CENNI di Pepe, detto Cimabue

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CENNI di Pepe (Pepo), detto Cimabue

Miklòs Boskovits

Poco si sa sulla vita del pittore ritenuto, sulla scorta di una citazione dantesca (Purg., XI, 92-97), maestro e precursore di Giotto fin dalla prima metà del Trecento; né si può accertare la veridicità del ritratto letterario abbozzatone nell'Ottimo commento della Divina Commedia, sempre agli inizi del XIV sec.: "Fu Cimabue nella città di Firenze pintore nel tempo dello Autore, molto nobile, de più che uomo sapesse, e con questo fu sì arrogante, e sì sdegnoso, che se per alcuno gli fosse a sua opera posto alcuno difetto, o egli da sé l'avesse veduto (ché come accade alcuna volta, l'artefice pecca per difetto della materia in ch'adopera, o per mancamento che è nello strumento con che lavora) immantanente quella cosa disertava, fosse cara quanto si volesse". Il Villani e, seguendo lui, anche altre fonti asserirono che egli si chiamasse Giovanni di nome e Cimabue di cognome, ma dai documenti ("Cenni dictus Cimabue pictor quondam Pepi" lo si trova citato nel 1301) appare che Cimabue fosse solo un soprannome di significato non del tutto chiaro. Il Vasari, seguendo il Libro di Antonio Billi, lo fa nascere nel 1240 e la probabilità di tale data è stata avvalorata anche dalle successive ricerche d'archivio (Strzygowski, 1888), chetuttavia non ne hanno fornito una conferma inconfutabile. In ogni modo il 3 giugno 1272, quando un atto notarile redatto a Roma lo ricorda in qualità di testinione, C. ormai non doveva essere giovanissimo e probabilmente si era già procurato una certa rinomanza, tale da, spiegare l'invito ad una sede così lontana dalla sua patria. Purtroppo il documento non dice nulla del motivo del soggiorno e si può solo congetturare, data la presenza di numerosi domenicani fra i testimoni dello stesso atto, che si trattasse di lavori eseguiti per lo stesso Ordine. Da ricordare è comunque l'ipotesi (Bologna, 1962) che vede l'artista impegnato a Roma per la famiglia degli Orsini, la stessa che, con ogni probabilità, aveva a che fare anche con i suoi affreschi in Assisi.

Altre notizie documentarie si hanno a cominciare dal 30 agosto del 1301, allorché C. si obbligò a portare a termine il mosaico absidale del duomo di Pisa. Egli dovette aggiungere una figura di S. Giovanni evangelista a quelle del Cristo in maestà e della Vergine implorante, già eseguite in precedenza da un maestro Francesco, e dal momento che rii marzo 1302 ricevette il saldo finale per lasua fatica, l'opera a questa data doveva essere già compiuta. Nello stesso 1301 C., affiancato dal pittore Giovanni di Apparecchiato, assunse anche l'esecuzione di una tavola d'altare per la chiesa dell'ospedale di S. Chiara a Pisa. Questo dipinto, probabilmente portato a termine sempre, nel 1302, ora risulta perduto (ma vedi Ragghianti, 1969, dov'è prospettata la sua identificazione con la Madonna ora al Museo del Louvre).

Oltre alle informazioni ricavate dai documenti, numerose altre, ma di scarsa attendibilità, ci vengono fornite dalle fonti, che riguardano anzitutto le opere presunte del maestro. La più antica e più degna di fede fra esse si trova in un anonimo commento alla Divina Commedia già creduto della fine del Trecento o dell'inizio del Quattrocento, ma dalla critica più recente (G. Petrocchi, in Storia della lett. ital., a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, II, Milano 1965, p. 581) riferito alla prima metà del sec. XIV. Si parla qui di un "palio" cimabuesco in S. Maria Nuova, di cui purtroppo non viene precisato il soggetto; ma non v'è motivo per non credere al Richa (1734) che ricorda una Madonna di C. già esistente nella chiesa dell'ospedale di S. Maria Nuova, e la dice eseguita per commissione del fondatore dell'ospedale, Folco Portinari. Si avrebbe quindi anche la data approssimativa del dipinto (1285: fondazione dell'ospedale; 1289: morte del Portinari), che tuttavia oggi risulta perduto, a meno che non lo si voglia identificare con una tavola completamente ridipinta nel convento delle oblate a Careggi, presso Firenze.

