CESARIANO, Cesare

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CESARIANO (Ciseriano), Cesare

Sergio Samek Ludovici

Nacque nel 1483 a Prospiano (vicino a Olgiate Olona, provincia di Varese), dove suo padre Lorenzo, della nobile famiglia Ciserano o Ciseriano (Cesariano è il nome umanistico), possedeva terreni. Architetto, ingegnere militare, pittore, fu il primo traduttore in italiano di Vitruvio e il secondo illustratore del testo (l'edizione latina illustrata di Fra' Giocondo è del 1511 ed è di gran lunga più rozza): Di Lucio Vitruvio Pollione de Architectura, Como, Gottardo da Ponte, 1521.

Lorenzo, uomo della corte di Bona di Savoia e del figlio Gian Galeazzo Maria Sforza, occupava l'ufficio della cancelleria del capitaneato di Giustizia, ufficio che gli era stato conferito dal potente consigliere Cicco Simonetta. Il C., nella sua autobiografia (a c. 91v, del commentario a Vitruvio), ricorda che il padre morì quando egli non aveva compiuto cinque anni, e che pertanto restò affidato alla "dira noverca" Elisabetta. Il C. restò nell'ambiente della corte e frequentò lo studio di Bramante per il quale avrà alte parole di lode: lo ricorderà come suo primo "praeceptore" (cc. 4v, 21v, 70v) e ne celebrera entusiasticamente le opere eseguite a Milano e in Lombardia, oltre ad ammirarne la capacità di pittore e l'abilità di poeta ("licet etiam fusse illeterato": c. 71v). Conobbe con molta probabilità Leonardo, che ricorda, e i suoi discepoli di cui tratta diffusamente. Ma quando era circa quindicenne, fu cacciato di casa dalla matrigna che minacciò di avvelenarlo ("mi tosicharia", c. 91v). Con un po' di aiuto in denaro datogli da Andrea Vimercati, cancelliere ducale e già subordinato del padre, il ragazzo abbandonò Milano e si mise a girovagare per l'Italia settentrionale, praticando architettura e pittura per mantenersi. A un certo momento imprecisato finì col ritrovarsi nel monastero di S. Benedetto Po o abbazia dei benedettini di Polirone, non si sa se per ragioni di lavoro. Qui lo, trovò Giovan Simone Resta che lo introdusse alla corte estense di Ferrara dove conobbe Antonio Visconti, già ambasciatore del Moro, dilettante di matematica, che gli fece eseguire disegni e schemi scientifici; contemporaneamente lo fece lavorare per gli allestimenti e macchine teatrali delle commedie del duca Ercole. Ma in questi stessi anni il C. lavorava anche a Reggio, dove il 13 marzo 1503 il podestà Lamberto Borelli diede ordine che glifossero pagate alcune pitture nel suo palazzo e una Madonna nella loggia sottostante, previa stima da parte di esperti, venendogli il tutto pagato 5 fiorini d'oro. Non si hanno notizie di altre opere eseguite dal C. a Reggio e nei paesi vicini; tuttavia è presumibile che attività vi dovesse essere, e non da poco, se mise in grado il C. di acquistare delle proprietà nel territorio del paese di Quattro Castella (Archivio di Stato di Reggio, Arch. del Comune di Reggio,Provvisioni del Consiglio Generale e degli Anziani, cc. 231v e 232r), il che fu all'origine di una causa (19 giugno 1506) tra il C. e il massaro dell'amministrazione ducale per certe tasse che l'artista - e secondo il parere dello stesso Comune di Reggio con ragione - si rifiutava di pagare. Quattro Castella era fuori della circoscrizione fiscale, di conseguenza l'artista non era tenuto a pagare il "dazio dei memoriali". E il Comune di Reggio consentiva, senza darlo a vedere, con il C., e per non prendere di petto massaro e duca imputava l'inadempienza del pittore a una presunta "paupertate et impotentia", e si dichiarava disposto a subentrare in sua vece (ibid.) prelevando dai fondi straordinari del Comune, essendo sindaco generale Antonio Boccaccio.

Non si conosce comunque l'esito della lite, se vi fu, ma tutto ciò prova la stima e la considerazione affettuosa di cui godeva in Reggio l'artista, tanto da essere chiamato, più tardi "Cesare da Rezo". Considerazione convalidata del resto anche prima di questo episodio dal fatto che un "maestro Caesare pictore" si trova nominato sin dal 24 maggio 1503 in una lista di ispettori ("soprastanti") all'approvvigionamento della cittadella (Nironi, 1971, p. 35). Senonché tanta bella armonia venne turbata da un grave fatto: in un giorno imprecisato del settembre 1507, il C. ferì di spada un tale Giovanni Rossini che dopo pochi giorni morì. Chiamato in giudizio, fu condannato a morte in contumacia l'8 ott. 1507 (ibid., p. 36).

Inseguito dalla condanna, il C. riparò a Parma presso l'abbazia benedettina di S. Giovanni Evangelista, retta dal milanese abate Graziano. Come documentato dal giornale del convento, attualmente conservato nell'Archivio di Stato di Parma (cfr. Baroni, in Maso Finiguerra, V [1940], pp. 90 s. n. 1), e dal manoscritto Parm. 1106 della Bibl. Palat. di Parma (Spogli de' libri de' Conti del monastero di S. Giovanni Evang. fatti dal P. D. Romualdo Baistrocchi), nel 1508 fu affidata a "certo Cesare da Reggio" la decorazione della sacrestia per "F. 16 al mese il vitto e le spese" (c. 8r A). Il tema era fissato dal committente: Storie bibliche e le Virtù in base a un disegno forse fornito dal C. stesso, che vi lavorò da maggio a settembre (L. Testi, Storia e documenti sulla chiesa di S. Giovanni Evangelista, ms. presso la Soprintendenza ai beni artistici e storici di Parma).

