FALCONIERI MELLINI, Chiarissimo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 44 (1994)

FALCONIERI MELLINI (Millini), Chiarissimo

Giuseppe Monsagrati

Nacque a Roma il 17 sett. 1794 da Alessandro e da Marianna Lante duchessa di Santa Croce.

La famiglia paterna, ramo dell'importante famiglia fiorentina originaria di Fiesole, trapiantato a Roma all'inizio del Seicento, godeva di enorme considerazione e prestigio nel patriziato romano, con il quale si era sovente imparentata per via di matrimoni. L'avevano inoltre resa illustre i due santi (Alessio e Giuliana) e i due cardinali (Lelio e Alessandro) che in seicento anni di storia essa aveva dato alla Chiesa: il nome Chiarissimo con cui il F. fu battezzato riprendeva appunto quello del presunto fratello di Alessio, padre di Giuliana.

Secondogenito e ultimo rampollo di una famiglia destinata ad estinguersi alla sua morte confluendo in quella dei Carpegna (il fratello Orazio morirà nel 1849 senza lasciare eredi e aprendo una grossa questione per la successione), il F., rimasto presto orfano di padre, fu dalla madre inviato a studiare grammatica e retorica presso gli scolopi del collegio "Tolomei" di Siena. In seguito gli eventi della rivoluzione portarono i Falconieri in Francia, e quando aveva 18 anni il F. fu ammesso a far parte dei paggi dell'imperatore, un onore che, pur nell'ammirazione per Napoleone, non parve gratificarlo molto se è vero che già allora si faceva strada in lui la vocazione per il sacerdozio. Al ritorno a Roma riprese gli studi e si laureò alla Sapienza in diritto canonico e civile; contemporaneamente, guidato dal modenese B. Cavani, si dedicò alla teologia.

Il clima della Restaurazione favoriva l'interesse, già palesato dal F., per quelle forme di spiritualità e carità che, nel rifiuto di ogni coinvolgimento mondano, parevano costituire il solo terreno sul quale convogliare le energie della Chiesa rinnovata conducendo, al contempo, la lotta contro ogni pratica rivoluzionaria. Lasciando il bel palazzo di famiglia in via Giulia (un'altra splendida villa i Falconieri possedevano a Frascati, un'altra ancora a Monte Mario), il giovane prese a frequentare i preti della Casa della missione a Montecitorio e a sottoporsi agli esercizi spirituali che vi si tenevano come preludio all'assunzione dell'abito talare; in questo tirocinio il superamento del momento contemplativo, che era fondamentale, avveniva quando ci si accostava alla società e si interveniva con opere di sostegno e di assistenza, non solo spirituale, a favore dei poveri, dei malati, dei reietti, secondo una visione solidaristica che tendeva ad esaltare la funzione attiva della Chiesa e dei suoi ministri nella lotta contro i mali del mondo.

Mentre sottolineava l'urgenza di un impegno totale nelle opere di carità, questa linea, che risaliva al modello tridentino e si caratterizzava per il suo rigorismo, tendeva a rifuggire dalle dispute teologiche e dottrinali più scottanti, dando l'impressione di volersi sottrarre ad ogni sforzo di reale rinnovamento. Suoi validi interpreti erano allora a Roma Gaspare Del Bufalo e il prelato Paolo Polidori: il F. ne ricevette più di un impulso e, quando il 19 sett. 1818 fu consacrato prete nella basilica di S. Giovanni in Laterano, aveva alle spalle una ricca esperienza di apostolato in ospedali, carceri, ospizi. Coerentemente con tali premesse non sembravano interessarlo molto e anzi talvolta quasi lo infastidivano, come se lo distogliessero da incombenze più sentite, i primi passi della consueta carriera di Curia, iniziatasi nel 1822 con la missione di ab-legato in Francia conferitagli da Pio VII per consegnare la berretta cardinalizia all'arcivescovo di Tolosa (nell'occasione il F. fu anche ricevuto da Luigi XVIII), e proseguita speditamente con la nomina a cameriere segreto soprannumerario del papa (1822), canonico della basilica vaticana (1823), prelato domestico, referendario, ponente della congregazione del Buon Governo, infine uditore di Sacra Rota (1824). Pur nell'infittirsi degli incarichi, la vita del F. non cambiava e continuava a svolgersi all'interno di un ristretto sodalizio dove, tra pratiche di devozione che taluno riteneva spinte fino alla bigotteria ed esercizi di carità cristiana, gli occorreva di conoscere il giovane G. M. Mastai che mostrava di risentire fortemente dell'ascendente esercitato su di lui dal F. e gli si legava di un'amicizia che qualche anno più tardi, nella lontananza dei rispettivi episcopati, avrebbe trovato sfogo in una fittissima corrispondenza imperniata, per la verità, più sullo scambio di notizie sulla vita delle diocesi loro affidate e sulle novità di Curia che su temi ecclesiologici.

