la stampa e convinto che ora sarebbe stato più difficile «condurre il fascismo in una via di moderazione» (ASDMAE, ibid., Contarini a Sforza, 3 ottobre 1931). Il fatto suscitò molto clamore, trattandosi di un ex ministro degli Esteri, diplomatico stimatissimo dalle cancellerie europee, tanto che Mussolini in prima battuta non volle accettare le dimissioni, cambiando idea soltanto «di fronte alla ferma volontà di Sforza di non ritirarle» (De Felice, 1995, p. 480).

Da quel momento fu in opposizione al regime, attaccandolo frontalmente in Senato, dove faceva parte del gruppo liberal-democratico, poi di Unione democratica, denunciando «l’illegalismo governativo fascista» (26 giugno 1924; C. Sforza, Discorsi parlamentari, 2006, p. 152). Già membro del Consiglio direttivo dell’Unione nazionale di Giovanni Amendola, da quel momento non partecipò più ai lavori parlamentari e dopo uno stillicidio di gesti intimidatori, tra i quali l’incendio della sua villa a Forte dei Marmi, nell’ottobre del 1926 lasciò l’Italia. Dopo aver preso residenza in Belgio, fu in Francia e in Gran Bretagna per poi raggiungere gli Stati Uniti, sempre in contatto con le personalità più in vista dell’antifascismo democratico. Come in passato, coniugò l’impegno politico con un’intensa attività intellettuale, collaborando a riviste e testate giornalistiche e insegnando in varie università americane. Negli Stati Uniti fu esponente di spicco della Mazzini Society, dove aveva un ruolo preminente l’amico Alberto Tarchiani, con l’obiettivo di influenzare opinione pubblica e potere politico americani in senso antifascista e proponendosi nei confronti dell’amministrazione Roosevelt come rappresentanti dell’Italia postfascista (Varsori, 1982), un progetto di cui Sforza sarebbe stato l’elemento di punta.

Lasciata New York il 6 ottobre 1943 e dopo essersi confrontato a Londra con Winston Churchill, che stigmatizzò il suo atteggiamento ambiguo su un possibile futuro monarchico dell’Italia, il 18 ottobre 1943 fece rientro in patria, dove ebbe un ruolo importante, assieme a Benedetto Croce e a Enrico De Nicola, per la soluzione della questione istituzionale, convergendo sul compromesso della luogotenenza e della scelta popolare alla fine delle ostilità. Non ebbe una posizione organica all’interno delle forze antifasciste, ma vi collaborò a partire dall’organizzazione del Congresso di Bari del 1944 su posizioni vicine alla componente più moderata del Partito d’azione. Dopo la svolta di Salerno, di quello stesso anno, partecipò al secondo governo Badoglio come ministro senza portafoglio, carica che gli fu confermata con il primo governo Bonomi, svolgendo il compito di alto commissario per l’epurazione. Nell’autunno del 1944 fu ancora un veto inglese a impedirgli di assumere il dicastero degli Esteri nel secondo governo Bonomi, cui seguì la carica a presidente della Consulta nazionale, nominata nel luglio del 1945.

Sebbene si trattasse di un importante incarico a capo di un organo che segnava la rinascita della libera discussione politica, era il segnale di una marginalizzazione della figura di Sforza, che per vicenda personale sarebbe stato degno di ben altra posizione.

In Consulta fu molto attivo, prendendo la parola in varie occasioni, così come nell’Assemblea costituente, dove fu eletto deputato per il Partito repubblicano italiano nel collegio unico nazionale, poi rieletto per la prima legislatura nel collegio di Massa-Carrara, sebbene già senatore di diritto.

