CHIESA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

CHIESA

Karl H. Neufeld S.J.
Damaskinos Papandreou
Metropolita di Svizzera
Paolo Ricca

(X, p. 7; App. II, I, p. 569; III, I, p. 359; IV, I, p. 414)

Chiesa cattolica

Gli anni Ottanta si presentano nella storia della C. come un momento unitario; la fine del pontificato di papa Paolo vi ha significato infatti anche l'inizio di una nuova fase. Per quanto sia vero che la storia della C. non coincide con quella del papato, gli anni di papa Giovanni Paolo ii hanno un carattere proprio che tocca tutta la vita ecclesiale. Nondimeno, è lecito considerare questo periodo anzitutto dal punto di vista dell'autorità centrale, perché l'attività di Giovanni Paolo ii ha caratterizzato in modo speciale lo sviluppo del cattolicesimo e del cristianesimo nel mondo di oggi.

Paolo vi morì il 6 agosto 1978. Il suo nome resterà legato alla concreta realizzazione del Concilio Vaticano ii e alla precisazione dei suoi stimoli nella coscienza e nelle strutture della società ecclesiale. Verso la fine della sua vita i problemi che il cristianesimo si trovava di fronte riguardavano soprattutto il deciso impegno per la pace nel mondo, la lotta contro l'ingiustizia e soprattutto contro un terrorismo e una violenza crescenti, e la difesa cristiana dei diritti dell'uomo, che voleva dire in concreto difesa dei rifugiati, degli emigrati, e delle vittime di circostanze avverse. In questo contesto, la difesa della libertà d'azione della C. in favore degli uomini costituì un tema per definire ulteriormente la posizione del cattolicesimo nel mondo moderno: si trattava non solo di formulare ma anche di vivere all'interno del cattolicesimo una coscienza di se stessi corrispondente alle visioni del Concilio. Il compito non era facile. Si faceva sentire in misura crescente la crisi delle vocazioni. I dati stessi che per il Vaticano ii erano apparsi come punti fermi richiedevano spesso una nuova e approfondita riflessione, mentre si poneva con urgenza il problema delle strutture tradizionali dell'organizzazione ecclesiale. Di tutto ciò certi gruppi di fedeli ritenevano responsabile il Concilio: si cercava così una formula semplice e comoda che invece di analizzare la pluralità delle condizioni reali del cristianesimo permettesse di evitare impegni troppo gravosi e misure dolorose. Nello stesso tempo, però, la stragrande maggioranza dei cattolici accettava per es. l'introduzione della lingua materna nella liturgia e altre innovazioni del Concilio senza particolari difficoltà, e anzi con notevole senso di gratitudine, mentre il rinnovamento rimaneva spesso superficiale e privo dell'approfondimento desiderato, cioè senza nuovi impulsi di evangelizzazione e di vita cristiana.

Con l'elezione di papa Giovanni Paolo i, il 26 agosto 1978, venne dato un segno preciso: si voleva un papa decisamente orientato dallo spirito pastorale del Concilio. Il suo nome indicava una continuità proprio in senso pastorale a prolungamento di quanto era stato iniziato dai due predecessori. Attraverso il loro voto, i cardinali avevano certamente espresso il desiderio di continuare sul cammino del Concilio, ma anche la volontà di un cambiamento di stile: ci si aspettava, in questo senso, un comportamento meno caratterizzato dal servizio curiale. Il nuovo papa, pur riconoscendo pienamente l'importanza del contributo già fornito, doveva approfondire in senso pastorale l'orientamento delle aperture conciliari; l'inizio del pontificato corrispose a tale attesa nella misura in cui Giovanni Paolo i impose un forte accento catechetico a tutto il suo atteggiamento. Il mondo intero lo salutò con grande soddisfazione e speranza, tanto che sull'avvenire del cattolicesimo si venne a creare un clima di aperto e generale ottimismo, sia dentro che fuori la Chiesa.

Nessuno poteva prevedere la fine tanto repentina di un avvio così promettente. La morte improvvisa del papa il 28 settembre 1978 provocò uno shock, anche se occultato dagli avvenimenti legati al nuovo conclave e agli inizi del nuovo pontificato di Giovanni Paolo ii. Il 16 ottobre 1978 i cardinali elessero infatti come successore l'arcivescovo di Cracovia, Karol Woityla. Anche se con la scelta del nome sottolineava anch'egli la volontà di continuare nella medesima direzione, tuttavia alcuni fattori della sua elezione già indicavano certi aspetti peculiari dell'azione del nuovo papa.

K. Woityla era il primo prelato non italiano che ricoprisse la cattedra di vescovo di Roma dopo più di 450 anni, un mutamento, questo, abbastanza rilevante per la coscienza cattolica. Il fatto venne accolto come un segno concreto di cattolicità dopo il Concilio e come indice del desiderio da parte della C. di esprimere più chiaramente il proprio compito e la propria condizione universali. Anche se l'internazionalizzazione della curia romana era tema discusso già da tempo come esigenza di reale cattolicità del cristianesimo (e i primi tentativi in questa direzione si erano avuti sotto il pontificato di Paolo vi), nondimeno, in quel momento, un papa non italiano fu una sorpresa. A ciò si aggiunse anche il fatto che Giovanni Paolo ii veniva da una nazione a regime comunista, cioè da una C. sottoposta a condizionamenti molto particolari. Immediatamente l'attenzione di tutta la C. si fece viva e acuta verso la situazione del cristianesimo in certe zone del mondo, e la spiritualità prese a riconsiderare con occhi nuovi il posto della C. nel primo, nel secondo e nel terzo mondo.

I mutamenti in tal senso restarono tuttavia piuttosto sullo sfondo, mentre le dichiarazioni e i gesti del papa sottolineavano la continuità del suo servizio nella Chiesa. Le aspettative che si concentrarono su di lui furono enormi, soprattutto la speranza di iniziative particolari che rendessero la missione del cristianesimo più convincente e più efficace per gli uomini. Due campi d'azione in particolare si ponevano come eredità dei pontificati precedenti: il compito ecumenico da un lato, e dall'altro le difficoltà connesse allo sviluppo teologico nell'America Latina, dove la ''Teologia della liberazione'' chiedeva con insistenza il diritto di parola. Le due questioni stavano a indicare le difficoltà della C. in determinate regioni del globo, manifestando al contempo la pluralità e la diversità del cristianesimo attuale in quanto problema capitale per una comunità il cui valore primario è costituito dall'unità. Com'è possibile salvaguardare e anzi sviluppare una vera unione cristiana, tenendo conto delle particolari e molteplici realtà della vita cristiana? L'urgenza di una soluzione rendeva necessaria una nuova determinazione che risultasse dalla comune convergenza del centro, cioè di Roma, e delle C. locali; un problema peraltro intimamente connesso con il compito ecumenico, che richiedeva a sua volta una formula analoga di unione reale nel rispetto delle legittime tradizioni cristiane.

Inizialmente l'azione di Giovanni Paolo ii si incentrò sul tema Morale, immagine dell'uomo e famiglia, punto centrale del suo lavoro scientifico come docente dell'università Cattolica di Lublino, e diventato in seguito pietra angolare del proprio insegnamento anche per quanto riguarda la concezione di altri punti scottanti nel suo magistero dottrinale.

Nel 1978 la C. cattolica comprendeva circa 750 milioni di fedeli, dei quali più della metà vivevano nel cosiddetto Terzo Mondo, soprattutto in America Latina, ma anche in Africa. Da anni si assisteva alla continua tendenza verso un trasferimento in termini quantitativi della maggioranza cattolica dal Nord al Sud del mondo, mentre per quanto riguardava i ministeri e i servizi pastorali della C. restava invece confermata la posizione largamente preponderante dell'Europa e dell'America del Nord: nell'emisfero settentrionale per es. operava il 75% del totale dei sacerdoti, a fronte del 40% soltanto dei cattolici. Questa la situazione all'inizio del pontificato di Giovanni Paolo ii. Dopo dieci anni (alla fine del 1988) la C. cattolica contava circa 860 milioni di fedeli: la crescita quindi è continuata, ma lo scarto tra servizio pastorale e fedeli si è ulteriormente aggravato nella direzione indicata, e da questo punto di vista il distacco tra Sud e Nord è diventato ancora più marcato. La difficoltà sembra dovuta anche al fatto che le strutture e le regole ecclesiali si continuano a concepire secondo il modello europeo-americano, come se fosse indiscutibilmente il modello ideale. La maggioranza dei cattolici vive oggi nel continente sudamericano, dove la crescita del cattolicesimo rimane molto elevata: questo spiega il particolare interesse del papa, fin dall'inizio del suo pontificato, per questa regione del mondo. La C. latino-americana è senza dubbio in movimento, e si tratta quindi di prendere atto delle forze esistenti senza perdersi in discussioni e polemiche. Per questo era stata prevista già dal convegno di Medellin (1968) l'istituzione di un'assemblea dell'episcopato di tutto il continente (CELAM) con il compito di esaminare l'evoluzione del cattolicesimo latino-americano. Con un primo viaggio all'estero nel 1979, Giovanni Paolo ii intervenne personalmente a Puebla (Messico) nel dibattito dei vescovi della regione, intorno al cammino compiuto e a quello futuro della C. nei paesi latino-americani. La stessa occasione permise al papa l'incontro diretto con la popolazione messicana nel quadro di ciò che da allora in poi venne chiamata una ''visita pastorale''. L'impressione provocata dal contatto con le masse ha giocato un ruolo importante per l'efficacia dell'intervento papale all'interno dei dibattiti tra vescovi. Le visite pastorali sono diventate così uno strumento di intervento immediato, fino a quel momento sconosciuto, sotto forma di un contributo diretto da parte di Giovanni Paolo ii alla direzione delle C. regionali o locali. I numerosi viaggi che sono seguiti hanno continuato a offrire nuove occasioni per l'attuazione di questa linea d'intervento.

Quanto all'ecumenismo, risulta confermata la linea di cooperazione precedentemente avviata. Il lavoro continua senza che tuttavia si registrino impulsi nuovi. Anche se le iniziative non mancano, soprattutto in coincidenza di commemorazioni storiche o di giubilei, quando si tenti un bilancio dell'intero periodo si riscontra una perdita progressiva di slancio ecumenico. Sulla scia del lavoro preparatorio effettuato durante il pontificato precedente, nella primavera del 1979 è stata pubblicata la costituzione Sapientia Christiana relativa alla riforma degli studi superiori nelle università e facoltà ecclesiastiche, sulla base delle indicazioni del Concilio. A questo testo ne sono seguiti altri, anch'essi oggetto di un'analoga discussione.

Un'impronta personale, invece, caratterizzava già l'enciclica che inaugurò la serie dei messaggi papali, la Redemptor hominis (1979) che ricordava l'opera della redenzione, cioè il collegamento tra Gesù e l'uomo in base alla missione e al destino del Cristo. Questo tema centrale fu poi completato in maniera sistematica attraverso le successive encicliche. Nel corso degli anni seguenti il programma di quest'insegnamento è andato sviluppando i temi della verità di DioPadre con l'enciclica Dives in misericordia (1980), dell'opera dello Spirito Santo con il testo Dominum et vivificantem (1986), e del ruolo di Maria, Madre e Vergine, nella Redemptoris Mater (1987). A queste vanno aggiunte le encicliche occasionali legate a commemorazioni storiche, come la Laborem exercens (1981), Slavorum Apostoli (1985) e Sollicitudo rei socialis (1988). Ciò che merita particolare considerazione è lo stile di esposizione dottrinale adottato dal papa, che si differenzia dalle forme precedenti; Giovanni Paolo ii ha scelto una nuova modalità di esposizione, sotto forma di meditazione sulle verità, che costituisce la caratteristica principale del suo insegnamento.