Nel concistoro del 3 luglio 1826 Leone XII aveva infatti reso pubblica la nomina del F. ad arcivescovo di Ravenna; la solenne consacrazione ebbe luogo il 15 agosto, per mano dello stesso pontefice, nella romana basilica di S. Maria degli Angeli. La diocesi di Ravenna, di cui il F. prese possesso il 21 ott. 1826, era una delle più ricche ed estese dello Stato pontificio, potendo contare su un territorio assai vasto, comprendente 59 parrocchie e 3 vicariati, e su una mensa arcivescovile con una dotazione annua di 25.000 scudi, il che di lì a poco induceva il Mastai a scherzare (ma forse nemmeno tanto), sul "ricchissimo, issimo, issimo Arcivescovato di Ravenna" contrapponendolo al suo modesto "Arcivescovatino di Spoleto" (Falconi, p. 136). Ma non era certo questo l'aspetto che più stava a cuore al già facoltoso F.: primo problema da affrontare e risolvere era per lui quello, duplice, di una provincia perturbata politicamente e più di altre colpita dall'ondata di scristianizzazione abbattutasi sull'Italia e in particolar modo sulla Romagna durante la dominazione francese. A tale situazione, fattasi più seria dopo l'attentato del 23 luglio 1826 al cardinale A. Rivarola, legato pontificio a Ravenna considerato il principale responsabile della repressione antisettaria, il F. pensò di fare fronte conferendo al proprio episcopato uno spirito accentuatamente evangelizzatore, capace di ridestare la pietà cristiana e insieme di raffreddare le tensioni alimentate dalle scelte di governo più impopolari. In una terra tradizionalmente vigile sui costumi e la moralità dei clero, il F. ritenne anzitutto opportuno offrire di sé e della Chiesa un'immagine esente da ogni possibile critica: un distacco assoluto dagli interessi terreni e, per converso, una dedizione costante agli interventi caritativi, all'assistenza spirituale, alla pietà cristiana, alle pratiche del culto, al sostegno delle vocazioni e al miglioramento del costume, contraddistinsero perciò in modo preminente la sua attività pastorale spingendolo ad erigere o restaurare chiese, a fondare un secondo seminario, a curare l'istruzione e ad imporre ovunque una severa disciplina, temperata però, soprattutto nel rapporto coi giovani, da una innata bonomia e dal valore dell'esempio.

Tale indirizzo, alternativo rispetto a quello di una repressione pura e semplice (il F. fu sempre avverso a quello che in una lettera del 9 luglio 1839 al card. L. Amat definiva il "partito faentino", alludendo alla città dove la reazione. aveva assunto il suo volto più aggressivo), se non riuscì ad eliminare del tutto la presenza settaria dal territorio della diocesi avvicinò molto il presule alla popolazione, che presto si persuase di avere in lui un sicuro difensore anche per i passi che egli compì presso il governo centrale a favore della realizzazione del porto o per evitare che ad ogni vampata rivoluzionaria Roma traducesse in atto la minaccia ricorrente di spostare la legazione a Faenza, misura, questa, che avrebbe avuto pesanti riflessi sull'economia cittadina. Nel settembre del 1843 ci fu un tentativo da parte di alcuni elementi legati a Nicola Fabrizi di fare entrare in azione una banda armata e sequestrare il F. e i colleghi Amat e Mastai riuniti a convegno in una villa nei pressi di Imola: la facilità con cui i tre si sottrassero alla cattura e l'atteggiamento inerte della popolazione locale dimostrarono in maniera inequivocabile che la politica di conciliazione impersonata dai tre ecclesiastici cominciava a dare i suoi frutti.