L'Albertini (1510) ricorda due opere di C.: il Crocifisso dipinto di S. Croce, oggi appartenente al Museo annesso alla basilica, e una "tavola grandissima" in S. Maria Novella, da identificare con ogni probabilità con la Madonna Rucellai oggi agli Uffizi e generalmente riconosciuta a Duccio. Non è da escludere peraltro che l'Albertini, scrivendo erroneamente S. Maria Novella, volesse riferirsi alla tavola già ricordata in - S. Maria Nuova. Cinque sono le opere cimabuesche ricordate dal codice Magliabechiano: la Madorma Rucellai, un S. Francesco e storie della sua vita nella chiesa di S. Francesco a Pisa (dipinto oggi riferito da chi scrive a Giunta Pisano e da tutti ritenuto prodotto pisano eseguito verso la metà del XIII sec.), dipinti non meglio precisati in S. Francesco in Assisi (dove, come si vedrà in seguito, si trovano effettivamente lavori di C.), "historie" ora perdute nel chiostro di S. Spirito a Firenze, e un dipinto di argomento non precisato nella pieve di Empoli, ora similmente perduto. Il Libro di Antonio Billi mostra di conoscere sette diversi lavori di C., e nella prima edizione delle sue Vite (1550) il Vasari ne elenca altrettanti, mentre nella seconda edizione (1568)cita ben quattordici opere del pittore. Esse comprendono, oltre ai numeri surricordati, la S. Cecilia e storie della sua vita ora agli Uffizi (opera principale dell'anonimo denominato "Maestro di Santa Cecilia"), una Madonna col Bambino già in S. Croce e ora nella National Gallery di Londra (n. 565:opera di un pittore senese del 1300 circa, probabilmente dol cosidetto "Maestro di Città di Castello" un S. Francesco e storie della sua vita in S. Croce a Firenze (opera principale dell'anonimo duecentesco denominato "Maestro del S. Francesco Bardi"), una Madonna col Bambino e angeli in S. Trinita a Firenze (ora agli Uffizi: generalmente riconosciuta a C.), dipinti sulla facciata dell'ospedale del Porcellana a Firenze (edificio non più esistente), una Madonna col Bambino e angeli, giàin S. Francesco a Pisa (ora al Louvre: generalmente riconosciuta a C.), una S. Agnese e storie della sua vita in S. Paolo a Ripa d'Arno in Pisa e una Crocifissione nella chiesa di S. Francesco della stessa città (ambedue perdute). Si tratta, come si vede, di un catalogo assai eterogeneo, più adatto a confondere che a guidare ricercatori nel loro lavoro di ricostruzione dell'attività cimabuesca; lavoro che sembrò infatti destinato all'insuccesso a critici autorevoli quali il Wickhoff (1889)oR. Langton Douglas (1903), essendo a loro avviso lo stesso C. non più che una "legendarische Schattenfigur", (Schlosser, 1910). Eppure è sopravvissuta attraverso i secoli almeno un'opera sicura dell'artista, il S. Giovanni del mosaico absidale di Pisa, e su di essa può fondarsi una ricostruzione critica, che fu infatti intrapresa dal Thode (1885) e dallo Strzygowski (1888) e portata avanti con successo attraverso gli interventi successivi dell'Aubert (1907), del Toesca (1927), del Longhi (1948) e di altri.

Sia sulla base dell'informazione sul soggiorno romano del 1272 sia su quella riguardante la data di nascita nel 1240, la formazione dell'artista sembra potersi collocare intorno al 1260, forse sotto l'insegna, di Coppo di Marcovaldo che insieme col "Maestro del S. Francesco Bardi" era il pittore di maggior rilievo del momento. Comunque il dipinto che la critica oggi quasi unanimemente ritiene la testimonianza più antica dell'arte di C., il Crocifisso dipinto della chiesa di S. Domenico in Arezzo, rivela caratteri non del tutto conformi alle consuetudini stilistiche dei pittori fiorentini di quegli anni benché il Garrison (1949) lo considerasse addirittura eseguito in collaborazione fra Cimabue e Coppo. Più che accentuare i segni esterni delle sofferenze del protagonista o insistere sulla drammaticità dell'immagine rinforzandone gli effetti chiaroscurali, l'artista appare interessato a mettere in rilievo l'elemento ritmico del corpo arcuato, a tornirne accuratamente le forme, e a dare al dipinto l'aspetto di eleganza e compiutezza formale che richiama alla mente le tendenze neoellenistiche e bizantineggianti della pittura del seguito pisano di Giunta.