Va inoltre osservato che questo aspetto dell'attività papale è specialmente connesso con giubilei o commemorazioni che rivestono grande importanza per il suo pensiero e, di riflesso, per l'intera organizzazione della vita ecclesiale. Fin dall'inizio del suo incarico, Giovanni Paolo ii ha sottolineato l'imminenza del terzo millennio del cristianesimo: il valore attribuito a tale momento si spiega attraverso l'esperienza della celebrazione del millennio cristiano della Polonia (1957-66) e consente di cogliere un'idea dell'avvenire che utilizza categorie della storia in maniera diretta. Questa linea di pensiero ha ispirato L'Anno Santo della Redenzione (1983) e L'Anno Mariano (1986-87), ma anche la commemorazione di s. Benedetto, degli apostoli slavi s. Cirillo e s. Metodio, ecc. L'attività ecumenica, peraltro, ha tratto profitto anche da occasioni come il centenario del primo concilio di Costantinopoli, la commemorazione della nascita di Lutero e il millenario del battesimo dei Russi. Benché i contenuti di tali celebrazioni siano radicati sul passato, nell'intenzione del papa essi dovrebbero fornire nuovi spunti e impulsi per il futuro, ma è difficile constatare se e quanto questa intenzione abbia effettivo riscontro nei fatti.

Obiettivo principale di tutte queste attività è una nuova evangelizzazione del mondo, cioè una fede vissuta più intensamente e profondamente nel nostro tempo. Gli interventi ufficiali sul piano politico-diplomatico sono volti ad assicurare le condizioni di un tale sviluppo, mentre sul piano spirituale e religioso si tratta di dare nuovo slancio alla stessa convinzione cristiana. Disponibilità a cooperare con le forze esterne e un'unione semplice e molto forte della C. al suo interno, sono i due motivi che ricorrono costantemente, e che vengono perseguiti con una innegabile tensione reale. Va in tal senso l'invito aperto a una cooperazione rivolto sia nei confronti delle Nazioni Unite, dei governi, del mondo culturale e delle forze spirituali, sia nei confronti di persone o singoli gruppi. I temi centrali a questo livello sono i diritti dell'uomo, la dignità umana, i valori comuni, e soprattutto la difesa della libertà religiosa e della responsabilità personale derivante dalla convinzione religiosa. Presupposti di tale sviluppo sono le iniziative diplomatiche perseguite dalla Santa Sede su piani diversi e con mezzi molteplici: è stata realizzata una mediazione per la pace tra l'Argentina e il Chile nel conflitto sul canale di Beagle; è stato concluso un nuovo concordato con l'Italia; si sono istituite relazioni diplomatiche ufficiali con gli Stati Uniti d'America, con la Polonia, e con altri paesi. In queste e in occasioni analoghe la C. cattolica ha mostrato una notevole flessibilità nel cercare possibilità di dialogo anche in quei casi le cui condizioni non offrono tutte le garanzie desiderate; dove si è aperto un serio confronto, la Santa Sede non ha rifiutato l'offerta, prendendo anzi delle iniziative per trovare possibili punti di contatto ai fini di una efficace cooperazione. La partecipazione alle trattative internazionali sulla pace, sul disarmo, sullo sviluppo, sull'educazione, sulla cultura, sulle condizioni ecologiche, sulla crisi del debito tra paesi poveri e paesi industrializzati, ecc., dimostra come non esistano problemi o difficoltà del mondo moderno a cui il cattolicesimo non si renda partecipe. E ogni volta è stato offerto il contributo specifico per l'elaborazione di una soluzione che rispettasse la dignità dell'uomo. Tentativi di questo genere spesso si traducono anche in appelli generali al sostegno da parte di altri gruppi cristiani e persino di membri di gruppi non cristiani, come nel caso della preghiera universale per la pace ad Assisi (1986), oggetto di grande dibattito all'interno della C. cattolica. La libertà e la responsabilità proprie della religione, espresse dall'insieme delle forze spirituali di oggi, diventano così il punto di partenza per un esame della propria identità cattolica.

Tanto più l'apertura della C. verso l'esterno appare facile quanto più la C. stessa si percepisce come omogenea. Questa constatazione spiega il tentativo di rafforzare in modo sensibile e affidabile l'identità interna; ma l'esito varia a seconda delle categorie di verifica che si applicano. Giovanni Paolo i aveva già posto l'accento sulla catechesi per dare nuovo vigore e autenticità alla coscienza cattolica. La conferma dell'identità cattolica anche al livello dei costumi e dell'organizzazione, della pietà e della tradizione in genere ha costituito in seguito una delle preoccupazioni prevalenti del papa attuale. Il perseguimento di questo fine viene portato avanti tramite strumenti diversi, in primo luogo quelli della devozione popolare, come la venerazione mariana e dei santi in genere, i pellegrinaggi, ecc. Un chiaro sintomo di ciò è il numero crescente di canonizzazioni, ma anche il fatto che la visita ai santuari rappresenta un elemento costitutivo dei viaggi papali. Nonostante questa azione tenda a grandi raduni di massa e a esperienze comuni, il suo senso più profondo ha di mira i singoli individui e il loro bisogno di sicurezza e d'identità. Di qui risulta come la persona umana stia al centro non soltanto della dottrina di papa Giovanni Paolo ii, ma anche, e anzitutto, delle sue iniziative pratiche.

Da questo punto di vista, appare chiara la decisiva importanza attribuita alla famiglia, che attualmente gode di un esplicito e deciso sostegno da parte della Chiesa. Un istituto speciale fondato recentemente ha il compito di promuovere ricerche e aiuti nei confronti dell'istituzione familiare, che viene impiegata come modello per concepire l'ordine dei rapporti e delle relazioni. Sia le risposte della Santa Sede riguardo al posto e al ruolo del laico, sia la definizione della dignità e del compito della donna si comprendono all'interno di un quadro che assegna a ciascuno un posto specifico, non soltanto accanto agli altri, ma anche in una dimensione di subordinazione. Nelle condizioni attuali della società questo importante punto non è sempre di facile comprensione: le difficoltà grandi che quotidianamente si avvertono dipendono dal divario esistente tra l'ideale della famiglia e la sua situazione concreta, divario che sembra ampliarsi progressivamente.

Molti sono quelli che attendono di ricevere un aiuto dalla C. nelle difficoltà e nei bisogni immediati, che spesso distruggono la famiglia: e tuttavia permane una grave tensione tra la gerarchia e il popolo cristiano, che impedisce una reciproca comprensione su questo argomento. Si tratta di un esempio importante di rapporto difficile, le cui ragioni non sempre sono chiare. Quando se ne parla, spesso si fa riferimento al Concilio Vaticano ii, come se questo evento fosse senz'altro lo strumento per interpretare le ragioni che non permettono una comprensione facile e ovvia. La lettura storica delle conseguenze del Vaticano ii si presenta attualmente difficile, in quanto si registrano interpretazioni molto distanti per quanto riguarda sia i documenti conciliari che le loro legittime attuazioni.

Per ridurre certe confusioni in ambito teorico e nella pratica di vita si è tenuto nel 1986 un Sinodo straordinario dei vescovi sulla ricezione del Concilio. Il risultato tuttavia non sembra aver mutato di molto la situazione, forse perché lo stesso strumento del Sinodo ha perso quasi tutta la sua portata originaria: salutato inizialmente come una specie di prolungamento del Concilio stesso, il Sinodo dei vescovi si è mostrato infatti sempre più incapace di elaborare una chiara diagnosi del problema, per non parlare della sua incapacità di fornire risposte o soluzioni a difficoltà reali.

Un'evoluzione analoga si nota per altre istituzioni emerse nell'ambito del Concilio per porre in rapporto in qualche modo la coscienza della fede con i problemi del nostro tempo: l'integrazione più o meno completa di tali istituzioni nell'attività di curia le ha private sensibilmente di un'azione incisiva e responsabile. La loro dimensione internazionale, nell'attuale forma, non favorisce né facilita il lavoro: la diversità di competenze impedisce e blocca gran parte di contributi pure ottimi, e la molteplicità di dichiarazioni, testi, documenti, decisioni, ecc., invece di promuovere lo sviluppo, crea piuttosto disagio e irritazione.

Si coglie quindi un cambiamento dei fattori agenti all'interno della C.: funzioni e posti nuovi interferiscono nell'azione ecclesiale senza realizzare un contributo convincente e soprattutto senza dare ispirazione né incoraggiamento. La sensazione di blocco e d'immobilità non sempre appare infondata, e in questo senso la dinamica postconciliare spesso non raggiunge ciò che il Concilio ha voluto e incominciato, e per questo scaturiscono in seno al cattolicesimo disagi e conflitti. A ciò va aggiunta la diversità delle aspettative, che ha provocato uno sviluppo della riforma tale da non rispettare la coesione della Chiesa. Anche se dell'essenziale coesione ecclesiale vengono date definizioni diverse, tutti concordano sulla sua necessità. Manca, però, una formula possibile che indichi l'elemento che legittimi la pluralità all'interno della C., elemento indispensabile per una giusta determinazione sia della necessaria unità sia del rinnovamento secondo le intenzioni del Concilio.

La situazione pastorale dei Paesi Bassi, molto nota, offre un esempio significativo: la Santa Sede ha protestato subito contro le tendenze che si andavano manifestando, e con diversi interventi si è tentato di riportare i cattolici olandesi alla linea desiderata da Roma. Tuttavia anche la C. dell'Ucraina durante l'esilio ha fatto l'esperienza di una restrizione dei suoi diritti tradizionali, senza che in questo caso si potesse parlare di una pronuncia troppo generosa del Concilio. Ciò che in questo periodo viene percepito come disordine, indica piuttosto una certa suscettibilità nei confronti dei problemi legati alla disciplina. Tensioni e conflitti sono percepiti come qualcosa di indesiderabile all'interno della comunità dei credenti. Le reazioni disciplinari aumentano e suscitano sempre di più l'attenzione e le discussioni. I procedimenti adottati nell'intenzione di risolvere tali problemi offendono la sensibilità comune, soprattutto perché danno l'impressione di una contraddizione tra questo tipo di atteggiamento e il messaggio cristiano.

Per la Santa Sede sembra che la chiave di volta per risolvere tutti questi problemi sia la nomina dei vescovi, che tuttavia nella maggioranza dei casi viene effettuata senza grande attenzione, proprio perché nella storia recente il diritto e le modalità di quelle nomine sono stati di esclusiva spettanza della Santa Sede. In certi paesi tuttavia esistono diritti e modalità che coinvolgono nell'elezione del vescovo non soltanto i governi, ma soprattutto i capitoli cattedrali e anche i fedeli, situazione che rimanda all'esistenza di regole generali in vigore nei secoli passati in tutta la comunità cristiana. L'ultimo Concilio sembra avesse favorito una participatio actuosa di tutti, anche a questo livello, in base alla responsabilità evangelica di ciascuno nei confronti della Chiesa. Il fatto che tale partecipazione possa essere male interpretata secondo il modello di una democrazia secolare, non esclude che si tratti dell'antica e genuina eredità del cristianesimo stesso. Il rapporto tra il vescovo e la sua C. richiede conoscenza e fiducia reciproche, e pertanto un puro atto amministrativo difficilmente appare idoneo ad assicurare una scelta conveniente. Basta il solo numero di quasi 4000 vescovi della C. cattolica − dei quali circa 2250 sono residenti, più di 1000 ausiliari e circa 700 emeriti − a porre il problema. Soltanto nel 1988 sono stati nominati 180 nuovi vescovi e contemporaneamente sono state erette 21 nuove sedi episcopali, ma non si sa in quale misura i bisogni e i desideri delle rispettive C. abbiano avuto un'influenza effettiva su tutte queste decisioni.