Nominato da Alcide De Gasperi ministro degli Esteri nel febbraio del 1947, Sforza ebbe la grave responsabilità della firma del trattato di pace del 10 febbraio 1947, poi materialmente apposta dal plenipotenziario Alberto Meli Lupi di Soragna, ma che volle sottoporre alla ratifica dell’Assemblea costituente. Già da lui definita come una «pace didascalica, moralistica [...] perché abbiamo subito un regime infame che la maggior parte degli Stati europei hanno applaudito» (26 settembre 1946, in C. Sforza, Discorsi parlamentari, cit., p. 174), in una nota telegrafata alle venti potenze firmatarie espose chiaramente la linea adottata dal governo, secondo cui «l’espiazione del popolo italiano» era stata tale dal sentirsi «in diritto di contare su una revisione radicale di quanto [poteva] paralizzare o avvelenare la vita di una nazione di 45 milioni di esseri umani» (24 luglio 1947, in C. Sforza, Discorsi parlamentari, cit., p. 188). Ottenuta la ratifica, che egli stesso sollecitò in Costituente con un mirabile intervento elogiativo dell’operato di De Gasperi, da quel momento Sforza si impegnò per il reinserimento dell’Italia nel quadro delle relazioni internazionali del dopoguerra, optando senza remore per una collocazione occidentale e atlantica di cui la cooperazione europea era momento fondamentale. Tale azione potette pienamente esplicarsi con il IV gabinetto De Gasperi, dal quale furono esclusi il Partito comunista italiano e il Partito socialista italiano: sostenne infatti la necessità di aderire al Piano Marshall, che considerò «il punto base per sviluppare non solo una unione economica, ma anche l’unione politica dell’Europa democratica e pacifica nel mondo libero» (15 ottobre 1948, in C. Sforza, Discorsi parlamentari, cit., p. 324). Nel momento in cui stavano nascendo le strutture di cooperazione del mondo occidentale perseguì una linea di avvicinamento alla Francia, già firmataria del Patto di Bruxelles, lanciando l’idea, recepita da Georges Bidault, di un’unione doganale italo-francese, che poi non ebbe successo ma che ebbe valenza politica, perché fu l’asse sul quale si basò l’azione diplomatica per l’ingresso nel Patto Atlantico, al quale l’Italia aderì formalmente il 4 aprile 1949. Confermato nel V e nel VI gabinetto De Gasperi, fallì invece il suo tentativo di trovare un compromesso per le colonie italiane elaborato d’intesa con Ernest Bevin (il ‘compromesso Bevin-Sforza’) nell’aprile del 1949, bocciato dall’ONU il 18 maggio successivo. Membro di onore del Movimento federalista europeo, protagonista dei primi passi del processo d’integrazione dei Paesi liberi del vecchio continente, ebbe delle riserve nei confronti del Piano Pleven (Bagnato, 2012, p. 84), premessa della Comunità europea di difesa, tra l’altro condivise in larghi settori della diplomazia. Lasciato l’incarico nel luglio del 1951, De Gasperi, che lo ebbe sempre in grande stima, lo nominò nel suo VII gabinetto ministro senza portafoglio per gli Affari europei.

Morì a Roma il 4 settembre 1952.

Opere. Le più belle pagine di Giuseppe Mazzini, Milano 1924; Per una nuova democrazia, Roma 1924 (con G. Amendola); Europe and Europeans, New York 1936; Makers of modern Europe, London 1939; The living thougts of Machiavelli, New York 1940; La guerra totalitaria e la pace democratica, Napoli 1944; L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Roma 1945; L’Italia alle soglie dell’Europa, Milano 1947; Cinque anni a palazzo Chigi: la politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma 1952; Diario, in Nuova Antologia, 1967, vol. 501, pp. 455-476; 1968, vol. 502, pp. 47-54; 1975, vol. 524.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio storico diplomatico del ministero degli Affari esteri, Personale, Serie VII, Diplomatici e consoli cessati, pos. S 10, ad nomen; Carte Carlo Sforza 1905-1927, bb. 1-12; Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, I documenti diplomatici italiani, Terza serie, 1896-1907, I, V, VI, Roma 1953-1985; Quarta serie, 1908-1914, V-VIII, Roma 2001-2004; Quinta serie, 1914-1918, II-XI, Roma 1984-1986; Sesta serie, 1918-1922, I-III, Roma 1955-2007; Settima serie, 1922-1935, I-X, XII, XV, XVI, Roma 1953-1990; Nona serie, 1939-1943, IX, Roma 1989; Decima serie, 1943-1948, I-VI, Roma 1992-1997; Undicesima serie, 1948-1953, I-III, Roma 2005-2007; S. Sonnino, Carteggio 1916-1922, a cura di P. Pastorelli, Roma-Bari 1975, pp. 11 e passim; C. Sforza, Discorsi parlamentari, Bologna 2006.

L. Zeno, Ritratto di C. S., Firenze 1975; A. Varsori, La politica inglese e il conte Sforza (1941-1943), in Rivista di studi politici internazionali, 1976, vol. 43, pp. 31-57; Id., Gli Alleati e l’emigrazione democratica antifascista (1940-1943), Firenze 1982, p. 1 e passim; G. Giordano, C. S.: la diplomazia 1896-1921, Milano 1987; A. Brogi, Il Trattato di Rapallo del 1920 e la politica danubiano-balcanica di C. S., in Storia delle relazioni internazionali, 1989, n. 1, pp. 4-46; G. Giordano, C. S.: la politica 1922-1952, Milano 1992; R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere, Torino 1995, p. 146 e passim; B. Bracco, C. S. e la questione adriatica, Milano 1998; E. Di Nolfo, C. S., diplomatico e oratore, in C. Sforza, Discorsi parlamentari, cit., pp. 13-81; B. Bagnato, Passione e realismo di un diplomatico, in La politica estera dei toscani, Firenze 2012; A. Varsori, S. C., in Dizionario del liberalismo italiano, II, Le biografie, Soveria Mannelli 2015, pp. 1025-1027; P. Quaroni, La politica estera italiana dal 1914 al 1945, a cura di L. Monzali, Roma 2018.

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