La data della croce aretina è discussa: da porre verso il 1260-65 per il Longhi (1948), per il Salvini (1950) per la Marcucci (1958) e per il Bologna (1962); genericamente al settimo decennio per la Sinibaldi e la Brunetti (1943), per il Volpe (1954) e per il Ragghianti (1969); sul 1270 per lo Oertel (1966); sul 1270-75 per il Garrison (1949), o ancora più tardi per il Toesca (1927).

L'inizio della costruzione della chiesa, da porre verso il 1275, non può fornirci un terminus a quo perché si sa dell'esistenza di una comunità domenicana ad Arezzo anche decenni prima; punti di riferimento cronologici si possono ottenere quindi solo per via del confronto stilistico, in modo particolare con l'altro Crocifisso, ora appartenente al Museo di S. Croce a Firenze. Questo dipinto, gravemente danneggiato durante l'alluvione del 1966 (Firenze restaura..., catalogo, a cura di U. Baldini - P. Dal Poggetto, Firenze 1972, pp. 54-57), rivela molti cambiamenti rispetto alla tempera aretina, testimoniando della diversità della data di esecuzione. Liberato dai residui di schematismo strutturale nel concepire la figura umana e da ogni sorta di astratta sacralità, il Cristo di S. Croce colpisce con la sua verità immediata, con la morbidezza del modellato e con l'acutezza delle osservazioni realistiche che rendono particolarmente veritiera l'immagine del corpo pendente privo di vita sulla croce. Ora il dipinto fiorentino mostra affinità notevoli con un Crocifisso eseguito da Coppo di Marcovaldo e dal figlio Salerno nel 1274-75 per il duomo di Pistoia, e vari studiosi (Sandberg Vavalà, 1929; Longhi, 1948; Bologna, 1962) hanno dedotto da tale circostanza la precedenza cronologica dell'opera artisticamente più alta, quella di C., che in altre parole sarebbe stata imitata dai due colleghi nella tavola pistoiese. D'altronde è stato osservato che questa ultima non è una copia vera e propria del Crocifisso di S. Croce, di cui esiste invece una fedele riedizione didata ben più avanzata nella croce di Deodato Orlandi nella Pinacoteca nazionale di Lucca, che è del 1288.

Pertanto molti critici (G. Coor-Achenbach, in Art Bull., XXVIII [1946], p. 244 n. 80; Garrison, 1949; Salvini, 1950; Ragghianti, 1955; Battisti, 1963; Sindona, 1975) preferiscono datare l'opera sul 1280-90, se non nell'ultimo decennio del sec. (Toesca, 1927; Nicholson, 1932; Sandberg Vavalà, 1948). Tuttavia l'effettiva vicinanza dell'ideazione delle croci di C. e di Coppo non può essere negata né attribuita al puro caso; occorre concludere quindi che il primo dipinto deve comunque risalire ad una data abbastanza ravvicinata a quella del secondo, cioè al 1274-75.

La datazione di altre due opere ricordate dalle fonti, la Madonna degli Uffizi e quella del Louvre, costituisce un problema di soluzione ancora più ardua e non c'è da meravigliarsi se per esse siano già stati proposti i momenti più diversi del percorso di Cimabue.

