NAUTICHE, CARTE

Enciclopedia Italiana (1934)

NAUTICHE, CARTE

Alberto MAGNAGHI
Carlo BALDI

. Le carte nautiche italiane medievali. - Con questa denominazione, o con l'altra di carte a bussola, (ted. Kompasskarten) si sogliono indicare le carte che servivano alla navigazione del Mediterraneo e dell'Atlantico lungo le coste occidentali d'Africa e d'Europa (per lo più da Mogador, più tardi dal C. Bojador a Sluis in Fiandra comprese le Isole Britanniche) a cominciare dalla fine del sec. XIII per tutto il Medioevo, anzi per il Mediterraneo ben più oltre, sino al sec. XVIII.

I cartografi che le componevano le designavano col nome di carta o tabula, mentre qualche scrittore medievale le indica col nome di compasso (cfr. Fr. da Barberino nei Documenti d'Amore, IX, VII, e più esplicitamente il suo annotatore nell'annesso glossario, parimenti il Berni, Orl. inn., 32, 27 e Fazio degli Uberti, Dittam., VIII, e analogamente l'arabo Konbas): ma è evidente che ciò si deve alla confusione con lo strumento che serviva a trovare su di esse direzioni e distanze. Qualche scrittore (Giovanni da Uzzano, 1442) chiama compasso il portolano. Il termine di carte lossodromiche, proposto da A. Breusing, è oggi scartato perché è ormai insostenibile la teoria ch'esse fossero fondate sulla lossodromia; e un errore, purtroppo ancora diffuso, è quello di chiamarle portolani, mentre il portolano, allora come oggi, era un libro dove erano descritti minutamente i particolari costieri. Anche la denominazione di carte portolaniche può dar luogo a equivoci, nel senso che si debbano considerare come fondate sui portolani o da questi derivanti, mentre la carta e il portolano, pur essendo nell'uso pratico in stretto rapporto, possono anche stare a sé, e probabilmente hanno avuto un'origine indipendente l'una dall'altro.

Esse costituiscono un insigne monumento della sapienza e dell'esperienza degli antichi navigatori italiani. Sono sorprendenti per la loro esattezza nei particolari, per l'armonia dell'insieme e per il giusto rapporto nelle proporzioni, talché sotto questi riguardi differiscono ben poco dalle carte moderne; e questi effetti, di mirabile chiarezza e di perfetta corrispondenza a uno scopo pratico, sono raggiunti senza l'aiuto di determinazioni astronomiche, ma solo coordinando in base all'esperienza, i dati delle direzioni e delle distanze, in modo da costituire un mezzo sufficiente e sicuro per la navigazione e da rendere in genere le vie del mare più rapide e più agevoli delle vie terrestri. A mostrare l'immensa superiorità di codeste carte sopra le carte continentali, basta un fuggevole confronto con le carte patristiche, abbozzi incoerenti, deviazioni e deformazioni spesso mostruose dei concetti antichi, composte per lo più da monaci in un ambiente non di rado chiuso alla vita reale. Anche le carte tolemaiche appaiono di gran lunga inferiori: basti aver presente la forma della Sicilia, la disposizione della Penisola italiana e soprattutto l'enorme estensione in longitudine data al Mediterraneo (62° invece di 42°). E le stesse carte arabe, pur composte da gente che per scienza era molto innanzi agli occidentali, sono ben lontane dall'offrire nel loro complesso alcunché di utile all'uso pratico: esse non offrirono alcun sussidio ai marinai italiani. La scienza araba era ben nota alle corti di Federico II e di Alfonso di Castiglia, e le nozioni astronomiche di Alfragano e di Albateni erano già passate nella lingua latina (Gerv. da Cremona, 1187; Sacrobosco, 1250; R. Bacone, 1294; Cecco d'Ascoli, 1327); ma i marinai italiani non si preoccupavano di determinazioni di latitudine e di longitudine: quest'ultima presentava in pratica difficoltà tali da renderla assolutamente inservibile, e anche la latitudine prima della correzione dell'angolo della Polare col Polo - di circa 5° al principio del '300 - mal serviva allo scopo. La geografia degli Arabi, come è stato giustamente rilevato da J. Lelewel, sapiente ma confusa, era del resto eminentemente continentale; quella degli Italiani, d'esperienza ma regolare, era esclusivamente nautica: quella, seguendo le regole dell'alta scienza su basi viziate, forniva prodotti variati e discordanti, ed era piena d'inestricabili errori; l'altra, procedendo per sentieri stretti, ma diritti e ben battuti, elaborava un unico prodotto senza distinzione di scuole e di risultati. In sostanza anche le basi dello sviluppo ulteriore della cartografia, della navigazione e del conseguente progresso nei rapporti fra le genti, causa principalissima del progresso della civiltà, sono nelle carte dei navigatori medievali italiani.

Oltre che dalla sorprendente corrispondenza del disegno alla realtà, l'attenzione viene subito richiamata da un'altra caratteristica che le distingue da tutti gli altri tipi di carte: dalla presenza di una rete di linee rette che si tagliano in ogni senso sotto gli angoli più diversi, irradianti da una rosa situata per lo più al centro di figura, attorno alla quale, a distanze uguali, ne sono distribuite in circolo altre 16, tante quanti sono i raggi della rosa centrale. Le rose situate alla circonferenza hanno per lo più 32 rombi: ma dalla parte dove si dirigono verso terra o verso l'aperto Atlantico, il numero è minore, da 9 a 24, non occorrendo più naturalmente il loro uso per i luoghi non marittimi o per l'Oceano non frequentato. Queste linee rappresentano, i venti o rombi principali della bussola e suddividono l'orizzonte in altrettante direzioni. Talvolta nelle carte a scala più grande sono aggiunte esternamente, a E. e a O., da una a tre rose concentriche, e in qualche caso si hanno due sistemi di rose tangenti, con la rosa centrale comune, formante rispettivamente l'estremità orientale e occidentale dei due sistemi. Sulla collocazione della rosa centrale non v'é nessuna regola fissa, variando essa secondo l'estensione della regione rappresentata o anche a volontà del cartografo. Per evitare confusione, gli 8 venti principali (interi) sono in nero, i mezzi venti in verde e le 16 quarte in rosso: hanno i colori delle cuspidi delle rose, che spesso sono disegnate. I primi sono distinti per lo più con la prima lettera del nome corrispondente (che quando è steso per intero è sempre in italiano), tranne il levante contrassegnato da una croce gammata, e la tramontana da un giglio.

La materia sulla quale sono disegnate è la pergamena; le carte di maggiori dimensioni sono formate dalla pelle intera dell'animale, opportunamente preparata, e il disegno è nella parte interna. Per renderla bianca e liscia si strofinava con biacca e si asciugava con un panno bianco. Si facevano poi bollire i ritagli nell'acqua finché questa non veniva vischiosa; si passava sopra la pergamena ben distesa un panno o una spugna imbevuti dì quest'acqua, e, disseccata, si strofinava di nuovo con biacca, sino a che non diveniva perfettamente bianca e priva d'ogni asprezza o scabrosità che fermasse la penna. Bisognava strofinare bene soprattutto la seconda volta, perché la scrittura potesse correre sopra una superficie perfettamente liscia e levigata. Per lo più venivano tenute avvolte attorno a un cilindro di legno, lasciando all'esterno la parte corrispondente al collo dell'animale ch'era anche quella che si conservava di maggior spessore. Ma non si riusciva a impedire che il variare della temperatura e l'alternarsi dell'umidità e della secchezza producessero delle gibbosità che a lungo andare, dovevano renderne difettoso l'uso, specialmente nella misura delle distanze.

Le dimensioni, massime quando si rappresentano, oltre al Mediterraneo per intero, le coste occidentali sull'Atlantico, sono spesso notevoli e arrivano a 134 × 90 cm. (Pizzigani, 1367) e a 148 × 70 (B. Pareto, 1455). Non di rado sono raccolte in atlanti comprendenti quattro o più fogli, che rappresentano per scala e disegno altrettante sezioni della carta. È un errore credere che gli atlanti servissero solo per le persone colte: questo poteva valere solo per gli atlanti di piccole dimensioni (Tammar Luxoro, prima metà del sec. XIV, 15 × 11 cm.; Pizzigani 1373, 12 × 15 cm.); anzi per l'uso pratico servivano meglio della carta stessa, che per esser distesa richiedeva uno spazio notevole, e in ragione della sua maggior superficie era più soggetta a lacerarsi o ad accartocciarsi, mentre i fogli dell'atlante, incollati per lo più su cartone o su spesse tavolette di legno, una volta adoperate e chiuso l'atlante, rimanevano meglio distese e meno soggette ad alterarsi. Ma è poi veramente strano l'errore di coloro i quali ritengono che le carte pervenute a noi non servissero all'uso pratico, ma che per la loro scala relativamente piccola, fossero destinate agli studiosi di nautica e di cosmografia, mentre per i naviganti dovevano esservene di più grandi. Ciò deriva da una falsa interpretazione di un passo di Girolamo Ruscelli, cosmografo del secolo XV, il quale dice che la carta marina serve solo d'esempio e che i marinai le adoprano più grandi: ma il Ruscelli intende riferirsi solo al piccolo planisfero tracciato nel modo delle carte nautiche, in formato del foglio, contenuto nel suo libro. Si osserva bensì da qualcuno che nessuna delle carte giunte a noi conserva segni d'esser stata adoperata: ma gl'idrografi del '500 e del '600 sono d'accordo nel dire esplicitamente che punti, archi, linee e altri riferimenti segnati sulla carta erano tracciati col piombino e poi accuratamente cancellati; e, dato il costo relativamente alto che dovevano avere le pergamene, era questo un procedimento ben ovvio: se avessero lasciato i segni a penna, dopo qualche viaggio le carte sarebbero rimaste inservibili. D'altra parte, bisogna ricordare che, mentre sono centinaia le carte di tal genere che si sono conservate, non ve n'è neppur una che abbia le supposte maggiori dimensioni.

Il disegno è limitato a quei mari e a quelle coste dove si spingevano la navigazione e il commercio marittimo: tutto il bacino del Mediterraneo col Mar Nero, e le coste conosciute dell'Atlantico (nel 1339 si trovano rappresentate per la prima volta le Canarie, e di mano in mano si aggiungono Madera, le Azzorre e le altre isole) dal C. Bojador sino in Fiandra (Sluis), dove cominciava il dominio della Hansa. A cominciare dalla carta del genovese Angelino Dalorto (1325) viene però introdotto anche il disegno dello Jütland e della parte SO. della Penisola scandinava, disegno relativamente esatto nelle linee generali ma con pochi particolari: anche il Baltico è abbozzato con quelle poche indicazioni che i nostri marinai frequentatori dei porti fiamminghi e inglesi avevano potuto raccogliere di seconda mano, dato il sistema di rigido protezionismo sempre tenuto dalle città anseatiche; in ogni modo anche la rappresentazione di queste parti settentrionali si mantiene inalterata sino a oltre il sec. XVI. Non mancano i planisferi o mappamondi (il più antico è quello di P. Vesconte del 1320) che rappresentano tutto l'abitabile, verso S. e verso oriente: ma appena il disegno si allontana dalle coste del Mediterraneo, ls carta perde il suo carattere realistico, e il cartografo, non fa che attenersi alla tradizione, spesso deformata, degli antichi o lavora di fantasia. Nelle carte nautiche, massime nelle più antiche, l'interno è lasciato quasi completamente in bianco; ma, sempre a cominciare dalla carta del Dalorto, vengono in seguito rappresentati anche i corsi dei fiumi più notevoli, e probabilmente non a scopo riempitivo ma a complemento di indicazioni interessanti il traffico fluviale; direzione e sviluppo sono quasi sempre convenzionali, e anche le città più importanti vi sono indicate senza un vero e proprio rapporto di distanze e di orientamento.

Quasi sempre il corso del fiume richiama la rappresentazione del rilievo dal quale nasce; così si vedono i Pirenei, le Alpi, le Cevenne, i monti dell'Elba superiore, anche qui senza nessuna pretesa, sebbene nelle direzioni e nella disposizione generale si possa rilevare una vaga corrispondenza col vero. Abbondano, immensamente ingranditi, i prospetti delle città, soprattutto marittime; e talvolta, massime nei mappamondi, sono dipinti con colori vivaci gli stemmi e le bandiere degli stati. Non mancano, specie per le regioni lontane, disegni di animali, come di cammelli e di elefanti; e anche questi, più che a scopo decorativo, sono forse destinati a uno scopo pratico, quello d'indicare un mezzo di trasporto. Alcune carte sono cosparse di leggende, ma senza nessun riferimento a utilità pratica; figurano solo come riempitivi, come notizie curiose per lo più riguardanti paesi lontani: quasi sempre risalgono a Plinio e a Solino, ma già nella forma adottata da Isidoro di Siviglia o da Onorio d'Autun. Nei grandi mappamondi, come nelle carte catalane, si tiene conto anche delle notizie e delle leggende tratte dal libro di M. Polo. Ma anche la patristica e l'agiografia fanno sentire la loro influenza: ad es. per l'ubicazione del paradiso terrestre, per l'impero del Prete Gianni, e soprattutto per le isole fantastiche dell'Atlantico come Antillia, Brasil, S. Brandano, Satanascio, ecc. Ma tutti questi elementi rientrano quasi di straforo, e il cartografo li introduce più che altro a scopo riempitivo o decorativo.

