SENISE, Carmine

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SENISE, Carmine

Mauro Canali

– Nacque a Napoli il 28 novembre 1883, figlio di Tommaso e di Marianna Giorgi Marrano. Il padre, garibaldino, fu professore all’Università di Napoli, deputato e senatore, mentre uno zio, di cui portava il nome, fu prefetto e senatore del Regno.

Laureato in giurisprudenza, nel 1908 entrò per concorso nell’amministrazione del ministero dell’Interno. Nel 1911 venne nominato segretario e poi, con i governi Nitti e Bonomi, capo dell’ufficio stampa del ministero dell’Interno. Dopo la marcia su Roma, venne trasferito alla direzione generale delle Carceri e, con il successivo passaggio di questa direzione generale al ministero di Giustizia, venne trasferito alla direzione generale della Sanità, per intervento diretto del capo della polizia, Arturo Bocchini, di cui era molto amico ed era stato collega all’ufficio stampa del ministero dell’Interno durante la prima guerra mondiale. Nell’agosto del 1930 venne chiamato a dirigere la divisione Affari generali e riservati della direzione generale di Pubblica Sicurezza. Nel 1932, promosso prefetto, fu nominato vicecapo della polizia. Con la morte di Bocchini, il 23 novembre 1940 venne chiamato a ricoprire la carica di capo della polizia. Sembra che a caldeggiarne la nomina fosse il sottosegretario all’Interno, Guido Buffarini Guidi, che riteneva di poter avere in lui un docile strumento e quindi di poter finalmente controllare la polizia politica, ciò che gli era stato impossibile ottenere con l’autorevole Bocchini. Ma anche Senise si mostrò geloso delle proprie prerogative e continuò, come il suo predecessore, a riferire direttamente a Benito Mussolini.

Come Bocchini, anch’egli fu contrario all’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania, perché convinto dell’impreparazione del Paese ad affrontare una tale drammatica prova. Perciò, quando si cominciarono a delineare le prime difficoltà nell’andamento del conflitto, in particolare dopo le sconfitte in Nord Africa, iniziò ad avvicinarsi progressivamente a casa Savoia e prese a organizzare la polizia, come egli stesso scrisse, in modo tale che potesse rappresentare un ostacolo per il regime fascista, «quando il sovrano avesse ritenuto giunta l’ora di liberare il Paese dal regime che lo stava conducendo alla rovina» (C. Senise, Quando ero capo della polizia, 1946, p. 54). La sua evidente consonanza con il re e la contemporanea freddezza nei confronti del regime nazista contribuirono a mantenere sempre vivo il sospetto delle gerarchie hitleriane nei suoi confronti. Guido Leto ricorda che a Klessheim, durante l’incontro di Adolf Hitler con Mussolini, a cui aveva partecipato per organizzare il servizio di sicurezza, venne avvicinato da Ernst Kaltenbrunner, il successore di Heinrich Himmler, che lo sottopose a una serie incalzante di domande su Senise, prudenti e garbate nella forma, ma chiarissime negli intenti. Leto comprese che le domande, sebbene fossero poste «con cautela ed in forma vaga», ruotavano attorno al punto relativo «ai sentimenti politici del capo della polizia italiana ed alla sua fedeltà al regime e, più ancora, al notorio e dichiarato attaccamento che professava verso casa Savoia». Insomma, i vertici nazisti mostravano di non fidarsi di Senise e certamente non avevano apprezzato «che la successione di Bocchini fosse finita nelle mani di Senise» (Leto, 1951, pp. 16 s.). Al rientro dall’incontro di Klessheim, Mussolini dimissionava Senise da capo della polizia sostituendolo con il fedelissimo Renzo Chierici. Senise riferì che nell’ultimo colloquio con Mussolini, questi aveva elencato, tra i motivi che lo avrebbero indotto a dimissionarlo, la mancata repressione del ‘mercato nero’ e l’incapacità mostrata nel fronteggiare con la dovuta energia gli scioperi di Torino e di Milano. È difficile credere che l’incontro di Klessheim e il contemporaneo allontanamento di Senise fossero una semplice coincidenza, mentre appare molto verosimile che al suo allontanamento dai vertici della polizia non fossero estranee le forti pressioni di Hitler e dei suoi collaboratori. A spingere al dimissionamento di Senise contribuirono di certo anche i settori oltranzisti del fascismo che, di fronte ai rovesci militari, pensavano di risolvere la crisi avviando quella che definivano una ‘terza ondata’: via i moderati e infidi come Senise e largo ai puri e fedelissimi come Chierici, comandante della milizia forestale. Giuseppe Bottai (1989) scriveva al riguardo che Senise se n’era «andato per essersi rifiutato, dicono, di scatenare una guerra all’interno mentre c’è una guerra all’esterno» (p. 375). In effetti Senise era venuto assumendo ormai da tempo una posizione sempre più critica nei confronti della guerra e dell’alleanza con la Germania. Non faceva più mistero delle sue convinzioni che la soluzione della crisi italiana andasse cercata nel distacco dall’ingombrante alleato e in una successiva pace separata con gli Alleati. Poiché era il progetto a cui avevano preso a ispirarsi con molta cautela anche alcuni autorevoli ambienti politici e militari vicini a casa Savoia, la defenestrazione di Senise del 14 aprile 1943, collocato ‘a disposizione’, e la successiva nomina, di lì a qualche giorno, dell’intransigente Carlo Scorza alla testa del Partito nazionale fascista (PNF), furono due segnali importanti e inequivocabili di Mussolini a tali ambienti circa la sua intenzione di andare esattamente nella direzione opposta. E forse fu proprio in quei giorni che iniziò a prendere forma il complotto che avrebbe portato all’arresto del capo del fascismo dopo la notte del Gran Consiglio.