Quanto alla pala degli Uffizi la Marcucci (1958) pensò alla prima metà degli anni '70; il Salvini (1950) al 1275 circa; il Nicholson (1932), la Sandberg Vavalà (1948), il Volpe (1954) e il Bologna (1962) alla seconda metà dello stesso decennio; il Longhi (1948) al 1280 circa; la Sinibaldi e la Brunetti (1943) e il Ragghianti (1969) al 1280-85; il Sindona (1975) verso il 1285; il Garrison (1949), il Brandi (1951) e lo Oertel (1966) al 1285-90; il Vitzthum e il Vollbach (1924) e J. Stubblebine (Guido da Siena, Princenton 1964, p. 6) all'ultima fase del Cenni. Tale situazione si è verificata nella fortuna critica della Maestà del Louvre: il Longhi (1948), il Volpe (1954) e il Bologna (1962) suggeriscono una data verso la metà degli anni '70 o di poco precedente; il Garrison (1949), il Brandi (1951), il Salvini (1950) e lo Oertel (1966) la metà circa degli anni '80 o una data di poco successiva; il Nicholson (1932), il Toesca (1927) e il Ragghianti (1955) gli anni intorno al 1300. Che i due dipinti appartengano a momenti differenti del percorso dell'artista non è, né può essere discusso: troppa è la diversità fra gli impianti compositivi, fra il modo di concepire le figure, fra gli elementi architettonici e le parti decorative perché possano esser stati realizzati nello stesso giro di anni. Che poi la Madonna parigina sia la meno antica delle due lo suggeriscono non pochi elementi, fra cui la mancanza dell'agemina nella decorazione delle vesti è il più appariscente. In questo dipinto, notava il Toesca, "le vesti avvolgono la Madonna in pieghe sottili e addentrate, con effetto plastico così definito che sembrano studiate su marmi antichi, quasi se Cimabue or riguardasse oltre il classicismo bizantino a quello della scultura di Nicola Pisano". Si potrebbe aggiungere che l'eleganza sinuosa del disegno e l'ariosità della composizione ricordano da vicino la Madonna Rucellai, dipinto, come si è già detto, del 1285, ed è questo un argomento di non poco peso per poter fissare il momento dell'esecuzione della pala del Louvre intorno agli stessi anni.

In confronto la Madonna degli Uffizi con la sua pesante struttura architettonica, con l'insistente ricerca di effetti plastici, realizzati non già col morbido chiaroscuro del dipinto parigino bensì attraverso l'accostamento di piani variamente illuminati, accenna ad interessi che si potrebbero definire pregotici. È di particolare importanza poi nell'effetto dell'insieme la carica espressiva dei personaggi: la fissità solenne della protagonista contrastata dall'atteggiamento confidenziale degli angeli che più di reggere sembrano accarezzare il suo seggio, e i profeti che si affacciano severi e quasi minacciosi alle aperture inferiori del trono introducono un discorso che sarà poi svolto sulle pareti della basilica di S. Francesco in Assisi.

C'è ormai un accordo sostanziale fra gli studiosi nel riconoscere a C., o meglio all'équipe da lui capeggiata, gli affreschi del presbiterio e del transetto della chiesa superiore (tranne quelli nei registri superiori del transetto destro) e una Madonna col Bambino, angeli e s. Francesco, dipinta nel transetto della chiesa inferiore. Si può escludere inoltre con sicurezza l'intervento talvolta prospettato della bottega cimabuesca negli affreschi della navata della chiesa superiore tranne i busti di profeti nei sottarchi della prima campata dove il Bologna (1969) ha giustamente riconosciuto la presenza dello stesso Cimabue. La data del grande ciclo murale, comprendente le raffigurazioni dei Quattro evangelisti nella volta della crociera, di Angeli, della Crocifissione e dell'Apocalisse nel transetto sinistro, di Storie della Vergine nel presbiterio, della Crocifissione e Storie dei ss. Pietro e Paolo nel registro inferiore del transetto destro, è incerta. Vari, ma sempre discutibili argomenti suggeriscono che si tratti degli anni del regno di papa Niccolò III Orsini (1277-1280), un francescano noto per la sua attività di mecenate; non manca tuttavia chi pensa ad una data ancora precedente (Ragghianti, 1969), o chi, credendo di scorgervi tracce di una polemica antiorsiniana, propone l'anno della morte di Niccolò III come terminus post quem almeno per il registro inferiore (Monferini, 1966; Brandi, 1971; Sindona, 1975). È già stato proposto infine anche il tempo di un altro papa francescano, Niccolò IV (1288-1292), e non mancò chi credeva la data 1296, graffita nell'intonaco del coro, quella del compimento della decorazione (Van Marle, 1932).

Anche in questo caso però l'incertezza e contraddittorietà delle argomentazioni storiche o iconografiche conferiscono un peso particolare alle conclusioni della critica stilistica, e soprattutto a quelle che rilevano l'influsso degli affreschi di Assisi sul polittico di Vigoroso da Siena nella Pinacoteca di Perugia, datato 1280, spingendo la data dell'esecuzione del ciclo cimabuesco entro quell'anno.