Le coste sono tirate con una sottile linea scura, che viene messa in rilievo da una sovrapposta linea più spessa, in giallo-oro se si tratta di continente; qualche volta le penisole si distaccano per una colorazione diversa, per lo più in verde, come la Morea o la Crimea, o anche in rosso-vino. Le isole, invece, sono sempre, le maggiori in verde o in celeste chiaro o in rosso-vino, le più piccole in oro o in verde: sempre in modo che, grandi o piccole, risultino di colore diverso da quello col quale son segnate le coste della terraferma.

L'attenzione viene ben presto richiamata anche dal modo come sono accentuate le frastagliature della costa, che riescono come suddivise in un gran numero di piccoli tratti ora sporgenti ora rientranti, separati i primi l'uno dall'altro da due brevi linee parallele corrispondentì a foci di fiumi. Le rientranze formano sempre linee regolari arcuate in forma di un breve semicerchio, nel cui mezzo sbocca un fiume. Anche le sporgenze hanno per lo più una forma geometrica, e il loro contorno segue linee rette o leggermente arcuate trascurando le minute frastagliature. I promontorî, le baie, le foci dei fiumi e parimenti le isole minori sono sempre ingranditi; e si ritiene che fossero lasciati così di proposito, perché navigando lungo la costa i marinai dopo avere oltrepassato un segno mirassero attentamente al successivo, o perché in realtà i varî tratti osservati dal mare a una certa distanza apparivano solo nelle forme più salienti senza i particolari più minuti. È da avvertire però che le carte si copiavano ricalcandosi l'una sull'altra, onde non è da escludere che di mano in mano si producesse e si accentuasse una deformazione tale da far scomparire le piccole frastagliature riducendo i tratti di costa a una linea continua: questo difetto si direbbe infatti meno rilevante nelle carte più antiche (un idrografo dei primi del '600, Bartolomeo Crescenzio, ci ha lasciato descritto il modo con cui venivano ricalcate: Nautica mediterranea, Roma 1602, p. 190). I nomi dei luoghi, che sono sempre in italiano o in forma italianizzata anche nelle carte catalane, persino per molti tratti della Penisola Iberica, sono scritti in nero, e in rosso per le località più importanti. Essi sono scritti perpendicolarmente alla costa, dal mare all'interno, salvo per le isole costiere dove figurano opportunamente in senso inverso, e si seguono un dopo l'altro di continuo in modo da coprire quasi dappertutto l'intera costa, talché facendo il periplo del Mediterraneo da Gibilterra risultano scritti da sinistra a destra, onde per leggerli bisogna girare sempre la carta in questa direzione. Tutte si assomigliano, e per tre secoli non hanno traccia di modificazioni o perfezionamenti, salvo a esser disegnate con maggiore o minore accuratezza.

Le migliori sono in genere le più antiche, perché sono state riprodotte da esemplari originali o ricalcati un minor numero di volte: quello che può cambiare - ma il fatto non ha nessuna importanza - anche in carte diverse del medesimo autore è la disposizione della rosa centrale. Quando il cartografo è un caposcuola, o quando ritiene d'aver fatto opera accurata segna il nome, la data e il luogo; ma moltissime sono d'anonimi e senza nessuna indicazione, nel qual caso, come si comprende, sono copie; che però possono aver sempre qualche pregio. Esse offrono, in sostanza, solo il tracciato delle coste, e per la piccolezza della scala non possono aggiungere molti particolari idrografici: vi figurano però i bassifondi, segnati da linee e zone di puntini, e gli scogli indicati da crocette. Al resto (profondità, segni particolari di riconoscimento, fari, ecc.), supplivano i portolani. In qualcuna però ricorre l'indicazione tocho (adoprata per lo più di fronte a Venezia) che corrisponde all'avvertimento indicato dai portolani: va a tocho de scandaglio; in qualche altra è indicata anche la profondità in parmi (palmi), ma spostata e senza riferimento alle condizioni reali, talché si può leggere, p. es., parmi 6 al largo fra la Sardegna e le Baleari: segno che in origine l'indicazione riguardava l'entrata di un porto delle Baleari, e poi il cartografo l'ha spostata nel copiare sino a che si è venuta a trovare in un luogo dove non ha più nessun senso. Sono frequenti anche errori, spesso curiosi, di trascrizione: così in una carta dell'Archivio di stato di Torino, l'indicazione accennata diventa parminì, dove l'ultima sillaba non è altro che il numero romano III. Spessissimo poi ricorrono le storpiature dei nomi, per opera di copisti negligenti o che capivano male la dettatura; è probabile infatti che là dove esistevano vere e proprie officine, dopo che erano stati preparati un certo numero di fogli col tracciato delle coste, vi fossero varî amanuensi che scrivevano i nomi sotto dettatura.

Questo, in breve, per quello che riguarda l'aspetto esteriore delle carte. Ma per quello che concerne la loro intima struttura, la loro origine e i loro rapporti con un numero svariato di elementi, ci si trova di fronte a parecchi problemi, che, quasi tutti, attendono ancora la loro soluzione definitiva: scala, proiezione, relazione coi περίπλοι e coi portolani, con la bussola, col fenomeno della declinazione magnetica, il tempo e modo come sorsero sono tutte questioni tuttora soggette a studio. E ci si trova dinnanzi soprattutto a due ordini di difficoltà: la mancanza pressoché assoluta di spiegazioni e indicazioni dei contemporanei, e la necessità, almeno sin qui, di dover procedere a studî comparativi sopra riproduzionì tecnicamente imperfette, anziché sopra una serie adeguata di originali (sparsi nelle biblioteche e archivî di tutto il mondo) o di riproduzioni eseguite con metodi perfezionati; senza contare che anche qui, come in altri campi di storia della geografia, troppo spesso ci si fonda sopra analogie inesistenti o su postulati, che traggono valore solo dalla presunta autorità di chi li ha formulati.

Scala. - È opportuno premettere che in genere il rapporto risulta da 1 a 5-6 milioni. Quasi tutte le carte hanno una scala grafica, riportata da tre a quattro e più volte sui margini del foglio. Essa è divisa in spazî di 50 miglia o miliaria, ognuno dei quali si suddivide in cinque spazî di 10 miglia ciascuno; le suddivisioni sono per lo più tracciate senza molta accuratezza. Alcune carte, come ad es. quelle dell'Atlante di Andrea Bianco del 1436 e la carta di Conte Freducci del 1497, mancano dell'indicazione della scala; ed è probabile che, non potendosi ammettere una dimenticanza in cartografi così reputati, l'indicazione venisse omessa perché, per ragioni che vedremo fra poco, risultavano quasi sempre notevoli variazioni nel rapporto delle distanze a seconda delle varie zone; per cui il cartografo avrà preferito che il pilota si attenesse senz'altro alle misure offerte dai portolani. Né su questi, né sulle carte si fa mai distinzione fra miglio e miglìo: questo corrisponde a una misura unica, talché le carte costruite a Genova, a Venezia o a Palma di Maiorca servivano ai marinai di tutto il Mediterraneo, senza che l'adozione di misure locali limitasse l'uso della carta. Ma quale fosse il valore, se non esatto, almeno con buona approssimazione, di questo modulo non si è potuto ancora stabilire con sicurezza. In genere ci si fonda, nei tentativi per riuscire a determinarlo, sul metodo comunemente detto cartometrico, che consiste nel misurare le distanze in mm. fra varî punti e nel ragguagliarle con quelle a scala conosciuta delle carte moderne, oppure nel prendere le distanze in miglia misurate con la scala della carta e nel ragguagliarle con quelle delle carte moderne; ma i risultati riescono diversissimi, variando dal miglio romano di 1480 m. (Uzielli, Th. Fischer), a un miglio di 1270 (K. Kretschmer) o di 1230 (H. Wagner) o da 1170 a 1410 (E. Steger) con una media di ¼ km. Vi fu persino un illustre storico della cartografia, A. E. Nordenskiöld, che credette di poter fissare un miglio portolanico di 5,83 km., e come miglio corrispondente alla 5ª parte di questo la lunghezza di 1166 m.; e poiché codesto miglio portolanico si avvicina alla legua catalana di 5,74 km., il Nordenskiöld dedusse da ciò l'assurda conseguenza che il merito d'aver creato le carte nautiche spettasse ai Catalani. Pur riconoscendo che, in mancanza di altre indicazioni, non si può non ricorrere a codesto metodo cartometrico, bisogna aver presente che esso presenterà sempre gravissimi inconvenienti e difficoltà, anche per una determinazione approssimativa. Anzitutto conviene tener conto delle alterazioni che la superficie, originariamente piana, della pergamena ha subito per l'azione del tempo: l'alternarsi di condizioni diverse di umidità e di temperatura ha determinato numerose gibbosità e rientranze che non possono venir calcolate in una riproduzione fotografica, dove distanze misurate in linea retta sono in realtà, nell'originale, una somma di archi. In genere poi coloro che si sono occupati di misure siffatte non di rado hanno misurato indifferentemente distanze brevi e distanze lunghissime, ad es. Tripoli-Venezia, Venezia-Alessandria; nel qual caso si accentuano sempre più gli errori derivanti dalle ineguaglianze della superficie dell'originale, e, peggio ancora, non si tien conto della circostanza che codeste distanze attraversano anche vaste estensioni di terra, per le quali le misure non possono più esser ragguagliate col miglio nautico. Ma anche limitando le misure a distanze piccole, mancano punti esatti di riferimento: siccome promontorî e baie sono molto accentuati e le linee che li determinano sono ridotte a linee rette o curve, è evidente che i loro punti estremi riescono sensibilmente allontanati o avvicinati. Così le piccole isole sono sempre ingrandite, e le foci dei fiumi sono rappresentate in modo convenzionale. Né giova misurare le distanze a partire dai nomi indicanti sulla costa le varie località: queste sono segnate una dopo l'altra, di continuo, quasi sempre senza lasciare vuoti, in modo che non risulta la loro distanza relativa: mancano punti esatti che segnalino un'ubicazione precisa.

E in siffatte condizioni la differenza anche di pochi millimetri, trattandosi di carte a piccola scala, può determinare errori gravissimi. Da una carta all'altra per le medesime distanze nsultano differenze enormi: così dalle diligenti misure dello Steger si avrebbe, ad es., dalla distanza C. Palos-Bugia un miglio di 1,48 km. nell'Atlante Mediceo (1351), di 1,30 km. nell'Atl. Luxoro (prima metà del '300); da quella C. Corso-Savona un miglio di 1 km. nella carta di A. Bianco (1436), di 1,33 km. nell'Atlante Mediceo; da quella Ciudadela-Barcellona un miglio di 1,14 km. nell'Atl. Giraldi, di 1,36 nell'Atl. mediceo; C. Teuladar-Galita 2,14 km. Atl. Mediceo e Giraldi, 1,50 nell'Atl. Luxoro. Ma ancor più significative sono le differenze che si notano in una stessa carta: così nell'Atl. Mediceo risulta un miglio di 1 km. fra Cabrera-P. Mahon (Minorca) e di 1,34 km. fra Cabrera e Galita, e nell'Atl. di A. Bianco rispettivamente di 1,05 (Calvi-Genova) e 1,37 (Sanguinarie-Narbona).

Dedurre perciò un miglio che rappresenti il valore medio fra siffatti estremi è alquanto arrischiato. Qualcuno ha creduto di riscontrare differenze normali di scala fra i varî bacini del Mediterraneo: ma è ammissibile allora che A. Bianco abbia un miglio medio di 1,21 a N. delle Baleari e di 1,31 nel Golfo di Valenza e che abbia adottato un miglio di 1,37 per il canale di Tunisi e un altro di 1,22 per il Mar di Levante senza indicare la differenza sopra scale riportate sulla carta? Evidentemente, come s'è detto, il miglio dovette essere unico, ma le distanze, specialmente per le alterazioni dei contorni sempre più accentuantisi di mano in mano che le carte venivano ricalcate l'una dall'altra, non potevano essere esattamente riportate, come non sono, oggi meno che mai, controllabili per le alterazioni subite dalla pergamena. A tutto questo si deve aggiungere che probabilmente la carta tipo, originale, fu messa insieme con varie sezioni particolari disegnate in scale diverse, talché la riduzione alla stessa scala dovette presentare difficoltà non facilmente superabili. Un lavoro generale di correzione sarebbe riuscito in seguito pressoché impossibile, e avrebbe richiesto una cooperazione d'interessati difficile a formarsi in un tempo, soprattutto, in cui metà delle coste del Mediterraneo erano in possesso dei maomettani. Del resto all'inconveniente i marinai, dobbiamo credere, rimediavano con la pratica e con stime approssimative che rettificavano poi in vicinanza della costa e con l'osservazione dei monti delle isole, dei promontorî e degli altri particolari così frequenti nel Mediterraneo. Si potrà dunque solo con larga approssimazione parlare di un miglio non lontano da ¼ km., corrispondente, secondo la teoria di H. Wagner (da accettarsi però non senza riserve) a circa un miglio nautico di 1000 passus geometrici (ognuno di 5 piedi geometrici di 246 mm.) in uso nel sec. XIII, a quel modo che già presso gli antichi fra il miglio nautico e il miglio terrestre (1480 m.) esisteva il rapporto di 5:6.