Questa è l'opera pittorica più sicura e più importante del Cesariano. Il soffitto, a quadri entro fasce a cerchietti intrecciati, poggia su archivolti; nei pennacchi sono medaglioni monocromi con le Storie bibliche; mentre nelle nicchie triangolari curvilinee sono rappresentate le Virtù: un'opera coerente, ricca di motivi decorativi e grottesche, che brilla, come giustamente osserva il Venturi (1915), per effetti illusionistici, ma soprattutto per un rigoroso ordine geometrico, proprio di un seguace e osservatore dell'ordine bramantesco (ibid., figg. 683-689).

In questo periodo - tra il 1508 e il 1510 - si deve supporre che il C. lavorasse in altri luoghi se dobbiamo identificarlo con "maestro Cesare depintore" di cui parlano i documenti della Camera ducale estense (Archivio storico dell'arte, VII [1894], p. 300); ma nulla sappiamo di sicuro, anche se nelle sue opere sono innegabili (come ancora mise in evidenza il Venturi, 1915) affinità con altre decorazioni.

L'affinità è riscontrabile con l'ornamentazione della cupola della chiesa di S. Niccolò di Carpi, con l'apparato del cortile e della sala dei Mori del palazzo Pio a Carpi; e inoltre con la decorazione della canonica e del chiostro di S. Abbondio in Cremona, come ha ribadito Arslan (1957, p. 546), convincendo con A. Venturi sulla possibilità di riconoscere lo stile decorativo caratteristico del C. anche in opere più tarde, quali il soffitto di S. Sebastiano a Biella, la decorazione delle chiese di S. Vittore a Meda e di S. Magno a Legnano, e infine la decorazione della sacrestia di S. Maria della Passione a Milano (S. Matalon-F. Mazzini, Affreschi del Tre e Quattrocento in Lombardia, Milano 1958, pp. 61 s.); ma nessun documento convalida queste ipotesi.

È invece opera sicura del C., eseguita verso il 1512, probabilmente sulla via del ritorno a Milano, la tavola della chiesa di S. Eufemia di Piacenza (Madonna col Bambino e i ss. Vittore,Sostene,Eufemia e Agnese), identificata da A. Ghidiglia Quintavalle (1959) in base a una acuta analisi stilistica.

Il rapporto tra figura e ambiente della tavola piacentina, riscontrabile altresì nel rigore compositivo della grande decorazione di Parma, fa pensare all'educazione bramantesca del C., ma il chiaroscuro e il modulo delle figure ovoidi rimanda ad accenti ferraresi. È atteggiamento che ritroveremo nelle illustrazioni del Vitruvio.Nel 1513 il C. era di nuovo a Milano - dove era rientrato Massimiliano Sforza - e in quell'anno fu persuaso (secondo la testimonianza del Vitruvio, c. 91v) ad abbracciare lo stato ecclesiastico (probabilmente prese gli ordini minori). Il 26 nov. 1513 fu pagato per pitture eseguite con "Vincentio de Brissia" (Vincenzo Foppa) nella restaurata sala dei deputati dell'Opera del duomo (Annali, 1880, p. 165), ma di questi lavori non esiste più nulla (Gatti, 1971). Il C. fu "a li Architectonici servigi del duca Maximiliano" (Vitruvio, c. 91v), con ogni probabilità come ingegnere militare e inventore di stratagemmi ossidionali (ibid., c. 22r), e come tale si era distinto nell'assedio al presidio che i Francesi, lasciando Milano il 16 giugno 1512, avevano conservato nel castello di porta Giovia (il Castello Sforzesco) e che furono costretti ad abbandonare il 19 dic. 1513, dopo la sconfitta di Novara. Ma dopo meno di due anni Francesco I vittorioso rientrò a Milano (11 ott. 1515) che, con tutto il ducato, gli venne consegnata da Massimiliano Sforza: il C. si salvò a stento fuggendo dal castello portando con sé nulla "altro che questa praesente Vitruviana opera" (ibid., c. 91v). È di questi anni l'impresa architettonica più importante attribuita all'artista: l'atrio della chiesa di S. Maria presso S. Celso e probabilmente il rimaneggiamento della chiesa stessa che con l'atrio presenta affinità strettissime.

Il problema dell'attribuzione è molto difficile per la poca chiarezza dei documenti, e per il sovrapporsi degli interventi durante il lungo periodo in cui si è trascinata la costruzione. Il 1º sett. 1513 una delibera della Fabbrica della chiesa di S. Maria presso S. Celso dispone che si continui nel lavoro dei chiostri e della chiesa "iuxta modellum novum". Modello il cui autore è espressamente indicato nel C. nella successiva delibera del 28 dic. 1513. Viene poi specificato che l'architetto sia pagato per "la intavoladura de piaza et uno desegno de la fazada" (delibera del 31 dicembre dello stesso anno). Il suo nome viene ancora fatto nel 1514 (Baroni, 1940, Docc. ..., pp. 250 s.). A questi documenti vanno aggiunti tre bellissimi disegni (conservati a Milano, presso l'Arch. civico - Bibl. Trivulziana, cioè nella Racc. Bianconi) attribuiti al C. dal Baroni (ibid., pp. 218 s.; 1941, ill.). Non tutti gli autori sono, però, concordi in questa attribuzione (Arslan, 1957, p. 551; Krinsky, 1969, p. 8). Tuttavia alcuni motivi architettonici dell'atrio e della chiesa ricordano alcune illustrazioni del commento a Vitruvio (cc. 45r, 53r, 87v, 97v). Inoltre, nello stesso commento (cc. 97r, 99r), è fatto riferimento all'atrio di S. Maria e, circostanza non irrilevante, a c. 14v è sottolineata la preferenza degli antichi per le pareti ricoperte da marmi di vari colori e per i capitelli di metallo, per le volte e i sottarchi arricchiti di rosoni ("di auro massicio: aut di argento"), come in realtà appaiono (sono di bronzo) nell'atrio e nell'interno della chiesa.