Come è ovvio anche per la mole del lavoro, C. non era solo a salire sui ponti eretti nella basilica assisiate; ma, nonostante la presenza di aiuti, la sua impronta stilistica resta dominante su tutta la decorazione. La grandiosità dell'ideazione e la vibrante intensità della sua traduzione in materia pittorica riyelano la mente e la mano di C. praticamente in tutti i riquadri, confutando l'attribuzione da più parti suggerita delle Storie dei ss. Pietro e Paolo e della Crocifissione nel transetto destro a non meglio identificati collaboratori (Nicholson, 1932; Salvini, 1946; Battisti, 1963). Né sembrano più felici i tentativi di identificare la mano di alcuni maestri altrimenti noti fra i collaboratori di C.: quella di Duccio in qualche figura di angelo e nel Cristo apocalittico dipinti nel transetto sinistro (Longhi, 1948), oppure quella di Manfredino di Alberto nello stesso Cristo apocalittico (Battisti, 1963). Più convincente appare invece la proposta (Donati, 1972) di assegnare a Vigoroso da Siena un angelo cariatide della volta a crociera; proposta che apre la possibilità di isolare altri particolari decorativi eseguiti dal maestro senese la cui presenza, come si è visto, è documentata in Umbria nel 1280. Ma va sottolineato che ogni giudizio è reso difficile dalle condizioni attuali degli affreschi assisiati i quali, a causa delle infiltrazioni di acqua, della perdita dei colori e delle rifiniture aggiunte a secco, nonché dell'ossidazione delle lumeggiature a biacca, sono per la maggior parte assai guasti e, in alcune zone, addirittura illeggibili.

Proprio per questo è di particolare interesse la tavola raffigurante S. Francesco nel Museo di S. Maria degli Angeli in Assisi c he con la sua superficie percorsa da pennellate veloci, con la sua materia lucida e vibrante, con la sua caratterizzazione appassionata e quasi cruda aiuta a ricostruire mentalmente la condotta pittorica originale degli affreschi della basilica di S. Francesco.

Riconosciuta a C. dal Longhi (1948), che la credeva tuttavia leggermente più tarda del grande ciclo murale, questa tavola apparve già al Bologna (1965) del "momento mediano dell'attività del maestro ad Assisi" ed infatti non v'è motivo di staccarla dalla decorazione murale in S. Francesco.

Di data poco più tarda dovrebbero essere invece le Storie di Cristo rese note sempre dal Longhi (1948), ma non accolte unanimemente dalla critica nel catalogo cimabuesco: la Natività della Fondazione Longhi a Firenze, l'Ultima cena dell'Isaac Delgado Museum di New Orleans, la Cattura di Cristo del Portland Art Museum nell'Oregon e il Giudiziouniversale di una raccolta privata di Milano. Secondo il Longhi, che le datò sul 1275, esse illustrerebbero la "scomposizione passionale della burocratica sintassi orientale per forza di Cimabue", ma altri sono del parere che si tratti di un prodotto della pittura veneta (Garrison, 1949) o pisana (Salvini, 1950), quando non le lasciano addirittura sotto la generica definizione di "scuola italiana" (Rusk Shapley, 1967), fissando la loro data già verso la fine del secolo. Sembra infatti che il complesso sistema ritmico che movimenta lo svolgimento delle azioni nelle quattro tavolette rifletta ormai qualcosa del gotico transalpino e corrisponda quindi ad una situazione culturale successiva a quella degli affreschi assisiati; d'altronde sarebbe impossibile negare i loro caratteri cimabueschi e fino a un'eventuale più convincente definizione stilistica conviene mantenerle, magari con riserva, nel catalogo di Cimabue. Della stessa serie è emerso recentemente un altro elemento, raffigurante la Crocifissione, sulmercato antiquario (cfr. catal. della vendita della raccolta Paul Pescheteau, Parigi, 18 maggio 1973, n. 6).

Alla metà circa degli anni Ottanta, allorché l'aspro ed appassionato linguaggio usato dal maestro nelle opere precedenti si ingentilisce - probabilmente anche in seguito all'incontro con la pittura di Duccio -, si può riferire la Madonna col Bambino già nella chiesa dei SS. Lorenzo e Ippolito e ora nel Museo della collegiata di Castelfiorentino.

