CAPORALI, Cesare

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CAPORALI, Cesare

Claudio Mutini

Nacque in data tradizionalmente fissata al 20 giugno 1531, a Perugia, da Camillo.

Secondo le notizie forniteci dal Cavallucci riguardo alla sua formazione intellettuale, apprendiamo che "attese nell'età sua più tenera ad apprender la grammatica; e fino d'allora cominciò a dare chiari segni che allo studio della poesia coll'animo inclinava, perché volentieri, e con incredibil diletto, leggeva Orazio: di modo che la buona parte in versi sciolti ne tradusse". Di tale traduzione non è rimasta traccia e dové probabilmente essere null'altro che una esercitazione scolastica. Anche circa gli autori studiati dal C. in giovinezza, l'indicazione del Cavallucci è fortemente lacunosa: tale è il patrimonio di letture esibito dal C. nel corso della sua carriera di scrittore che bisognerà includere tra gli autori preferiti i latini Ovidio, Plauto, Virgilio, Cesare, Livio, Svetonio e Apulcio e, fra gli italiani, Berni e la poesia giocosa, Pulci e la tradizione cavalleresca, Petrarca, Bembo e Della Casa, la novellistica da Boccaccio fino al Bandello e al Firenzuola, nonché la letteratura maccheronica e Teofilo Folengo.

Rimasto ben presto orfano di padre (Camillo morì il 14 genn. 1541), ma con una discreta rendita da godere insieme con il fratello Africano, sembra che il C. dové soffrire della cattiva amministrazione del tutore, il parente Caporale di Pierlorenzo, forse suo zio, che in breve tempo, secondo l'espressione di Carlo Caporali, "dissipò la maggior parte delle facoltà paterne", per cui il futuro scrittore si trovò assai presto nella condizione di dover cercare qualche beneficio ecclesiastico, e di sperimentare la generosità di quell'Ottavio Acquaviva, ai cui servigi entrerà dopo qualche anno.

Nel 1557 muore Caporale di Pierlorenzo e il C. può entrare finalmente in possesso dei beni governati dal tutore. Confidando nella modesta rendita e, forse dopo aver superato una grave malattia che non gli permise di continuare regolari studi, il C. decise di lasciare la città natale e di recarsi a Roma, ove fu assunto al servizio del cardinale Fulvio Della Cornia in data difficilmente precisabile, ma compresa, come appare da alcuni versi del C., tra il 1559 e il '65.

Che fino al 1558 il C. sia rimasto a Perugia risulta anche da un documento del 29 gennaio di quell'anno col quale Africano affittò per tre anni al fratello tutti i suoi beni stabili per 12 scudi l'anno; e il 17 agosto del medesimo anno gli ufficiali della cattedra di Perugia affittarono al C. un podere con casa nelle vicinanze di Fratticciuola.

Le notizie che possediamo sulla prima servitù del C. ci sono fornite dallo scrittore nei due capitoli intitolati alla Corte. Queste poesie furono scritte quando l'autore aveva già abbandonato la famiglia del cardinale Della Cornia ed era entrato al servizio di Ferdinando de' Medici; non è improbabile quindi che egli abbia volutamente dipinto a fosche tinte il soggiorno presso il primitivo padrone per ingraziarsi il secondo. Sta di fatto che il poeta non esita ad incolpare il Della Cornia della condizione infima in cui vivono tutti i cortigiani del suo seguito, tracciando di sé stesso un profilo che ricorda quello del Berni al tempo della servitù con Bernardo Dovizi.