Altro punto che fu a lungo soggetto di discussione è la presunta differenza, oggi generalmente ammessa, del miglio adoperato per le coste mediterranee da quello delle coste atlantiche. Quest'ultime appaiono rappresentate in scala più piccola, onde le distanze avrebbero dovuto essere ragguagliate a un miglio più grande, che secondo il Wagner corrisponderebbe al miglio romano di 1480 m.: e siccome quattro di questi sono pari a 5920 m., misura non molto lontana dalla legua iberica di 5565 m., così questa sarebbe stata la misura adottata dai portolani locali: salvoché gl'Italiani avrebbero ritenuto codesta legua uguale a 4 miglia piccole, di 1250 m., onde la legua sarebbe stata per essi di 5000 m. soltanto, e da ciò sarebbe nato l'errore. E poiché quando gl'Italiani comparvero su quelle coste, i Catalani erano ancora troppo indietro nella navigazione, così da qualcuno si vuole che la legua fosse già adottata dai portolani portoghesi, dei quali si sarebbero serviti gl'Italiani. Contro di che si può subito, con tutta sicurezza, obiettare che Genovesi e Veneziani avevano già un commercio marittimo regolare con i paesi dell'Atlantico ad es., la Fiandra) prima della metà del sec. XIII, quando il Portogallo non era neppure al principio d'uno sviluppo di vita marinara (iniziata più tardi sotto la guida dei Genovesi). È gratuito poi ammettere che gente pratica come i marinai non si siano accorti di un errore di quel genere, che li avrebbe continuamente impacciati nell'uso della carta; e in ogni modo non avrebbero mancato di disegnare sull'orlo del foglio una scala diversa per le coste atlantiche, mentre anche qui la scala è identica a quelle che si vedono nelle altre parti in tutte le carte, comprese le catalane. Inoltre non esiste per tutto il Medioevo traccia di carte o portolani portoghesi, e nessun idrografo dei secoli XVI e XVII parla di codesta presunta legua, ma tutti parlano di miglia senza accennare a differenze, e tutti i portolani medievali dànno anche qui le distanze in miglia. È anche da notare che se una presumibile maggiore lunghezza del miglio può risultare per le coste iberiche del Mar di Portogallo - e neppure per tutte le carte - ciò non si nota affatto per le coste francesi e inglesi: è ammissibile, del resto, che gl'Italiani abbiano fatto uso di codesta presunta legua iberica per lo stesso Golfo di Guascogna, in cui le coste francesi erano sotto il dominio inglese? Il risultare di una scala più piccola in quel tratto può derivare in qualche caso da un maggior restringimento in quella parte della pergamena, che corrisponde quasi sempre al collo dell'animale e ha un maggior spessore, e dal fatto che codesta parte rimaneva al di fuori - e quindi più esposta all'azione degli agenti esterni - quando la pergamena restava avvolta intorno al cilindro di legno; o, più semplicemente ancora, si può ammettere che il rilievo originario di quelle coste fosse stato fatto in scala più piccola e che in seguito il cartografo che disegnò pel primo la carta d'insieme non sia riuscito a compiere in modo perfetto la riduzione a una scala unica: e l'errore si perpetuò poi, come tanti altri, per opera dei copisti (come, del resto, è presumibile sia avvenuto anche per altre parti). A far ammettere un miglio diverso per le coste dell'Atlantico (il che implicherebbe da parte degl'Italiani l'utilizzazione di portolani o altri materiali già esistenti, mentre furono essi a compiere ex novo il rilievo e la carta di quelle regioni) contribuì forse più di tutto la suggestione esercitata dal fatto che in un portolano di Pietro delli Versi del 1445 le distanze per l'Atlantico sono date in leghe, mentre per il Mediterraneo - che, del resto, è incompleto, essendovi descritte solo le coste dell'Adriatico e di una parte dell'Egeo - si parla di miglia; codesta adozione di una misura diversa per l'Atlantico, ch'egli chiama mar de Spagna, ha fatto pensare che si trattasse appunto di una legua iberica che fosse la continuazione di quella già adottata dagl'Italiani quando disegnarono quei tratti di costa. Anche qui però è ovvio anzitutto osservare che questo portolano è di epoca assai tarda rispetto alle prime carte, e giova ripetere che tutti gli altri portolani anteriori e posteriori, ben più completi, parlano sempre di miglia: può darsi che al tempo del Versi, ma solo quando da molto tempo era stato in uso il miglio comune, qualche portolano locale dei paesi dell'Atlantico avesse ridotto le miglia in leghe, e che anche l'autore le abbia adottate per quella parte del suo portolano; ma questo è tutto quello che si può ammettere. E in ogni modo la sostituzione è riuscita tale da ingenerare in questo autore gravi errori e confusioni. Infatti le leghe del Versi non corrispondono mai neppure approssimativamente a una misura costante se le ragguagliamo alle miglia degli altri portolani. Valga questo saggio per le coste stesse del Portogallo:

La lega del Versi va da un minimo di 2,5 miglia a un massimo di 5,5; onde, per l'unica volta che vediamo adottata in un portolano questa misura, ve n'è abbastanza per mostrare su quali basi poggi l'ipotesi d'una legua iberica in uso su quelle coste, adottata dagl'Italiani. Se il Versi ha trovato codesti dati sopra un portolano iberico, si comprende perché i portolani posteriori, come quelli precedenti, hanno continuato l'adozione del miglio italico.

Proiezione. - È questo certamente il problema più arduo fra quelli che sono rimasti insoluti. Anche qui nessun cartografo o autore di portolani ci ha lasciato il minimo indizio che serva di schiarimento. Si deve, del resto, tener presente che la maggior parte degli studiosi è ormai d'accordo nell'ammettere che non si possa parlare di una vera e propria proiezione, poiché, mancando in queste carte una graduazione delle latitudini e delle longitudini viene a mancare ogni ragion d'essere per una rete di meridiani e paralleli; l'orientazione non è in base a punti astronomici, ma segue linee fisiche, ossia le linee magnetiche indicate dalla bussola, che sono asimmetriche. Ci si limita perciò a ricercare, per lo più, quale delle proiezioni in uso si adatterebbe meglio al disegno presentato dalle carte nautiche, in modo da attenuare anche qui le inevitabili deformazioni risultanti da una rappresentazione in piano. Ma le ricerche conducono a conclusioni disparatissime. J. Lelewel per il primo pensò di sovrapporre il disegno del Mediterraneo offerto da queste carte a una carta moderna per vedere lungo quali meridiani e paralleli verrebbero a disporsi i luoghi segnati nella carta stessa in confronto con le posizionì che essi hanno oggi secondo una data proiezione, e, avendo trovato i paralleli curvi, ma di raggio vario da una carta all'altra e in una medesima carta, credette di poter concludere per una proiezione arbitraria e accidentale che però sotto certi rispetti si avvicina alla conica. Sennonché in mancanza di paralleli geografici si dovrebbe pensare a un cono circoscritto a un parallelo magnetico, onde i meridiani dovrebbero convergere verso un polo magnetico, mentre risultano quasi sempre approssimativamente paralleli come in una proiezione cilindrica. E, del resto, il Lelewel si valse di un numero troppo limitato di carte, e per giunta di riproduzioni ridotte in piccolissima scala, da 1:25 a 1:40 milioni, perché le sue deduzioni possano apparire attendibili. Il D'Avezac invece volle considerarle come virtualmente appartenenti alla primitiva famiglia delle carte piane, e tali fu pure indotto a considerarle, sebbene non così esplicitamente, O. Peschel: i varî punti sarebbero situati su meridiani e paralleli rappresentati da linee rette e parallele che si tagliano ad angolo retto, a scala costante. Ma, dato che meridiani e paralleli sarebbero equidistanti e che i gradi di longitudine resterebbero dappertutto uguali, dovrebbero risultare alterate le distanze e con queste la configurazione delle terre; il che non si verifica, almeno secondo le proporzioni volute. E anche i paralleli non appaiono sempre linee rette, presentando in realtà qua e là dei tratti curvi. Da un esame assai più approfondito il Breusing fu invece indotto ad ammettere che si trattasse di fatto di carte lossodromiche, considerandole disegnate in modo che i luoghi sono determinati con il sussidio delle linee di rotta lossodromica. Se di tutti i luoghi è conosciuta la reciproca posizione lossodromica, basta semplicemente partire da due dati punti e collocarli a una determinata distanza l'uno dall'altro e condurre da essi la relativa lossodromica verso ogni terzo punto per ottenere a rigore una proiezione conforme a quella di Mercatore. Ma poiché, dice il Breusing, la declinazione magnetica varia da luogo a luogo e i meridiani geografici sono tagliati da angoli diversi dai meridiani magnetici, così anche le lossodrome dovrebbero adattare il loro angolo coi veri meridiani nello stesso rapporto con cui varia la declinazione. Ora gl'Italiani - sempre secondo il Breusing - ignoravano la declinazione e le sue variazioni, e le lossodrome si tiravano come linee rette, onde a voler coprire con una rete le carte lossodromiche si deve ricorrere a una proiezione conica. Sennonché bisognerebbe provare che i marinai dei primi del sec. XIV fossero in grado di mantenere la nave in una direzione lossodromica, e si dovrebbe ammettere che le carte, rettificando le direzioni lossodromiche, fossero disegnate inconsapevolmente in proiezione di Mercatore, cioè a latitudini crescenti. E in una proiezione sostanzialmente conica si dovrebbe sempre avere una convergenza dei meridiani e una curva dei paralleli, il che non risulta. Da un principio assolutamente diverso da quelli veduti sin qui parte M. Fiorini, il quale considera come essenziale per la soluzione del problema la rete formata dalle linee della rosa centrale e delle periferiche; ma queste linee irradianti dalle rose non sono lossodromiche, ma archi di circolo massimo che per mezzo di apposita scala riportavano le distanze sul piano senza arrecare alterazione veruna alle grandezze lineari e angolari: i rombi della rosa centrale, per lo più 16, si possono considerare altrettanti azimut irradianti dallo zenit di essa, e rappresentati in piano da linee rette aventi le stesse direzioni azimutali. Le distanze sono conservate equidistanti dall'orizzonte della parte centrale della carta compresa nel circolo delle 16 rose periferiche. Non appaiono però i circoli paralleli e concentrici che corrisponderebbero agli almicantaratti; unico, se mai, si potrebbe considerare quello delle 16 rose periferiche. Le coordinate sarebbero azimut e almicantaratti, e l'azimut principale coinciderebbe con la linea N.-S., o meglio col circolo massimo diretto secondo il meridiano magnetico. Questo per le carte a superficie limitata; per quelle rappresentanti estensioni maggiori si adoperano due sistemi di rose tangenti o due sistemi di rose concentrici. La teoria del Fiorini può per molte ragioni, apparire la più ovvia; ma ad escludere che la rete formata da codeste linee irradianti dalla rosa centrale e dalle periferiche rappresenti un tentativo di proiezione dovrebbe valere una circostanza che sinora non è stata rilevata: che cioè si hanno sin dai primi del sec. XVI dei planisferi in proiezione quadrata e più tardi anche carte in proiezione di Mercatore che sono coperte da una rete identica: sarebbe assurdo immaginare una carta disegnata su due proiezioni contemporaneamente, cilindrica e azimutale equidistante, come risulterebbe quella immaginata dal Fiorini. Inoltre, variando pressoché in ogni carta la collocazione della rosa centrale, anche i rapporti reciproci fra le varie parti dovrebbero essere diversi da una carta all'altra. Lo Steger, che si occupò in modo speciale del problema, si propose soprattutto di risolverlo con l'applicazione del metodo cartometrico, e dopo un'infinità di misure trovò che tanto nel bacino orientale quanto in quello occidentale del Mediterraneo le misure da E. a O. indicano senza eccezione una diminuzione della lunghezza del miglio procedendo da S. a N., onde aumentando di mano in mano in questo senso la scala, lo stesso numero deve moltiplicare un miglio più piccolo o il medesimo miglio deve esser moltiplicato per un numero minore, dal che egli deduce che i meridiani sono approssimativamente linee parallele. E i paralleli risultano pure linee rette parallele. In sostanza la rete di codeste carte si avvicina a quella delle carte piane; ma, secondo le misure dello Steger, non si tratta di un cilindro circoscritto, ma di un cilindro penetrante, in modo che il rapporto del grado di latitudine con quello di longitudine si adatti a quello del parallelo medio del bacino in questione: così nel Mare iberico si adatta a quello che è sul parallelo 36°, nel Tirreno fra 38° e 39°, nello Ionio fra 33° e 34°.

Sennonché non ci risulta se a S. di codesti paralleli la lunghezza del miglio vada, come dovrebbe, di mano in mano crescendo, o se lo stesso miglio debba esser moltiplicato per un numero più grande; e, d'altra parte, il decorso parallelo dei meridiani che viene sempre approssimativamente riscontrato, può derivare non già dall'adozione di una proiezione cilindrica, ma dal fatto che la superficie del Mediterraneo è estesa di pochi gradi in latitudine, talché in qualunque proiezione i meridiani possono apparire sempre, sensibilmente, paralleli. Ma soprattutto, per quanto numerose e diligenti siano codeste misure, contro le conclusioni dello Steger stanno sempre i difetti e gl'inconvenienti del metodo cartometrico sopra rilevati.