Certo l'autore dei disegni è l'autore del chiostro e del rinnovamento interno della chiesa. Il Gatti (1971) attribuisce al C. il progetto e la costruzione dell'intero chiostro, del quale sarebbe rimasta originale la sola ala verso il cimitero di S. Sisto.

Nel 1518 il C. eseguì un'opera di ingegneria agrimensoria e idraulica ad Asti, documentata ampiamente nel commento a Vitruvio (c. 4r), dove egli descrive anche suoi lavori di canalizzazione e rettificazione del Tanaro (cc. 112v, 138r).

In questi tempi calamitosi il C. pensava alla pubblicazione dell'opera per cui è raccomandato alla posterità: la traduzione, il commento e le illustrazioni del Vitruvio.

Il C., sprovvisto dei mezzi per procedere alla stampa, trovò quasi miracolosamente il promotore (e finanziatore) dell'opera nella persona del nobile Aloisio Pirovano, che si associò al comasco Agostino Gallo "referendario" di Como.

Con atto rogato da Benedetto Giovio l'11 apr. 1521 si convenne che le spese della pubblicazione del Vitruvio venissero assunte dal Pirovano e da Agostino Gallo e che si stampassero milletrecento esemplari. L'impressione di questi veniva affidata al noto tipografo Gottardo da Ponte, fatto venire appositamente da Milano a Como (Krinsky, p. 10). Successivamente, con atto rogato il 21 apr. dello stesso anno, si convenne che il C. avesse il diritto di rivedere le bozze e le figure e che durante l'impressione venisse alloggiato nella casa di Sebastiano Gallo, fratello di Agostino (De Pagave, p. 23).

Di fatto tutto procedette bene sino a c. 159r (libro IX, capitolo sugli orologi). A questo punto venne negato al C. il diritto di correzione delle bozze; egli si appellò al contratto, di cui per sua somma ingenuità non si era provveduto di copia. Gli editori ebbero facile pretesto per negare la validità della richiesta. Il C., minacciato, lasciò la casa di Sebastiano Gallo e trovò un rifugio presso un amico, Benedetto Birago, portando con sé il resto del manoscritto e le residue matrici delle incisioni. Ma poco tempo dopo i due con l'accompagnamento di guardie armate irruppero nella casa del Birago e rubarono gran parte del materiale utile alla continuazione della pubblicazione, oltre a cose personali del C., che venne buttato in carcere. Rilasciato, probabilmente dopo qualche intervento autorevole, il C. fuggì a Milano senza curarsi di riottenere la roba sottrattagli e fece causa ai promotori (De Pagave, pp. 21-32). Ma l'impressione del volume - giunta alla metà del libro IX - continuò: la fuga del C. fornì ai promotori il pretesto per il progettato impadronimento della paternità del volume. Fu un'azionecauta e graduale. A c. 183r, nella carta finale del libro, nel colophon non si trova una parola sul Cesariano. E se ne intuisce la ragione: il colophon, o sottoscrizione, era una attestazione solenne che impegnava tipografo, editore e autore. Nelle prime pagine non numerate, invece, tanto una Oratio di Luigi Pirovano quanto la dedica di Agostino Gallo a Francesco I attribuiscono impudentemente traduzione, commento e figure ad "alchuni homini Docti". Il nome del C. è fatto solamente nell'avvertenza in fine al volume (c. 184r non numerata) in cui viene accusato di essere partito da Como lasciando interrotta l'opera; B. Giovio e Mauro Bono si sarebbero quindi assunti l'onere di proseguire il lavoro "senza iniuria alchuna del prefato Caesare; il qual havendo abandonata la preda ha facto che non sia più sua secundo il dictamine de la lege Civile". Ma a c. 154v, dove si interrompe l'opera del C., il Gallo e il Pirovano si proclamano "Principali Auctori de la presente Impressione vitruviana...", dove intenzionalmente era usato il termine "impressione", perché fosse equivocato con pubblicazione, cioè opera e commento, lasciando adito alla scappatoia leguleia della interpretazione della parola nel senso di "promozione, edizione". Senza tener conto dell'oltraggiosa e mendace dichiarazione "facta mettere in qualche essere da Caesare Cisserano con lo adiuto de alchuni".