Letterariamente il primo capitolo della Corte costituisce una testimonianza notevole per il passaggio dal capitolo bernesco (il C. deve aver tenuto presente il più lungo tour de force del Berni: il capitolo al Fracastoro) al poema eroicomico. Costituisce una prova ulteriore della derivazione bernesca la dedica della poesia a Trifone Benci, che era nipote di quel Francesco al quale Berni si era indirizzato nel sonetto sulla corte. Ma, stabiliti questi rapporti esterni, bisogna rilevare che del Berni il C. non sa che esasperare certi ritrovati retorici: al di fuori di ogni seria responsabilità artistica, il lungo capitolo manifesta soltanto piccole ragioni personali che trapelano dal più ovvio e tradizionale repertorio "comico"; né si solleva da questa mediocrità la seconda poesia sullo stesso argomento, ove la corte, mostruosa apparenza di donna "dura di schiena e molle di persona", viene definita "la quinta / essenza congelata nel fornello / Di un'amicizia fraudolenta e finta". E il poeta conclude, in tono moralistico: "Due cose in corte non mi fer mai danno, / l'Odio e l'Invidia perché non trovaro / Cosa mai da tagliar sopra il mio panno".

Licenziatosi dal servizio di Fulvio Della Cornia, il C. entrò al seguito del cardinale Ferdinando de' Medici (il futuro granduca Ferdinando I), che dovette apprezzare l'esibizione poetica contenuta nei due capitoli della Corte. L'ambiente fiorentino è profondamente diverso da quello romano: la tradizione letteraria che si ispira ai Medici, le velleità mecenatesche di Ferdinando e anche la discreta notorietà che già circonda il C. come poeta gli ispirano un'opera di fantasia completamente distaccata da ogni riferimento autobiografico: il Viaggio in Parnaso, solennemente dedicato alla famiglia che, dopo tante peripezie politiche, era tornata a governare in Toscana.

Il poeta vi narra il viaggio fatto per raggiungere la Grecia attraverso Roma, Gaeta, Napoli, la Sicilia, Corfù, Santa Maura e Zante. Egli si approssima poi al Parnaso dove tutto è miracolo di poesia: le piante e le erbe raccontano storie patetico-comiche, le dita dei piedi si trasformano in dattili e spondei, le canzoni d'amore di Petrarca costituiscono le colonne di un grande tempio, di cui le ottave sono i fregi, ove lo scrittore viene accolto da Bonagiunta da Lucca. Nella cucina incontra naturalmente il Berni; nel giardino si intrattiene con Dante, Petrarca e Boccaccio; scorge infine il Bembo, Giovanni Guidiccioni, il Sadoleto, il Della Casa, e sta per vedere i poeti lirici ed eroici latini e greci quando è costretto a interrompere il viaggio per una avventura della sua mula con l'asino Pegaseo.

Riprese l'argomento del resoconto dalle terre della poesia negli Avvisi diParnaso: un poemetto meno originale del Viaggio, ove il tema erudito e giocoso si mescola con fatti di autentica cronaca, a detrimento di quel margine di stupore che lasciava l'ispirazione tutta farsesca del precedente lavoro. Vi si narra il matrimonio di Bianca Cappello e Francesco de' Medici, la guerra ingaggiata da Apollo contro la schiera dei poeti ignoranti, l'arrivo della "fanteria satirica" guidata dal Berni e dall'Aretino, la nomina del Della Casa a provveditore generale dell'esercito; e poi la guerra tra Prose e Carmi, l'arrivo in Parnaso di Madonna Corte, che alloggerà con Pietro Carnesecchi, il naufragio della barca di Dante e molte altre freddure di questo tipo.

Frattanto il C. aveva abbandonato la corte di Ferdinando I ed aveva fatto ritorno a Perugia, dove lo troviamo nel 1570 unito in nozze con una Giulia, dalla quale nacquero quattro figli. La sua presenza nella città umbra è ancora attestata nel 1585 e nel 1586, allorché (18 febbraio) un documento rivela che al C. fu confermato ad longum tempus l'affitto del podere di Fratticciuola. Infine il 9 nov. 1593 (ma in questa data egli è sicuramente già al servizio di Ottavio Acquaviva) un documento perugino ci mostra il C. costituire suo procuratore ad lites tale Lorenzo Pierantoni della Fratticciuola.