Il centralismo inoltre si fa sentire nella pratica di ridurre allo stato laicale quei sacerdoti che ne chiedono l'autorizzazione, oppure nei casi di dichiarazione di nullità di matrimonio. L'ottima intenzione di limitare il numero di tali deplorevoli casi esige senz'altro l'impiego di tutte le forze capaci di evitare conseguenze di questo tipo, ma l'applicazione di misure unicamente burocratiche non risolve davvero le difficoltà reali. Contenere in questo modo il fenomeno resta misura superficiale, che si limita a spostare conflitti umani e personali, lasciandoli privi di soluzione. L'impressione prevalente è che in nome della disciplina operi un sistema amministrativo che non tiene sufficientemente conto delle vicende umane e personali, soprattutto perché non viene lasciato spazio alla responsabilità di coloro che conoscono veramente la situazione concreta, specialmente ordinari locali come vescovi, superiori, parroci, ecc. Non ci si può meravigliare del fatto che su tale problema si avverta un clima di sfiducia, di paura e di sospetto.

Non si può tuttavia negare la presenza di tentativi di riforma anche per la curia romana: sforzi in questo senso si sono registrati nel 1983, nel 1986 e nel 1989, ma i risultati non hanno cambiato l'immagine generale, e l'effetto di queste misure ha corrisposto poco alle attese. Certi contatti tra l'IOR − il centro finanziario del Vaticano − e il Banco Ambrosiano, minacciato da una grave crisi, hanno provocato serie difficoltà alla Santa Sede e alla sua reputazione, anche perché il chiarimento di questo caso si è trascinato dal 1982 fino al 1988. Mancano esperienza e regole per risolvere in maniera adeguata problemi di questo genere, come pure mancano procedimenti chiari e collaudati per casi di conflitto e di grave tensione. Preoccupazioni di immagine impediscono spesso un atteggiamento ormai normale di fronte a critiche fondate e a rimproveri giustificati. L'opinione pubblica tuttavia è al corrente delle critiche, poiché l'informazione moderna ne rende conto pienamente e − nel caso in cui manchi un'informazione precisa − i commenti speculano sulla vera dimensione, indagandone il contesto e i presupposti. Decisioni inaspettate e improvvise non fanno che sollevare interrogativi intorno alle cause e ai contesti di alcuni fenomeni, il che non accadrebbe in presenza di problemi resi evidenti e correttamente conosciuti.

Questioni simili sono state sollevate per es. dalla nomina di un delegato pontificio per la Compagnia di Gesù (1981), dai tentativi d'intervento nella vita religiosa e spirituale delle Carmelitane, dall'interferenza nell'elezione del Superiore generale dei Francescani, e da altre azioni nei confronti di comunità religiose. Contemporaneamente negli ultimi anni si è dato un esplicito e forte sostegno a gruppi di recente formazione: è il caso della trasformazione dell'Opus Dei da comunità di vita consacrata a praelatura personalis, oppure dei raggruppamenti tipo Focolare, Comunione e Liberazione, Neocatecumenali, Carismatici, ecc., che − in diversi modi − attirano l'attenzione dell'opinione pubblica con manifestazioni di massa e iniziative di un certo clamore. Anche in questi casi, le ragioni evidenti sono qualche volta difficili da comprendere, e ciò produce forse, senza che esista una chiara volontà, un cambiamento di accento rispetto al clima spirituale precedente. In quest'ambito la questione più profonda è comunque la credibilità pubblica della guida centrale della C., che sembra ritrarsi al coperto di mezzi amministrativi poco adatti ai compiti attuali. Molti impulsi spirituali autentici si perdono, molte forze sembrano andar sprecate, e gli indizi di un vero rinnovamento spirituale sono così rari che si parla persino di una situazione poco stimolante.

Il nuovo Codice di Diritto canonico è stato pubblicato nel 1984 come risultato di un adattamento richiesto dal Concilio. Il testo si basa molto più di prima sulla teologia, pur restando chiaramente un documento giuridico. I numerosi paragrafi del vecchio codice sono stati ridotti e semplificati e l'insieme ha ricevuto una nuova sistemazione, senza che sia stata abbandonata la continuità della legge ecclesiastica. Si è evitata tuttavia la lex fundamentalis discussa per un certo tempo, perché la costituzione della C. si trova nel Vangelo. Non sembra tuttavia che il nuovo codice segni una tappa importante per lo sviluppo sociale del cristianesimo, anche se le conferenze episcopali, gli ordini religiosi, ecc., sono stati costretti ad adattare le proprie prescrizioni alla legislazione generale rinnovata. La mentalità predominante nella C. attuale non tende a modellarsi su regolamenti canonici, perché altre dimensioni, più universali e profonde che non l'aspetto giuridico, hanno una forza più incisiva. Tale reazione rispetta il giusto ordine delle cose: la tendenza verso una visione più ricca della realtà cristiana, che superi una astratta considerazione giuridica, è già molto più vecchia del Concilio, e si è confermata e rafforzata in base all'evento conciliare. Il nuovo codice deve dunque inserirsi in un contesto molto diverso da quello della pubblicazione del primo codice.

Si è già accennato in vari punti a un aspetto tipico dell'ultimo decennio, concernente il classico problema delle relazioni C.-Stato. Accanto al tentativo generale di accrescere l'indipendenza ecclesiale rispetto alle vecchie prerogative di certi stati e governi, vanno ricordati in maniera esplicita alcuni fatti precisi e significativi. Innanzitutto si è continuato il dialogo con i paesi a regime comunista, soprattutto con quelli a maggioranza cattolica, per assicurare alle rispettive C. le condizioni necessarie di vita e di azione; la presenza di un papa polacco ha senz'altro giocato un ruolo di prim'ordine per queste trattative. Dalla fine del 1989 la caduta dei regimi comunisti nei paesi dell'Europa orientale ha cambiato profondamente la situazione del cristianesimo in quell'area. Diversità di condizioni e di atteggiamenti rendono difficile prevedere gli sviluppi futuri, ma sembra comunque di poter escludere un semplice ritorno alla situazione precedente. Più incerte restano le prospettive della C. nelle zone cattoliche dell'Unione Sovietica, come la Lituania e l'Ucraina.

Un altro passo importante nei rapporti con stati e governi è costituito dalla revisione del concordato con la Repubblica Italiana (1984-85), perché il nuovo trattato definisce il ruolo del cattolicesimo in termini molto diversi da quelli in vigore nel precedente concordato. Gli obblighi statali diminuiscono considerevolmente, fatto, questo, che pone la C. italiana di fronte alla necessità di una nuova strutturazione per assicurare il servizio pastorale e caritativo, pedagogico e ospedaliero, ecc. Ciò a cui si mira è una maggiore autonomia della C. ma senza prevedere chiaramente come questo fine debba essere raggiunto.

Soprattutto sarà indispensabile un rinnovamento della mentalità dei credenti, che dovranno sentirsi molto più responsabilizzati rispetto alla loro comunità ecclesiale. Lo stato dal canto suo non può non proseguire sul cammino di una maggiore neutralità di fronte a tutti i connazionali, lasciando libertà alle forze spirituali che godono di una generale protezione a tutti accordata. Le conseguenze concrete del nuovo concordato mostreranno se esiste la possibilità che maturi una relazione viva e positiva tra società civile e C. nazionale. In un contesto di questo tipo, la C. di un determinato popolo deve appunto proporsi sempre di più come partner del rispettivo governo e dimostrare la sua precisa responsabilità in quella data situazione. Il concordato con l'Italia offre l'esempio di uno sviluppo dei rapporti sia tra C. universale e stato, che tra C. e governo di uno stesso paese.

Il cristianesimo non vive soltanto nel proprio centro, ma in primo luogo nelle parrocchie e nelle diocesi, cioè in zone caratterizzate da una lingua e da una cultura determinate e che attraverso una tradizione precisa influiscono sulle forme della fede e della riflessione teologica. La determinazione del posto della C. in una cultura attuale rimanda alla questione più ampia della posizione del cristianesimo nel mondo. Tuttavia ci sono gradi e nuclei diversi che nel loro insieme formano ciò che si chiama la cristianità di oggi. Ogni descrizione della C. cattolica che facesse astrazione dalle realtà cristiane più ristrette, ma di norma più intense, non riprodurrebbe un'immagine giusta del fenomeno e delle sue condizioni.

Da sempre esistono rapporti tra C. particolari, per es. quelli nati sulla base di un impegno missionario che ha fatto crescere una C. in un'altra parte del mondo. Con la presa di coscienza delle situazioni di miseria, si è progressivamente creato tutto un sistema di aiuti bilaterali non solo a livello caritativo, ma anche per quanto riguarda lo sviluppo generale o quello di settori particolari. Queste relazioni bilaterali dipendono quasi sempre da rapporti personali e da contatti diretti che assicurano la necessaria fiducia reciproca. L'evoluzione in questo senso corrisponde anche al cambiamento del presupposto classico della missione, e cioè che esistano paesi e zone pagane nel senso che non hanno la possibilità di conoscere il messaggio cristiano. Nel frattempo si sono affermate quasi dovunque C. indigene o autoctone, per le quali il compito missionario si presenta con altri accenti e interrogativi, che si profilano oggi in ogni situazione di questo tipo. In base a questo contesto si determina il compito delle conferenze episcopali, e fortunatamente sono stati elaborati procedimenti e modalità capaci di corrispondere ai bisogni; in altri casi però si sono istituite senz'altro nuove burocrazie, soprattutto in quelle zone dove non mancavano le disponibilità economiche. I rispettivi problemi si fanno sentire e la critica si esprime senza ambiguità. In questi casi si ripete il dilemma tra le sfide immense e la logica delle strutture e delle regole tradizionali, che induce a cercare canali adeguati di testimonianza e di aiuto cristiani. La sola formulazione di un postulato o di un'opzione non basta, mentre ogni tentativo implica necessariamente dei compromessi con la realtà sociale ed economica, responsabile di fenomeni che non possono essere tollerati.

I profondi rivolgimenti che interessano la civiltà nordamericana hanno dato occasione alla C. cattolica di offrire, in questa regione del mondo, un esempio di importante mutamento per il futuro. La crisi della guerra del Vietnam, che ha avuto come effetto un esame di coscienza intorno ai valori essenziali della società statunitense, ha innescato un processo di ricerca che è tuttora in corso. Non soltanto è stato sottoposto a dure critiche l'impegno militare, il che ha coinvolto anche dei cattolici, ma si è avuto in seguito un ripensamento dell'atteggiamento pubblico di fronte alle minoranze di colore e si è destata l'attenzione sul destino dei poveri e su quanti risultano penalizzati dal sistema sociale in vigore. Soprattutto la C. ha contribuito alla presa di coscienza delle molteplici dipendenze di altri paesi dalla produzione, dalle finanze, dal commercio, dal trasporto, dall'informazione, in breve, da tutto il complesso delle decisioni prese in America del Nord. L'importanza culturale e pedagogica di questa scoperta non è facilmente misurabile, anche se è noto quanto certi settori, attraverso i mass-media, siano dominati da quanto si fa e si decide in questa zona del globo. In questo contesto, tradizionalmente il cattolicesimo si è mosso come una forza tra le altre, senza fidarsi pienamente del proprio potere reale. L'impressione di essere una minoranza poco omogenea, anche se sta cambiando con molta lentezza, ha tuttora il suo peso. L'atteggiamento dei cattolici nordamericani ha un duplice aspetto tra chi dà prova della propria integrazione nella società attraverso un conformismo esplicito, difendendo, malgrado le perplessità e i dubbi, l'American way of life e chi invece contribuisce alla ricerca di un nuovo modello di vita che sarà sicuramente determinante per il cattolicesimo. Il fatto che entrambi gli atteggiamenti intendono riferirsi alla fede cristiana, ha provocato una scissione all'interno della comunità. Ai compiti richiesti da una civiltà in mutamento si aggiungono, come sfida ulteriore, le difficoltà di un cattolicesimo che deve cambiare se stesso in seguito al Concilio, e l'insieme di questi interrogativi generali non può non avere avuto una forte ripercussione sul cattolicesimo di questa parte del mondo.