Si incontra tuttavia di nuovo Senise presente attivamente nel complotto, che andava prendendo forma definitiva negli ambienti più vicini al re, i primi giorni di luglio del 1943, quando Pietro Acquarone gli chiese d’incontrarlo e lo mise al corrente della volontà del re di liberarsi di Mussolini per poter trattare una pace separata con gli Alleati. In un secondo incontro, che avvenne pochi giorni dopo, venne proposto a Senise di rioccupare la carica di capo della polizia e di preparare un piano che prevedesse l’arresto di Mussolini e delle più alte gerarchie del regime. Nel pomeriggio del 25 luglio, ancora prima della notizia dell’incarico ufficiale affidato a Pietro Badoglio, Senise era nell’ufficio di Chierici, il capo della polizia, e operava già come il nuovo responsabile. Sua fu la vasta operazione che condusse agli arresti dei vari gerarchi e all’afflusso a Roma di consistenti forze di polizia per presidiare la città contro eventuali colpi di mano del PNF. Dopo il suo arresto, Mussolini venne trasferito in varie località allo scopo di non consentire ai tedeschi di localizzarne la prigione; giunse infine a Campo Imperatore e Senise affidò la sua sorveglianza all’ispettore di pubblica sicurezza, Giuseppe Gueli, con l’ordine di far fuoco su di lui in caso di fuga o di tentativo di liberazione. Quest’ordine, in quei giorni drammatici, fu soggetto a diverse variazioni. Infatti, dopo la fuga del re da Roma, Senise, come racconta nel suo memoriale fatto pervenire all’alto commissario per i reati fascisti, preoccupato «del grave pericolo al quale la soppressione di Mussolini avrebbe esposto il Paese», e d’accordo con le poche autorità rimaste a Roma, telefonò a Gueli «affinché nella ipotesi di un colpo dei tedeschi si regolasse con la massima prudenza». Il giorno dopo, 10 settembre, di fronte alla resistenza che a Roma le nostre truppe sembravano opporre ai tedeschi e sperando «che gli attesi rinforzi avrebbero impedito l’occupazione della città», telefonò di nuovo a Gueli ordinandogli di non tener conto della telefonata del giorno precedente ma di regolarsi «secondo la prima consegna ricevuta nell’agosto» (Archivio di Stato di Roma, Corte d’Appello - Sezione istruttoria, f. 73). Ma il 12 settembre, dopo l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi, inviò a Gueli un radiogramma che era un contrordine: lo invitava di nuovo alla prudenza, facendogli chiaramente intendere di astenersi in tutti i casi dalla decisione estrema della soppressione di Mussolini e di evitare lo scontro armato qualora i tedeschi avessero tentato di liberarlo.