Probabilmente poco oltre il 1590 il C. si trasferì a Napoli come familiare di Ottavio Acquaviva, creato da Gregorio XIV cardinale nel 1590. Con l'Acquaviva, che aveva aiutato e incoraggiato il C. sin dall'adolescenza, lo scrittore poté sperimentare un tipo di soggezione completamente diversa dalla cortigianeria sofferta alle dipendenze di Della Cornia e di Ferdinando de' Medici. Il "parziale signore" si valse in realtà del C. come segretario più che come cortigiano e arrivò al punto d'affidargli il governo di Atri e Giulianova, in Abruzzo.

Frutto di questa più serena parentesi nella vita del C. è l'impegnativo poema eroicomico, sulla Vita diMecenate, che l'autore intraprese a comporre quando era al seguito dell'Acquaviva per recitarlo infine, di ritorno dall'Abruzzo, in seno alla patria Accademia degli Insensati. La trama è la parodia dei grandi avvenimenti politici che mutarono la storia di Roma dalla morte di Cesare alla definitiva assunzione del potere da parte di Ottaviano; l'eroe della lunga vicenda, raccontata in ben dodici canti, è il consigliere di Augusto, il protettore dei poeti ("Dava trattenimento, ozio e pastura / a tutti i letterati di quei tempi / e dei poeti aveva precipua cura; / talché vedeasi le colonne e i tempi / tutti impiastrati d'epigrammi e versi / fatti in onor dei suoi cortesi esempi"). Questo è soprattutto, sottolinea lo scrittore, quel che rende tanto diversa la corte di Mecenate da quella dei moderni protettori delle arti: onde la trama della biografia poetica si svolge anche questa volta tra una grottesca rievocazione del passato e un'allusiva referenza alle condizioni di vita dello scrittore.

Nell'ultimo periodo della vita il C. tornò a Perugia. Sappiamo che il cardinale Acquaviva gli si mantenne amico invitandolo quale compagno di viaggio durante una sua ambasceria a Ferrara. Passando da Firenze fu benevolmente accolto dal suo antico signore, divenuto il granduca Ferdinando I, e fu anche bene accetto dal figlio Francesco. A lui dedicò un'opera che si riconnette per l'argomento alla Vita di Mecenate e per l'invenzione agli Avvisi di Parnaso: Le esequie di Mecenate, che si fingono descritte da Sennuccio del Bene, amico del Petrarca e in Parnaso segretario delle Muse.

Nella ritrovata città natale il C. tornò a frequentare la famiglia Della Cornia, si da indurre il marchese Ascanio a chiamare presso di sé il vecchio scrittore.

A lui si rivolgeva in questi termini Scipione Tolomei: "Il signor Marchese mio signore desidera che V.S. venga qua, ed ha dato a me cura d'invitarla e di pregarla; ma io non fo l'uno, e tralascio l'altro, come disdicevole alla sua gentilezza, che non ammette affettuose richieste... Ella ha offesa la Corte... l'abborrisce e difficilmente s'indurrebbe alla pace con essa, ma un poco di tregua sotto la parola del signor Marchese, può e dee farla; massime che sebbene questa è discendente di quella, che fece già per isdegno graziosamente cantare V.S., è però differente assai di abiti e di costumi; poiché non va vestita di rosso, neppure di lungo, sì che possa ricoprire i difetti; e non è grave, ma domestica; non padrona, ma amica de' pari di V.S. Insomma Ella ha da venire in villa per gusto proprio, e per consolazione di questo signore, che l'ama, e gode della sua gentil consolazione".

Il poeta accettò l'invito e nella villa marchionale di Castiglione del Lago compose e dedicò ad Ascanio Della Cornia il poemetto Gli Orti di Mecenate. Visi celebrano le bellezze del giardino del suo ospite: i fiori compongono quadri raffiguranti i più celebri avvenimenti della storia, i rami si dispongono in maniera tale da creare mirabili edifici; il poeta sta osservando alcune opere di scultura finemente lavorate quando il sogno purtroppo finisce ed egli non ha la possibilità di descrivere le bellezze del palazzo.È questa l'ultima opera del C., il quale, ammalatosi gravemente nel 1599, morì due anni più tardi, nel dicembre del 1601.

