DECIO, Cecina Mavorzio Basilio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DECIO, Cecina Mavorzio Basilio

Filippo Burgarella

Nato certamente a Roma prima della caduta dell'Impero romano d'Occidente (476), D. fu membro di una delle più antiche e potenti casate dell'aristocrazia senatoria, la gens Caecina Decia, a cui appartennero molti personaggi distintisi tra V e VI secolo. È probabile che fosse figlio di Cecina Decio Basilio, console nel 463 ed uno dei due senatori più ricchi ed influenti del suo tempo (Sidonio Apollinare, Ep., I, 9, 2-4); fratello di Cecina Decio Massimo Basilio e Decio Mario Venanzio Basilio, consoli rispettivamente nel 480 e nel 484 e padre di Vettio Agorio Basilio Mavorzio, console nel 527.

Il cursus honorum è riportato, in ordine diretto, solo in una fonte epigrafica d'età teodoriciana (Inscriptiones Latinae selectae, a cura di H. Dessau, 827). Probabilmente esso si svolse secondo i tempi indicati dai più recenti studiosi di prosopografia tardoantica (J. R. Martindale), i quali, rispettando appunto quell'ordine, si discostano dalle datazioni proposte in precedenza (j. Sundwall, A. Chastagnol). Verosimilmente in giovane età e prima del consolato (a. 486), D. fu prefetto della città di Roma e poi, forse nello stesso anno del consolato, prefetto al pretorio d'Italia. Nel 486 fu console ordmario, non pubblicato in Oriente. Fu insignito della dignità di patrizio prima del 507-511. L'unica data certa è quella del consolato, conferitogli da Odoacre, al quale D. forse dovette anche la nomina alle due prefetture. È probabile, infatti, che la sua carriera, come quella dei suoi fratelli, si sia svolta, almeno fino al consolato, sotto il regno e col favore di Odoacre, chemostrò deferenza verso il ceto senatorio e conferì le cariche e gli onori pubblici più elevati ai rampolli dell'aristocrazia romana e della casata dei Decii. Così D. passò dalla classe inferiore della gerarchia senatoria - il clarissimato -, a cui apparteneva per diritto ereditario come figlio di senatore, a quella più elevata dei viri illustres e magnifici, corrispondente al rango delle sue cariche e dignità. Divenne perciò membro effettivo del Senato, in cui ormai sedevano solo gli illustres.

D. collaborò, poi, col regime di Teodorico, specialmente dopo che questi, in occasione della sua visita a Roma (500), rinsaldò l'intesa con le grandi casate senatorie, compresa quella dei Decii. Quest'intesa si concretò, qualche tempo dopo, nel contributo che D., impegnando i suoi mezzi di cospicuo latifondista nel prosciugamento della palude pontina del Decennovio, dette alla politica teodoriciana di bonifica delle terre incolte ed acquitrinose. La bonifica del Decennovio si aggiunge, infatti, alle altre iniziative analoghe promosse da Teodorico nel Ravennate e nell'Agro spoletino, per il quale furono previsti gli stessi benefici accordati a Decio.

Si chiamava Decennovius, per la sua lunghezza di diciannove miglia, l'antico canale di prosciugamento che attraversava l'Agro pontino da Triponzio (Tor Tre Ponti) a Terracina, nel cui mare aveva, in età romana, convogliato le acque palustri dell'interno. Il suo corso era parallelo al tratto della via Appia tra le due località e corrisponderebbe alla linea Pia, cioè al canale scavato durante le bonifiche pontificie del sec. XVIII. La denominazione di Decennovius si estendeva sia al parallelo tratto viario dell'Appia sia all'area attraversata dal canale. Questo, agl'inizi del sec. VI, era in uno stato tale d'incuria da non esser più atto a drenare le acque, le quali pertanto ristagnavano sui terreni agricoli limitrofi ed ostacolavano il transito dell'Appia nel tratto esposto alla loro azione.