Conferma delle soperchierie del Pirovano e del Gallo si ricava dagli appunti autografi del C. nella preziosa copia a stampa del Vitruvio con sue annotazioni, che, venuta in possesso di Venanzio De Pagave e da costui passata a Giuseppe Bossi, finì nella Biblioteca Melziana (De Pagave, p. 21). Malauguratamente questa preziosa biblioteca è andata dispersa nel secondo dopoguerra e ci si deve affidare ora solo al testo del De Pagave (pubblicato dal Casati), oltre che alla tesi di laurea (del 1928), rimasta manoscritta, di A. Ottino Della Chiesa. Dalle trascrizioni della Ottino si rileva che dalla c. 154v del VII capitolo del libro IX, commento e traduzione sono continuamente corretti dal C., e si trae conferma che fu a questo punto che egli fuggì da Como. Il numero delle correzioni è giustificato anche dal fatto, confessato dal C. stesso, che egli "usò sempre questa astucia de lassare le sue cose scripte in tal modo che altri che epso gli sapea cumplire et componere li secreti de le distintione, et de le lectione che sono in tuti li dieci libri Vitruviani" (De Pagave, p. 45). Rivolgendosi a Francesco I, il C. accusava il Gallo di aver mentito tacendo il nome del vero autore della traduzione e inoltre si lagnava che i promotori gli impedissero di rivedere le bozze del testo che veniva alterato dai compositori per certi loro intenti. E questa era la ragione per cui egli non consentì, "senza saputa e publica scriptura", di dedicare il libro al re di Francia. "Per le qual cose li predicti iniustamente incarcerorno il dicto Cesare in la loro casa; e per forza volseno le forme de le figure..." (Casati, in De Pagave, p. 28, seguito n. 1.). Derubato e carcerato, ecco l'amara conclusione del C., "uno tanto omo", continua la protesta nella annotazione autografa, che aveva "tanti anni insudato per el bene publico e perpetuo a fare questa opera Vitruviana fusse restituita in lucem sempiternam aevi perpetui" (ibid.).

Un particolare riguardo meritano i disegni del C. per le incisioni in legno del volume. Che gli appartengano non v'è dubbio: ed è confermato dal commento autografo del C. alla prefazione del Pirovano, dove è detto che il Pirovano aveva fatto incidere e disegnare da valenti artisti le illustrazioni del Vitruvio (De Pagave pp. 41 s.).

I disegni erano stati dati agli intagliatori, tranne alcuni - di musica - ceduti da Franchino Gaffurio (il diagramma a c. 77v), e da Gianmaria Comense (quello a c. 78v: vedi anche Krinsky, p. 12). La figura a destra di c. 11r, ripetuta a c. 151r, raffigurante L'armonia delle sfere, era stata tratta da Bernardo de Granollachs, Sommario dell'arte di astrologia, Napoli 1485).

Alcune illustrazioni sono firmate: ad esempio, la Torre di Andronico o dei venti a c., 24v, con le iniziali "C.C.C.M.O." ("Caesaris Caesariani Civis Mediolanensis Opus"); la Graecorumstructura a c. 40v, con iniziali e data, "C.C. 1517"; o la scena con gli Operai intenti alla manovra di una gru a c. 166r, con ben visibile il monogramma e la data 1519 riportati su di un solido imbrigliato da funi. Le illustrazioni - che accusano tra l'altro un qualche influsso dell'edizione figurata di Fra' Giocondo del 1511 - sono da ritenere del C. per ragioni scientifiche e didattiche e per ragioni formali; esse sono uno strumento preciso e rigoroso a servizio dei passi difficili del testo, a documentazione puntuale di fori, terme, templi, acquedotti attribuiti ai Greci e ai Romani; di veicoli con congegni di misura, orologi a sole, obelischi. Il nome del C. ricorre infine nel titolo della Mundi electiva Caesaris Caesariani configurata a c. 92r (cioè la "storia illustrata della sua vita e i presagi del suo avvenire"), La Mundi electiva, la Scoperta del fuoco o Aetas aurea a c. 31v (che tra l'altro riproduce motivi da incisioni di Marcantonio), la Costruzione delle prime case, a c. 32r, tradiscono modi dosseschi e correggeschi. Altre immagini, le proporzioni dell'uomo, Humani corporis mensura a c. 49r, e l'altra a c. 50r con l'uomo a braccia e gambe aperte aderente al quadrato (non sua, ma dal C. stesso attribuita a P. P. Segazone), dipendono da disegni ed escogitazioni di Leonardo, di Luca Pacioli, di Francesco di Giorgio, di Fra' Giocondo, non senza motivi classici dedotti dal neoplatonismo rinascimentale. Le illustrazioni di fantasia - le più gustose - non mancano di accusare l'influenza, pur tra i molti motivi che si ritrovano assai fusi nel C., dell'artista, certo non minore, che, diretto dall'umanista Sebastiano Brant, orna il Virgilio, Opera Omnia di Giovanni Grüninger (Strasburgo 1502): volume che ebbe grande fortuna ed arrivò certamente alle mani del coltissimo Cesariano.

Assai interessanti, e pertinenti più specialmente al suo temperamento di architetto teorico, sono le figure a cc. 14r, 15rv dove, a proposito di un edificio sacro "alla gotica", il C. offre - del duomo di Milano - la pianta, la sezione del corpo della chiesa, e questa stessa sezione con vista della facciata e del transetto, ponendo in risalto la geometrizzazione tardomedioevale delle strutture della cattedrale (P. Booz, Der Baumeister der Gotik, München-Berlin 1956, pp. 49-55; M. Lodynska-Kosinska, Quelques remarques au sujet... de la gravure de C. C., in Il Duomo di Milano,Atti..., Milano 1969, I, pp. 130 s.; S. Wilinski, C. C. elogia la geometria architettonica della cattedrale,ibid., pp. 132-143).

Del duomo milanese il C. si occupa in più luoghi del suo volume (Krinsky, ad Indicem, p. 30): delle sue proporzioni, del modo di collegare il rivestimento marmoreo alla struttura, e dei pilastri e delle volte. Di questo interesse doveva forse costituire materia una pubblicazione che F. Argelati (1745) intitola Opus de Templo maximo Mediolanensi, affermando di ricavare la notizia dagli scritti di G. B. Scaravaggi, il quale era amico del Cesariano.