A maggior ragione va dato riconoscimento alla presa di coscienza verificatasi nel frattempo. La responsabilità dei cattolici nordamericani durante lo scorso decennio si è approfondita: ne sono un segno le dichiarazioni dei vescovi su punti scottanti come l'energia nucleare, il sistema economico, ecc., e la più generale tendenza a far sentire la voce della C. nell'evoluzione in corso. In tal senso, il pensiero teologico ha dovuto predisporre soluzioni possibili per le diverse sfide, e spesso il coraggio che questo compito richiedeva ha condotto a proposte e formule che hanno provocato critiche e censure romane, soprattutto nel campo della teologia morale. Un fenomeno molto discusso negli ultimi tempi è il femminismo religioso, come parte di un movimento più ampio. Il dibattito sul ruolo della donna nella società interessa la C. soprattutto perché tocca il problema della distribuzione dei ministeri, tradizionalmente riservati agli uomini, e questo in un momento di sensibile riduzione delle vocazioni. Questa carenza si fa sentire anche nell'America del Nord, come in tutto il mondo industrializzato, e crea problemi per i servizi della C. nelle scuole, nelle università, e anche altrove; la forte trasformazione del sistema scolastico cattolico in conseguenza di ciò richiede una nuova definizione degli impegni di sacerdoti e religiosi.

Come si vede, difficoltà essenziali e di ogni tipo si pongono per l'identità tradizionale del cattolicesimo nella società e nella storia degli Stati Uniti e del Canada, e ciò impone la ricerca di una formula di vita cristiana che nello stesso tempo si adatti alla tecnica e a una civiltà in mutamento e che rispetti i valori umani alla luce della rivelazione e della fede cristiane.

L'evoluzione dell'Europa è anch'essa determinata in certa misura da ciò che accade nell'America del Nord, benché ci siano differenze importanti. Rispetto al cristianesimo, la tradizione europea possiede un peso del tutto particolare, e il più tardo manifestarsi della crisi della civiltà in questa zona è dovuto al fatto che la storia di questo continente coincide con quella del cristianesimo occidentale e che ciò determina una certa stabilità della coscienza storica. Tale pretesa coscienza si è trovata di fronte un grave interrogativo nel momento in cui l'egemonia del modello europeo è stata oggetto di critiche, quando cioè si è cominciato a parlare dell'inevitabile fenomeno dell'acculturazione e dei diritti e valori propri di altre culture e tradizioni. Ci si è cominciato a chiedere se la tradizione europea è in procinto di diventare una tradizione tra le altre, e che cosa significherebbe un tale mutamento per il cristianesimo occidentale, legato com'è alla lingua latina e alla storia europea. Non si tratta di una semplice questione teorica, dal momento che l'Europa continua a costituire il sostegno effettivo del cattolicesimo tramite università, facoltà, biblioteche, pubblicazioni, ricerche, ecc. Una soluzione possibile, evidentemente, è quella di assegnare al cattolicesimo europeo il compito di salvaguardare questo patrimonio cristiano e di svilupparlo secondo i bisogni del nostro tempo. Tuttavia una tale soluzione non basta poiché il peso europeo, tenendo conto del suo ruolo effettivo, si farà sentire in ogni caso per un lungo periodo.

Coltivare la tradizione del cristianesimo europeo rimarrà certamente uno specifico compito del cattolicesimo del vecchio continente, e questo in nome di tutta la C.; ma ciò che non trova più giustificazione è il tentativo d'imporre a tutti questa tradizione, come si è fatto nel corso di secoli di missione legata alla colonizzazione, anche se tale tradizione − soprattutto teologica e filosofica − fa parte dell'identità del cristianesimo e della sua continuità fino a oggi. In certa misura la C. non potrà rinunciare a una conoscenza dei vari aspetti di questa tradizione, anche se appare inevitabile un suo accorto e intelligente ridimensionamento, soprattutto per quanto riguarda la cultura ad essa collegata, che riflette le condizioni specifiche dell'Europa. L'Europa si rende tuttavia conto delle sue divisioni, di cui finora quella tra la parte occidentale e orientale è la più ovvia; se un'unità esiste, essa comunque possiede facce molteplici e presenta fratture molto profonde. Ciò che si chiede al cattolicesimo europeo è quindi non soltanto il riconoscimento delle altre culture, ma anche l'impegno ad elaborare un processo di unificazione del proprio sviluppo culturale.

Il cattolicesimo europeo si trova comunque a doversi confrontare con le conseguenze del periodo coloniale e con la realtà di una divisione, all'interno dei paesi occidentali, tra la parte segnata dal comunismo e quella democratico-liberale, divisione attualmente in procinto di mutarsi in una nuova e problematica unificazione, che sconvolge i dati delle prospettive future. In ogni caso in questo processo sono fortemente coinvolti popoli con una lunga storia cattolica, che hanno lavorato alla reciproca evoluzione dei rapporti negli ultimi anni. In effetti, nei paesi interessati si pensa e si agisce oggi in modo diverso rispetto a qualche anno fa, il che lascia sperare in un ulteriore superamento dei contrasti e delle divisioni, sia tra paesi un tempo colonizzatori e colonizzati, sia tra i paesi dell'Est e quelli dell'Ovest. L'impegno della C. europea si è soprattutto svolto finora a sostegno dello sviluppo e della liberalizzazione, cioè a quei movimenti che mirano a una riformulazione dell'unione europea alla luce della sua vera tradizione, impregnata di cristianesimo. Un obiettivo su cui tuttavia appaiono esistere concezioni divergenti tra i cattolici, l'una orientata verso l'avvenire, l'altra rivolta piuttosto al passato.

La realizzazione di questo compito deve avvenire, peraltro, in un momento in cui molti abbandonano le abitudini tradizionali e la pratica esteriore che da secoli sono considerate i segni visibili dell'appartenenza al cattolicesimo. Valutare con esattezza il significato di tale incontestabile fatto è molto difficile, perché non si tratta di un totale abbandono, né risulta chiara la sua motivazione. Questo fenomeno, in Europa, sembra avere piuttosto il carattere di uno spostamento verso nuove forme religiose di espressione, che richiede molta attenzione affinché non sfugga ciò che di nuovo sta nascendo. Il fenomeno dipende anche dalle particolari diversità del cattolicesimo nei diversi paesi: in alcune zone con sorpresa si scopre una solidità inaspettata, mentre altrove si ha la sensazione di trovarsi di fronte al crollo di un cattolicesimo, che si manifestava fortissimo e che in pochi anni ha perso quasi ogni forza. Quando si esamina la situazione della C. europea, s'impone una distinzione senza equivoci tra aspetto esteriore e sostanza interiore, né è più consentito formulare giudizi con la facilità di prima. La via verso l'unione europea, sul piano politico, si basa sulla presa di coscienza della comune responsabilità di fronte al mondo. In ciò il cattolicesimo svolge un ruolo conforme alla sua importanza, ma d'altra parte esso si presenta anche come una forza viva, impegnata in problemi suoi propri, che non devono tuttavia offrire l'alibi per la rinuncia a una cooperazione più vasta. Questa tentazione esiste, in quanto laddove si perseguono entrambi gli obiettivi, le difficoltà appaiono più gravi, mentre in realtà una vera alternativa non si pone: la C. europea ha il dovere di rispondere a tutte queste sfide in quanto sono un prodotto anche della sua storia e del suo atteggiamento nel passato.

La regione geograficamente, culturalmente e spiritualmente più vicina all'Europa è l'Asia, anche se è il continente che nello stesso tempo si manifesta come il più lontano e il più estraneo nei confronti dell'Europa. Tra Asia ed Europa esistono infatti un evidente collegamento da una parte, e un profondo antagonismo dall'altra. Di tutti i continenti, l'Asia è il meno cristiano e cattolico. Anche se il cristianesimo proviene dall'Asia (e questa origine è rimasta fino a oggi costitutiva), nondimeno la sua diffusione in questo continente non registra alcun successo. L'Asia è il continente delle grandi religioni come l'induismo, il buddhismo, e l'Islam; delle importanti tradizioni di pensiero religioso-filosofico, come in Cina, o delle usanze di carattere religioso-sociale come in Giappone e altrove; senza parlare del marxismo che, almeno apparentemente e prima della crisi recente, ha trovato in Asia il suo terreno d'elezione.

Gli ultimi decenni sono segnati, in Asia, da conflitti parzialmente determinati anche da opposizioni di natura religiosa o filosofica. Significativi al riguardo sono la guerra civile nel Libano e in Israele, e altrettanto lo sono stati il conflitto tra l'Iran e l'῾Irāq e l'occupazione dell'Afghānistān da parte dell'Unione Sovietica; le tensioni tra i Sikh e gli Indu in India; le battaglie tra gruppi etnici nello Śrī Laṅkā; l'occupazione del Tibet da parte cinese: le difficoltà tra Cambogia e Vietnam; le violenze nelle Filippine, ecc. Anche se a causa della sua posizione di minoranza il cattolicesimo non ha parte in queste vicende (eccetto che per le Filippine e il Libano), nondimeno questi avvenimenti riguardano profondamente la C., perché in questa regione si pone concretamente un problema centrale come l'obbligo imperativo alla verità e il moderno principio di tolleranza che la C. ha accettato con la dichiarazione sulla libertà di religione del Vaticano ii. La verifica nella realtà di questa idea e la conseguente possibilità di un mondo come unione di base in cui si rinunci alla violenza in nome della verità, dipenderà dall'Asia. Tutto starà nel persuadere la maggioranza della distinzione inevitabile tra fini e mezzi e della superiore forza della spiritualità. In tal senso l'Asia ha offerto le esperienze decisive e le formulazioni più belle. Ogni contributo capace di far emergere le contraddizioni a tal riguardo è conforme alla coscienza cattolica e al compito che la C. ha di fronte in questa regione.