D. prese allora l'iniziativa di finanziare i lavori di bonifica del Decennovio in cambio di adeguati incentivi statali. Con due lettere ufficiali, redatte da Cassiodoro, allora quaestor palatii, ed indirizzate l'una al Senato l'altra a D. (Cassiodoro, Variae, II, pp. 32 s.), Teodorico approvò il progetto di bonifica riconoscendone l'utilità sia per l'agricoltura sia per le comunicazioni viarie pubbliche. Stabilì che il Senato inviasse due suoi membri nel Decennovio per delimitarvi l'area soggetta alle paludi, la quale, a lavori ultimati, sarebbe stata concessa, in enfiteusi ed in regime di esenzione fiscale, a D. ed ai suoi eventuali soci. Il re, infatti, ritenne possibile la costituzione di un consorzio di bonifica con altri privati disposti a partecipare con D. al finanziamento del costoso progetto: in tal caso, previa stima dell'opera realizzata, ciascun socio avrebbe avuto diritto ad un'estensione di terreno determinata in proporzione all'onere assunto.

Poiché quelle due lettere datano tra il 507 ed il 511, periodo in cui Cassiodoro fu questore, i lavori di bonifica dovettero cominciare in quegli anni. Dall'iscrizione incisa su un cippo in pietra, numerato sul lato opposto, che è stato rinvenuto in prossimità del XLI miliario della via Appia, fra Triponzio e Forum Appii, risulta che le disposizioni regie furono recepite in un senatoconsulto, in forza del quale - oltre che per ordine di Teodorico - si eseguì la delimitazione dell'area della bonifica mediante una serie di cippi, di cui quello resta l'unico esemplare superstite (Inscriptiones Latinae selectae, 8956). La bonifica: fu ultimata mentre regnava ancora Teodorico, forse poco dopo il 512, come suggerisce l'iscrizione commemorativa del completamento dei lavori, conservatasi in tre esemplari - uno a Terracina e due nel Casale di Mesa sull'Appia - e da noi già menzionata per il cursus honorum di Decio. Ispirato certamente da D., il testo dell'gpigrafe celebra appunto "D(ominus) n(oster) gl(o)r(io)s(issi)mus adq(ue) inclyt(us) rex Theodericus, vict(or) ac triumf(ator), semper Aug(ustus), bono r(ei) p(ublicae) natus, custos libertatis et propagator Rom(ani) nom(inis), domitor g(en)tium...". Una simile titolatura, anche se corretta dal punto di vista istituzionale giacché riconosce a Teodorico soltanto il potere regio, è tuttavia inedita ed anomala rispetto a quella ufficiale, che non prevedeva per il sovrano ostrogoto l'uso di titoli del genere, specialmente di quello di Augusto, riservati all'imperatore. Essa è, in realtà, in sintonia con motivi elaborati e diffusi negli ambienti filogoti dopo che Teodorico, con la conquista della Provenza (508) e con l'assunzione della reggenza del regno visigoto di Spagna (511), ebbe ulteriormente ampliato la propria sfera d'influenza e d'egemonia fuori d'Italia e, soprattutto, dopo che, come continuatore e propagatore della tradizione imperiale romana, ebbe ripristinato e riorganizzato la prefettura delle Gallie (512). Ne segue che quella titolatura non solo riflette la gratitudine di D. per la munificenza regia e la sua adesione al regime teodoriciano. ma anche consente di datare l'iscrizione ed il completamento della bonifica poco dopo il 512 (A. Gaudenzi). Nella stessa epigrafe, inoltre, si ricorda il ripristino dell'agibilità dell'Appia da Triponzio a Terracina e si riconosce solo a D. il merito d'aver prosciugato la palude convogliandone le acque nel mare attraverso alvei prima inesistenti. D., quindi, non ebbe soci nel finanziamento del progetto, che fu realizzato da una parte completando la riattivazione del Decennovio con lo scavo di nuovi alvei di deflusso, dall'altra liberando il tratto viario dalla minaccia delle acque forse mediante il rialzamento del piano stradale. là dunque merito di D. se, nel 536, il Decennovio era funzionante ed a Regata, in corrispondenza del XL miliario dell'Appia, scorreva in mezzo ad una distesa di campi (Procopii Caesarensis Bellum Gothicum, I, 11).