Ora, da codesta stessa possibilità di adattare alle carte nautiche tipi così diversi di proiezione, dovrebbe emergere implicitamente la conseguenza che esse sono tracciate senza nessuna proiezione: la superficie rappresentata è considerata come piana. Esse risultano probabilmente composte dall'unione di bacini parziali rilevati con la bussola, nei quali gli errori e le deformazioni riuscivano pressoché trascurabili: e di questo troviamo forse traccia in alcuni atlanti, come in uno di P. Vesconte del 1318, dove ogni foglio sta a sé, con una rosa centrale e le 16 periferiche. E quando questi singoli tratti furono riuniti in un solo piano non si pensò d'inquadrarli in una proiezione perché agli elementi della bussola si sarebbero dovuti sostituire dati astronomici che non si era in grado di fissare; la declinazione magnetica e le sue variazioni di luogo e di tempo, e probabilmente il fatto che le varie sezioni originarie non furono rilevate alla medesima scala e che perciò non dovette esser facile ridurle esattamente alla stessa scala, spiegano l'alterazione delle distanze e il decorso irregolare dei meridiani e dei paralleli che oggi immaginiamo di tracciarvi. Codeste deformazioni di distanze, angoli e superficie si notano poi dappertutto, mentre in una conica o in una cilindrica dovrebbero riuscire insensibili in vicinanza almeno del parallelo di osculazione, e in una azimutale in vicinanza del centro della rosa. Si può ammettere, del resto, che le conseguenze di codesti difetti non dovessero, in pratica, riuscire troppo gravi trattandosi, anzitutto, di una superficie limitata come quella del Mediterraneo, che con i suoi 3 milioni all'incirca di kmq., compreso il Mar Nero, rappresenta 1/170 dell'intera superficie terrestre. E inoltre date le particolari condizioni del Mediterraneo, gli errori praticamente non dovevano mai riuscire tali da non poter esser corretti con la vista di isole, promontorî, montagne e altri particolari costieri facilmente riconoscibili dalla nave in seguito alle dettagliatissime indicazioni dei portolani; basti pensare che un'altura di 500 m. ha un raggio di 43,1 miglia geografiche da 60 al grado = 79,8 km.; di 700 m. = 51 miglia = 91,4 km.; di 1000 = 60,9 miglia = 112,8 km.; e in un mare in cui il cielo è così spesso sereno e l'aria limpida è difficile percorrere un tratto anche lungo in cui non si trovino isole o monti di aspetto ben noto che non abbiano almeno siffatte altezze. Al qual proposito si hanno testimonianze esplicite di idrografi del '500 e del '600, come il Nonio (De arte atque ratione navigandi, Coimbra 1573, p. 12) e il Coronelli (Specchio del mare, Venezia 1693, cap. III). Quest'ultimo dice, fra altro: "essendo in detto mare per il più delle volte l'aria chiara e le terre assai alte, e molti luoghi poco distanti gli uni dagli altri, a segno che appena lasciato dì vista uno si scopre poco dopo l'altro, così hanno trovato non essere necessaria la latitudine per conoscere i luoghi e le terre", onde l'esperienza ha dimostrato "essere più a proposito fare le carte del detto Mediterraneo con la positura dei loro rombi". E Bartolomeo Crescenzio (Naut. medit., p. 189) dice chiaramente: "ad altro fine non sono fatte le linee o venti che in quella si veggono, salvo a sapere quali sono le vie che da un luogo all'altro i vascelli conducono", e soggiunge che i venti venivano tracciati dopo il disegno; quindi essi non rientrano come linee sussidiarie del disegno stesso, tant'è vero che pur essendo questo identico, la posizione delle rose varia da una carta all'altra. Sarebbe assurdo immaginare una proiezione tracciata dopo il disegno. Ma una conferma che non potrebbe essere più significativa dell'inesistenza d'ogni sistema, sia pure approssimativo, di proiezione, ci viene fornita esplicitamente dall'autorità di due grandi idrografi e geografi del '600: il Fournier (Hidrographie, Parigi 1643, XIV, cap. 22, 23) e il Riccioli (Geogr. et Hydrographiae reformatae, Bologna 1661, XIX), i quali distinguono nettamente tre specie di carte marine: 1. carte senza meridiani e paralleli, ma con le linee dei venti e i particolari costieri situati secondo il rombo di vento loro proprio, secondo il quale i piloti hanno riconosciuto trovarsi per loro esperienza gli uni rispetto agli altri, o secondo le relazioni diquelli che vi sono stati: dette per direzioni e distanze, 2. carte per distanze e latitudini, che hanno oltre alle linee dei rombi e le scale delle distanze, paralleli e meridiani a gradi uguali (cilindriche quadrate, a grado equatoriale); 3. carte ridotte (proiezione di Mercatore). In conclusione, le carte nautiche italiane non appaiono suscettibili di adattamento a nessun tipo di proiezione: esse si fondano sulle direzioni fornite dalla bussola e sulla distanza valutata a stima. Anzi, poiché sono costruite in base a elementi siffatti, parlare di proiezione è assurdo.

Il fenomeno della declinazione magnetica. - Non solo nelle carte, ma nemmeno nei portolani ricorre il minimo accenno alla declinazione e tanto meno alle sue variazioni di luogo e di tempo; come, del resto, non ne parla nessun scrittore medievale: lo stesso P. Peregrino de Maricourt nella sua famosa Epistola ad Sigerum de Foucaucourt militem de magnete del 1269, mentre conosce l'angolo formato dalla Polare col Polo - allora di circa 5° - non fa cenno del fenomeno; ed è ormai dimostrato che, contro quel che si credeva un tempo, la declinazione non è affatto indicata né corretta da A. Bianco nel suo atlante del 1436. Molto si è discusso e si discute se, ciò nonostante, i navigatori conoscessero il fenomeno e in pratica ne tenessero conto. Sta di fatto che tutte indistintamente le carte, a onta dell'ammirevole armonia del loro insieme, presentano un disegno costiero dal quale non risulterebbe che il fenomeno fosse conosciuto e corretto: tutte le coste procedendo da O. a E. si tengono molto più al N. di quanto dovrebbe essere, ossia i contorni delle terre non passano, come si esprime il Peschel, per le direzioni esatte del cielo, ma si trovano quasi tutti rivolti da destra a sinistra, spostati nel senso opposto a quello dell'indice di un orologio: cosicché, ad es., nell'Atlante di A. Bianco del 1436 Gibilterra e Alessandria vengono a trovarsi nello stesso parallelo mentre la prima località è di 5° circa più a N., e la linea EO. passa per la foce del Tago (38°41′) e S. Giovanni d'Acri (32°51′), onde si trovano sullo stesso parallelo due luoghi che hanno una differenza di 5°49′; così la foce del Tamigi è a O. di Caffa, mentre la prima è di circa 6° più a N. Ma oltre a questa disorientazione generale lungo l'asse maggiore della carta, se ne osservano parecchie altre locali che hanno valori diversi, come da 6° a 7° E. nel Tirreno e persino di 11° E. nel Mar di Levante. Il che dovrebbe indurci ad ammettere senz'altro che quando furono eseguiti i singoli rilievi dei varî bacini o sezioni del Mediterraneo, la bussola segnava in ciascuna di queste quella data declinazione, e che questa era in prevalenza orientale. Tutte queste disorientazioni, generali e locali, compaiono e si conservano senza eccezione in tutte le carte, e solo alla fine dal '500 alcuni cartografi (Crescenzio, Barentson) cercarono di correggerle valendosi delle determinazioni astronomiche. Ma già prima, al tempo delle grandi scoperte - quando l'inconveniente s'era complicato con la scoperta della deviazione dell'ago da E. a O. nell'Atlantico - si era cercato di provvedere cotreggendo le bussole stesse, cioè fissando l'ago sotto la rosa non più secondo il N. segnato dalla bussola, ma più a O. o più a E. a seconda dell'angolo formato dalla direzione dell'ago con quella del meridiano geografico, e si distinsero così le bussole fiamminghe, fondate su questo principio, e le bussole italiane o genovesi conservatesi inalterate. Lunghe furono le discussioni fra gli scrittori di nautica del sec. XVI sull'opportunità di adottare il nuovo principio; ma in genere, soprattutto gl'idrografi spagnoli, raccomandarono, come più pratico, il sistema di correggere volta per volta, perché con una bussola corretta i piloti potevano esser facilmente tratti in inganno credendo che quella valesse per tutti i luoghi, mentre esistevano sempre variazioni di luogo in luogo. Conoscevano i navigatori italiani del Medioevo la declinazione e riuscivano in pratica a tenerne conto? Oggi prevale l'idea che non la conoscessero, e che i primi a segnalarla e a correggerla furono, nella seconda metà del '400, i costruttori tedeschi degli orologetti solari, nei quali è indicato l'angolo che l'ago della bussola fa con la direzione vera dal N., mentre per l'innanzi si riteneva che il primo a scoprire la declinazione fosse stato Colombo, nel primo viaggio (è ormai accertato che Colombo scoprì invece la variazione della declinazione stessa, da orientale a occidentale a 100 leghe all'incirca a O. delle Azzorre). Ma già a priori si dovrebbe ammettere che i navigatori italiani dovevano conoscerla e quindi, per forza, tenerne conto: si può ammettere che i disegnatori di queste carte orientate col N. magnetico, le orientassero in tal modo a loro insaputa, senza dubitare che il N. della bussola non coincideva col N. vero? Potevano effettivamente i piloti non accorgersi che un punto N. al quale si dirigevano risultava effettivamente di 4°, 5°... 10° più a O. della direzione indicata dall'ago? Continuando in questa direzione la nave poteva giungere a località lontana centinaia di km. dalla meta. Ma - si osserva - perché allora non correggere le carte, e valersi di carte disorientate? La risposta è ovvia: se piloti e cartografi sapevano della declinazione, dovevano pure essersi accorti che il fenomeno variava, nello stesso Mediterraneo, da luogo a luogo e secondo il tempo, onde correggere la carta sarebbe stato un lavoro immane, continuo e anche inutile, dato che non facendo uso di determinazioni astronomiche, dovevano attenersi a un elemento costantemente variabile come quello della posizione dell'ago. Oggi nelle carte marine, fondate su elementi astronomici, si possono indicare le variazioni da luogo a luogo e determinare anche in misura approssimativa i valori delle variazioni di tempo: ma neppur oggi si potrebbe concepire una carta del Mediterraneo disegnata solo in base ai rilievi della bussola, senza che il disegno subisca le stesse alterazioni e deformazioni d'allora. I marinai si saranno anche qui regolati con la pratica, correggendo, quando potevano, col sole e con gli altri astri, e soprattutto rettificando le direzioni con la vista di isole, promontorî e monti ben noti. Ed è anche un errore ammettere che, pur conoscendo il fenomeno nei suoi effetti, lo attribuissero alla deriva, allo scarroccio o al difetto dello strumento, perché dovevano ben essersi accorti che, almeno per quest'ultimo punto di vista, le stesse bussole segnavano variazioni in certi luoghi, mentre riprendevano la direzione normale, se si ritornava al punto di partenza.

Ma forse ulteriori e più accurati studî sopra le carte originali dei cartografi più apprezzati, ci daranno il modo di constatare che nelle carte stesse si possono trovare indicazioni riferentisi al fenomeno. È opportuno aver presente che se, ad es., la declinazione è di una quarta (11° 15′) a E. e la carta segna invece questa direzione come la linea del N., un punto situato su questa linea non si trova sul meridiano ma nella direzione di 11° 15′ verso NE., sicché deve venir trasportato di un angolo siffatto verso O. e per correggerne la direzione bisognava girare la carta da sinistra a destra in modo che il vero N. venisse a formare un angolo uguale a questo con la direzione indicata dalla linea SN. tracciata sulla carta stessa. Questa operazione poteva riuscire superflua in una navigazione lungo la costa, abbondando qui oggetti di riferimento; ma essa doveva apparire necessaria e doveva perciò richiedere qualche indicazione, anche questa desunta dalla pratica, in mare aperto, quando s'era perduta di vista la terra e non riusciva agevole una correzione per mezzo dell'osservazione degli astri. E a quest'uopo servivano forse certe crocette sparse appunto soprattutto nell'aperto Tirreno e nel mare a O. della Sardegna e della Corsica (non si trovano, ad es., nell'Adriatico), crocette che sono sempre accuratamente ad angolo retto, e con costante inclinazione a O., tale da farci supporre che avessero lo scopo d'indicare ai marinai che in quel tratto di mare la direzione del Nord vero formava con quella tracciata sulla carta un angolo uguale a quello che l'ago della bussola formava col meridiano; o, in altri termini, che il Nord vero non era quello indicato dalla rosa ma l'altro indicato dalla linea verticale della crocetta. Queste crocette non possono certo segnare scogli o bassofondi (solo più tardi le troviamo lungo le coste per indicare scogli, ma nelle carte più antiche si vedono solo al largo) dato che ivi il mare è profondo, e neppure punti di riferimento alla rotta fissati volta per volta, perché questi, come dicono esplicitamente gli scrittori di nautica, venivano segnati col piombino e poi cancellati. In qualche carta, specie nelle più antiche, si notano, anche per crocette a non grande distanza l'una dall'altra, angoli diversi; e talvolta le linee s'avvicinano anche a coincidere con quelle NS., EO. della carta: il che sta forse a indicare che i piloti sapevano del variare della declinazione e delle anomalie da luogo a luogo (si abbia presente, ad es., che nel 1899 si aveva una declinazione di 15° 6′ O. a Gibilterra, di 10°,6′ O. a Bonifacio, di 2° 6′ O. in vicinanza di Cipro, e di 0° nel Mar Nero orientale e che nel 1924 erano 8° 20′ per Corte e 5° 54′ per Bastia). Naturalmente queste indicazioni saranno state date per approssimazione; e siccome le carte si ricopiavano e si ricalcavano una dall'altra, così è facile comprendere come poi questi angoli indicati dalle crocette venissero alterati in un senso o nell'altro: e forse copisti grossolani le segnavano senza neppur comprenderne il significato.