L'immagine del cattolicesimo asiatico mostra una ricchezza incredibile. Nel Giappone la sua posizione è fondata soprattutto sull'attività educativa e sul contributo ai problemi di un paese prospero, che pur avvalendosi di una produzione di tipo occidentale non è tuttavia entrato nella dimensione sociale della civiltà industrializzata dell'Occidente. Fenomeni analoghi si riscontrano a Hong Kong e in Taiwan; in questo contesto, un considerevole interesse nei confronti della C. si registra soltanto nella Corea del Sud. Le Filippine mostrano un cristianesimo di tipo tradizionale che deve misurarsi con i problemi legati al cambiamento delle strutture politiche e al pericolo della dissoluzione a causa delle difficoltà etniche, sociali, tradizionali, ecc. L'Indonesia, che presenta una maggioranza islamica, offre nondimeno aspetti simili, anche se il ruolo del cristianesimo ha minore importanza. Mentre nelle zone limitrofe del Sud del continente asiatico le prospettive di sviluppo del cristianesimo sono caratterizzate da una certa possibilità di cooperazione, i quattro grandi blocchi dell'Asia, cioè quello russo-asiatico, quello cinese, quello islamico e quello dell'India, si sono invece chiusi alla realtà cristiana. Una chiusura che ovviamente presenta in ognuno dei casi delle specifiche particolarità, rispetto alle quali l'approccio da seguire deve tener conto delle singole situazioni. Per quanto riguarda il blocco sovietico dell'Asia, una possibilità di dialogo dovrebbe avvalersi della mediazione della parte europea, o anche probabilmente del mondo islamico. Il blocco islamico a sua volta rappresenta forse l'ostacolo più duro, arroccato com'è su se stesso in modo quasi assoluto. Il compito delle piccole minoranze cristiane è anzitutto quello di ricordare a questo universo che nel mondo di oggi esistono altre posizioni. In India esiste un nucleo cristiano autoctono che vanta, anche se limitatamente, una propria, lunga storia. Alla ricerca di una sua identità, l'India deve realizzare al suo interno i principi di una convivenza di tipo particolare, rispetto alla quale i cattolici, nella misura in cui vivono questi stessi principi, potrebbero arrecare un contributo valido non soltanto all'unione dei cristiani in India, ma anche alla formulazione del ruolo attuale del cattolicesimo nel mondo. Il problema specifico del blocco cinese consiste nell'esistenza di una doppia C. cattolica. Perché si realizzi un'efficace influenza del cristianesimo in Cina è necessario il superamento positivo di tale situazione, anche per il contributo che potrebbe derivarne al rinnovamento delle strutture del cattolicesimo mondiale. Continente delle grandi masse, l'Asia è comunque la regione nella quale si deciderà l'avvenire del globo, e la sfida concreta che essa pone al cattolicesimo si rivela come una questione di grande rilevanza pratica.

Del cattolicesimo in Australia e in Polinesia non è necessario parlare in maniera specifica data la sua forte dipendenza da quello di altre zone del mondo o perché presenta problemi che, in linea di principio, si riscontrano anche in altre parti. In questa parte del mondo, dunque, la situazione religiosa non fa che riflettere la situazione generale.

Nell'ultimo decennio quello che appare come il continente della speranza cattolica è l'Africa. A prima vista una tale aspettativa parrebbe poco fondata, poiché l'Africa ha sofferto guerre e carestie, lotte e tensioni che hanno comportato molti sacrifici. La parte settentrionale del continente appartiene all'area d'influenza islamica (41,5%), che prosegue con la parte che va dalla Somalia alla Mauritania, caratterizzata da conflitti, e con la zona del Sahel, dove esiste una certa realtà cristiana in tensione con l'Islam. I paesi a più elevata percentuale cristiana soffrono di regimi politici dittatoriali, anche marxisti, di povertà e di mancanza di infrastrutture. Nel Sudafrica si riscontra lo scandalo dell'apartheid che pretenderebbe di riferirsi a una certa visione ''cristiana''. Il cristianesimo africano (45,4%), se si eccettua quello dell'Egitto e dell'Etiopia, è il più giovane. La presenza della C. in questo contesto è di grande significato, in quanto tra l'altro assicura buona parte del sistema scolastico e sanitario e garantisce i primi approcci a forme moderne di vita; di fronte all'abisso quasi insuperabile tra la mentalità africana tradizionale e quella portata dalla civiltà moderna, il cristianesimo si presenta come strumento di mediazione graduale nel salto, anche spirituale, che l'Africa si accinge a compiere per partecipare appieno alle possibilità tecniche offerte dal mondo moderno. Il cambiamento è in corso, ma le difficoltà sono di tale portata, che non è facile formulare una previsione esatta.

La massa di informazioni continuamente fornita dai mass-media pone in evidenza la realtà africana e contribuisce a rendere la C. consapevole della propria presenza in quel continente (17,2%). La prima questione relativa all'incontro tra società africana e C. riguarda i valori tradizionali e il sistema di vita tribale, a cui finora non si è potuto sostituire niente di equivalente. Questi valori formano un insieme attualmente in discussione e che comprende in sé componenti di significato tra loro diverso. Il contatto reciproco tra Africa e mondo moderno opera già nel senso di una distinzione e di una scelta, ma secondo criteri che non sono quelli del cristianesimo. Quando si analizzi attentamente la lotta degli anni scorsi, il futuro dell'Africa appare tuttora aperto. Il confronto in atto concerne sempre di più lo stato intellettuale, o meglio spirituale, del continente nero e in questo senso, con la sua apertura e con la dinamica del suo sviluppo, l'Africa si presenta come l'esatto opposto della chiusura asiatica. Tale situazione non è il risultato delle forze operanti all'interno, quanto, in gran parte, dei bisogni e delle necessità causate dall'esterno. L'impressione che ne deriva è quella di un continente impegnato in una gigantesca ricerca d'identità e di un proprio status per l'avvenire. Il cattolicesimo da questo punto di vista si manifesta come una forza relativamente vecchia rispetto a quante si pongono oggi come interlocutrici degli Africani. La C. infatti non sembra essersi completamente liberata dai resti di quel feudalesimo coloniale che in passato ha avuto una certa efficacia, e che oggi si corre il rischio di continuare per assicurare alla C. un'efficienza solo temporanea.

Il vero interrogativo dell'Africa rispetto al cattolicesimo comporta tuttavia una maggiore profondità. Si tratta di dare agli Africani una spiritualità nella quale possano riconoscersi e che apra loro un valido accesso al patrimonio attuale dell'intera umanità, contribuendo contemporaneamente ad arricchirlo. Un compito più difficile di quanto spesso si pensi, ma che comunque richiede di individuare con chiarezza il punto decisivo per lo sviluppo dell'Africa, che si sta rivelando quello di salvaguardare tutto ciò che è valido nella ricchezza delle sue tradizioni. Il tema dell'acculturazione − anche se ancora poco studiato rispetto all'Africa − assume in tal senso un grande interesse. In questo caso tanto più si deve essere rispettosi della realtà culturale africana, quanto meno l'Africano ha possibilità d'imporsi, ma senza per questo dare via libera a un paternalismo che impedirebbe un rapporto di reciproca parità. Punto di riferimento per la necessaria mediazione, sia come nucleo di una civiltà africana in quanto tale, sia come formula per un cristianesimo autentico in Africa, sono il sistema matrimoniale e le regole familiari, con la loro immensa pluralità di forme. Nessuno deve sottovalutare il significato di questa sfida, che non si risolverà soltanto con le belle parole: il cattolicesimo ha un compito in questo continente.

Rimane infine l'America Latina, continente cattolico fin dalla colonizzazione, avvenuta 400 anni fa. Quasi la metà dei cattolici vive in questa regione del mondo, anche se le condizioni della loro esistenza non sono tra le migliori. A questo proposito è necessario dire che l'America Latina costituisce lo scandalo del cattolicesimo, che nel suo ormai secolare sviluppo non ha saputo creare o stimolare in quella terra condizioni conformi ai principi cristiani. Gli esempi non mancano, come nel caso dell'estinzione degli Indi, chiara prova di una insensibilità a certi problemi del continente. La complicità con il potere politico ha quasi sempre impedito al cattolicesimo di esprimere la sua forza specifica e anzi ha permesso per lungo tempo la schiavitù dei negri, importati dall'Africa per assicurare il sistema feudale istituito dovunque nell'America Latina. Neppure la decolonizzazione del secolo scorso ha introdotto nuove strutture a questo riguardo; la conseguenza è la miseria di un continente che per la sua natura dovrebbe annoverarsi tra i più favoriti e ricchi del mondo. L'industrializzazione e la mobilità già dalla seconda guerra mondiale hanno contribuito ad aggravare le condizioni di paesi in cui esiste una profonda divisione tra pochi ricchi e masse enormi di poveri, e dove non è mai potuta nascere una reale solidarietà. Ovviamente un'analisi della società fondata sul principio della divisione e della lotta di classe trova in America Latina un territorio fertile; da questo punto di vista la ''teologia della liberazione'', di cui tanto si discute negli ultimi anni (Istruzioni della Congregazione della Fede, Roma 1984 e 1986), scaturisce interamente dalla situazione del cattolicesimo latino-americano. Dopo il Concilio l'episcopato del continente ha compreso la difficoltà e pericolosità della situazione e ha tentato di porsi all'altezza delle proprie responsabilità, soprattutto attraverso il CELAM (Conferenza Episcopale dell'America Latina). Medellin e Puebla hanno dato il nome a queste iniziative.

Il problema centrale è la giustizia, che tuttavia in questa regione non ha trovato adeguata risposta nella dottrina sociale della C. che pure, in altre zone del mondo, ha contribuito al mutamento. Nel frattempo in Europa si è criticata proprio la dottrina sociale della C., e tale critica costituisce parte integrante della teologia della liberazione, che è stata concepita sulla base delle teorie sociali di tradizione europea. In un certo senso proprio con la teologia della liberazione si evidenzia un capitolo nuovo della dipendenza spirituale dell'America Latina soprattutto di derivazione francese. Ma tuttavia le idee della rivoluzione francese, della massoneria, del sistema di educazione laica e, all'opposto, quelle stesse di J. Maritain e di altri pensatori più recenti, non hanno potuto cambiare la realtà latino-americana. La situazione politica sostanzialmente instabile del continente dipende da interessi prevalentemente di natura materiale, mentre appare caratteristica della storia di quella regione una tipica mancanza di vigore spirituale.

La spinta all'industrializzazione e l'offerta di denaro per investimenti sono diventate rapidamente una tentazione per quasi tutti i governi. Spesso si sono accumulati debiti per creare opere di prestigio, come la capitale Brasilia, oppure infrastrutture prive di effettiva utilità. Nel nome del profitto internazionale sono stati cambiati i sistemi di coltivazione agricola e di allevamento del bestiame, nonché le strutture della proprietà e del lavoro. Questi cambiamenti sono alla base della realtà attuale. Per quanto riguarda la C., essa non ha saputo riconoscere il senso di questa evoluzione e non ha fornito agli uomini gli strumenti di valutazione necessari a prendere decisioni di reale vantaggio per il continente; d'altra parte neppure ha potuto trovare in questi paesi una seria base di riflessione per sviluppare concezioni che rispondessero efficacemente ai bisogni. Sembra che soltanto con il Concilio Vaticano ii la C. si sia resa conto di ciò che stava accadendo in America Latina e si siano messe in atto azioni di sostegno per aiutare la C. del continente nel suo compito. L'entità dei problemi supera spesso le possibilità e i mezzi disponibili; nondimeno, la C. sta intensificando la sua azione a tutti i livelli, malgrado il continuo degrado della vita pubblica. Nonostante l'urgenza e la naturale tentazione a interventi politici immediati, è necessario operare con pazienza per rimediare alle lacune, per analizzare la situazione e per elaborare, al di là delle frontiere di un solo paese e anche della sola America Latina nel suo insieme, un ordine che sappia salvaguardare lo spazio di ciascuno. Il contributo della C. al superamento dell'egoismo nazionale sarà tanto più importante quanto più essa troverà all'interno del proprio messaggio motivi e stimoli, verità e forze per la promozione di una vera solidarietà universale. Nell'attuazione di questo compito sarà ovviamente decisivo l'esempio che la stessa C. sarà in grado di offrire concretamente: l'azione implica anche un esame di coscienza e la volontà di riformare se stessi in base a ciò che si predica agli altri. Sotto tale profilo, lo scandalo dell'America Latina offrirà la dimostrazione davanti al mondo delle possibilità e delle intenzioni del cattolicesimo del nostro tempo. Si deciderà in tal modo la reale cattolicità o il provincialismo di un cristianesimo frantumato, che ha perso il suo significato universale. Si tratterà non di concessioni, ma di motivazioni per un'esistenza cristiana più intensa e più profonda. Ciò implica naturalmente anche un aiuto reciproco, ma più importante sarà l'unanimità spirituale di base che si svilupperà nella molteplicità delle forme, secondo le sfide e le possibilità concrete per la fede del mondo di oggi.

