ZENO, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

ZENO, Carlo.

Martino Mazzon

– Nacque a Venezia tra il 1334 e il 1337 da Pietro (il Dragon, perché aveva come emblema un drago), discendente di Marco (detto Cumano, fratello del doge Ranieri, v. la voce in questo Dizionario) e da Agnese Dandolo. Ebbe vari fratelli, fra cui Nicolò, Antonio (conosciuti entrambi per i viaggi che li avrebbero portati a toccare le coste di Groenlandia e Nordamerica), Lorenzo e Marino; sono note anche due sorelle: Marchesina (monaca nel monastero della Celestia, fondato dall’antenato doge) e Cattaruzza. Carlo apparteneva al ramo dei Ss. Apostoli (o dei Crociferi), ma venne qualificato da S. Giovanni Crisostomo (1370), da S. Sofia (1374) e poi da S. Moisè (parrocchia della famiglia della moglie Cristina); non figura nell’estimo del 1379, ma è possibile che il Marino Zeno intestatario di una partita a S. Basso (4000 ducati) costituisse con lui una fraterna.

Non è noto a quale linea dei Dandolo (la famiglia che diede più dogi fra Duecento e Trecento) appartenesse Agnese; qualora, come potrebbe suggerire l’onomastica, vi fosse un legame con il doge Andrea, si potrebbe ipotizzare un’influenza del suo ambiente (e dei legami con Francesco Petrarca e i colti cancellieri ducali) nella formazione culturale di Carlo, che sfociò in vecchiaia nell’adesione al nascente umanesimo patrizio.

Pietro, il padre di Carlo, fu fra l’altro bailo di Negroponte, duca di Creta, podestà veneto di Conegliano e podestà forestiero di Padova; mostrò le sue capacità militari sia per terra sia per mare e nel 1334 era capitano generale dell’unione dei principi europei contro i turchi; probabilmente per questo ottenne di far tener il figlio a battesimo, sia pure per procura, dal futuro Carlo IV, fino al 1333 presente in Italia al fianco del padre Giovanni di Boemia.

Pietro Zeno fu trucidato dai turchi a Smirne il 17 gennaio 1345, secondo la tradizione durante una messa celebrata dal patriarca latino di Costantinopoli Enrico d’Asti, poi beatificato per il martirio subito; gli orfani furono presi in cura dallo zio Andrea e il Senato deliberò (aprile 1345) di fornire loro lettere di raccomandazione per recarsi dal papa ad Avignone a impetrare qualche riconoscimento per i figli di un «chonbateador e chavalier de Christo» (Il codice Morosini, a cura di A. Nanetti, I, 2010, p. 155). Considerate le doti intellettuali di Carlo, si pensava già di destinarlo agli studi e alla carriera ecclesiastica, e non a caso gli si fece recitare un’orazione latina sulla morte del padre.

Queste abilità furono una costante di tutta la sua vita: ancora negli anni Novanta, da ambasciatore della Signoria, fu in grado di recitare di fronte al re di Francia un’orazione bilingue in latino e nella lingue d’Oltralpe.

Il papa lo premiò con un beneficio canonicale a Patrasso; successivamente (giugno 1348), egli fu eletto fra i cappellani della chiesa ducale di S. Marco. Da chierico frequentò l’Università di Padova, e – secondo la Vita redatta dal nipote Iacopo (per la quale cfr. infra) – rischiò la morte per le ferite subite da un mendicante da lui beneficato, che lo rapinò; in seguito, datosi al gioco e ai divertimenti, perse ogni suo avere e intraprese un’avventurosa vita da soldato.

Ritornato a Venezia, conobbe Pietro di Lusignano, re di Cipro, e lo accompagnò nel suo giro delle corti europee, compresa quella imperiale, alla ricerca di sostegno per una crociata (1362-64); terminato il tour (1365), passò al servizio dell’arcivescovo latino di Patrasso Angelo Acciaiuoli, suo superiore ecclesiastico. Aspirava certamente anch’egli a un vescovato, e chiese al Senato raccomandazioni per quelli di Modone (1363) e Corone (1365) nel Peloponneso, ma fu sempre deciso di segnalare al papa altri candidati. Fu invece messo a capo delle milizie dell’arcivescovo e, nel 1366, diresse la difesa di Patrasso, assediata da Maria di Borbone e dal figlio Ugo di Lusignano, pretendenti al principato di Acaia, respingendo gli avversari fino a Navarino.