La figura del Cavaedium displuviatum (c.97v) ci fa concordare con chi attribuisce al C. il disegno di una incisione la cui paternità è sino ad oggi contestata: si tratta della Prospettiva architettonica (A. M. Hind, Early Italian Engraving, V, London 1948, pp. 104 s., tav. 634; Krinsky, p. 9; Gatti, 1976).

Non è possibile invece che il C. abbia fornito, come ritiene la Krinsky (p. 7), un disegno per gli stalli della chiesa di S. Bartolomeo in Bergama (eseguiti originariamente per la chiesa di S. Domenico nella stessa città), e cioè per lo stallo n. 8 con l'"età dell'oro". Anche se qualche spunto iconografico ricorda la scena omonima a c. 31v del Vitruvio (per la turba degli spaventati che fuggono per la caduta del fulmine, la fiamma altissima nel centro dello stallo, l'uomo chinato che spezza i rami col ginocchio, ecc.), la goffa esecuzione dei volti e altre evidenti incongruenze formali escludono un intervento sia pure indiretto del Cesariano. È assai più verosimile che l'intarsiatore abbia derivato il soggetto dalla xilografia del C. semplificando e riducendo. Il fatto è singolare e merita ulteriore indagine perché altri stalli di soggetto esclusivamente architettonico sono assai bene eseguiti e sinceramente belli, confermando la vicinanza, se non la mano, del Bramantino (W. Suida, Bramante e il Bramantino, Milano 1953, pp. 82-83), o artista a lui prossimo.

Dal punto di vista del contenuto, la traduzione e il commento del Vitruvio sono una vera e propria enciclopedia del sapere del tempo, anche se risulta di difficile lettura, data l'anarchia lessicale e sintattica, un volgare fortemente latinizzato, irto di citazioni latine e greche, faticoso a leggersi per le frequenti abbreviazioni, gli errori di stampa e la difficile interpunzione. Latinizzando fortemente la sua traduzione il C. credeva di renderla più scientifica oltreché forse di nobilitarla (more umanistico). Egli si lusingava altresì di "inventare" un lessico architettonico scientifico. D'altra parte non bisogna dimenticare che alcune difficoltà di lettura, qualche mancata corrispondenza tra testo e figure esemplificate possono derivare dalla circostanza che il C. non poté rivedere il volume.

Comunque è indubbio che la traduzione è il primo tentativo di interpretazione del difficile testo vitruviano e una specie di "poetica architettonica". Il C. mostra una conoscenza vastissima della cultura classica greca e latina, quasi insospettabile in un artista quale essenzialmente fu. Ma la cultura gli arriva non solo attraverso i testi, ma anche attraverso i monumenti o i resti da lui visti nell'area settentrionale, da lui frequentata: quasi certamente, come con convincenti ragioni ha dimostrato la Krinsky (pp. 7 s.), il C. non fu mai a Roma, ma ebbe occhi assai acuti per penetrare quel tanto di mondo antico da lui visitato. Peraltro l'importanza maggiore del testo del C. sta nel presentare una panoramica del mondo artistico a lui coevo. I canoni dedotti da Vitruvio sono applicati a monumenti romanici e gotici che egli ben conosce e riproduce. Soprattutto egli ci parla degli artisti che ha visto e apprezzato. Bramante, in prima linea, da lui più volte nominato come precettore e maestro, il Bambaja (Agostino Busti), Cristoforo Solari (il Gobbo), la cui opera e nome vengono a intrecciarsi con l'attività del maestro milanese, rendendo assai aspra la individuazione della paternità di alcune grandi opere architettoniche che ad ambedue si possono riferire. Inoltre, Leonardo e, più, i leonardeschi, come Bernardino Luini, Marco d'Oggiono, Boltraffio. E, fuori dell'ambito strettamente lombardo, Mantegna e Michelangelo, Giovanni e Gentile Bellini, Pietro Perugino, Piero della Francesca, Raffiaello, Francesco Costa, cui peraltro associa (facendone grande stima) il minore Nicola d'Appiano. Come si vede, un buon squarcio della produzione figurativa lombarda e un'occhiata ai grandi maestri rinascimentali.

Tanto più interessanti sono le osservazioni del C. in quanto si accompagnano alla conoscenza assai precisa della società del suo tempo. Prima di tutto i signori, nobili e funzionari sforzeschi, cultori di arte e di architettura: Giovanni A. Salvatico (Gatti), Gerolamo, Rabia, Bernardino de Butto, Ludovico Landriani, Andrea Morone, Antonio Terzago, Battista Marchesi, Bernardino Rincio, Gerolamo Appiano, Filippo de Busto, Gerolamo Visconti, Ottaviano Panigarola, Francesco Gritto, Francesco Visconti. Da uno studio acuto di Sergio Gatti (1976) risulta che l'indirizzo generale del commento a Vitruvio è, in ultima analisi, un adattamento dei canoni, norme, regole vitruviani all'ambiente lombardo (per il passato); e un programma costruttivo per l'avvenire, obbediente a spiriti classici, sia pure con gli inevitabili fraintendimenti del testo del classico romano. La identificazione del palazzo Salvatico, dovuta al Gatti (1976) che lo attribuisce a C. Solari, sarebbe stata assai più completa se si fosse conservato l'altro palazzo fatto costruire da Gerolamo Rabia, ma è sufficiente per tracciare le linee maestre di un movimento artistico-culturale, la cui voce teorica è egregiamente rappresentata dal Cesariano. A questi edifici è da aggiungersi l'ancora esistente palazzo Landriani in via Borgonuovo a Milano attribuito al C. dal Mezzanotte. A. Ottino Della Chiesa (in Istituto lombardo: Accademia di scienze e lettere, Milano 1959, pp. 35 ss.) attribuiva al C. la decorazione del soffitto del salone al pianterreno con Segni dello zodiaco nei medaglioni ed Episodi mitologici nelle lunette, mentre la Ferrari (1967), limitando, l'intervento del C. alla decorazione del salone e del cortile interno, attribuiva allo Zenale la facciata esterna.