I presupposti necessari non mancano, poiché la speranza cattolica poggia su un fondamento solido. Occorrono però l'attività e la capacità di ciascuno, né è sufficiente che solo una parte del cattolicesimo compia il suo dovere; è una constatazione di fatto che risulta dalla situazione reale, la quale richiede per la sua soluzione molto di più che non un semplice dover essere. Proprio qui emerge il significato di una seria riflessione teologica che è parte integrante del mondo spirituale del cristianesimo. La teologia della liberazione può suscitare molte critiche giuste, ma il fatto che la miseria dell'America Latina si articoli anche a livello teologico appare sintomatico. La C. non realizzerà mai pienamente il suo destino senza una riflessione responsabile, senza una spiritualità giustificata anche di fronte al pensiero e allo spirito. Gli attuali movimenti caratterizzati da una vaga religiosità non sono davvero in grado di convincere in modo durevole né di offrire un soccorso effettivo. Le aspettative illusorie fanno spesso riferimento all'escatologia e al profetismo, dei quali si parla molto; si ha così l'impressione di un cristianesimo basato di preferenza su elementi di secondaria importanza, mentre si dimenticano gli aspetti fondamentali. L'analisi serena delle attuali tendenze religiose e dei movimenti recenti, dentro e fuori il cristianesimo, rivela già oggi una parzialità e una unilateralità che li avvicinano molto alle mode effimere.

Le nuove ricerche sul grado di religiosità e di fede effettiva costituiscono senza dubbio una sfida al cattolicesimo e in primo luogo alla teologia, in quanto richiedono il compito di una distinzione; un compito che s'impone nel momento in cui si rende inevitabile la stessa ristrutturazione della C. e della teologia. Sembra che ovunque si determinino un duplice fronte e una situazione senza uscita. Essere cattolico ed essere C. quindi è come vivere tra due fuochi, uno stato disperato che deve mobilitare le forze più profonde. Alcuni reagiscono con rassegnazione, sovente nascosta, lasciando la C. e il cristianesimo privi di una chiara soluzione; altri mostrano più coraggio eliminando uno dei due fronti, negandone l'esistenza e concentrandosi sui problemi del fronte opposto. Questo metodo basato sull'alternativa semplifica molto l'impegno, ma purtroppo non corrisponde alla realtà. Non tutti coloro che vedono le difficoltà da ambo le parti possiedono la capacità di affrontare contemporaneamente il complesso delle sfide: spesso la loro reazione si manifesta in modi episodici, suscitando perplessità e irritazione. Posto questo, un procedimento adeguato e responsabile dovrebbe impegnarsi in primo luogo a elaborare in maniera positiva una presentazione convincente, e capace di attrarre, della verità centrale del cristianesimo. Si rischia altrimenti l'insuccesso, senza riuscire a esprimere la verità che si vuole proclamare. Tale presentazione dovrebbe concernere la catechesi e la teologia, come base di sviluppi ulteriori, ed essere tale da rendere conto della coscienza della fede cristiana in maniera aperta e missionaria.

Le prospettive della C. cattolica oggi si possono definire soltanto parzialmente. Le tendenze degli ultimi anni, anche quelle più indesiderate, troveranno ulteriore conferma, data la difficoltà di attuare un cambiamento di direzione. I rinnovamenti più profondi e nascosti, che già ora si possono intuire, saranno più importanti delle mode passeggere che per un momento attirano l'attenzione delle masse. Tutti i cattolici hanno una responsabilità propria in tale frangente, sia per quanto riguarda le concezioni teoriche, sia per le realizzazioni pratiche. La conclusione è che il cattolicesimo del futuro debba essere uno spazio libero e stimolante per l'espressione di una fede viva, in tutta la ricchezza donata dallo Spirito. Ciò si esprime principalmente nel compito missionario dei cristiani, compito che non può essere scisso dalla vera fede cattolica. In questo senso la C. non deve preoccuparsi in primo luogo della propria conservazione, nel senso oggettivo del termine: questa appartiene alla sfera del divino e alla promessa fatta alla C.: le paure relative a questo punto non hanno un fondamento nel messaggio cristiano, ma soltanto nella mentalità poco cristiana degli uomini.

Lo stimolo più necessario al cattolicesimo in questo momento è il coraggio dell'essere cristiano e il superamento della rassegnazione e dell'angoscia in base proprio alla verità di Gesù Cristo. Molti sono i tentativi di rafforzare la C. cattolica in questo senso, ma non sempre la diversità aiuta, in quanto gli strumenti e i rimedi proposti spesso contrastano tra loro a causa di un'analisi abbastanza diversa della situazione presente. Bisognerebbe quindi mettersi d'accordo sull'attuale diagnosi alla luce della fede, per evitare affermazioni irreali o proposte che non corrispondono all'atteggiamento cristiano di fondo. Nel fare questo sforzo, il cattolicesimo dovrà imparare la distinzione tra l'unione fondamentale nello spirito del suo messaggio e la pluralità legittima e inevitabile delle visioni e delle concezioni. La testimonianza cristiana nel mondo dipenderà anche dall'esempio concreto del cattolicesimo e non soltanto da postulati e dichiarazioni verbali.

Questa disposizione spirituale sarà aperta alla realtà della C. e del mondo, delle società e degli uomini, proprio come conseguenza dell'essere cristiano che in quanto tale si sa chiamato propter nos homines et propter nostram salutem. Questa realtà sarà accettata come la condizione basilare dell'essere cristiano prevista e voluta da Dio: non si dovrà cedere quindi alla facile tentazione di assumere il mondo e la sua situazione come fatto negativo e senz'altro da combattere, identificando la creazione con il male. L'allontanamento di M. Lefebvre e dei suoi seguaci dalla C. cattolica (diventato definitivo nel 1988) mostra la direzione nella quale il cattolicesimo deve continuare a muoversi, contribuendo così a un chiarimento importante.

L'attuale sviluppo politico generale lascia intravedere la possibilità di un'intesa tra i grandi blocchi in materia di smilitarizzazione e di riduzione delle armi nucleari. Questa prospettiva cambia il clima mondiale anche per il cattolicesimo e per la sua missione. Nuove possibilità si delineano persino in zone dove finora non si scorgeva neppure un piccolo segnale. Quando gli verrà aperta definitivamente la strada, il cattolicesimo non dovrà mancare al suo compito e dovrà mostrarsi credibile offrendo la cooperazione che gli verrà richiesta. Un atteggiamento da ''fine del mondo'', nel senso di un millenarismo come quello che si ebbe al momento dell'entrata nel secondo millennio del cristianesimo, non trova oggi nessun riscontro in una vera fede cristiana. Il segno dei tempi va letto semmai in modo che non si blocchi la missione e il contributo del cristianesimo in favore del mondo; tale eventualità sarebbe indice di una grave mancanza. Le attività del cattolicesimo non vanno in questa direzione, benché il loro coordinamento richieda ancora molte forze. Il futuro della C. cattolica dipenderà dalla vita cristiana di tutti i cattolici. Malgrado la critica contro di essa, malgrado le difficoltà gravi e reali, malgrado le sfide molteplici, malgrado l'impressione di una certa ostilità da parte del mondo, il messaggio di Gesù Cristo vive in questa epoca e si mostra efficace.

Bibl.: Acta Apostolicae Sedis, voll. lxx (1978)-lxxxi (1989), Città del Vaticano; Annuario Pontificio, ivi 1978-90; Annuarium Statisticum Ecclesiae, ivi 1978-87; L'Attività della Santa Sede, ivi 1978-88; La Civiltà Cattolica, 129 (1978)-140 (1989); Il Regno (Bologna); La Documentation Catholique, 75 (1978)-86 (1989); Herder Korrespondenz, 32 (1978)-43 (1989).

Chiesa ortodossa

La C. ortodossa è una comunione di C. locali, organizzate come C. autocefale o autonome e che conservano intatta l'unità della fede e dell'ordine canonico reciprocamente e con il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Tale organizzazione è coerente con l'antica tradizione canonica e con la relativa prassi ecclesiastica, giacché scaturisce dai princìpi dell'ecclesiologia ortodossa e della tradizione dei Padri. Questo vale a spiegare il fatto che proprio i criteri canonici regolanti la formazione, lo sviluppo e il funzionamento della forma istituzionale di governo delle C. autocefale o autonome sono stati le coordinate costanti per assicurare l'unità e la comunione di esse sotto la cura della prima sede della C. ortodossa, il Patriarcato ecumenico. Tali criteri non si limitano alle sole relazioni canoniche e di governo tra le C. locali; essi coinvolgono la generale vita ecclesiale, cioè la testimonianza della fede, la vita liturgica e l'esperienza della spiritualità ortodossa, tramite cui l'intera vita delle C. si edifica.

La C. ortodossa è composta dai quattro antichi Patriarcati (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), dai cinque Patriarcati recenti (Russia, Serbia, Romania, Bulgaria e Georgia), dalle tre C. autocefale (Cipro, Grecia e Polonia) e dalle due C. autonome (Cecoslovacchia e Finlandia). Capi dei Patriarcati sono i patriarchi, e delle C. autocefale o autonome sono gli arcivescovi; essi esercitano però la loro giurisdizione ecclesiastica in modo sinodale, per mezzo del sinodo patriarcale o del sinodo della gerarchia della C. locale.

La riorganizzazione amministrativa delle C. locali nei tempi recenti (19° e 20° sec.), dopo un lungo periodo di ristrettezze nella vita civile ed ecclesiastica, ha dovuto affrontare precise difficoltà giurisdizionali; in ogni circostanza, però, il Patriarcato ecumenico ha difeso la necessità di applicare i princìpi fondamentali della tradizione canonica ortodossa. Le Conferenze panortodosse (1961, 1963, 1964, 1968) da una parte hanno confermato la stabile e incrollabile unità delle C. ortodosse locali nella fede comune e nella carità, dall'altra ne hanno rafforzato l'autocoscienza sinodale nello sforzo di rinnovare la testimonianza spirituale ortodossa in accordo con i sentimenti e le necessità dell'uomo contemporaneo.

Questo sforzo è stato volto principalmente ad affrontare in comune e sotto il coordinamento del Patriarcato ecumenico: a) i temi interni della C. ortodossa, che o sono eredità di vicende storiche o sono apparsi in tempi recenti; b) le relazioni di essa con tutto il restante mondo cristiano, relazioni che sono state appesantite dalle antitesi o contrapposizioni acutissime del periodo recente e che non facilitano la comune ricerca dell'unità del mondo cristiano; c) le nuove prospettive per la rivalutazione della missione della C. nel mondo contemporaneo, con l'incoraggiamento per un sincero dialogo con i sistemi ideologici e sociali contemporanei allo scopo di superare la profonda crisi spirituale dell'uomo e di dare soluzione ai complessi problemi della società contemporanea.