In seguito, perduto il canonicato per aver accettato la sfida a duello di un cavaliere pugliese (poi caduto suo prigioniero, e da lui magnanimamente liberato), abbandonò lo stato di chierico e sposò una nobildonna franco-greca di Chiarenza in Acaia, di nome Margherita, ma rimase vedovo poco dopo e fu privato della dote della moglie dai parenti di lei.

Rientrato a Venezia, si dedicò per sette anni alla mercatura in Oriente; nel suo testamento (marzo 1371, scritto mentre si accingeva a partire per la Tana) egli nomina due suoi ‘compagni’ (cioè soci): Lorenzo Gradenigo e Marco Ziliol. In questi anni si situa anche l’attività (dietro pagamento) di Zeno contro la pirateria per conto della Repubblica.

Dal testamento si apprende anche che Carlo si era risposato con Cristina Giustinian e aveva un figlio (e dal testamento della moglie, dell’aprile 1372, sappiamo di una nuova gravidanza). Cristina era figlia di Pietro, procuratore di San Marco, e zia dell’umanista Leonardo (cui fu commissionato nel 1418 l’Elogio funebre per Carlo) e di Lorenzo, patriarca di Venezia, poi canonizzato.

A quarant’anni, dunque, Zeno poteva vantare un’esperienza di vita già molto ricca e varia. Il suo ingresso nella grande politica veneziana avvenne in occasione dell’acquisizione, da parte veneziana, dell’importante piazzaforte di Tenedos (Tenedo), non lontano dal Bosforo.

Secondo la narrazione del nipote, Carlo avrebbe assicurato alla Signoria il possesso della fortezza convincendo il capitano a consegnarla sulla base di una presunta donazione dell’imperatore Giovanni V Paleologo, nonostante il figlio ribelle di questi, Andronico, l’avesse destinata ai propri alleati genovesi. Tale ricostruzione, già messa in dubbio da Samuele Romanin, si scontra con le altre fonti disponibili: il cronista Chinazzo assegna il merito dell’acquisizione a Donato Tron, e i documenti provano che Zeno arrivò sull’isola (da Venezia) solo nel 1377.

La controversia per Tenedo portò allo scoppio della guerra di Chioggia; l’importanza del sito è testimoniata dal pool di patrizi di primissimo piano che furono coinvolti nella presa di possesso, sotto il comando del capitano generale da Mar Marco Giustinian, zio di Cristina Zeno: Antonio Venier (poi doge), Pietro Mocenigo e Vittore Pisani oltre ai sopracomiti (comandanti) di galee Carlo Zeno e Michele Steno (un altro futuro doge).

Quando, nel 1377, la fortezza fu assediata dai genovesi e dalle forze di Andronico, il sopracomito Zeno era stato incaricato della sua difesa (con trecento uomini); tramite una sortita e l’uso delle bombarde, sbaragliò gli avversari e li ricacciò sulle loro galee, riportando peraltro gravi ferite.

Allo scoppio della guerra di Chioggia era stato da poco eletto bailo di Negroponte, ma gli fu ordinato di andare come provveditore a Conegliano (ove il padre era stato podestà) per difendere il Trevigiano dagli ungheresi, e riuscì a sottrarre loro (o a far distruggere) diversi castelli.

All’inizio del 1379 fu nominato (ancora assieme a Steno) provveditore agli ordini del capitano generale da Mar Vittore Pisani, con il permesso di ritardare ancora l’assunzione della carica a Negroponte; fu invece messo al comando di una squadra di galee e inviato dapprima in Levante, da dove passò rapidamente nel Mar Ligure, ove mise a ferro e a fuoco diverse località costiere, fra cui La Spezia, per poi tornare nel Mediterraneo orientale, dove compì imprese anche più spettacolari, fra cui (Rodi, ottobre 1379) la cattura – molto importante dal punto di vista simbolico – della Bichignona, una grande nave rotonda genovese su cui viaggiavano molti esponenti dell’élite cittadina.