Nel 510-511 D. fu uno dei giudici scelti per il processo contro i romani Basilio e Pretestato, accusati di pratica delle arti magiche, reato passibile di pene severe, compresa quella di morte. Costoro, dopo l'arresto e la comparizione davanti ad Argolico, prefetto della città di Roma, erano riusciti ad evadere e a dileguarsi, godendo di protezioni e connivenze, perché entrambi erano di elevato rango sociale e. soprattutto, perché a Roma la magia, sorretta da tenaci persistenze pagane, era molto diffusa.

Teodorico, in risposta ad Argolico, che lo aveva informato dei fatti rimettendo la sentenza alla sua autorità, precisò che la questione non era di sua competenza e che il processo doveva svolgersi secondo la procedura del cosiddetto iudicium quinquevirale e sotto il coordinamento del prefetto di Roma (Cassiodoro, Variae, IV,22). Il Codice Teodosiano (II, 1, 12) riconosceva, infatti, ai senatori il diritto d'esser giudicati ed eventualmente condannati per i loro crimini in sede di iudicium quinquevirale, cioè da un tribunale speciale in cui un collegio di cinque giudici, scelti fra i senatori stessi in via di principio con sorteggio, assisteva il prefetto di Roma in tutte le fasi del processo. Perciò il re dispose che Argolico, con l'assistenza degli ex consoli e patrizi Simmaco, D., Volusiano e Celiano e del vir illustris Massimiano, concludesse l'istruttoria, celebrasse il processo e, accertata l'innocenza o la colpevolezza dei due imputati, pronunciasse la sentenza di assoluzione o di condanna.

Dopo Simmaco, il membro più autorevole di tale collegio, i cui componenti sono indicati nell'ordine di precedenza determinato dal loro rango nella gerarchia senatoria, era D. che, come ex console ordinario tra i più anziani per data di nomina, patrizio ed ex prefetto, era uno dei senatori di grado più elevato. In effetti, i cinque giudici erano senatori eminenti per rango o esperti di affari giudiziari, come Simmaco, Celiano e Massimiano, i quali avevano già svolto delicate inchieste per incarico del re. In considerazione di ciò, si può supporre che la loro designazione sia stata fatta non con sorteggio dal prefetto di Roma con successiva ratifica da parte di Teodorico, ma personalmente da quest'ultimo, interessato a nominare, per il difficile processo, giudici autorevoli, competenti e di sua fiducia.

In tal caso, la scelta di D. sarebbe un'ulteriore prova dei suoi legami col sovrano, oltre che un riconoscimento del suo prestigio personale.

Nello stesso tempo, a tutela dell'Ordine pubblico e dell'amministrazione della giustizia, Teodorico conferì al conte goto Arigemo competenze ordinariamente spettanti al prefetto di Roma; gli ordinò di ricercare i due latitariti per tradurli davanti allo iudicium quinquevirale; lo autorizzò a partecipare alle sedute del processo per assicurarne uno svolgimento conforme alle leggi e non turbato da violenze e pressioni esteme; lo incaricò, infine, di proteggere l'incolumità dei due senatori in caso di proscioglimento o di far eseguire l'eventuale sentenza di condanna (Cassiodoro, Variae, IV, 23).

Negli anni seguenti non si hanno più notizie di D., di cui, dunque, non si può ipotizzare la data di morte.