Solo pochi studiosi sostengono con decisione l'attribuzione cimabuesca del dipinto (Gamba, 1933-34; Volpe, 1954; E. Carli, in Boll. d'arte, L[1965], p. 98 n. 17), mentre altri significativamente lo riferiscono ad un artista della stretta cerchia di Duccio (Offner, 1933; Brandi, 1951; Toesca, 1951) o lo definiscono prodotto dell'incrocio di indirizzi culturali cimabueschi e ducceschi (Sinibaldi e Brunetti, 1943; Meiss., 1955; Ragghianti, 1969), magari con l'intervento diretto dei due capiscuola (Longhi, 1948; Bologna, 1960 e 1962). Ognuno di questi pareri può vantare qualche argomento in suo favore; ma se va riconosciuto che la composizione segue da vicino quella ben nota della Madonna di Crevole, opera di Duccio oggi nel Museo del duomo di Siena, è da sottolineare anche l'assoluta mancanza delle filtrate eleganze senesi nella fattura dalla materia densa, polposa, o nella caratterizzazione dei personaggi robusti ed energici, che appaiono quanto di più cimabuesco si possa immaginare. Non si vede quindi la necessità di staccare questa intensa tempera dal catalogo di C. di cui essa certamente illustra un momento di avvicinamento al gusto duccesco.

Per meglio intendere lo svolgimento della pittura del maestro fiorentino occorre comunque rivedere il vecchio schema mentale che vedeva in Duccio un discepolo e quasi un creato di C.: a parte la circostanza che fra questo e il collega senese (nominato già pittore nel 1278) non dovette esserci una grande differenza di età, i fatti pittorici finora noti sembrano favorire piuttosto l'ipotesi di un fruttuoso scambio di idee ed esperienze fra i due, che dovevano frequentarsi a Firenze, fra l'inizio e la metà del penultimo decennio del Duecento.

Già ad un momento successivo potrebbe appartenere, come suggerì il Longhi nel 1948 (ma il Salvini nel 1950 pensò ad una data sul 1260; il Ragghianti, nel 1955, ai primissimi anni del '300; il Previtali, nel 1967, all'arco di tempo fra 1272 e 1285; e il Sindona, nel 1975, al 1270-72), l'intervento di C. nei mosaici della cupola del battistero di Firenze. Nel vasto ciclo che comprende Storie del Precursore, di Gesù, di Giuseppe e della Genesi, illustrate in ordini sovrapposti, non è facile individuare con precisione i brani disegnati e in parte probabilmente anche condotti dal maestro stesso, a causa dei molti e disuguali aiuti-esecutori e dei successivi interventi di restauro. Alcune scene tuttavia, quelle di Giuseppe venduto e del Tormento dei genitori di Giuseppe, l'Imposizione del nome al Battista e S. Giovannino nel deserto, riflettono con tanta chiarezza l'impronta stilistica di C. da non lasciar dubbi sulla paternità, almeno per quanto riguarda il disegno preparatorio. L'estro espressivo degli affreschi assisiati qui si calma e si compone in una metrica classicheggiante, mentre il ductus si fa più corsivo e le storie vengono recitate da personaggi sereni ed accostanti, la cui apparenza fisica anticipa la pacata monumentalità del S. Giovarmi del duomo di Pisa.

La produzione cimabuesca nell'ultimo, decennio del Duecento ci viene illustrata con ogni probabilità dalla Madonna col Bambino e angeli appartenente alla chiesa dei servi di Bologna, un'opera di autografia talvolta contestata (opera di bottega per il Nicholson nel 1932; di un seguace per il Coletti nel 1941; non del tutto del maestro per il Longhi nel 1948; di un "Bolognese Cimabuesque Master" per il Garrison nel 1949) e da qualcuno ritenuta eseguita addirittura in collaborazione fra C. e Duccio (Bologna, 1960 e 1962). Un'atmosfera distesa e meditativa, la ricerca di sentimenti più complessi nei protagonisti e di annonie rare, scelte nella gamma cromatica, caratterizzano anche la pala già Contini Bonacossi (ora nella Galleria Palatina di Firenze), dove però vari richiami al gusto trecentesco sia nell'organizzare il telaio compositivo sia nella tipologia (e ciò ha fatto pensare a qualcuno addirittura che si tratti di un incunabolo giottesco: Venturoli, 1969) indicano una data successiva. L'esecuzione del dipinto dovrebbe risalire ormai agli anni a cavallo del XIII e del XIV sec. se non addirittura all'inizio del Trecento, come pensarono il Van Marle (1932) e il Longhi (1948), al momento cioè quando il classicismo arnolfiano (che si riflette probabilmente nel calcolato equilibrio della composizione e nella monumentalità colonnare delle figure) e l'ormai fiorente arte giottesca impongono nuovi ideali ai pittori di Firenze. Non sembrano giustificati d'altronde i dubbi, qualche volta avanzati (Garrison, 1949; Sindona, 1975), sulla paternità cimabuesca.