Le gesta di questi mesi posero le basi del suo mito, a cui contribuì anche un certo qual stile ‘cavalleresco’ che gli era proprio: se infatti non sempre disdegnò razzie ai danni di terzi, ‘magnanimamente’ cercò di salvar loro almeno la vita, e spesso rilasciò i prigionieri neutrali con i loro beni. Di sicuro egli dovette spendersi senza risparmio, se è vero l’interminabile elenco, trasmesso dalla Vita, di ferite in ogni parte del corpo (diverse delle quali gravissime, o addirittura considerate mortali), che gli lasciarono ben trentacinque cicatrici.

Dopo l’occupazione genovese di Chioggia, Zeno tornò a Venezia (gennaio 1380) per cooperare alla difesa della laguna; il ritorno dell’ammiraglio, la cui fama era già leggendaria, fu atteso dalla città, che si trovava in uno stato di profonda prostrazione, come la venuta di un salvatore. Carlo ebbe un ruolo determinante nella riscossa veneziana, sia per mare (nel porto di Brondolo), sia per terra. Gestì con particolare abilità – in veste di capitaneus exercitus – il rapporto con le milizie al soldo della Repubblica, sovvenzionando di tasca propria i feriti e stipulando convenzioni per motivare le truppe.

Dopo la resa dei genovesi (21 giugno), Zeno rimase inizialmente come capitano a Chioggia, ma, dopo la morte di Vittore Pisani, divenne capitano generale dell’armata da Mar (28 agosto) e ricevette lo stendardo nella chiesa di S. Marco con grande contentezza del popolo perché «al prexente in Veniexia non era homo de più ardir et valor de lui, al parer de tuti comunamente» (D. di Chinazzo, Cronica..., a cura di V. Lazzarini, 1958, p. 148). Nel 1380 e nel 1381 (quando ebbe come suo provveditore il futuro doge Michele Steno) la sua squadra si coprì di gloria nell’Adriatico e nel Mediterraneo, ma nella prima di queste campagne non si riuscì a prendere la fortezza patriarchina di Marano nelle lagune friulane; in quegli anni fu sempre eletto nella zonta (Additio) del Senato, e nel 1380 (5 novembre) anche nel Consiglio dei cento savi di guerra, cui fu affidata nel biennio 1380-81 la conduzione del conflitto.

Dopo aver partecipato da protagonista agli eventi bellici, ebbe un ruolo rilevante anche nel periodo successivo agli accordi di Torino (25 agosto), che posero fine alla guerra di Chioggia grazie alla mediazione del Conte Verde Amedeo VI di Savoia.

In base agli accordi Tenedo avrebbe dovuto essere smantellata e abbandonata, ma il bailo e capitano veneziano Giovan Antonio (Zanachi) Muazzo, appoggiato dalla popolazione locale, si rifiutò di consegnare la fortezza.

Carlo fu dapprima eletto (marzo 1382) fra i sostituti degli ambasciatori cooptati fra i Savi, ‘decimati’ per la partenza dei colleghi inviati alla corte di Amedeo; fu quindi inviato nell’isola per convincere Zanachi e i suoi a cedere, e – pratico com’era della lingua greca – parlò davanti a tutta la popolazione, ma invano; fece allora mettere per iscritto il diniego e pose una cospicua taglia su Muazzo quale ribelle. Ritornato a Venezia, fu eletto (9 luglio), capitano generale contra Tenedom, con l’incarico di prendere l’isola con la forza, ma fu dispensato pro deffectu persone, forse per i postumi di qualcuna delle gravi ferite riportate in precedenza.

Nel frattempo (giugno 1382), dopo la morte del doge Andrea Contarini, gli «invidiosi» (così li definisce la Vita) avversari avevano impedito la sua elezione al dogado.

Sarebbe stato Zaccaria Contarini a dissuadere gli elettori dalla scelta di Zeno, agitando lo spauracchio del danno che Venezia avrebbe subito perdendo i servigi del suo più capace comandante militare, qualora fosse stato elevato al dogado.