Le iniziative del patriarca ecumenico Atenagora i miranti a stringere relazioni fraterne con la C. cattolica e a promuovere la collaborazione del mondo cristiano attraverso tutte le forme del movimento ecumenico hanno trovato la positiva risposta di tutte le C. ortodosse locali e sono state ufficialmente sostenute attraverso le decisioni delle Conferenze panortodosse. Parallelamente e non senza relazione con queste iniziative del Patriarcato ecumenico fu decisa dalla i Conferenza panortodossa (1961) la preparazione del santo e grande Concilio della C. ortodossa. Così, fu apprestato un primo esteso elenco di temi per l'elaborazione teologica da parte delle C. locali; poi, nelle successive conferenze panortodosse è stata definita anche la metodologia della preparazione del santo e grande Concilio.

La iv Conferenza panortodossa (Chambésy-Ginevra, 1968) avanzò la richiesta che il Patriarcato ecumenico fondasse presso il suo centro di Chambésy una segreteria per la preparazione del santo e grande Concilio per il coordinamento e il sostegno di tutta l'opera preparatoria. Al tempo stesso fu decisa sia la formazione di una Commissione preparatoria interortodossa per una partecipazione e un contributo più pieni da parte delle C. locali nella preparazione dei temi, sia la costituzione di Commissioni interortodosse per lo studio e la preparazione di dialoghi teologici bilaterali con gli anglicani, con i veterocattolici e con le C. orientali antiche o precalcedonesi, come pure per la continuazione del dialogo della carità con la C. cattolica e per lo sviluppo dei contatti con i luterani. Per altro, l'attiva partecipazione della C. ortodossa ai dialoghi multilaterali del Movimento ecumenico ha rafforzato la constatata necessità di promuovere dialoghi teologici bilaterali.

La i Conferenza panortodossa presinodale (1976), convocata al centro ortodosso del Patriarcato ecumenico presso Chambésy-Ginevra, ha proceduto alla revisione dell'elenco dei temi all'ordine del giorno del santo e grande Concilio, elenco preparato dalla i Conferenza panortodossa del 1961. All'interno di esso ha scelto dieci temi: a) quelli concernenti le relazioni delle C. ortodosse tra loro e con il Patriarcato ecumenico (diaspora ortodossa, autocefalia, autonomia, dittici); b) quelli concernenti problemi pratici del clero e del popolo (impedimenti matrimoniali, questione del calendario, legge del digiuno); c) quelli concernenti le relazioni della C. ortodossa con il restante mondo cristiano (dialoghi teologici bilaterali e multilaterali); d) quelli concernenti la testimonianza dell'ortodossia nel mondo contemporaneo attraverso la promozione degli ideali cristiani.

Questi presupposti hanno fissato le direzioni fondamentali dell'attività della C. ortodossa nel decennio 1978-88. Tutte le decisioni menzionate si riferivano sostanzialmente all'attivazione di tutte le forze ecclesiastiche e teologiche per far avanzare sia lo studio teologico e la preparazione dei temi all'ordine del giorno del Concilio, sia invece i dialoghi teologici bilaterali con il restante mondo cristiano. La segreteria per la preparazione del santo e grande Concilio ha assunto il compito di coordinare la preparazione teologica dei temi da parte delle C. ortodosse locali, la formazione dei dossier per ogni tema e l'organizzazione di congressi per uno studio più approfondito di aspetti delicati dei temi del Sinodo.

Così, la ii Conferenza panortodossa presinodale (1982) convocata al centro ortodosso di Chambésy-Ginevra, ha lavorato sulla base di un dossier predisposto dalla segreteria, in particolare sul tema della comune celebrazione della Pasqua da parte di tutti i cristiani. La conferenza, prendendo in considerazione per ciascun tema i contributi delle C. ortodosse locali e il relativo materiale raccolto dalla segreteria, ha ritenuto opportuno non prendere alcuna decisione sulla questione del calendario avendo essa più estese conseguenze ecclesiali; ha rinviato il tema dell'adattamento delle norme sul digiuno a un più approfondito esame della successiva conferenza panortodossa presinodale, ha accolto all'unanimità la bozza di decisione riguardo agli impedimenti matrimoniali stabilendone la presentazione al santo e grande Concilio e ha formulato l'ordine del giorno dei temi della successiva Conferenza panortodossa presinodale.

L'esperienza acquisita con i lavori di questa conferenza è stata molto significativa, perché da una parte ha posto la necessità di una più approfondita preparazione teologica dei temi da parte della segreteria, dall'altra ha condotto alla decisione che venisse preparato, sempre a cura della segreteria, un regolamento per il funzionamento delle conferenze panortodosse sulla base della tradizione e della prassi ortodosse. La segreteria ha infatti istruito i dossier relativi a ogni tema dell'ordine del giorno, raccogliendo i rispettivi contributi delle C. locali e, insieme, specifici studi teologici. La valutazione di tutto il materiale teologico è stata fatta successivamente dalla Commissione preparatoria interortodossa convocata nel febbraio 1986 a Chambésy-Ginevra, la quale, sulla base delle relative introduzioni della segreteria, ha redatto bozze di testo sui quattro temi dell'ordine del giorno e le ha rinviate alla iii Conferenza panortodossa presinodale.

La iii Conferenza panortodossa presinodale (ottobre-novembre 1986) ha studiato le bozze dei testi e ha elaborato i testi finali sui seguenti temi: a) importanza del digiuno e sua osservanza oggi; b) relazioni della C. ortodossa con il restante mondo cristiano; c) ortodossia e movimento ecumenico; d) contributo della C. ortodossa al prevalere della pace, della libertà, della giustizia, della fraternità e dell'amore tra i popoli, e all'abolizione delle discriminazioni razziali e di altra natura.

L'unanime formulazione della posizione attuale dell'ortodossia su tali temi, in base alla tradizione ortodossa, ha avuto il suo completamento nell'approvazione altrettanto unanime del Regolamento per il funzionamento delle conferenze panortodosse, nel quale sono stati espressi i princìpi basilari della tradizione canonica e della recente prassi ecclesiastica. In accordo con il regolamento: "Le Conferenze panortodosse presinodali sono assemblee straordinarie della Chiesa ortodossa, le quali sono formate secondo l'uso consacrato di tutte le Chiese ortodosse, dai rappresentanti canonicamente stabiliti delle Chiese ortodosse autocefale e autonome al fine di assolvere alla preparazione collettiva del santo e grande Concilio (art. 1)... sono convocate dal Patriarca ecumenico, su opinione concorde di coloro che sono preposti alle Chiese ortodosse locali... (art.2) ...La presidenza delle Conferenze panortodosse presinodali è esercitata dal rappresentante del Patriarcato ecumenico... (art. 6) ...Segretario delle Conferenze panortodosse presinodali è il segretario per la preparazione del santo e grande Concilio... (art. 9) ...L'approvazione dei testi su ogni tema all'ordine del giorno da parte delle Conferenze panortodosse presinodali avviene all'unanimità... (art. 16)".

Contemporaneamente è stato anche deciso l'ordine del giorno della iv Conferenza panortodossa presinodale, nel quale sono stati compresi tutti i rimanenti temi, cioè: a) la diaspora ortodossa; b) l'autocefalia e il modo di proclamarla; c) l'autonomia e il modo di proclamarla; d) i dittici ortodossi. Con questi temi si esaurirà la preparazione del santo e grande Concilio. La segreteria ha inoltre già formato i dossier sulla base dei contributi delle C. ortodosse locali per la prossima convocazione della Commissione preparatoria interortodossa, la quale ricercherà la comune posizione di tutte le C. ortodosse su ogni tema.

Da tutto ciò risulta il compimento di un significativo percorso nella preparazione del santo e grande Concilio, non solo per i passi positivi realizzati, ma anche perché nel periodo delle procedure presinodali la C. ortodossa vive in pienezza lo spirito della sua autocoscienza sinodale e, in qualche modo, vive l'evento stesso del Concilio e conferma, nonostante difficoltà su particolari punti, la sua profonda unità nella fede e nella carità. I temi della prossima Conferenza panortodossa presinodale si riferiscono a concrete questioni pratiche; far fronte ad esse, però, è possibile nell'ambito della tradizione canonica ortodossa.

La promozione delle relazioni della C. ortodossa con il restante mondo cristiano, in particolare con la C. cattolica, è stato frutto del dialogo della carità tra l'Antica e la Nuova Roma. L'incontro di papa Paolo vi e del patriarca ecumenico Atenagora i a Gerusalemme (1964) e l'abolizione reciproca delle scomuniche del 1054 (1965) hanno inaugurato un'epoca nuova nelle relazioni tra ortodossia e cattolicesimo. La preparazione del dialogo teologico da parte di una commissione cattolica e interortodossa e da parte della Commissione mista di coordinamento ha facilitato la proclamazione del dialogo teologico ufficiale tra le due C. con la i assemblea della Commissione teologica mista internazionale a Patmos-Rodi, nel corso della quale sono state prese in considerazione le conclusioni davvero positive del dialogo della carità per le relazioni bilaterali ed è stata stabilita la metodologia generale del dialogo teologico.

La ii assemblea della Commissione teologica mista internazionale (Monaco, 1982) ha rielaborato le bozze dei documenti stese dalle tre sottocommissioni insieme con le valutazioni della Commissione mista di coordinamento e ha al contempo approvato il testo comune composto sul tema Il mistero della Chiesa e della divina Eucaristia alla luce del mistero della Santa Trinità. La iii assemblea della Commissione teologica mista internazionale (Creta, 1984) ha preso in considerazione le tre bozze di testo delle sottocommissioni miste sul tema Fede, sacramenti e unità della Chiesa, e precisamente nei suoi più specifici aspetti: a) Fede e comunione sacramentale; b) I sacramenti dell'iniziazione. Nonostante le constatate difficoltà, il testo comune è stato alla fine accettato nella iv assemblea della Commissione teologica mista internazionale (Bari, 1987). La v assemblea della Commissione stessa (Valamo, 1988) ha poi accettato il testo comune sul tema Il sacramento dell'ordine nella struttura sacramentale della Chiesa.

La iii Conferenza panortodossa presinodale (Chambésy-Ginevra, 1986) ha discusso le difficoltà pratiche della conduzione del dialogo teologico e ha formulato concrete proposte volte a facilitare i lavori in ordine al superamento degli ostacoli e alla più rapida promozione del dialogo.

Con spirito analogo sono stati valutati i risultati dei dialoghi teologici bilaterali della C. ortodossa rispettivamente con i veterocattolici, con le C. orientali antiche, con gli anglicani, con i luterani e con i riformati. È già giunta a compimento l'opera della Commissione teologica mista per il dialogo dell'ortodossia con i veterocattolici, con l'unanime sottoscrizione di testi teologici comuni su tutti i temi trattati; la iii Conferenza panortodossa presinodale (1986) ha osservato che per una valutazione più piena del dialogo non andrebbero ignorate: a) "il mantenimento dell'antica prassi della Chiesa veterocattolica riguardo alla comunione sacramentale con la Chiesa anglicana, come pure le tendenze recentemente apparse in Germania di una comunione sacramentale con la Chiesa evangelica, perché esse riducono l'importanza dei testi ecclesiologici comuni sottoscritti insieme" e b) "le difficoltà di incorporazione e di sviluppo nella vita generale della Chiesa veterocattolica della teologia dei testi teologici comuni insieme sottoscritti".