Purtroppo l'architettura interna di casa Landriani è stata fortemente modificata e la decorazione esterna ad arabeschi e grottesche è quasi totalmente scomparsa (se ne ha una pallida idea in una fotografia della Fototeca del Comune di Milano e in un disegno in Rassegna d'arte, II [1902], p. 184: vedi anche Sioli Legnani-Mezzanotte, 1945, pp. 4 s., tavv. XI-XVI). Sta di fatto che casa Landriani appartiene a un clima classicistico delineatosi in Lombardia nel primo Cinquecento cui partecipano Bernardino Zenale e Bernardino Luini.

Superata la crisi del Vitruvio, cacciati nel novembre 1521 i Francesi e al loro posto subentrati gli Spagnoli, e reintegrato Francesco II Sforza nel ducato di Milano, nel 1524 il C. era iscritto tra gli ingegneri collegiati milanesi, e tra il 1525 e il 1527 (nel periodo in cui Carlo V aveva preso possesso diretto del ducato) Ludovico Barbiano di Belgioioso, governatore di Milano e castellano (De Pagave, p. 49), gli affidò l'incarico di munire il Castello Sforzesco nella parte del Carmine e del borgo degli Ortolani, comprendente le importanti strade che portavano a Varese e a Como. La geniale fortificazione a tenaglia - una delle prime del genere, nell'architettura militare -, costituita da due lati ad angolo rientrante, andò distrutta quando gli Spagnoli attuarono il nuovo sistema difensivo (iniziato nel 1546, e anch'esso distrutto); ma ne è ancor oggi restato il nome nella "via di porta tenaglia".

L'interessamento costante per la cattedrale milanese giustificava il desiderio del C. di pervenire alla carica di architetto della Fabbrica. Una domanda diretta il 10 febbr. 1526 ai deputati dell'Opera del duomo per succedere a Bernardino Zenale è riportata da A. F. Albuzzi (in Arte, 1954, App., p. 67), il quale afferma di conservare presso di sé l'originale di mano del C. medesimo (vedi anche De Pagave, pp. 86 s.). Ma il C. non riuscì nell'intento. Ci risulta di sicuro solo che dopo la nomina ad architetto cesareo da parte del governatore di Milano, Antonio de Leyva (23 genn. 1528), con una lusinghiera motivazione che mette in luce specialmente le sue qualità di architetto militare (C. Cantù, Ancora di C. C., in Arch. storico lomb., III [1876], pp. 119 s., e De Pagave, pp. 99 s.), il 24 dic. 1533 venne nominato architetto della città (doc. D in De Pagave, pp. 101 s.).

Intanto il processo intentato ai promotori del libro, falsari e fraudolenti, arrivò alla conclusione. La sentenza riparatrice venne emessa nel luglio 1528. Al C. venne riconosciuto un credito corrispondente alla terza parte del valore del volume del quale erano state stampate 1.312 copie. A questo proposito va tenuto conto di una precedente richiesta dell'artista, senza data e senza destinatario, con la quale egli reclamava la propria parte dei volumi dispersi (di cui 438 copie depositate presso il referendario ducale in Como Ottaviano de Ripa e da questo parzialmente affidate a certo Ambrosio Ferrario: documento pubbl. da C. Cantù, in Arch. storico lomb., II [1875], pp. 437-439). È probabile che la petizione del C. abbia anche provocato o sollecitato la sua nomina da parte del De Leyva ad architetto cesareo. È utile rilevare che nella stessa petizione il C., vantando i molti servizi prestati in opere di architettura (specialmente militare) nelle città di Milano, Alessandria, Como "et aliis locis", chiedeva uno stipendio mensile, ovvero, in alternativa, un beneficio ecclesiastico ("cum sit clericus").

Il 26 luglio del 1529 il referendario di Como aveva l'ordine di fare la stima dei beni dei Gallo, eseguita dall'agrimensore Francesco da Cannobio; il 18 settembre dello stesso anno, con imbreviatura del notaio Virgilio Bossi, si procedeva alla consegna all'artista di parte dei beni dei Gallo (Arch. di Stato di Milano, Finanza,Confische, fascicolo "Gallo Sebastiano", cartella 1377).

La promozione ad architetto cesareo comportava incarichi ufficiali come la divisione di terreni ad Asti già ricordata. Il 29 apr. 1535 insieme con altri "ingegneri maestri", come Cristoforo Lombardi, detto chiaramente ingegnere della Fabbrica del duomo, Agostino Busti, Antonio Lonate, il C. prese parte a una seduta per giudicare del valore dei modelli e disegni di Gerolamo Della Porta. Il 10 luglio di quell'anno partecipò a un'altra seduta, alla quale era presente C. Lombardi con prescrizione di presentare i disegni per la costruzione di una porta (verso Compito), e il 1º settembre dello stesso anno era pagato per un disegno della porta grande del duomo verso gli scalini (per questi documenti vedi Annali..., 1880, pp. 165, 259 s.). Il 17 luglio 1537 intervenne ad altra seduta per deliberare circa il modello della porta settentrionale (dell'abside).