Nonostante il ‘famoso cavaliere’ Zeno fosse il favorito del popolo, fu eletto Michele Morosini, che aveva triplicato il suo patrimonio con la speculazione durante il recente conflitto. Morto anche costui dopo pochi mesi, Carlo svolse per la prima volta un ruolo ‘all’interno’ del procedimento di elezione, partecipando anche al Collegio dei ‘quarantuno’ che innalzò al dogado Antonio Venier.

Nel triennio successivo ebbe un ruolo centrale nel governo veneziano, avendo come sue ‘basi’ istituzionali la zonta (1383 e 1384) e il gruppo (mano) dei Savi del Consiglio, da poco istituito stabilmente per occuparsi dell’istruzione delle questioni di competenza del Senato (1382, 1383 e 1384); l’attività all’interno delle magistrature cittadine fu a più riprese interrotta o seguita da missioni diplomatiche: a Genova (12 maggio 1383 e 20 dicembre 1384) e in Ungheria (27 aprile 1385); fu, infine, incaricato di compiti ‘straordinari’ per la costruzione di fortificazioni (a Mestre, 7 marzo 1384, e a Chioggia, 19 luglio 1384) e per l’esame della situazione friulana (1° agosto 1384).

Nel secondo semestre del 1385 fu nominato podestà di Milano (praetor urbanus nel linguaggio umanistico di Leonardo Giustinian) dal conte di Virtù Gian Ga­leazzo Visconti, che aveva appena posto fine con un colpo di mano alla coabitazione con lo zio Bernabò. Il Maggior Consiglio aveva preliminarmente dichiarato (28 maggio) che Milano non ‘era in golfo’ cioè era al di fuori dell’area adriatica, ove era in principio proibito ai veneziani di accettare rettorati in città non soggetti alla Signoria; per assumere l’incarico, Zeno interruppe la missione in Ungheria affidatagli appena un mese prima.

Concluso il mandato podestarile (dicembre 1385), lo stesso Maggior Consiglio autorizzò Gian Galeazzo a trattenere il civis noster Carlo Zeno apud suam magnitudinem (19 giugno 1386). Nel 1387 il patrizio fu incaricato dalla Signoria di tentare di convincere Gian Galeazzo a staccarsi da Francesco Novello da Carrara e ad allearsi con Venezia, ma non riuscì nell’intento.

Nel periodo trascorso a Milano in veste di consiliator, Zeno svolse anche incarichi (qualificati nell’Elogio di Leonardo Giustinian come legatus et praetor, ma la cui esatta natura resta allo stato non del tutto definita) nei domini piemontesi del conte, del quale divenne poi (settembre 1391) vicarius generalis. In tale veste, fu inviato in varie città per portare la pace fra le fazioni guelfa e ghibellina; in particolare è ben testimoniata l’importanza della sua attività a Bergamo (febbraio-settembre 1393).

Degna di nota è anche la pacificazione della Val Camonica, resa insicura dalle rapine e violenze dei valligiani, ammansiti da Zeno comitate et consilio (L. Giustinian, Orazione funebre di Carlo Zeno, 1795, col. 378) con la consueta magnanimità cavalleresca.

Carlo rientrò a Venezia (1394 circa) ormai vedovo e sessantenne, ma negli anni successivi ebbe ancora una caleidoscopica serie di esperienze. Il 10 dicembre 1394 fu tra i candidati sottoposti a scrutinio in Senato per essere proposti al papa per il patriarcato di Aquileia.

Zeno si classificò secondo, dopo il patriarca latino di Costantinopoli Angelo Correr (il futuro Gregorio XII) e prima di tutti gli altri vescovi, ma l’elezione del metropolita friulano prese poi vie diverse da quelle desiderate dalla Signoria.

Negli anni successivi, Zeno alternò periodi trascorsi nelle magistrature cittadi­ne e missioni in qualità di ambasciatore o comandante militare; l’unica eccezione furono gli anni 1396-97, trascorsi integralmente a Negroponte come bailo.

Carlo fu altre cinque volte savio del Consiglio (1395, 1398, 1401-02 e 1405); durante tali mandati o al termine di essi fu, come di consueto, scelto per missioni alle corti italiane ed europee (nel 1398 in Francia, nel 1401 presso il re romano-germanico Roberto (allora impegnato nella sua sfortunata spedizione in Italia) e nel 1402, in aprile, a Ferrara – ma fu esonerato per motivi di salute – poi, in giugno, nella Padova dei Carraresi).