Queste osservazioni hanno per ora un semplice valore d'ipotesi; ma è possibile che uno studio accurato di tali elementi, da farsi sopra le carte più antiche e più apprezzate, oltre a fornirci nuove prove della sapienza e dell'esperienza di quei navigatori italiani, abbia a riuscire proficuo anche per la determinazione del valore della declinazione e delle sue variazioni in passato.

Uso delle carte. - Si deve premettere che la navigazione era, anche allora, come nell'antichità, per lo più costiera, e che a tale scopo bastava ai marinai regolarsi osservando i particolari della terra; solo quando si perdeva di vista quest'ultima e si dovevano attraversare larghi tratti di mare si doveva ricorrere a mezzi che richiedevano conoscenze più complesse. Si navigava, come è noto, a stima, in base ai due elementi della direzione (bussola) e della distanza. In mancanza del solcometro, questa veniva determinata con osservazioni di carattere pratico che si fondavano soprattutto sullo stato della velatura. Prima di partire il pilota stendeva la carta in piano, orientandola in modo che le quattro direzioni principali coincidessero coi punti cardinali; fissava quindi il luogo della partenza e quello dove voleva arrivare, tracciando col piombino il vento o rotta da seguire. Se questo coincideva con un rombo della carta e se il vento era e si conservava nella direzione voluta, bastava dirigere l'asse della nave lungo questa linea e procurare col mezzo della bussola di conservarla nella medesima direzione, correggendo con la pratica le deviazioni cagionate dalla deriva. Ma questo sarà stato, naturalmente, un caso raro. Mancando, come più spesso succede, un vento proprio la direzione dovrà restare più o meno alterata, e quanto più la nave procede "più il luogo, ove ha d'andare, risponde a venti differenti o diversi; e quindi i marinari hanno i modi e le regole loro fondate con molta ragione, et confermate con molta esperienza, havendo tavole e numeri, che maravigliosamente gli reggono, et valendosi dell'orologio (a polvere) per veder il tempo del soffiar di ciascun vento, ove hanno ragione e pratica, se non in tutto certa, a saper quante miglia hanno fatto con ciascun vento" (G. Ruscelli, Espositione et introdutione universali a tutta la Geogr. di Tolomeo, 1461, cap. VIII). Queste regole venivano riunite in un breve prontuario, detto raxon (regola) o toleta (tavoletta) del martelogio, di cui l'esemplare più antico che si conosca è quello offerto dalla prima carta dell'Atlante di A. Bianco del 1436 (sebbene sia già ricordata in un documento genovese del 1390).

S'ignora l'origine e così pure il significato del nome: per alcuni marilogium = regola del mare; per altri ὁμαρτολόγιον = trattato o discorso d'accompagnamento; oppure da mare e tela = rete del mare, o da ἡμέρα e λόγος = calcolo giornaliero e così di seguito. Ma nessuna spiegazione appare soddisfacente.

Con l'applicazione di numeri disposti in 4 colonne, adattati per una navigazione-base di 100 miglia, il marinaio moltiplicando e dividendo a mente, sapeva di quanto un vento sfavorevole lo aveva allontanato dalla meta (allargare), e di quanto aveva potuto progredire (avanzare); col ritorno del vento favorevole, il martelogio indica quanto cammino si deve fare per rimettersi nella via diretta (ritornare) e quante miglia si dovranno percorrere per raggiungere la meta (avanzare di ritorno). Era in sostanza (Guglielmotti) un metodo pratico espresso in una tavoletta, dove invece di logaritmi erano segnate le resultanti di qualunque rotta obliqua dovesse seguire il pilota per forza di venti o di altri impedimenti, e risolveva il quesito dei seni e coseni secondo i rapporti dei due cateti con l'ipotenusa.

Origine delle carte nautiche. - Come si formarono le carte nautiche medievali? Sono esse una derivazione e una trasformazione di alcunché di simile in uso presso gli antichi, o sono una creazione ex novo? A questo problema s'intrecciano poi quelli dei loro rapporti con i περίπλοι e con i portolani stessi. È certo intanto che da nessuno scrittore antico si ricava direttamente o indirettamente che gli antichi facessero uso di carte nella navigazione; e, del resto, come per i viaggi terrestri accanto agli itinera adnotata sono ricordati gli itinera picta (tabula peutingeriana), è probabile che anche per i viaggi di mare insieme con i περίπλοι non avrebbero mancato di far menzione degli itinera maritima picta. La navigazione era, salvo casi eccezionali e per brevi percorsi, esclusivamente costiera, e per lo più nei mesi da marzo a settembre, e a questa bastavano i περίπλοι, descrizioni di viaggi costieri con i particolari più interessanti e più facilmente riconoscibili e con l'indicazione delle distanze da luogo a luogo espresse semplicemente in giornate di viaggio (Scilace di Carianda) o in giornate e in stadî (Arriano), o in stadî (fra tutti il più noto lo Σταδιασμὸς ἤτοι περίπλους τῆς μεγάλης ϑαλάσσης, forse del secolo d'Augusto, ma incompleto): solo il periplo del Ponto Eusino, attribuito a Marciano d'Eraclea del sec. V d. C., dà le distanze in miglia. Ma mentre vengono date le distanze (con differenze notevoli dall'uno all'altro), manca in essi qualsiasi accenno all'elemento direzione, che invece appare nei portolani medievali. Ora, fra il più recente dei περίπλοι e il portolano più antico (fine del sec. XIII) che si conserva nella Marciana, corrono ben otto secoli, durante i quali non abbiamo nulla che segni il passaggio fra una forma e l'altra per quello che riguarda l'applicazione di codesto elemento essenziale, la direzione rispetto ai punti dell'orizzonte; e non si ha neppure un qualsiasi indizio di un graduale passaggio fra le indicazioni di distanze limitate ai soli luoghi costieri nei peripli, e le indicazioni di distanze anche attraverso il mare aperto, persino di centinaia di miglia, quali ricorrono nei portolani. Anche l'antica nomenclatura è sostituita da nomi italiani; molte località non figurano più, e parecchie nuove ne appaiono specialmente in Oriente, nel Mar Nero, e lungo le coste africane, dove si tratta quasi sempre di adattamenti italiani alle denominazioni arabe. Una stretta derivazione dei portolani, e naturalmente anche delle carte, dai περίπλοι non sembra per queste ragioni ammissibile: sarebbe come voler vedere un rapporto d'intima dipendenza fra gli orologi meccanici e gli orologi solari: lo scopo è identico, ma il mezzo è essenzialmente diverso. È evidente invece che portolani e carte si basano sull'introduzione di un principio nuovo, quello della bussola, applicato a essi quasi improvvisamente verso la fine del sec. XIII, come risulta per l'appunto dalla comparsa contemporanea del più antico portolano, quello della Marciana - troppo vaghi essendo i dati del frammento di portolano di Adamo da Brema, sec. XI, dove le direzioni sono solo grossolanamente indicate fra due punti cardinali, e le distanze sono fornite solo in giorni e in notti - e della più antica carta nautica, la cosiddetta carta pisana, pure della fine del secolo XIII. Solo in possesso di un elemento come la bussola - non risultando che fossero in uso determinazioni astronomiche - era possibile fissare e coordinare direzioni e distanze e inquadrare in un sol piano i dati occorrenti alla navigazione in qualunque senso: si può dire che questa ne rimase così radicalmente trasformata come lo fu più tardi l'astronomia per la scoperta del cannocchiale.

Per la storia della prima scoperta, delle prime applicazioni e dei successivi adattamenti di questo strumento v. cannocchiale, VIII, pagina 741; qui sarà sufficiente ricordare che la proprietà attrattiva della calamita era ben nota agli antichi, ma che la virtù direttiva, conosciuta dai Cinesi per i viaggi di terra, è menzionata presso i popoli del Mediterraneo solo nella seconda metà del sec. XII; si hanno infatti testimonianze indubbie (le più antiche di Guyot de Provins, 1190, e di Alessandro Neckam del 1157-1217) che in quel tempo l'ago calamitato serviva già alla navigazione. Più frequenti sono le testimonianze nel sec. XIII (fra le altre quella esplicita di uno scrittore arabo nel 1242). Ma per questi primi tempi si trattava di un ago infitto in un fuscello o pagliuzza galleggiante in un vaso d'acqua; onde l'uso doveva esser limitato solo in casi eccezionali, e doveva riuscire tutt'altro che esatto e facile in pratica. Più tardi, lo strumento - come si rileva dalla descrizione di P. Peregrino de Maricourt, del 1269 - è formato da un ago imperniato dentro una scatoletta (bossolo) di legno con la rosa tracciata sul fondo o nel coperchio trasparente. Ma neppure questo tipo di bussola avrebbe potuto consentire un vero progresso nell'arte della navigazione, perché, essendo le divisioni sul coperchio, quando si doveva orzare il punto N. girava col bastimento mentre l'ago restava fermo, e per calcolare la direzione vera occorreva un'infinità di correzioni complicate, che la rendevano incomoda e quasi inservibile: essa avrà potuto servire per i rilievi costieri e per le descrizioni, solo costiere, dei portolani. Infatti non si ha traccia di carte nel tempo in cui scriveva Peregrino. La vera bussola, quella che doveva servire in modo sicuro e completo, fu quella, che essenzialmente si conserva ancor oggi, in cui l'ago venne unito alla rosa: un cartoncino con l'ago fissato al disotto, imperniato nel centro del bossolo, in modo che ago e rosa fossero indipendenti dal movimento della nave. E questo costituiva veramente un progresso enorme, dando uno strumento quasi del tutto nuovo (la prima descrizione è nel commento dantesco di Fr. da Buti, 1324 circa). È ormai generalmente ammesso che l'avere per tal modo resa mobile con l'ago anche la rosa dei venti è merito, se non di un personaggio chiamato Flavio Gioia, degli Amalfitani probabilmente verso la fine del secolo XIII, al qual tempo risale il primo tentativo di carta generale del Mediterraneo, rappresentato dalla cosiddetta carta pisana (è vero che un accenno esplicito a carte costruite anteriormente è dato dal cronista della spedizione per mare, su navi genovesi, di Luigi IX del 1270; ma è difficile che sia stata una carta costruita in base alla nuova bussola, perché P. Peregrino de Maricourt non menziona ancora questo tipo di strumento; forse si trattava di carte o rilievi parziali).

Qualche scrittore (H. Wagner, E. Nordenskiöld) ha sostenuto che la bussola non ha esercitato influenza sull'origine delle carte nautiche, ma fondandosi sopra una presunta corrispondenza del miglio nautico medievale con un'analoga misura delle distanze marittime dei περίπλοι ha ammesso ch'esse fossero una derivazione dei περίπλοι stessi, dei quali non fecero che rappresentare graficamente i dati già preparati anteriormente in rilievi parziali; e a conferma fu addotta l'improbabilità che il tempo trascorso dal primo uso della bussola a quello della formazione delle prime carte - circa un secolo - sia stato sufficiente per comporre i nuovi rilievi parziali che servirono poi a formare la carta d'insieme, traendo argomento di ciò dagli schizzi che accompagnano la sfgera del Dati, del '400. Ora questi schizzi non hanno traccia, è vero, dei venti o rombi della bussola; ma non è escluso che l'autore nel copiarli dagli originali li abbia omessi per brevità o perché erano inutili per lo scopo della sua opera. Ma di rilievi parziali, di tratti costieri fatti unicamente in base ai dati della bussola, se oggi non se ne hanno di quell'epoca perché solo la diffusione della stampa avrebbe reso possibile la loro conservazione, ce ne rimangono nei varî "specchi del mare" del '600; e di tal natura sono quelli del famoso viaggio di João de Castro da Goa a Diu e da Goa a Suez del 1538-41. Nulla c'impedisce di ammettere che anche le carte parziali del Mediterraneo, dalla cui unione doveva di mano in mano risultare la carta d'insieme fatte da autori diversi e in tempi diversi, siano state composte ex-novo alla bussola senza tener conto, anzi evitando di tener conto di codesti presunti rilievi antichi - che nessuno ha mai visto né menzionato - non fosse altro per il fatto che la carta di Tolomeo fissava per il Mediterraneo ben 62° di longitudine anziché 42°. Quanto alla addotta brevità del tempo, basti pensare alla rapidità con cui in pochi anni, nell'epoca delle grandi scoperte, vennero fuori le carte generali o padrones dell'Africa e delle terre americane. Ma più di tutto a stabilire il diretto, indispensabile rapporto delle carte nautiche con la bussola, giova l'osservazione (Kretschmer) che la disorientazione che si riscontra in tutte non può derivare che dalla declinazione indicata dalla bussola stessa.