Sorpreso dalla fuga del re e di Badoglio al Sud, dopo l’annuncio dell’armistizio, rimase al suo posto fino a quando, il 23 settembre 1943, venne arrestato, insieme al vicecapo della polizia, Salvatore Rosa, nel suo ufficio al Viminale, dalle SS guidate da Erich Priebke. Condotto in aereo a Verona e poi per treno a Monaco, venne quindi recluso nel campo di concentramento di Dachau, che lasciò alla fine di novembre del 1943 per essere condotto a Hirschegg, in Baviera, non più come detenuto, ma come prigioniero. Lì venne a far parte di un piccolo gruppo di prigionieri illustri, tra cui Francesco Saverio Nitti, François Poncet, ex ambasciatore francese a Roma, Luigi Rizzo e le due duchesse di Aosta, Anna d’Orléans, moglie di Amedeo di Savoia, e Irene di Grecia, moglie di Aimone di Savoia. Il 2 maggio 1945 venne liberato da truppe francesi e condotto a Costanza, ma solo l’11 agosto poté rientrare in Italia via Svizzera.

Venne collocato a riposo con decreto luogotenenziale del 13 settembre a decorrere dalla data del 15 agosto 1945, poi posticipata al 16 ottobre, ma già il 22 agosto era stato ordinato il suo fermo da tramutarsi in arresto, accusato dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo di aver «contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista», e di aver collaborato «col tedesco invasore alla liberazione del capo del fascismo, Benito Mussolini, prigioniero delle autorità italiane nella zona del Gran Sasso». Si era tuttavia reso irreperibile già da alcuni giorni e vane furono le ricerche per eseguire il mandato di cattura. Venne pertanto deferito in contumacia alla corte speciale d’assise di Roma, alla quale fece giungere un lungo memoriale, con data 10 ottobre 1945, nel quale respingeva le accuse, rivendicava il suo operato di capo della polizia mai prono alle volontà del regime fascista e di Mussolini, e precisava con dettagli interessanti il suo ruolo nel complotto per rovesciare Mussolini. Il pubblico ministero, il 28 novembre 1945, ne revocò il mandato di arresto, prosciogliendolo dalla prima accusa «per non aver commesso il fatto» e dalla seconda «perché il fatto non costituisce reato» (Archivio di Stato di Roma, Corte d’Appello - Sezione Istruttoria, f. 73).

Morì a Roma il 24 gennaio 1958.

Opere. Quando ero capo della polizia. 1940-1943, Roma 1946.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gabinetto, Fascicoli permanenti, 1944-46, b. 11, f. Senise Carmine; Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, Repubblica sociale italiana, b. 7; Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione Servizi informativi e speciali, Sez. II, 1946-1948, b. 5; Ministero Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Direzione affari generali e riservati, Ufficio dipendenti dalla sezione prima, Ufficio confino di polizia, 1926-1943, b. 941; Archivio di Stato Roma, Corte d’Appello - Sezione Istruttoria, f. 73.

G. Leto, OVRA. Fascismo-antifascismo, Bologna 1951, ad ind.; Id., Polizia segreta in Italia, Roma 1961, pp. 16 s.; G. Bottai, Diario 1935-1944, Milano 1989, p. 375; A. Paloscia, Storia della polizia. La prima storia dell’ordine pubblico nel nostro Paese, dal 1860 a oggi, Roma 1990, pp. 107-111.

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