Fonti e Bibl.: Corpus inscript. Latinorum, a cura di T. Mommsen, X, Berolini 1883, nn. 6850-6852, pp. 690 s. (= Inscript. Latinae selectae, a cura di N. Dessau, I, Berolini 1892, n. 827, p. 184); Inscript. Latinae selectae, a cura di H. Dessau, III, Berolini 1916, n. 8956, p. XXVII; Procopii Caesarensis Bellum Gothicum, in Opera omnia, a cura di J. Haury-G. Wirth, Lcipzig 1962-1964, II, p. 58; Sidonius Apollinaris, Lettres, a cura di A. Loyen, Paris 1970, pp. 29 s.; Magni Aurelii Cassiodori Variaruin libri XII, a cura di A. J. Fridh, in Corpus Christianorum, series Latina, XLVI, Turnholti 1973, pp. 79 ss., 156 s.; Gregorius Magnus, Dialogues, II,in Sources chrétiennes, CCLX, a cura di A. De Vogüé, Paris 1979, pp. 38-42; Inscript. Christianae Urbis Romae, a cura di G. B. de Rossi, I, Romae 1857, p. 493; G. B. de Rossi, Un cippo del re Teodorico nelle paludi pontine, in Bull. di archeol. cristiana, s. 5, IV (1894), pp. 83 s.; A. Gaudenzi, Sui rapporti tra l'Italia e l'Impero d'Oriente fra gli anni 476 e 554 d. C., Bologna 1886, pp. 53-56; J. Sundwall, Abhandlungen zur Geschichte des ausgehenden Römertums, Helsingfors 1919, pp. 110 ss.; I. Lugli, Forma Italiae, Regio I, Latium et Campania, I, Ager Pomptinus, 1, Anxur-Tarracina, Roma 1926, pp. XX-XXII, 2; G. B. Picotti, Il Senato Romano e il processo di Boezio, in Arch. stor. ital., s. 7, XV (1931), pp. 225 s.; V. Orsolini Cencelli, Le paludi pontine nella preistoria, nel mito, nella leggenda, nella storia, nella letteratura, nell'arte, Bergamo 1934, pp. 77-84, 153 ss.; Ch. H. Coster, The Iudicium quinquevirale, Cambridge, Mass., 1935, pp. 3639; W. Ensslin, Theodorich der Grosse, München 1947, pp. 220, 247, 257; Ch. Courtois, Exconsul. Observations sur l'histoire du Consulat à l'époque byzantine, in Byzantion, XIX (1949), p. 44; E. Stein, Histoire du Bas-Empire, II, De la disparition de l'Empire d'Occident à la mort de Justinien (476-565), Paris-Bruxelles-Amsterdam 1949, pp. 44 ss., 70 s., 116 s., 133 s.; L. Ruggini, Econ. e locietà nell'Italia annonaria. Rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d.C., Milano 1961, p. 263; A. H. Jones, The Constitutional Position of Odoacer and Theoderic, in The Journal of Roman Studies, LII (1962), p. 128; L. Chastagnol, Le Sénar romain sous le régne d'Odoacre: recherches sur l'épigraphie du Colisée au Ve siécle, Bonn 1966, pp. 48, 84; G. Radke, Viae publicae Romanae, in Real-Encyklopaediae der classischen Altertumswissenschaft, a cura di A. Pauly-G. Wissowa-W. Kroll, Suppl., XIII, München 1973, coll. 1437, 1519; J. R. Martindale, The Prosopography of the Later Roman Empire, II, A. D. 395-527, Cambridge 1980, pp. 349, 1324; Ch. Pietri, Aristocratie et société cléricale dans l'Italie chrétienne au temps d'Odoacre et de Théodoric, in Mélanges de l'École française de Rome, Antiquité, XCIII (1981), p. 422; A. Cameron-D. Schauer, The Last Consul Basilius and his Diptych, in The Journal of Roman Studies, LXXII (1982), p. 143; A. Cameron, Junior Consuls, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, LVI (1984), pp. 162 S.

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