L’esperienza diplomatica più rilevante, comunque, fu l’attività (marzo-aprile 1398) della lega antiviscontea (con Firenze, Bologna e i signori di Ferrara, Mantova e Padova). Sebbene essa fosse diretta contro il suo antico signore, partecipò alla stipula del trattato e all’ingaggio di condottieri di genti d’arme (Conte da Carrara, Konrad von Braunsberg e Antonio degli Obizzi).

Nel 1399-1400, operò come avogador di Comun, un incarico impegnativo e fondamentale per il funzionamento del sistema repubblicano; giocò poi un ruolo importante nell’elezione dogale di Michele Steno, in passato tante volte suo collega, come correttore della Promissione e membro di tre collegi elettorali, compreso quello decisivo dei Quarantuno. A conclusione del ‘conclave’, sostituì Steno come procuratore di S. Marco de supra (14 dicembre 1400).

I procuratori de supra avevano giurisdizione sulla cappella dogale e per questo fu Zeno, assieme al collega Pietro Corner, a consegnare alla Signoria le gemme del tesoro per confezionare una nuova zoia per Steno (9 febbraio 1401).

Dalla seconda moglie Cristina aveva avuto tre figli: Pietro, morto nel 1439 durante la guerra veneto-viscontea come generale della squadriglia navale del lago di Garda; Bichignone, nato all’epoca della cattura dell’omonima nave (1379) e morto durante il periodo ‘milanese’ del padre; e Iacopo, marito di Elisabetta Gussoni (da cui ebbe quattro figli, fra cui l’autore della Vita), morto nel 1410 durante un pellegrinaggio a S. Michele sul Gargano e sepolto a Trani.

Nel 1401-02 Carlo sposò in terze nozze Maria («genere claram aetateque sibi non disparem», Ioannis Baptistae Egnatii De exemplis..., 1554, p. 141), figlia di Giovanni de Spelladi e vedova di Colmano Vergerio (nobile di Capodistria e parente dell’umanista Pietro Paolo, che indirizzò a Zeno una lettera di congratulazioni) e madre di Domenico e Giovanni. Sono sopravvissute commoventi lettere autografe che, in occasione di una malattia del figliastro più giovane, Carlo scrisse a lui e al celebre medico Pietro Tomasi, già imbarcato sulla sua nave nella spedizione del 1403.

Gli anni 1403-05 furono dedicati in prevalenza a incarichi militari. Fu dapprima (dal 23 gennaio 1403) inviato nel Mediterraneo con una squadra di quindici galee in veste di capitano generale da Mar. Lo scopo era porre un freno alla pirateria genovese, ma Zeno ebbe l’ordine di evitare lo scontro nonostante le pressanti richieste del re di Cipro, Giano di Lusignano; al conflitto aperto si arrivò solo dopo il sacco di Beirut da parte dei franco-genovesi del maresciallo Boucicaut (Jean le Meingre).

Zeno ottenne la vittoria navale più splendida della sua carriera – e la consacrazione del proprio mito personale – il 7 ottobre 1403, al largo dell’isola della Sapienza (nei pressi di Modone), contro avversari numericamente superiori (tredici navi contro diciotto). Oltre mille fra francesi e genovesi perirono o furono fatti prigionieri; Zeno stesso descrisse la battaglia in una lettera alla Signoria. Dopo essere tornato a Venezia in novembre, denunciò l’insubordinazione di alcuni dei suoi sopracomiti che furono condannati a pesanti pene; partecipò poi alla stipula del trattato di pace (22 marzo 1404), che prevedeva l’impegno reciproco delle due repubbliche alla restituzione dei prigionieri e alla rifusione dei danni.

Gli eventi del biennio 1404-05 nello scacchiere di Terraferma confermarono i limiti di Zeno come diplomatico (nel febbraio 1405 fallì infatti anche la sua mediazione per una pace tra Francesco Novello da Carrara e Caterina Visconti, vedova di Gian Galeazzo), ma al tempo stesso le sue ormai leggendarie capacità militari. Nominato provveditore in Campo, assieme al capitano Paolo Savelli, espugnò la bastia del Bassanello presso Padova, difesa dalle milizie carraresi.