Il 12 febbr. 1838 il F. fu creato cardinale dell'ordine dei preti col titolo di S.Marcello senza però lasciare la guida della diocesi ravennate. Nel 1846, alla morte di Gregorio XVI, parti per Roma recando con sé un programma di modeste riforme amministrative da caldeggiare con il pontefice che fosse risultato eletto. Per la verità non mancavano coloro che, tenuto conto del suo accattivante equilibrio e del vantaggio che gli derivava dal fatto di essere originario dello Stato pontificio, lo pronosticavano come uno dei maggiori candidati al soglio papale, ma i voti che il F. raccolse nei quattro scrutini che si conclusero con l'elezione di Pio IX furono troppo esigui per rappresentare un reale punto di coagulo dei suffragi del S. Collegio e troppi, allo stesso tempo, per attribuirgli il ruolo di grande elettore del Mastai riconosciutogli più tardi da qualche studioso. Di certo dopo di allora i rapporti tra il F. ed il nuovo papa sì diradarono, cessò la cordiale consuetudine degli anni giovanili e sopravvenne una certa freddezza, rivelatrice di una impalpabile ma mai dichiarata insoddisfazione verso gli indirizzi di governo del nuovo pontefice. Se ne ebbe una conferma allorché, nel marzo del 1849, dopo la proclamazione della Repubblica Romana, il F., intimorito dall'atteggiamento delle autorità civili di Ravenna che gli parve nascondesse un che di ambiguo nei suoi confronti, abbandonò improvvisamente la città ma, invece di raggiungere Pio IX a Gaeta, si portò a Venezia dove, sotto un altro regime repubblicano, visse per tre mesi in un convento dì frati. Tornò a Ravenna il 17 giugno, dopo che vi erano entrati gli Austriaci, e non si liberò molto facilmente del forte senso di colpa provocatogli da questa vicenda, al punto che ancora a fine 1850 avvertiva il bisogno di confessare al papa: "Purtroppo la mia coscienza sempre mi rimprovera la viltà usata quando Iddio esigeva da me un coraggio apostolico" (Arch. segr. Vaticano, Arch. Pio IX. Oggetti varii, n. 601).

Rassicurato dalla presenza degli Austriaci ("Se non vi fossero i Tedeschi, Dio ne liberi ... Per me non vedo altro di buono a reggere il mondo che il settentrione ...", confidava all'Amat il 28 dic. 1849), il F. poté riprendere la sua azione pastorale orientandola a riparare i guasti prodotti nella moralità delle popolazioni dalla breve parentesi rivoluzionaria. La lotta all'empietà, condotta attraverso concili provinciali, lettere pastorali, notificazioni e inviti sacri ai fedeli della diocesi costituiva, ancora una volta, il suo contributo all'opera di restaurazione. Pio IX, quasi a volergli dimostrare che da parte sua nulla era cambiato, nell'ottobre del 1849 lo aveva nominato amministratore apostolico della diocesi dì Forlì, ma l'aumento delle attribuzioni non giovò alla salute del F. che, a partire dal 1852, andò periodicamente soggetto ad attacchi di febbri malariche che ne indebolirono l'organismo già molto provato. Sollevato in quello stesso 1852 del peso della seconda diocesi, il F. poté finalmente dedicarsi all'organizzazione del sinodo provinciale che non si convocava più dal 1582 e che riuscì a far tenere dal 28 al 31 maggio 1855 nella cattedrale di Ravenna, presenti i suffraganei diocesani ed altri esponenti dell'episcopato emiliano, tutti concordi nel condannare le teorie sociali radicali in quanto contrarie al diritto naturale oltre che a quello divino e nel ribadire la legittimità del potere temporale e l'inalienabilità di taluni privilegi (il foro ecclesiastico, il diritto d'asilo: evidente il riferimento alla situazione piemontese) nel campo dei rapporti tra Chiesa e Stato. Nel 1857, in condizioni di salute sempre più precarie, il F. accolse il papa a Ravenna. Era, quella, una delle ultime tappe del viaggio organizzato per dimostrare all'Europa, all'indomani del congresso di Parigi, che il potere temporale poteva ancora contare su un vasto consenso popolare. In effetti Pio IX, contrariato da una recrudescenza di criminalità, avrebbe fatto volentieri a meno di visitare Ravenna: lo convinsero le insistenze del F. che il 22 luglio 1857, vigilia di S. Apollinare, gli fece trovare una città in festa e una folla plaudente. Il papa ne fu molto soddisfatto.

Pochi mesi prima, con un biglietto della segreteria di Stato datato 31 marzo 1857, il F. era stato nominato segretario dei Memoriali, una carica che, riconoscendo a chi ne era titolare la facoltà di risiedere a Roma, mirava a far sì che al porporato fosse fisparmiato il rigido clima invernale delle Romagne. Il F. però non sopportò a lungo il faticoso spostamento stagionale tra Ravenna e Roma. Nel maggio del 1859 le sue condizioni apparivano ormai del tutto compromesse. La sollevazione di Ravenna, di pochì giorni successiva, inserendosi nel generale processo di distacco delle Legazioni dallo Stato della Chiesa, rappresentò l'ultimo dispiacere della sua vita, che si chiuse a Ravenna all'alba del 22 ag. 1859 dopo una rapida crisi finale.

Valutandone i meriti sotto il profilo spirituale, la cittadinanza e i dirigenti del nuovo corso non fecero mai mancare il loro rispetto al F. il cui corpo, dopo le solenni esequie che gli furono tributate, fu seppellito nella tomba degli arcivescovi ravennati.