Ogni discussione sopra la precedenza in ordine di tempo, delle carte e dei portolani, dovrebbe essere superflua, dato che, fondandosi entrambi sopra l'introduzione del nuovo elemento, essi dovettero aver origine nel medesimo tempo: è presumibile che di mano in mano che si facevano e si coordinavano i rilievi, i risultati venissero fissati tanto nel libro destinato a raccoglierli, quanto sulle carte; i portolani erano, natutalmente, più ricchi d'indicazioni di particolari costieri; ma le direzioni vi sono, in genere, date solo per approssimazione: "fra ostro e garbin, se tocha de garbin, ecc." e non vanno al di là delle quarte di vento, mentre la carta, oltre a offrire una veduta d'insieme, consentiva di fissare la direzione esatta, la rotta e la posizione della navc rispetto a tutti i punti. Certo erano entrambi, più che oggi, indispensabili l'uno all'altra.

Chi abbia per primo provveduto a creare un così insigne documento di esperienza, corrispondente in modo così adeguato alle necessità della navigazione di quel tempo, è ancora ignoto. La carta più antica che noi possediamo è anonima e senza data, ma sebbene vada sotto il nome di carta pisana, perché appartenente a una famiglia di Pisa - è indubbiamente opera di un genovese, e quanto all'epoca, si ritiene di poterla assegnare verso la fine del sec. XIII. Essa è, più che altro, un primo rozzo tentativo o abbozzo di carta d'insieme, forse anzi una prova mancata, poiché le linee dei venti stesse sono tracciate in modo incompleto, tantoché alcune zone rimangono fuori dai due sistemi delle rose: vi manca il Mar Nero, e le coste atlantiche vi figurano in uno stato che non si può dire neppure embrionale. Il documento più antico di data conosciuta è la carta del genovese Pietro Vesconte, del 1311; ma è una rappresentazione incompleta, poiché ci offre solo il bacino centrale e orientale del Mediterraneo con rosa centrale e 16 periferiche. La mancanza della parte occidentale e delle coste atlantiche può indicare che a quella data non si erano ancora coordinati i rilievi o sezioni parziali per adattarli in una unica carta generale? A sostegno di questa ipotesi potrebbe addursi il fatto che tutte le successive carte del Vesconte non sono ancora in una sola mappa, ma sono raccolte in atlanti da 6 a 9 carte, rappresentanti ciascuna una data sezione delle coste e mari conosciuti, compresi, a datare dal 1313, anche quelli che mancano nella prima carta generale: essi sono, sinora, sei, e vanno dal 1313 al 1320. Può essere che nei due primi decennî del sec. XIV non si fosse riusciti a comporre la carta d'insieme, e che per questa abbia dovuto occorrere un lungo lavoro per tentar di ridurre alla stessa scala le singole sezioni (in due atlanti del Vesconte, del 1318, alcune di queste figurano a scala diversa; ad es., la Sicilia del Mar Ionio figura in scala molto più piccola di quella ripetuta nel Tirreno), per raccoglierle in un sol piano operando la sutura dei varî tratti in modo da evitare alterazioni nelle proporzioni e nelle direzioni. A ogni modo, il primo cartografo conosciuto è genovese: uno di questi atlanti, del 1318, è costituito a Venezia, e anche un altro, del 1320, pure del Vesconte, è annesso al Liber secretorum fidelium crucis del veneziano Sanudo; onde perché Venezia ricorresse all'opera del Vesconte, e siccome non si hanno carte veneziane se non nella seconda metà del sec. XIV, bisogna ammettere come probabile che l'arte di costruire questo tipo di catte fosse allora agl'inizî e che - almeno dai documenti conservatisi - il merito d'averlo creato sia di un genovese. E di un altro genovese è pure il vanto di aver composto quella prima carta d'insieme che resterà poi il prototipo, pressoché inalterato, di tutte le earte nautiche per oltre due secoli: è questa la carta del genovese Angelino Dalorto del 1325, il documento più perfetto e più importante della cartografia nautica medievale. In essa su due sistemi di rose tangenti viene per la prima volta rappresentato in un sol piano tutto ciò ch'era praticamente conosciuto di mari e di coste con una sicurezza e un'armonia sorprendenti; viene corretto e ampliato il disegno del Mare del Nord e delle Isole britanniche (per la prima volta la Scozia, dal Vesconte considerata isola, viene unita all'Inghilterra), ed è offerto il primo disegno dello Jütland, della Norvegia e Svezia meridionale, nonché del Baltico: qui la rappresentazione è, si capisce, difettosa trattandosi di coste che la Hansa teneva gelosamente inaccessibili, ma nelle linee generali c'è sempre del vero. È notevole anche il fatto che Dalorto ha per la prima volta introdotto alcuni particolari interni (fiumi, montagne, ecc.), nonché quelle iscrizioni e quelle figure riempitive che formeranno poi il vanto, troppo esaltato, della cosiddetta scuola catalana. La carta di Dalorto segna un progresso enorme (d'incerta data è la carta, pure genovese, di Giovanni da Carignano, e nulla prova in modo sicuro che sia anteriore; in ogni modo è molto al disotto per pregi alla carta dalortiana), e sinché non vengano alla luce documenti più antichi, essa rimane l'esemplare principe della cartografia nautica medievale.

Se non bastassero i nomi di questi due cartografi ad assicurare a Genova la gloria d'aver creato e diffuso la carta normale - opera, ha detto A. E. Nordenskiöld, unica non solo nella storia della navigazione, ma della stessa civiltà - si potrebbe aggiungere che di autore genovese sono tutte le altre carte più antiche conservatesi sin oltre alla metà del sec. XIV, come quella già ricordata del Carignano, di P. Vesconte del 1327, dell'anonimo detto di Tammar Luxoro e dell'anonimo autore dell'atlante mediceo (1351). Eppure, come si è già detto, non è mancato chi ha sostenuto doversi il merito di ciò ai Catalani, e ancor oggi si ammette da molti che, se non altro, anche i Catalani hanno largamente contribuito alla creazione e allo sviluppo della cartografia nautica del Medioevo. Il fatto che uno dei documenti più noti e più a lungo studiati fosse una carta catalana anonima costruita a Palma di Maiorca nel 1375, e che un altro, dei più insigni, era pure stato composto in questo stesso luogo nel 1339 da un Angelino Dulcert, e, prima ancora, alcune espressioni di Raimondo Lullo che accennano all'uso di carte su navi catalane nella seconda metà del sec. XIII, nonché l'ammissione sostenuta dal Nordenskiöld di una legua catalana in uso nella navigazione, ma forse più di tutto lo scarso interesse di questi studî in ltalia, avevano autorizzato alcuni scrittori stranieri a farsi sostenitori di tale assurda teoria. L'argomento che forse poteva fino a un certo punto giustificare al più un contributo recato dai cartografi di quella nazione, era la carta del 1339; ma essa risulta una copia quasi perfetta di Dalorto, e l'affinità stessa del nome dell'autore fa pensare che possa trattarsi di un copista che ha letto male il nome Dalorto, o che Dalorto stesso componendo carte, come fecero in seguito altri italiani, in Maiorca abbia ritenuto conveniente cambiar nome: in ogni modo è un documento che è di 14 anni posteriore. Cosicché, mentre il primo documento catalano di data accertata rimane la carta del 1375, la più antica carta italiana - a prescindere dalla carta pisana di data anteriore - risale al 1311: nessun'altra carta catalana si conserva in quest'intervallo, mentre si hanno ben 15 carte e atlanti di autore italiano, e in tutto il sec. XIV vi sono 19 carte italiane e tre catalane. Né è a dire che queste presentino sotto qualsiasi aspetto caratteri loro proprî; sono copie fedeli delle italiane per il disegno e per la nomenclatura, persino molti nomi della penisola iberica conservando la forma italiana. Cartografi italiani nei secoli XIV e XV costruirono carte a Palma di Maiorca, e i Catalani non furono che discepoli e imitatori dei cartografi italiani; il che venne esplicitamente riconosciuto dai più competenti cultori di questi studî, come J. Lelewel, il D'Avezac, Th. Fischer, il Ruge, K. Kretschmer. Risultando, del resto, la carta nautica il frutto dell'esperienza e della diretta conoscenza dei luoghi, essa non può, logicamente, che derivare da quel popolo che a partire dal sec. XI, esercitò un incontrastato predominio nel bacino del Mediterraneo, quando le repubbliche marinare italiane esercitavano un vero monopolio nel commercio marittimo. È superfluo ricordare la parte prevalente che esse ebbero nei rapporti commerciali con l'impero bizantino, col Mar Nero e coi paesi d'Oriente, e negl'interessi economici sviluppatisi con le crociate, quando gli stati della penisola iberica, eccentrici rispetto al grande movimento del commercio con l'Oriente, erano per giunta e si conservarono ancora gran tempo, sotto il controllo degli Arabi, a liberarli dai quali, ad es., per quello che riguarda lo stato aragonese, ebbero parte di prim'ordine Pisani e Genovesi: fu con l'aiuto delle navi genovesi che venne presa Tortosa (1146); le Baleari non si liberarono dai Mori che nel 1239. Sulle stesse coste spagnole i Genovesi esercitarono un commercio preponderante nella seconda metà del sec. XII, sino a dar nome a un porto che ancor oggi si chiama Porto Genoves (C. di Gata); e anche assai più tardi, nel 1284, i Catalani sollecitarono dal re di Castiglia i privilegi che i Genovesi avevano ottenuto a Siviglia più di 30 anni prima; Pisani e Genovesi ebbero pure le più antiche e fiorenti relazioni con gli stati arabi dell'Africa settentrionale. Furono pure gl'Italiani i primi a uscire nell'Atlantico: così i Genovesi, padroni del mercato di Ceuta, sin dalla metà del sec. XII s'erano spinti sino a Salle per raggiungere più facilmente Fez e penetrare nel Marocco. Anche le relazioni a N. erano cominciate ben presto; così sin dal 1103 il conte Enrico di Portogallo e nel 1113 il vescovo di S. Jago ricorrevano ai Genovesi per combattere i Saraceni. È noto poi che alcuni stati ricorsero a Genova per organizzare la loro difesa marittima: così Benedetto Zaccaria fu ammiraglio del re di Castiglia nel 1286 e più tardi del re di Francia nella guerra contro gl'Inglesi; e fu Rinieri Grimaldi, pure genovese, che vinse nel 1304 la battaglia navale di Zierikzee contro il conte di Fiandra; e il genovese Pessagno fu addirittura (1317) l'organizzatore della marina del re di Portogallo. Ma assai più che da queste prestazioni di carattere militare, anche la conoscenza delle coste d'Europa sull'Atlantico doveva formarsi nella pratica del commercio marittimo fiorentissimo che gl'Italiani ebbero con la Francia, la Fiandra, l'Inghilterra. Mentre la più antica navigazione accertata dei Catalani in Fiandra è del 1323, le navi genovesi sin dal 1235 trasportavano le merci dei Fiorentini a Bruges, e nel 1240 i Veneziani esercitavano pure un regolare commercio per mare con la Fiandra e con Londra: cosl sin dal 1153 navi genovesi trasportavano le merci dei Lucchesi alle famose fiere di Champagne. Con un così antico e imponente sviluppo delle relazioni marittime degl'Italiani con tutti i paesi del Mediterraneo e con quelli dell'Europa occidentale, mentre quelle della Penisola iberica vennero assai più tardi e furono più limitate, non avrebbe dovuto neppur lontanamente apparire supponibile che essi fossero stati preceduti da altri nella scoperta e nel perfezionamento dei mezzi che loro dovevano consentire di dirigersi e muoversi per le vie del mare. Non pochi, è vero, sono i problemi che rimangono da risolvere intorno alle carte nautiche, e una visione chiara e adeguata di quello che in realtà esse dovettero essere si avrà solo quando sarà dato farne un esame approfondito sopra una raccolta di riproduzioni tecnicamente perfette dei documenti originali più antichi, per la quale occorrerà una volonterosa cooperazione internazionale; ma una cosa è sin d'ora e rimarrà sempre certa, che furono esclusivamente gl'Italiani a creare questo prodotto che rimane, coi portolani, una delle opere più insigni e più ammirevoli che ci abbia lasciato il Medioevo.