Il contraddittorio carattere di Zeno, diretto e franco eppure tutt’altro che alieno da sotterfugi ‘machiavellici’, è testimoniato dalla sottrazione di una lettera diretta all’ingegnere militare Domenico da Firenze, perché questi non lasciasse il campo di battaglia per raggiungere la moglie malata. Poco dopo, durante un colloquio, stanco delle tergiversazioni del Carrarese sulla proposta di pace della Signoria, arrivò a intimargli bruscamente di decidersi all’istante, minacciandolo «per la fede di buon cavaliere, d’eservi il magiore nemico ch’abiate al mondo» (G. Gatari - B. Gatari, Cronaca carrarese..., a cura di A. Medin - G. Tolomei, 1909-1931, p. 564), e finendo per ottenere un rifiuto.

La guerra continuò fino alla resa di Padova (22 novembre 1405), cui Carlo presenziò, e alla dedizione della città alla Signoria; nello stesso anno il procuratore Zeno fu eletto ripetutamente nella zonta dei Dieci e, in particolare, fu uno dei cinque savi incaricati di istruire il processo contro i Carraresi.

Nelle settimane successive, tuttavia, il ritrovamento negli archivi padovani di documenti attestanti i rapporti fra Zeno e Francesco Novello, e in particolare il pagamento di 400 scudi ricevuti da questo nemico giurato della Repubblica (inutilmente giustificati come la restituzione di un prestito), portarono all’istruzione di un processo di fronte al Consiglio dei dieci, il supremo tribunale repubblicano, alla condanna a due anni di carcere e alla destituzione dalla procuratoria (ove per ironia della sorte fu sostituito il 26 gennaio 1406 da Tommaso Mocenigo, che di quella carica fece il ‘trampolino di lancio’ per il dogado, come ricordò Leonardo Giustinian nell’Elogio).

Dopo la repentina fine della sua carriera politica, Zeno non rimase inattivo: liberato dalla prigione, intraprese un pellegrinaggio a Gerusalemme (1407 circa), subì ulteriori sventure (un naufragio gli fece perdere la biblioteca da cui, da buon protoumanista, non aveva saputo separarsi nemmeno durante il viaggio), ma seppe entrare ancora una volta nelle grazie di personaggi eminenti. Secondo la Vita, un membro della casa reale di Scozia lo avrebbe creato cavaliere, mentre re Giano di Cipro gli assegnò compiti di governo e, memore della vittoria di Modone, lo fece capitano generale contro i genovesi, dandogli modo di dimostrare ancora la propria ‘creatività’ tattica.

Rientrato definitivamente a Venezia (1410 circa), Zeno (ormai ultrasettantacinquenne) entrò significativamente in contatto – quale ‘membro anziano’ del gruppo – con gli esponenti della prima generazione del­l’umanesimo patrizio veneziano, e protesse molti dotti, fra i quali Manuele Crisolora, Gasparino Barzizza, Pietro Paolo Vergerio il Vecchio e Guarino da Verona.

Pare che l’avvicinamento al nuovo clima culturale si basasse soprattutto sull’interesse per i classici greci in cui confluivano da un lato le esperienze culturali ‘alte’ della gioventù e dall’altro la conoscenza pratica del greco acquisita durante i lunghi soggiorni nel Mediterraneo orientale in veste di militare, mercante e politico.

Dopo il forzato abbandono delle ambizioni terrene emerse anche la dimensione religiosa e devota di Zeno: ottenne dal papa il permesso di far celebrare la messa nel proprio palazzo e si legò con gli agostiniani del convento di S. Stefano, situato poco distante, ove viveva il dotto fra Gabriele Garofoli da Spoleto, da lui protetto.