La sua autorità in fatto di studi vitruviani e di conoscenza dell'antico era grandissima, se il Serlio a lui si rivolge per convalidare idealmente il suo Terzo Libro nel quale si figurano e descrivono le Antichità di Roma e le altre che sono in Italia e fuori d'Italia, Venezia, F. Marcolini, 1540, dedicato a Francesco I. In questo volume, importantissimo per la geniale documentazione e interpretazione del classicismo, nella Nota a li lettori, a p. CLV, il Serlio, bolognese, chiama in causa, oltre ai concittadini suoi Achille Bocchi e Alessandro Manziolo, "Cesare Cesareano" lombardo, i quali "con la irreprensibile dottrina di Vitruvio e con la sana esperienza lo difenderanno".

Attestazione che si è riportata per l'altezza dell'architetto bolognese e per il riconoscimento tributato al coetaneo C. come teorico, e professante nell'architettura. Come già ebbe a notare acutamente Baroni (Dizionario delle opere e dei personaggi, I, Milano 1963, p. 235), il municipalismo molto sentito del C. lo portò a considerare gli artisti lombardi "uguali agli antichi", il che non è poco per la importanza del suo "trattato", che spiega Vitruvio coi monumenti "gotici" (il duomo di Milano) o a lui coevi. Egli fu adoratore dell'antichità, ma intriso di medioevo anche nel suo atteggiamento religioso e nella sua concezione spiritualistica.

E come architetto si presentava nella doppia veste di autore e di ispiratore per la sua particolare interpretazione e decorativa", "grafica", "fantasiosa" della stessa ammirata classicità. Tempra, carattere singolare, molteplicità di atteggiamenti (del resto comuni anche ad alcuni suoi grandi contemporanei: si pensi al classicismo della certosa di Pavia ricordato, opportunamente, dalla Krinsky, o alla cappella Colleoni di Bergamo) lo fecero presto apprezzare dai suoi coetanei, fra i più dotati. La sua traduzione avrà larghissima influenza sino a che le ragioni dell'arte prevarranno su quelle delle lettere e della filologia. Allora la traduzione di Daniele Barbaro (Venezia 1556) seppellirà (ma non definitivamente) il "trattato" del Cesariano.

Il C. morì all'ospedale Maggiore di Milano il 30 marzo 1543 (Casati, in De Pagave, p. 59 n. 2).

Artista singolarissimo, di valore certo superiore alla sua fortuna, fu più uomo di pensiero che realizzatore, sebbene non si possa disconoscere (Leoni, 1955) che egli fornì lo spunto con disegni (forse perduti) e con le illustrazioni del Vitruvio, e assai probabilmente con la sua ispirazione, a edifici di maestri a lui posteriori. Citiamo, come esempio tra gli altri, la figura a c. 41v della Città e Mausoleo di Alicarnasso di pretta indole rinascimentale, non lombarda ma bramantesca, da accostarsi alla chiesa di S. Magno a Legnano; il Progetto di teatro a c. 82v, spaccato esterno e pianta, dove rivive il ricordo del Colosseo, che offrì spunti al S. Sebastiano di Milano del Pellegrini; la figura dell'Ospedale, a c. 99v, che presenta una anticipazione del palazzo dei Giureconsulti di Milano, senza il carattere manieristico di quest'ultimo. Non v'è d'altra parte dubbio che gli edifici da lui prodotti o immaginati per spiegare Vitruvio, più che dedotti dalla visione diretta di monumenti romani (e del resto Vitruvio si riferisce a monumenti dell'età augustea nella generalità perduti) sono stati tratti da resti di monumenti romani che poté aver visto, e più, da monumenti o da architetture a lui contemporanee. Egli si valse degli antichi scrittori latini anche se non sempre conosciuti di prima mano, ma attraverso i lessicografi come Festo, Suida e Papia, e dell'ampia letteratura medievale su Roma a cominciare dai Mirabilia.

La Krinsky (p. 12) rileva giustamente che il C. non nomina scrittori del Quattrocento, immediati predecessori, come Alberti, Filarete (ma vedi Gatti, 1973), Francesco di Giorgio; sebbene i suoi disegni prendano talora spunto anche da questi artisti. Ella fa inoltre gli esatti raffronti, specialmente per le macchine, con le illustrazioni di Leonardo, Francesco di Giorgio, Bonaccorso Ghiberti e naturalmente Fra' Giocondo e altri (pp. 26 s.). Una particolare considerazione meritano le fantasiose e spesso allegoriche iniziali del volume.

Il C. era uno spirito originale, pur nei suoi limiti; e certamente non meritevole dell'appunto che gli mosse Benedetto Giovio (citato da Casati, in De Pagave, pp. 91-93) di essere prevenuto nei suoi giudizi. Alla c. 91v della traduzione del Vitruvio disegnò, nella citata Mundi electiva, una vivace esemplificazione illustrata della sua vita, col suo autoritratto sospeso tra personificazioni di vizi, virtù e mostri (tra cui non manca la caricatura della matrigna) e di glorie e successi futuri: palpitante documento storico, movimentata allegoria di mano del C. dove con forte eclettismo tra mito pagano, allegorie cristiane, leggende di artisti antichi (la famosa "calunnia di Apelle") si ritrovano anche spunti leonardeschi. Forse la prima autobiografia figurata di un artista.