Di difficile collocazione nell'ambito dell'abbondante produzione letteraria del C. sono altre minori opere: un ristretto numero di liriche petrarchistiche, una mediocre satira del Pedante, un capitolo bernesco dedicato al Curiandolo, e un curioso poemetto in ottave di genere allegorico-erotico intitolato Il Tempio.

È quella del C. poesia facile e sciatta, fondata sull'equivoco di un continuo autoritratto insieme buffonesco e compassionevole. Il C. è il creatore del poeta pitocco giudice della storia e nel contempo istituzione storica verificabile nelle epoche di più sicura civiltà. Rappresenta, al termine di una tradizione giocosa vecchia quanto la letteratura in volgare, la mistificazione "giocosa" della poesia, il carnevale bianco della Controriforma. È il padre del conte di Culagna e di Meo Patacca, dell'Arcadia comica e del dilettantismo di ogni epoca anche più recente.

Ciò spiega la notevole fortuna di questo mediocre rimatore, i cui versi circolarono abbondantemente in Italia ancora vivente l'autore. Ricordiamo l'edizione di Alcune rime (Bologna 1575), la Raccolta di alcune rime piacevoli (Parma 1582), le Rime piacevoli di C.C. (Venezia 1589); le Rime con quelle del Mauro e di altri (Ferrara 1590), l'edizione con poesie del Tasso, del Caro e di altri (Venezia 1590), le Rime piacevoli di M.C.C. con altre di diversi (Parma 1592) e le Rime piacevoli del C. accresciute di molte altre rime didiversi autori (Piacenza 1596). Nel secolo successivo fu pubblicata a Venezia nel 1604 la Vita di Mecenate, nello stesso anno a Milano La Vita e gli Orti di Mecenate e ancora a Milano la Vita di Mecenate; a Venezia nel 1605 e nel 1606 furono edite le Rime di C.C. e ancora nel 1609 le Rime piacevoli di C.C., del Mauro e di altri autori,accresciute... di molte rime gravi e burlesche del Signor T. Tasso,del Signor A. Caro,e di diversi nobilissimi ingegni; edizioni veneziane delle Rime si registrano ancora nel 1616, nel 1635, 1636, 1637. Nel 1642 furono pubblicate a Perugia le Opere poetiche di C.C. colle osservazioni di Carlo Caporali, importante edizione anche per la retta interpretazione del testo, cui fece seguito l'edizione delle Rime di C.C. colleosservazioni di Carlo Caporali (Venezia 1651, e poi 1656, 1662, 1673). Nel 1770 furono ristampate a Perugia le Rime di C.C.colle osservazioni di Carlo Caporali, prefazione del Mariotti e biografia dell'autore ad opera del Cavallucci. Tale edizione è ancora quella fondamentale. Nel secolo scorso è da segnalare un'edizione fiorentina (1820) delle Rime piacevoli e nel 1915-16 quella di Lanciano a cura di G. Monti.

Bibl.: V. Cavallucci, Vita di C.C., in aggiunta alle Rime, Perugia 1770; G. B. Vermiglioli, Biografie degli scrittori perugini e notizie delle opere loro, I, 2, Perugia 1829, pp. 266 ss.; G. B. Marchesi, I Ragguagli dei Boccalini e la critica letteraria nel Seicento, in Giorn. stor. della letter. ital., XXVII (1896), pp. 72 ss.;R. GallengaStuart, C. C., Perugia 1903 (cfr. rec. di A. Salza in Giorn. stor. della lett. ital., XLVI [1905], pp. 182-199); A. Salza, Vittoria Accoramboni e C. C. in un dramma ignorato, in Augusta Perusia, I (1906), nn. 3-4; B. Croce, Due illustr. al "Viaje de Pernaso" del Cervantes. Il C., il Cervantes e Giulio Cesare Cortese, in Saggi sulla letter. ital. del Seicento, Bari 1911, pp. 123 ss.;L. Firpo, Allegoria e satira in Parnaso, in Belfagor, I (1946), pp. 673-699; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s.d., ad Indicem; C. Jannaco, Il Seicento, Milano 1963, ad Indicem.

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