Morì a Venezia il 6 maggio 1418. La Signoria decretò per lui funerali solenni, tenuti l’8 maggio, durante i quali Leonardo Giustinian, nipote di Carlo, recitò l’elogio funebre; il corpo di Zeno fu tumulato con grandi onori, «como chavalier» nella chiesa del monastero della Celestia, davanti all’altare della Madonna «in la qual [...] aveva molta devucion» (Il codice Morosini, a cura di A. Nanetti, 2010, II, p. 785), nonostante in un testamento del 1374 egli avesse indicato come propria sepoltura l’arca degli Zeno ai Ss. Giovanni e Paolo.

La principale fonte per la biografia di Carlo è la Vita, scritta dal nipote Iacopo Zeno (v. in questo Dizionario), vescovo di Feltre e Belluno e poi di Padova.

Il suo contenuto deve essere vagliato criticamente, data una certa qual propensione dell’autore a mitizzare il celebre nonno, amplificandone le imprese pur partendo da una base reale; le altre fonti coeve confermano comunque la sostanza della narrazione.

La Vita fissò definitivamente la figura di Carlo Zeno con i caratteri tipici degli ‘eroi nazionali’: i contrasti con il resto dell’establishment, l’alternarsi di ascese e cadute fino al tradimento e alla catastrofe finali con valore purificatorio e catartico. La sua vicenda biografica a cavallo fra Medioevo e Umanesimo ne evidenzia da un lato le virtù di cavaliere coraggioso, protagonista di un ‘romanzo cortese’ e dall’altro il multiforme talento da ‘uomo universale’: astuto consigliere di principi, navigatore capace di rapidi balzi da un angolo all’altro del Mediterraneo, razionale calcolatore in grado di utilizzare le milizie mercenarie come una macchina ben oliata, artigliere esperto nell’uso delle bombarde. Nonostante si fosse dedicato anche al commercio, la sua figura – sul piano dei talenti personali la più eminente della ‘generazione di Chioggia’ – appare, paradossalmente, poco ‘veneziana’, per molti versi priva di praticità ‘commerciale’.

Una personalità della sua levatura era provvidenziale in situazioni emergenziali, ma risultava sovradimensionata per l’ordinaria amministrazione dello Stato, che gli andava stretta. Forse fu proprio questa la ragione delle sue periodiche espulsioni/ autoespulsioni dalla città: le sue ‘virtù’ fuori del comune erano sostanzialmente incompatibili con le dinamiche di funzionamento del sistema repubblicano.

La fama di Zeno non venne meno nel tempo; nonostante le controverse vicende personali fu considerato un simbolo per antonomasia della grandezza militare della Repubblica, tanto che, nell’Ottocento, John Ruskin ebbe a scrivere: «io faccio cominciare il periodo di decadimento di Venezia dal giorno della morte di Carlo Zeno» (Le pietre di Venezia, Torino 1972, p. 5).