Fonti e Bibl.: Primo a parlare del C. è G. B. Caporali nella sua traduzione del De Architectura di Vitruvio, Vetruvio in volgar lingua, Perugia 1536, ed. Giano Gigazzini, dal quale il C. è plagiato nelle figure e nel testo, e per giunta messo assieme al buon Mauro (che non è altro che il compilatore raffazzonatore da metà del IX al X libro, Mauro Bono), ad Agostino Gallo e Aloisio Pirovano, gli interessati promotori che si è visto; e infine, come accade ai plagiari, il Caporali taccia il C. di oscurità. Grande stima ha invece del C. S. Serlio (nel luogo citato nel testo), considerandolo come massima autorità in fatto di antichità e interpretazione di Vitruvio. Negativo è invece il giudizio di Claudio Tolomei, che da buon letterato, politico ed ecclesiastico non comprende il rude tecnicismo del C. e lo taccia di oscuro: "manco assai s'intende in vulgare che non fa in latino [Vitruvio]" (Lettere, Venezia 1547, III, pp. 82 s.). Dopo la "vita" romanzata di G. Vasari (Le vite..., a cura di G. Milanesi, IV, Firenze 1879, pp. 149-150) dove il C., "buono geometra e buono architetto", è fatto precedere nel tempo a Bramante, e fatto poi morire più "da bestia che da persona"; dopo una fugace citazione di G. P. Lomazzo (Trattato dell'arte della pittura,scultura ed architettura, Milano 1584, VII, p. 251), si dovrà arrivare al Settecento per trovare un apprezzamento effettivo dell'architetto, teorico, pittore, storico, attento ai suoi tempi. Fondamentali, per la biografia, i riferimenti autobiogr. nel commento al Vitruvio, De Architectura, Como 1521: si veda l'ediz. anast. (München 1969), a cura di C. H. Krinsky. La Krinsky (pp. 5-28), oltre ad analizzare il testo e le illustrazioni, dà esatti riferimenti archivistici e bibliografici. Come indicato nel testo, sono anche fondamentali i commenti autografi del C. nel Vitruvio già posseduto dalla dispersa biblioteca Melzi di Milano e riportati parzialmente sia in V. De Pagave, Vita di C. C. ... [sec. XVIII], a cura di C. Casati, Milano 1878, sia in A. Ottino, Prime ricerche sulla vita e sulle opere di un dimenticato architetto milanese..., tesi di laurea, università degli studi di Milano, 1928. Si veda inoltre: G. B. Scaravaggi, Epigramma pro Caesare Caesariano architecto, nel manoscritto non autografo tra le molte cose trascritte nel Quodlibet di F. Castelli (morto nel 1578), p. 281, conservato nella Bibl. capitolare di Milano. È, come del resto era noto, una esortazione al C. a pubblicare (edere) il libro sul duomo, che sembra perduto (grafia cinquecentesca del Castelli, raccoglitore della miscellanea): vedi M. Magistretti, in Arch. stor. lombardo, XLV(1918), pp. 1-20; F. Argelati, Bibliotheca scriptorum Mediolanensium, II, Mediolani 1745, ad Indicem; Annali della Fabbrica del duomo, III, Milano 1880, ad Indicem;F. Albuzzi, Memorie per servire alla storia de' pittori..., a cura di G. Nicodemi, in L'Arte, LI-LIV (1948-1954), Append., ad Indicem; A. Venturi, Storia dell'arte ital., VII, 4, Milano 1915, pp. 1006-1009; VIII, 2, ibid. 1924, pp. 774-802; C. Baroni, Osservaz. su C. C., in Maso Finiguerra, V(1940), pp. 83-96; Id., Documenti per la storia dell'archit. a Milano nel Rinascimento e nel Barocco, I, Firenze 1940, pp. 218, 219, 250-253; Id., L'archit. lombarda da Bramante al Richino..., Milano 1941, pp. 59, 66, 68, 117 s., ill. 89-92; S. Samek Ludovici, L'euritmiata simmetria di C. C., in Il Primato, III (1942), pp. 365 s.; E. Sioli Legnani-P. Mezzanotte, Contrade milanesi, I, Il Borgonuovo, Milano 1945, ad Indicem; F.Leoni, Il C. e l'architett. del Rinascimento in Lombardia, in Arte lombarda, I(1955), pp. 90-97; P. Mezzanotte, Il duomo, in Storia di Milano, VII, Milano 1955, p. 859; E. Arslan, L'archit. milanese del primo Cinquecento,ibid., VIII, ibid. 1957, pp. 544-551; A. Ghidiglia Quintavalle, Un dipinto di C. C. a Piacenza, in Paragone, X(1959), 109, pp. 51-53; V. P. Zoubov, Vitruve et ses commentateurs du XVIe siècle..., Paris 1960, ad Indicem;M. L. Ferrari, Zenale,C., Luini,un arco di classicismo lombardo, in Paragone, XVIII(1967), 211, pp. 18-38; P. Verzone, C. C., in Arte lombarda, XVI (1971), pp. 202-210; C. Krinsky, C. and the Renaissance without Rome,ibid., pp. 211-218; S.Gatti, L'attività milanese del C. dal 1512-13 al 1519,ibid., pp. 219-230; G. Germann, Gothic revival in Europe and Britain..., London 1972, ad Indicem; V. Nironi, L'artista C. C. e il suo soggiorno reggiano, in Boll. stor. reggiano, VI(1973), pp. 32-39; S. Gatti, L'azione del Filarete in un giudizio di C. C., in Arte lombarda, XVIII(1973), pp. 129-132; A. M.Romanini, in Il duomo di Milano, Milano 1973, I, ad Indicem; R.Wittkower, Gothic versus classic, London 1974, ad Indicem; L.H. Heydenreich-W. Lotz, Architecture in Italy 1400-1600, Harmondsworth 1976, ad Indicem; S.Gatti, Il pal. di G. A. Salvatico a Milano..., in Quaderni dell'Ist. di storia dell'arte... Univ. di Messina, II(1976), pp. 21-30; M. Tafuri, C. C. e gli studi vitruviani del Quattrocento, in Scritti rinasc. di architettura..., Milano1978, pp. 389-438.

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