La tavola della Galleria Palatina e il mosaico del 1301-02 nel duomo di Pisa sono dunque le ultime opere che si possono collegare col nome di C.; ma conviene ricordare anche almeno i più importanti fra quei dipinti che in questi ultimi decenni sono stati riferiti al pittore, benché tale attribuzione allo stato odierno degli studi appaia insostenibile. Così nel caso delle tavole con Cristo benedicente e due santi, ora appartenenti alla National Gallery di Washington, che furono pubblicate sotto il nome di C. dal Berenson (1920) e alle quali il Salini (1935) aggiunse due altri laterali (uno nel Museo di Chambéry, l'altro già nella collezione Artaud de Montor di Parigi); complesso convincentemente restituito dal Longhi (1948) al cosidetto "Maestro di San Gaggio". Così gli affreschi raffiguranti. Cristo fra angeli e S. Zanobi fra i ss. Eugenio e Crescenzio nella cappella del Sacramento in S. Maria Novella a Firenze, proposte per la bottega cimabuesca già dal Toesca (1927) e ora (1973), dopo un lungo disinteresse della critica, anche dallo Stubblebine; dipinti che con maggior sicurezza possono essere riferiti a Duccio (Boskovits, 1976; Wilkins, 1978).

A C. sono stati attribuiti pure gli affreschi della cappella dei Velluti in S. Croce a Firenze (Thode, 1885; Venturi, 1907; Ragghianti, 1955),oggi generalmente ritenuti opera di un anonimo "Maestro della Cappella dei Velluti" (Volpe, 1963); una Madonna col Bambino fra quattro santi, già nella raccolta Contini Bonacossi e ora nella National Gallery di Washington (Longhi, 1948),da altri creduta un prodotto pisano e avvicinata al "Maestro di San Martino" (Salvini, 1950; Ragghianti, 1955); la piccola Flagellazione di Cristo nella raccolta Frick di New York (Longhi, 1951), da altri (Meiss, 1951) piùconvincentemente inserita nel catalogo duccesco; la Madonna completamente ridipinta nel convento delle oblate a Careggi presso Firenze, che lo Hager (1962)ha voluto identificare con la tavola ricordata dalle fonti in S. Maria Nuova, ma che spetta con ogni probabilità al cosidetto "Bagnano Master" (Garrison, 1949),ad un alter ego cioè di Meliore; la Crocifissione di una collezione privata (Volpe, 1965),da allora non più citata nella letteratura specializzata, ma che sulla base della riproduzione sembrerebbe piuttosto un'opera veneta dell'ultimo Duecento.

L'influsso di C. sui maestri attivi nei vari centri minori della Toscana, sui senesi Duccio e Vigoroso, sul pistoiese Manfredino, sul lucchese Deodato Orlandi, sul pittore aretino della Madonna del convento delle Celle, sul pisano "Maestro di San Torpè", è già stato opportunamente rilevato negli studi. Manca invece un esame approfondito sugli effetti della sua arte a Firenze. Di solito lo si ricorda come maestro di Giotto, ma l'informazione, sebbene trasmessa da una fonte autorevole quale il Ghiberti, non trova conferma nei dati stilistici: il carattere profondamente emotivo della pittura di C. e il suo precoce orientamento verso il gotico oltremontano non trovano corrispondenza nella pittura del giovane Giotto, ma costituiscono l'inizio di una spesso negletta corrente paragiottesca di poetica espressionistica che fiorì nelle opere di Lippo Benivieni, del supposto Gaddo Gaddi, del "Maestro di Figline", di Bonamico Buffalmacco e di tanti altri fin verso la metà del XIV secolo.

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