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, reg. 3645, pp. 1[b]-6[b]; Cancelleria inferiore, b. 6 (n. 5); Collegio, Secreti, reg. 1363-1366, c. 63(47)v; Commemoriali, IV, c. 116(117)r; VIII, cc. 33r-34r, 82v-83r; IX, cc. 43(40)v-45(42)v, 52(49)r, 54(51)r-57(54)v, 64(61)v-65(62)r, 100(97)r, 110(107)r, 168(165)r-172(169)r; X, cc. 31(26)r-32(27)r,183(178)r-184(179)v; Consiglio di Dieci, Misti, reg. 8, cc. 106(105)v, 108(107)r; Maggior Consiglio, reg. 19 (Novella), cc. 174(163)v-175(164)r, 195(184)r-196(185)r; 21 (Leona), cc. 8(4)v, 14(10)v, 111(107)r-116(112)r; Misc. codd., I, Storia veneta, 23: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, VII, pp. 337-381, 454; Notarile,Testamenti chiusi, Miscellanea alfabetica, b. 590 (testamenti segnalati da G. Zonta nell’apparato della Vita Caroli Zeni, cfr. infra); Procuratori di San Marco, Misti, b. 129, f. 4; Procuratori di San Marco de Citra, b. 120; Segretario alle Voci, Misti, reg. 3, cc. 36v, 39r; Senato, Misti, regg. 22, c. 84r; 30, c. 131r; 31, c. 57(55)r; 36, cc. 8(7)rv, 57(56)r, 104(103)r-105(104)r; 37, cc. 6v, 56r, 59r, 90r, 114r; 38, cc. 29(28)r, 79(78)v-80(79)r, 106(105)v, 149(148)r, 153(152)r; 39, cc. 11(8)rv, 32(29)r ss., 56(52)v-57(53)r,76(72)v, 84(80)v, 143(139)v; 43, cc. 77(78)r, 98(99)r; 44, cc. 33v, 36v, 37r; 45, c. 68(67)r; 46, c. 62(61)v; Senato, Secreta, regg. 1, cc. 7(6)r ss., 33(32)v-49(48)r, 55(54)r ss., 95(94)r ss., 103(102)r, 138(137)r ss.; 2, cc. 22r-23r, 33r, 45v, 63r-74v, 121r, 129r; Senato, Secreti alfabetici, reg. E, cc. 95v-107r (in part. c. 100rv); Treviso, Biblioteca comunale, ms. 777: Genealogie Barbaro, cc. 476v-480v; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. it., cl. VII, 18 (=8307): Campidoglio veneto, IV, cc. 215v-227v (in partic. cc. 216v-217v, 223v). Ioannis Baptistae Egnatii De exemplis illustrium virorum Venetae civitatis, Venetiis 1554, p. 141; Gasparini Barzizii Bergomatis et Guiniforti filii Opera, I, Romae 1723, pp. 154 s.; L. Giustinian, Orazione funebre di Carlo Zeno, in Orazioni, elogi et vite scritte da letterati veneti patrizi, Venezia 1795, pp. 1-11; P.P. Vergerio, Epistole, Venezia 1887, pp. 96, 175-177; Raphayni de Caresinis, Chronica, aa. 1343-1388, a cura di E. Pastorello, in RIS, XII, 2, Bologna 1923, passim; G. Gatari - B. Gatari, Cronaca carrarese confrontata con la redazione di Andrea Gatari, aa. 1318-1407, a cura di A. Medin - G. Tolomei, ibid., XVII, 1, 1, Città di Castello-Bologna 1909-1931, pp. 212, 279, 286, 509, 559, 562-564, 577; Chronicon Bergomense guelpho-ghibellinum ab anno 1378 usque ad annum 1407, a cura di C. Capasso, ibid., XVI, 2, Bologna 1926-1940, pp. 37, 49, 52; Andreae Danduli Chronica per extensum descripta, aa. 46-1280 d.C. (contiene anche: Excerpta ex chronico Iohannis Bembi), a cura di E. Pastorello, ibid., XII, 1, Bologna 1938-1958, pp. 400 s.; I. Zeno, Vita Caroli Zeni, a cura di G. Zonta, ibid., XIX, 6, Bologna 1940-1941; D. di Chinazzo, Cronica de la guerra da veniciani a zenovesi, a cura di V. Lazzarini, Venezia 1958, passim; Il codice Morosini, a cura di A. Nanetti, Spoleto 2010, I, pp. 55 s., 60, 124, 136-140, 148 s., 155-160, 205-319. II, pp. 785 s.; G. Caroldo, Istorii Venetiene (Istoria veneziana), V, a cura di S.V. Marin, Bucarest 2012, passim.

F. Manfredi, Degnità procuratoria di San Marco di Venetia, Venezia 1602. pp. 55 s.; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, p. 197; V. Lazzarini, Due documenti della guerra di Chioggia, in Nuovo archivio veneto, VI (1896), pp. 137-147; E. Verga, Le sentenze criminali dei podestà milanesi, 1385-1429, Milano 1901, p. 44; E. Gerland, Neue Quellen zur Geschichte des lateinischen Erzbistums Patras, Leipzig 1903, pp. 39 s; M.L. King, Venetian humanism in an age of patrician dominance, Princeton 1986, p. 270; A. Segarizzi, La corrispondenza familiare d’un medico erudito del Quattrocento (Pietro Tomasi), in Arnaldo Segarizzi, storico, filologo, bibliotecario. Una raccolta di saggi, a cura di G. Petrella, Trento 2004, pp. 217-246; L’estimo veneziano del 1379, ad ind., http://www.estimoveneziano1379.it/ (19 settembre 2020).

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