Bibl.: A non tener conto delle descrizioni particolari di molte carte dei secoli XVI e XVII sfornite d'ogni valore, né di qualche elenco di carte appartenenti e biblioteche pubbliche e private, si può accennare, come a opera generale di raccolta di materiali e d'indicazioni bibliografiche, agli Studi biografici e bibliografici sulla storia della geografia in Italia di G. Uzielli e P. Amat di S. Filippo (vol. II: Mappamondi, Carte nautiche e portolani, Roma 1882, a cura della Soc. geogr. italiana): opera che dovrebbe essere aggiornata, ma che è tuttora utile e unica nel suo genere. Come descrizione di carte degne di particolare interesse vedi: C. Desimoni e L. T. Belgrano, Atlante idrografico del Medioevo posseduto dal prof. Tammar Luxoro, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, Genova 1867; O. Peschel, L'atlante di A. Bianco dell'anno 1436 in dieci tavole, con pref. di O. P., Venezia 1871; Th. Fischer, Sammlung mittelalterlicher Weltund Seekarten italienischen Ursprungs, ecc., Venezia 1886; A. Magnaghi, La carta nautica costruita nel 1325 dal genovese Angelino Dalorto, Firenze 1898. - Di opere che trattano delle carte nautiche da un punto di vista generale e dei varî problemi che le concernono, v. soprattutto: J. Lelewel, Geographie du moyen âge, accompagnée d'atlas et de cartes dans chaque volume, voll. 4, Bruxelles 1852-57; O. Peschel, Geschichte der Erdkunde, ecc., Monaco 1865; A. Breusing, Zur Geschichte der Kartographie, in Zeitschr. fur wissenschaft, Geogr., II, 1881; M. Fiorini, Le proiezioni delle carte geografiche, Bologna 1881; H. Wagner (oltre a lavori sopra la lunghezza del miglio marino), Leitfaden durch den Entwicklungsgang der Seekarten vom XIII. bis zum XVIII. Jahrhundert. Das Rätsel der Kompasskarten im Lichte der Gesamtentwicklung der Seekarten, in Geogr. Tage in Bremen, 1895; E. Gelcich, Infanzia della scienza nautica, in Riv. Marittima, luglio-agosto 1890; E. A. D'Albertis, L'arte nautica ai tempi di C. Colombo, III: Cartografia medievale, in Raccolta colombiana, I, iv, Roma 1893; T. Bertelli, Appunti storici intorno all'uso topogr. e astron. della bussola, ecc. in Riv. geogr. ital., 1900; E. Steger, Untersuchungen über italienischen Seekarten des Mittelalters auf Grund der Kartometrischen Methode, Gottinga 1896; A. Magnaghi, Sulle origini del portolano normale nel Medioevo e della cartografia dell'Europa occidentale, Firenze 1909; K. Kretschmer, Die italienischen Portolane des Mittelalters. Ein Beitrag zur Gesch. der Kartographie und Nautik, Berlino 1909 (di quest'opera, che si deve considerare come fondamentale, si ha una diligente disamina ni C. Errera, I portolani italiani nel Medioevo secondo l'op. di K. Kr., in Riv. geogr. italiana, maggio 1911); G. de Rafraraz, Catalunia a les mars, Barcelona 1930.

Quanto alle riproduzioni, per limitarci alle raccolte più importanti, sono da ricordarsi: E. F. de Barros y Souza de Santarem, Atlas des Cartes des XIVe, XVe, XVIe, XVIIe siècles pour la plupart inédites, et devant servir de preuves à l'ouvrage sur la priorité de la découverte de la côte occidentale d'Afrique au delà du cap Bojador par les Portugais, Parigi 1841 (l'atlante contiene, eccellentemente riprodotte, alcune fra le più antiche carte nautiche italiane); M. Jomard, Les Monuments de la Géographie, ou Recueil d'anciennes cartes européennes et orientales, ecc., Parigi 1842; Raccolta di mappamondi e carte nautiche del sec. XIII-XVI, Venezia 1886; G. Marcel, Choix de cartes et de mappamondes du XIVe et du XVe siècle, Parigi 1896; A. E. Nordenskiöld, Periplus, an essay on the early history of charts and sailing-directions (la più parte delle riproduzioni sono fotografie prese da altre raccolte). Poche però sono le riproduzioni eseguite in modo conforme ai progressi della tecnica moderna: fra queste sono da ricordare: The Leardo Map of the World of 1452 or 1453 (dalle collezioni della American Geogr. Society), New York 1927; Reproduction of early manuscript Maps, I: The Portolon chart of Angelino Dalorto, a cura della Royal Geogr. Society, Londra 1929.

Le carte nautiche odierne.

Il requisito principale a cui la carta nautica deve soddisfare è quello di dare al navigante, nel modo più semplice, la maniera di tracciare e determinare il cammino più breve, e nello stesso tempo più conveniente e più sicuro, per raggiungere i varî punti costieri. Per conseguire tale scopo è necessario, in primo luogo, che la carta dia una chiara indicazione della linea di costa e dei punti caratteristici visibili dal mare. Altro elemento di peculiare importanza è inoltre il profilo sottomarino, che su di essa dev'essere indicato il più accuratamente possibile.

La carta nautica dovrà, per quanto riguarda la parte terrestre, comprendere la fascia costiera visibile dal mare e particolarmente tutti i punti notevoli come torri, campanili, fari, minareti, segnali sulle vette dei monti, ecc., e riportare fedelmente le caratteristiche della linea di costa come moli, banchine, insenature, cale, ecc. Allo scopo poi di dar mezzo al navigante di riconoscere la costa andando all'atterraggio, è necessario che sulla carta sia chiaramente disegnato il profilo e l'andamento delle catene montane svolgentisi lungo il mare. Ciò si ottiene col tratteggio, che può essere fatto con luce zenitale od obliqua, con tratteggio parallelo, oppure nromale alle linee di livello.

Per la parte marina essa deve fornire quell'elemento prezioso e indispensabile per la sicurezza della navigazione, rappresentato dalla profondità del mare nei varî punti. Una carta sarà tanto più pregiata quanto più minuzioso sarà stato il lavoro di scandaglio. Le profondità sono segnate a intervalli più o meno regolari e riferite a un livello comune, che non è uniforme per i varî stati, ma che in generale è quello medio delle basse maree sizigiali. Inoltre dovranno essere rappresentati in modo evidente, nella loro esatta posizione e nella loro configurazione, i banchi, i bassifondi, gli scogli e i canali che li separano.

Perché sulla carta possa essere riconosciuto chiaramente l'andamento del fondo debbono esservi tracciate le linee batimetriche, che limitano e talvolta isolano le zone di eguale profondità. Le linee batimetriche più importanti per la sicurezza della navigazione vengono disegnate con tratteggi speciali e sono quelle dei 5, 10, 25, 50, 100 m. per i servizî idrografici dei paesi che usano il sistema metrico decimale (oppure corrispondenti profondità in braccia o piedi per gli altri). Queste linee stanno a significare che, al di fuori di esse, le profondità marine sono eguali o maggiori di quelle da esse indicate.

Altra indicazione utilissima è quella della natura del fondo, che può servire in molte circostanze (ancoraggio, pesca, posa sul fondo per unità subacquee, ecc.). La qualità del fondo è segnalata con lettera simbolica, a dritta del numero che indica la profondità.

Indicazioni sussidiarie sono: il valore della declinazione magnetica, la sua variazione annua, i dati relativi alle correnti, l'andamento della marea che modifica continuamente sia la profondità del mare, sia l'aspetto della costa.

Evidentemente non tutto il materiale di dati e osservazioni raccolto durante i lavori idrografici viene riportato sulla carta nautica, che altrimenti risulterebbe poco chiara. La corredano quindi: i portolani (v. sopra); i libri da fari e segnalamenti marittimi (v. faro; segnalamento marittimo); le vedute di costa, che sono album o carte sciolte che dànno il profilo verticale della fascia costiera e dei monti visibili dal mare e servono al navigante per il riconoscimento della costa.

I sistemi di proiezione usati per le carte nautiche sono in relazione alle necessità cui esse debbono soddisfare e agli strumenti che il navigante ha a disposizione: gli strumenti di direzione sono le bussole magnetiche o giroscopiche, le quali indicano rispettivamente l'angolo che il meridiano magnetico, o vero, forma col piano longitudinale della nave. Per ragioni di praticità è necessario che quest'angolo sia mantenuto costante, e cioè che la nave segua un percorso lossodromico. Perciò nei sistemi di proiezione la lossodromia deve essere rappresentata da una retta e conseguentemente i meridiani debbono risultare paralleli fra loro.

Inoltre, perché la nave, servendosi degli strumenti altazimutali che ha a disposizione, possa determinare la propria posizione riferendosi a misure angolari di punti terrestri (navigazione costiera), oppure a misure altazimutali di punti celesti (navigazione astronomica), è necessario che gli angoli orizzontali misurati non risultino deformati sulla carta. In generale, quindi, il sistema di proiezione adottato per la carta nautica è quello isogono di Mercatore (vedi cartografia).

Quando si tratta di specchi d'acqua limitati, come porti, rade, baie, canali, ecc., si suppone invece, e ciò può farsi senza sensibile errore, che la zona si confonda col piano tangente nel punto centrale, senza tener conto della convergenza dei meridiani, la carta prende allora il nome di piano nautico.

Solo in alcuni casi di grandi navigazioni oceaniche, quando esista un notevole vantaggio nel seguire, invece che il percorso lossodromico, un percorso ortodromico (per cerchio massimo), che è naturalmente più breve, si usano carte a proiezione gnomonica. In tali carte i cerchi massimi sono rappresentati, com'è noto, da rette, mentre i paralleli risultano delle sezioni coniche.

Infine per latitudini elevate, in cui non sarebbe possibile usare la proiezione di Mercatore, che deformerebbe enormemente le figure terrestri allungandole nel senso dei meridiani, si usano carte in proiezione stereografica polare, o gnomonica polare.

Le carte nautiche si distinguono poi, come le altre, per la scala. Le carte a piccola scala, che comprendono i varî oceani o grandi bacini marittimi, variano in genere da 1 : 7.000.000 a 1 : 2.000.000, le carte a scala media variano da 1 : 2.000.000 a 1 : 200.000, quelle a scala grande da 1 : 200.000 a 1 : 25.000. Per le scale maggiori di 1 : 25.000, che si riferiscono a zone limitatissime, si usano i piani nautici.

Sulla carta nautica di Mercatore le graduazioni delle longitudini riportate sui paralleli estremi sono, in genere, riferite al meridiano di Greenwich, e sulle carte francesi a quello di Parigi; sui meridiani estremi sono riportate le latitudini crescenti (ma i valori scritti sono in latitudini ordinarie). Le graduazioni dei meridiani servono anche per la misura approssimativa delle distanze, prendendo per unità di misura un primo, dieci primi, ecc., equivalenti a un miglio, dieci miglia, ecc., alla latitudine media della zona da misurare.

Sui piani nautici sono disegnate tre scale: delle distanze, delle latitudini e delle longitudini, adottando per le misure di 1 primo di latitudine e di longitudine le lunghezze corrispondenti a quelle effettive di essi alla latitudine media del piano considerato.

Il materiale per la costruzione delle carte nautiche è fornito dalle navi idrografiche, le quali sono perciò opportunamente attrezzate ed eseguono periodicamente delle campagne idrografiche.

Le operazioni di campagna, che sono in parte comuni a quelle da compiere per la costruzione delle carte topografiche, sono: 1. misurazione diretta, sul terreno, di una base (distanza fra due segnali espressamente costruiti); 2. scelta dei punti che saranno vertici della triangolazione, loro collegamento alla base e loro determinazione planimetrica e altimetrica; 3. determinazione di punti secondarî per appoggiarvi il rilievo topografico e quello sottomarino; 4. determinazione astronomica delle coordinate geografiche (latitudine e longitudine) di un vertice della suddetta triangolazione e dell'azimut di un lato; 5. rilievo topografico del terreno, 6. rilievo sottomarino: e cioè determinazione delle profondità marine in un grande numero di punti, distribuiti opportunamente, in modo da dare la sicurezza che, nelle piccole zone interposte fra gli scandagli adiacenti, l'andamento del fondo è regolare; ossia che può ritenersi che la profondità nei varî punti intermedî è quella che si ricava per interpolazione fra i numeri adiacenti, che esprimono le profondità misurate; 7. determinazioni mareografiche o mareometriche, 8. determinazione degli elementi magnetici e particolarmente della declinazione magnetica; 9. determinazioni di correnti, raccolta di notizie di carattere nautico, logistico dei porti, ecc.

Le operazioni dei primi cinque paragrafi, che sono quelle necessarie anche per la costruzione delle carte topografiche, sono eseguite con strumenti altazimutali, in genere teodoliti e tacheometri. Per la misura della base sono molto in uso apparati speciali di "fili d'invar", con i quali si raggiunge un alto grado di precisione. Recentemente, per l'esecuzione del rilievo topografico costiero dell'Italia sono state usate la fotogrammetria, la stereofotogrammetria e l'aerofotogrammetria: circa la reale utilità di quest'ultima sono state avanzate serie riserve.

L'operazione caratteristica, e certamente la più delicata e importante che compie l'idrografo, è quella dello scandaglio sottomarino, perché esso permette di ricavare gli elementi per la sicurezza della navigazione. Lo scandagliare è la più ingrata delle operazioni, per il disagio fisico, per le difficoltà nautiche, idrografiche, ecc. che presenta. In generale gli scandagli costieri sono eseguiti con imbarcazioni, mentre in maggiori fondali è la nave stessa che scandaglia.

L'apparecchio per scandagliare più semplice consiste in una sagola graduata munita di un peso, con incavo alla base riempito di sevo per riportare alla superficie tracce del fondo. Le macchine da scandaglio più frequentemente usate dalla marina italiana sono: il piccolo apparecchio a scandagliare Magnaghi, per profondità fino a 300 m., il Lucas e il grande apparecchio a scandagliare Magnaghi, con motore elettrico, per grandi profondità. Aitri apparecchi sono: la macchina a scandagliare Kelvin, la macchina Warluger, il Depth Recorder. Ai vecchi strumenti per scandagliare con la nave sono stati però sostituiti, e sono in uso sulle navi idrografiche italiane, sistemi moderni con i suoni e ultrasuoni: fondometro (americano), Langevin Florisson (francese), ecc. Il metodo usato con questi apparecchi consiste nel dedurre la profondità dal tempo che un suono, o un ultrasuono, impiega per ritornare al punto di partenza, riflettendosi sul fondo del mare (v. anche scandaglio).