Fonti e Bibl.: Delle circa 600 lettere indirizzate dal Mastai al F. prima del 1847 più di 250 sono confluite nella Raccolta Piancastelli che si conserva nella Biblioteca comunale A. Saffi di Forlì, dove pure si possono consultare circa 130 lettere autografe del F., la maggior parte delle quali scritte a personaggi della Chiesa (un elenco dettagliato di questa documentazione è inserito nel vol. XCIV degli Inventari dei mss. delle Biblioteche d'Italia. Forlì, pp. 281-285). Un altro elenco delle lettere del Mastai al F. si legge in A. Serafini, Pio IX..., I (1792-1846), Città del Vaticano 1958, pp. XVXIX, dove inoltre alle pp. 130-145 e passim sono citati larghi brani di questa corrispondenza. Una settantina di lettere del F. al card. Amat relative al periodo 1825-1858 sono conservate nel Museo centrale del Risorgimento di Roma, busta 12 (in proposito si veda E. Morelli, Ifondi archivistici del Museo centr. d. Risorg. Le carte del card. L. Amat, in Rass. st. d. Risorgimento, L [1963], p. 98). Una lettera a destinatario ignoto, datata Parigi 6 febbr. 1822 e contenente una narrazione dei viaggio in Francia, è conservata nella Bibl. ap. Vaticana, Raccolta Ferrajoli-Visconti, n. 2788.

La prima biografia del F. fu la commemorazione fattane da F. Fabi Montani sul Diario di Roma (Cracas) del 10 sett. 1859, poi riedita coi titolo Elogio st. del card. C. F., Roma 1860. Più ampio il respiro di D. Farabulini, Vita del card. C. F., Torino 1903; lo stesso Farabulini, polemizzando con la tesi, sostenuta da E. Reali, La Chiesa e l'Italia, Milano 1862, p. 88, di un F. liberaleggiante e quindi molto tiepido verso il potere temporale, pubblicò l'opuscolo Menzogne di E. Reali intorno al card. F. smentite..., Roma 1863. Dati e testimonianze sulla carriera ecclesiastica del F. si ricavano da G. Moroni, Diz. d'erudiz. st.-ecclesiastica, ad Indicem; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, VII-VIII, Patavii 1968-69, ad Indices; C. Weber, Kardinäle und Prälaten in den letzten Jahrzehnten des Kirchenstaates..., Stuttgart 1978, ad Indicem. Sulla giovinezza del F. e le sue relazioni giovanili cfr. C. Falconi, Ilgiovane Mastai... 1792-1827, Milano 1981, ad Indicem; quanto agli esordi dell'episcopato ravennate, qualche lume si ricava da P. Uccellini, Memorie di un vecchio carbonaro ravegnano, Roma 1898, ad Indicem; L. Rava, Ilmaestro di un dittatore. D. A. Farini, Roma 1899, p. 86; L. C. Farini, Epistolario, a cura di L. Rava, I, Bologna 1911, pp. 22, 469; L. Messedaglia, La giovinezza di un dittatore. L. C. Farini medico, Milano-Roma-Napoli 194, ad Indicem; E. Fabbri, Sei anni e due mesi della mia vita, a cura di N. Trovanelli, Roma 1915, ad Indicem. Ilruolo del F. nella normalizzazione delle Romagne dopo il processo Rivarola è analizzato da R. Colapietra, La Chiesa tra Lamennais e Metternich, Brescia 1963, ad Indicem (che utilizza la corrispondenza del F. con mons. F. Invernizzi conservata in Arch. di Stato di Roma, Misc. carte polit. e riservate, busta 77). Per la partecipazione al conclave del 1846 si rinvia a D. Silvagni, La corte e la società romana nei secc. XVIII e XIX, III, Napoli 1967, pp. 397, 413 ss, 438; N. Roncalli, Cronaca di Roma 1844-1870, a cura di M. L. Trebiliani, I (1844-1848), Roma 1972, ad Indicem; e soprattutto G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, ad Indicem. Sull'azione pastorale del F. e i suoi rapporti con la città: G. Maioli, Pio IX da vescovo a pontefice. Lettere al card. L. Amat, Modena 1949, ad Indicem; A. Simonini, La Chiesa ravennate. Splendore e tramonto di una metropoli, Faenza 1964, pp. 379-385; M. Mazzotti, Il card. C. F., in Pio IX, XVII (1988), pp. 298-301. Sulla famiglia si vedano G. B. di Crollalanza, Diz. st.-blasonico..., I, Pisa 1886, sub voce, e Il libro d'oro del Campidoglio, I, Roma 1893, p. 154. Un interessante doc. sul problema dell'eredità Falconieri in Arch. segr. Vaticano, Arch. Pio IX. Oggetti varii, n. 999.

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