La posizione degli scandagli viene determinata in funzione di quella nota dei punti a terra visibili, per mezzo del metodo conosciuto col nome di "vertice di piramide". Questo metodo, attribuito erroneamente a L. Pothenot, ma esposto fin dal 1615 da Snellius, consiste nel determinare la posizione di un punto in funzione dei due angoli formati dalle visuali dirette dal punto da determinare in cui si trova l'osservatore che scandaglia (imbarcazione o nave), a tre punti noti. Il problema ha una soluzione numerica, che non è però usata per la determinazione della posizione dello scandaglio, perché non pratica. Essa è invece ottenuta graficamente con lo staziografo, su cui a mezzo delle due aste mobili a e c vengono riportati i due angoli misurati. La messa a posto del punto si fa sulla tavoletta, su cui sono segnati i punti costieri di riferimento, movendo lo staziografo finché, per tentativi, i tagli delle tre alidade (linee di fede) non passano per i tre punti noti. Si preme allora il bottone o, la cui punta segna sul foglio la posizione cercata.

La misurazione degli angoli orizzontali viene fatta col sestante, ma più generalmente col circolo Amici Magnaghi, che permette di misurare angoli, fra due oggetti, fino a 185°. Tale strumento è fondato sul principio che, se si hanno due prismi di cristallo a sezione di triangolo rettangolo isoscele, con le facce triangolari situate nello stesso piano, un raggio luminoso giacente in esso piano subisce una doppia riflessione sui due prismi; l'angolo fra il raggio incidente B ed il secondo riflesso è doppio dell'angolo fra le ipotenuse dei prismi. Allora traguardando direttamente un oggetto A e per riflessione un oggetto B, e spostando il prisma O fino a far coincidere le due immagini, dallo spostamento angolare di O rispetto a S si può dedurre l'angolo fra gli oggetti (v. fig. a pag. 334).

L'operazione dello scandagliamento si può eseguire, come sopra è stato detto, con le imbarcazioni o con la nave.

Le imbarcazioni scandagliano in genere con linee normali alla costa e i limiti della loro zona di azione sono definiti dai fondali che la nave idrografica non può oltrepassare per ragioni di sicurezza in relazione al suo pescaggio. Il sistema tradizionale dello scandaglio con le imbarcazioni è quello di percorrere, servendosi di allineamenti, linee parallele fra di loro ed egualmente intervallate, fermando l'imbarcazione per rilevare la profondità in quel punto (con lo scandaglio a sagola oppure col piccolo apparecchio a scandagliare Magnaghi) determinandone la posizione. Modernamente a tale sistema è stato sostituito quello dello scandaglio in moto impiegando l'aquilone-scandaglio (plomb-poisson) usato fino dal 1920 dalla marina francese. Con questo fu eseguito il piano della rada di Tolone (circa 200.000 determinazioni di profondità). In tale tipo di scandaglio l'ordinario peso è sostituito da una massa di piombo a forma di pesce con alette, che viene rimorchiato dall'imbarcazione e che, data la sua forma caratteristica, permette al filo di rimorchio di mantenersi quasi verticale. Lo scandagliatore, a intervalli regolari, svolge e avvolge il filo su un tamburo fino a tastare per così dire, il fondo, deducendo la profondità dalla quantità di filo svolta.

Lo scandaglio con la nave in moto si esegue con criterî analoghi, determinando la posizione con gli angoli misurati simultaneamente da due o più osservatori. Di solito però le navi scandagliano con i sistemi moderni del tipo Langevin suaccennato e solo per verifiche e in casi particolari con le vecchie classiche macchine (v. idrofono).

I metodi usati per il rilievo sottomarino variano con la zona da rilevare. Quando per l'importanza della zona e per le sue accidentalità sia necessario avere la sicurezza matematica che nello specchio d'acqua in esame non esistano fondali inferiori a un certo valore si ricorre al sistema del dragaggio, e la draga, che è una specie di rastrellatore del fondo, graduata per una certa profondità, indica, se non è avvertito l'incontro di nessun ostacolo, che i fondali sono in tutta la zona superiori al valore per cui fu graduata.

Nei mari del Nord, dove i bassifondi si estendono per molte miglia da terra, per rimediare alla mancanza di punti costieri di riferimento visibili dalla zona da scandagliare si ricorre all'ancoraggio di successive linee di boe, la cui posizione viene determinata per le file più verso la costa mediante quella nota dei punti a terra e per le ultime file, che non sono più in vista dei punti costieri, mediante quella delle boe costituenti le file precedentemente determinate. Questo sistema è stato convenientemente usato anche dall'Istituto idrografico della R. Marina italiana per il rilievo del canale di Massaua, attraverso le isole Dahlac. Qui più che alla distanza eccessiva dalla costa la ragione dell'uso di detto metodo va attribuito al fatto che le isole costituenti l'arcipelago sono tutte basse (in genere non raggiungono i due o tre metri sul livello del mare), disabitate e senza la minima traccia di vegetazione.

Un rilievo interessante per l'Italia è stato la determinazione del banco Graham nel canale fra la Sicilia e l'Africa, che si trova a circa 45 km. Da terra. La R. N. idrografica Ammiraglio Magnaghi, rintracciato dopo laboriose ricerche il banco, vi si ancorò e di notte tre osservatori, in stazione sopra tre fari della costa, eseguirono misurazioni angolari fra le posizioni che essi occupavano e quella di una lampada elettrica issata in testa d'albero della nave.

Analogo sistema, e in condizioni ancora più difficili, venne adottato dalla stessa nave nel 1928 per il rilevamento del Banco dell'Avventura, pure nel Canale di Sicilia.

Per costruire una carta nautica, come per una carta topografica, si disegna anzitutto il reticolato dei meridiani e dei paralleli; su di esso si mettono a posto i punti trigonometrici, secondo le loro coordinate geografiche; e successivamente, riferendosi a questi punti, si disegna la topografia e si scrivono gli scandagli. Costruito così il disegno tecnico della carta nautica, se ne esegue il disegno definitivo.

Questo compito viene assolto da provetti disegnatori cartografi. Presso l'Istituto idrografico della R. Marina italiana si segue pertanto il procedimento seguente: si fa un calco pallido del disegno tecnico, cioè si fotografa questo e se ne fa lo zinco che, in colore pallido, non fotogenico, viene stampato su cartoncino bianco lucido speciale. Su questo cartoncino, dove il disegnatore trova già la traccia di tutto il lavoro, viene eseguito il disegno definitivo. Però viene disegnata a mano solo la topografia, giacché gli scandagli vengono su di esso riportati meccanicamente in un secondo tempo.

Le operazioni definitive si svolgono in questo modo: si stampano, oltre al calco pallido, dei calchi scuri, uno dei quali dovrà servire di supporto agli scandagli che debbono essere trasportati sul disegno definitivo.

L'Istituto possiede, incisi sulla pietra, i numeri degli scandagli di tutti i tipi e di tutte le grandezze necessarie. Pertanto sopra un calco scuro vengono puntati, dopo averli convenientemente ritagliati, gli scandagli che sono stati precedentemente stampati su carta umida da quelle matrici di pietra. Quindi si trasporta sopra una pietra o uno zinco tutto l'insieme degli scandagli, che viene poi stampato in nero sul disegno definitivo. Di questo viene fatta la fotografia, riducendo le dimensioni dell'originale di 1/3. Si fa quindi il trasporto sullo zinco, col quale si esegue la stampa. La riproduzione della carta può essere però fatta anche dal rame (procedimento calcografico). Essa richiede un notevole lavoro dell'incisore, che col bulino opera sul rame riproducendo il disegno a rovescio, servendosi della fotografia del disegno rovesciato. Il sistema dà per risultato lavori di un reale valore artistico, ma ha per contro l'inconveniente di essere troppo lento, sia come esecuzione, sia come riproduzione.

L'organizzazione dei servizi idrografici in Italia e all'estero. - L'Istituto idrografico della R. Marina italiana ha appunto fra i suoi compiti principali quello della costruzione delle carte nautiche, servendosi del materiale raccolto dalle regie navi idrografiche, che eseguono le campagne sotto la sua direzione tecnica. Le carte stesse, una volta che siano approntate, sono, in parte, distribuite alle regie navi; in parte vengono messe in vendita al pubblico.

Il materiale idrografico delle regie navi è costituito da carte e pubblicazioni italiane per i mari nazionali e colonie, e da carte estere, in genere inglesi e parzialmente francesi, per gli altri bacini marittimi. Tutto il globo è diviso geograficamente in 28 idrografie, le quali sono riunite in 5 gruppi, ciascuno dei quali comprende un continente. Un 6° gruppo è costituito dalla 29ª idrografia, la quale risulta composta di tutte le carte di carattere meteorologico e oceanografico. Le regie navi sono dotate delle idrografie relative alla zona in cui presumibilmente sono chiamate a operare.

L'Istituto idrografico della R. Marina, fondato nel 1872, comprende attualmente: 1. la divisione cartografica, che si occupa della costruzione e della riproduzione delle carte; 2. la divisione idrografica, che si occupa della compilazione e tenuta al corrente dei portolani, dei libri dei fari e segnalamenti marittimi, degli altri documenti nautici e della pubblicazione degli avvisi ai naviganti, contenenti le notizie indispensabili ai marini, riguardanti: variazioni nell'illuminazione delle coste, nei fondali, nella topografia costiera (specie nei porti per nuovi lavori); scoperta di nuovi scogli e banchi; rintracciamento di scafi affondati e pericoli in genere; in base agli avvisi ai naviganti viene eseguito mediante correzioni l'aggiornamento delle carte e di tutti gli altri documenti nautici in possesso del marino; quando l'avviso ha carattere di urgenza viene provveduto alla sua immediata diffusione a mezzo della radiotelegrafia; 3. la divisione astronomica, che si occupa della determinazione delle posizioni geografiche con strumenti altazimutali; della pubblicazione annuale delle effemeridi, che dànno le coordinate degli astri per uso della navigazione; e della conservazione dell'ora per la regolazione dei cronometri e la sua segnalazione nel porto di Genova, con sistema luminoso; 4. la divisione magnetica, che si occupa degli studî concernenti il magnetismo terrestre e navale e della condotta e compensazione delle bussole magnetiche e giroscopiche delle regie navi; 5. la divisione meteorologica, che si occupa di tutte le notizie e studî di carattere oceanografico (maree, correnti, ecc.) e meteorologico, e ricava e coordina tutte le osservazioni e i dati ricevuti dalla rete semaforica e dalle navi; 6. la divisione strumenti nautici, che si occupa della costruzione e riparazione di bussole, cronometri, sestanti, circoli e in genere di tutto il materiale occorrente alla condotta della navigazione.

Le principali nazioni civili hanno da tempo istituito i loro servizî idrografici. Più importante e antico è, per vecchia tradizione marinara, il servizio idrografico dell'ammiragliato di Londra, che ha pubblicato l'idrografia mondiale, ossia le carte nautiche di tutto il mondo. Le carte pubblicate dal servizio idrografico inglese sono circa 3800. Ogni anno viene pubblicato il Catalogue of Admiralty Charts, Plans and Sailing Directions per la vendita. Altre pubblicazioni importanti del servizio idrografico inglese sono The Admiralty list of lights and visual time signals (e cioè il libro dei fari e segnali radio), gli annuarî di marea, le effemeridi astronomiche, ecc.

Il servizio idrografico degli Stati Uniti d'America, per quanto sia d'origine assai più recente (fu iniziato nel 1830 a Washington), ha raggiunto un alto grado d'importanza. Esso è diviso in due rami che sono nettamente distinti: il Coast and Geodetic Survey, che fa parte del dipartimento del commercio e che svolge la sua attività sulle coste degli Stati Uniti metropolitane e coloniali, e il Hydrographic Service, che estende la sua azione fuori delle acque e delle coste degli Stati Uniti e quindi ha come funzioni principalì quelle d'eseguire rilievi al largo e in acque estere, di pubblicare gli avvisi ai naviganti, le istruzioni nautiche, di emettere i radio segnali, ecc. Particolarmente preziose risultano le Pilot Charts, che vengono pubblicate ogni anno per l'anno seguente e che, basandosi sul largo corredo di osservazioni, offrono tutte le indicazioni relative agli elementi oceanografici e meteorologici (venti, correnti, temperatura, pressione, ghiacci galleggianti, ecc.) per tutti i mesi dell'anno, e che tutti gli anni si arricchiscono delle osservazioni dell'ultimo anno trascorso.

La Francia ha pure un servizio idrografico molto importante, che fu fondato a Parigi nel 1720 per ordine di Luigi XV. Esso è alla diretta dipendenza del Ministero della marina. I rilievi idrografici sono eseguiti in genere dal corpo degl'ingegneri idrografi. Le carte francesi sono in totale circa 2600, e comprendono tutte le coste metropolitane e quelle del vasto impero coloniale francese. Il servizio idrografico della marina francese riproduce inoltre anche le carte estere; però con nomenclatura e unità di misure modificate e armonizzate con quelle della produzione diretta.

Fra le altre nazioni che hanno da tempo istituito importanti e moderni servizî idrografici sono da notarsi la Germania, il Giappone e l'Olanda. Occorre tener presente, inoltre, il Centro idrografico di Monaco (Principato).

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