Più critico è stato l'atteggiamento della iii Conferenza panortodossa presinodale di fronte al dialogo dell'ortodossia con gli anglicani, con l'osservazione che "una seria difficoltà alla regolare conduzione di questo dialogo teologico è poi costituita dagli elastici e incerti presupposti ecclesiologici degli anglicani, presupposti che potrebbero relativizzare anche il contenuto dei testi teologici comuni insieme sottoscritti". Il problema della "ordinazione delle donne" è stato considerato la difficoltà più significativa per la promozione del dialogo teologico.

Al contrario, positiva è stata la valutazione delle prospettive del dialogo teologico dell'ortodossia con le C. orientali antiche, nonostante le difficoltà frapposte all'inizio ufficiale di esso. A giudizio della iii Conferenza panortodossa presinodale, le prospettive "offrono fondate speranze che si troveranno soluzioni comuni per i temi esistenti riguardo alla definizione del iv Concilio ecumenico, in unità indissociabile anche con le decisioni cristologiche degli altri Concili ecumenici...". La Commissione mista ha preparato una bozza di testo comune riguardo alla confessione cristologica, che è stata discussa alla ii assemblea della Commissione teologica mista (Cairo, 1989).

Il dialogo teologico tra ortodossi e luterani ha avuto inizio nel 1981 dopo una decisione della i Conferenza panortodossa presinodale, ma durante le tre assemblee della Commissione teologica mista (Espoo, 1981; Lemesos, 1983; Allentown, 1985) sono stati affrontati specifici problemi di metodo che non hanno agevolato la possibilità di approvazione di un testo comune. Nel corso della iii assemblea (1985) è stato accettato un chiaro testo su La divina Rivelazione. La iii Conferenza presinodale panortodossa ha espresso la speranza "che tanto durante le discussioni bilaterali quanto anche durante l'elaborazione dei testi comuni verrà data uguale importanza sia all'elemento accademico che a quello ecclesiastico", di modo che, nonostante le prevedibili "difficoltà future", il dialogo possa diventare "fruttuoso e utile".

Analoghe difficoltà presenta il dialogo con i riformati, che ha avuto inizio nel 1968 e che ha completato il ciclo dei dialoghi teologici bilaterali. La iii Conferenza panortodossa presinodale ha indicato come principali problemi del dialogo con i luterani e con i riformati, sia la pratica del proselitismo a danno degli ortodossi, sia la chiarificazione della prassi dell'"ordinazione delle donne".

Tuttavia, da qualsiasi punto di vista si valuti tale attività, la C. ortodossa, in aderenza allo spirito del Patriarcato ecumenico dell'inizio del secolo (1902, 1904, 1920), considera utili e fruttuosi per il comune cammino verso l'unità del mondo cristiano tanto i dialoghi bilaterali quanto quelli multilaterali dell'odierno movimento ecumenico, e contribuisce in grandissima misura all'irraggiamento ecumenico del Consiglio Ecumenico delle Chiese e degli altri organismi relativi. Certo il cambiamento nella composizione del CEC, dopo l'Assemblea generale di New Delhi (1961), con l'ampio accesso di nuovi membri ecclesiastici dai paesi in via di sviluppo sta delimitando progressivamente l'importanza della partecipazione della C. ortodossa. La posizione critica degli ortodossi nei confronti del CEC è stata registrata alla Conferenza di Sofia (Desiderata di Sofia) e sussiste una seria preoccupazione nelle C. ortodosse locali riguardo all'effettiva prosecuzione delle prospettive del CEC.

Nel testo della iii Conferenza panortodossa presinodale si esprime in modo caratteristico questo spirito: "La Chiesa ortodossa, che continuamente prega 'per l'unione di tutti', fin dalla sua prima apparizione ha preso parte al movimento ecumenico e ha contribuito alla sua formazione e al suo ulteriore sviluppo..., fedele alla sua ecclesiologia, all'identità della sua struttura interna e all'insegnamento della Chiesa indivisa, partecipando all'organizzazione del CEC, non accoglie affatto l'idea della 'uguaglianza delle Confessioni' e non può accettare l'unità della Chiesa come un qualche adattamento confessionale... i presupposti ecclesiologici della Dichiarazione di Toronto (1950)... sono d'importanza capitale per la partecipazione ortodossa al Consiglio...".

In questo spirito si comprende meglio il particolare interesse che ha la C. ortodossa nel promuovere soprattutto dialoghi teologici bilaterali, i quali non solo sono sostenuti da tutte le C. ortodosse, ma si sviluppano anche attraverso iniziative bilaterali spesso locali, come per es. i dialoghi del Patriarcato ecumenico con la Evangelische Kirche in Deutschland (EKD), della C. di Russia con la EKD e con i riformati, della C. di Romania con la EKD, della C. di Bulgaria con la BUND, ecc., mentre sono incoraggiati i dialoghi locali anche a livello delle metropoli ecclesiastiche (Svizzera, Polonia, Germania, ecc.).

L'attuazione dell'autocoscienza sinodale attraverso la procedura delle conferenze panortodosse presinodali e la valutazione comune, in un'atmosfera sinodale, dei dialoghi bilaterali e multilaterali del movimento ecumenico contemporaneo caratterizzano la testimonianza della C. ortodossa nel mondo contemporaneo. Il restringimento dell'unità dell'ortodossia alla comune tradizione e fede dei Padri e la sua sincera partecipazione al dialogo teologico ecumenico vanno compresi come promozione del criterio della continuità della fede apostolica nella generale vita storica della C. e come accettazione delle richieste del mondo cristiano coerenti con tale criterio.

La comprensione ascetica della relazione dell'uomo con il mondo nella tradizione patristica ortodossa è stata formulata in due significativi testi della iii Conferenza panortodossa presinodale: a) l'importanza del digiuno e la sua osservanza oggi; b) il contributo della Chiesa ortodossa al prevalere della pace, della libertà, della giustizia, della fraternità e dell'amore tra i popoli, e all'abolizione delle discriminazioni razziali e di altra natura.

Base teologica comune di questi testi è l'intera tradizione patristica sulla relazione ontologica tra Cristo e la C., come appare nella dottrina ecclesiologica sul Corpo di Cristo, per mezzo della quale viene espresso l'intero contenuto dell'antropologia ortodossa, in particolare l'importanza e il carattere sacro della persona umana. Il digiuno, come lotta spirituale e 'imitazione del modo di vita angelico', 'è antico quanto l'umanità' e si completa nel digiuno di quaranta giorni di Cristo, perciò è stato collegato inseparabilmente tanto alla sua croce quanto alla giustizia sociale. L'interpretazione patristica cristocentrica e ascetica della relazione dell'uomo con il mondo costituisce il fondamento dell'intero testo sugli ideali cristiani, nel quale si sottolinea in modo caratteristico: "La fede cristiana sulla origine divina e sulla unità del genere umano e del mondo, sempre in inseparabile relazione con la sacralità, la perfezione e l'altissimo valore della persona umana, si trova soggiacente all'odierno dialogo internazionale per la pace, la giustizia sociale e i diritti umani... La dottrina cristiana della 'ricapitolazione' in Cristo di tutte le cose (Ef. 1,10) ha ristabilito la sacralità e l'eccellente grandezza della persona umana ed ha abolito il mondo della frantumazione, dell'alienazione, delle discriminazioni razziali e dell'odio...".

Nello stesso spirito della tradizione patristica il Congresso teologico interortodosso (Rodi, 1988) ha cercato di spiegare teologicamente il rifiuto da parte della C. ortodossa dell'ordinazione delle donne al sacerdozio. Questo congresso era stato convocato dal Patriarcato Ecumenico per soddisfare alla corrispondente richiesta della iii Conferenza panortodossa presinodale, richiesta che mirava a definire appunto il contributo teologico dell'ortodossia nell'approccio della questione. Riportiamo qui alcuni passi caratteristici: "Il distinto ruolo delle donne si esprime attraverso l'analogia tipologica 'EvaMaria' e attraverso la specifica relazione delle donne con l'opera peculiare dello Spirito Santo nell'intero disegno della salvezza in Cristo. La relazione tipologica 'Adamo-Cristo'... è fondamentale in tutta la teologia e la vita patristiche della Chiesa... La persona centrale riguardo alla specifica funzione delle donne nel disegno della salvezza è la Madre di Dio, la Theotokos. In lei si compie l'opera propria dello Spirito Santo con l'incarnazione del Figlio e Verbo di Dio. La relazione tipologica 'della recirculatio da Maria ad Eva' era necessaria per lo scioglimento dei legami di Eva e per l'incarnazione dallo Spirito Santo e da Maria Vergine del Figlio e Verbo di Dio... Lo Spirito Santo l'ha purificata e le ha dato la necessaria 'potenza generatrice' per l'ammirabile incarnazione del Figlio e Verbo di Dio in lei... Così nella tradizione dei Padri si propone la relazione tipologica tra la maternità della Madre di Dio e la maternità della Chiesa...".

In base a tale struttura teologica sono state spiegate le ben note tesi della tradizione della C. concernenti il rifiuto dell'ordinazione delle donne. Esse sono state così fondate:

i) sull'esempio del Signore nostro Gesù Cristo, il quale non ha scelto alcuna donna come uno dei suoi apostoli; ii) sull'esempio della Madre di Dio, la quale non ha esercitato una funzione sacerdotale nella Chiesa, quantunque fosse stata fatta degna di diventare madre del Figlio e Verbo di Dio incarnato; iii) sulla tradizione apostolica, secondo la quale gli apostoli, attenendosi all'esempio del Signore, non hanno mai ordinato donne a questo speciale sacerdozio della Chiesa; iv) su alcune tesi della dottrina di Paolo riguardo alla posizione delle donne nella Chiesa; v) sul criterio dell'analogia, per il quale, se fosse stato consentito l'esercizio della funzione sacerdotale alle donne, una simile funzione avrebbe dovuto esercitarla per prima la Madre di Dio.

I parallelismi teologico-tipologici del chiaro testo elaborato da questo congresso sono fondati su un esteso riferimento alla corrispondente tradizione dei Padri e spiegano da una parte il carattere carismatico e per eccellenza connesso con lo Spirito Santo, conferito al ruolo delle donne nella storia della salvezza dalla creazione fino alla fine, dall'altra la tipologia cristocentrica che caratterizza la relazione degli uomini con il sacerdozio. Nella seconda metà del testo, poi, sono esposti i presupposti teologici e pratici per una più attiva partecipazione delle donne all'opera spirituale della Chiesa.

Negli ultimi dodici anni la C. ortodossa ha manifestato uno sviluppo significativo delle relazioni interortodosse e interecclesiali e ha attuato in misura notevole la sua autocoscienza sinodale sia attraverso il cammino comune di tutte le C. ortodosse locali verso il santo e grande Concilio, sia attraverso la sua testimonianza teologica all'interno del movimento ecumenico contemporaneo. Grazie a queste molteplici attività è emersa in modo più pieno la reciproca unità delle C. locali nella comune fede e nella carità; inoltre, si è dimostrata quale capacità dinamica abbia tuttora la tradizione spirituale dei Padri in ordine alle nuove esigenze pastorali che la missione dell'ortodossia nel mondo contemporaneo richiede.

Certo, la C. ortodossa non è immune da problemi interni, a causa soprattutto del suo sistema di governo, ma questo sistema è espressione coerente tanto della sua dottrina ecclesiologica sulla C. locale quanto della sua autocoscienza sinodale. I problemi contingenti riguardo al governo della diaspora ortodossa o al funzionamento dell'istituto dell'autocefalia, che verranno discussi nella prossima Conferenza panortodossa presinodale, sono comprensibili e spiegabili, né potrebbero scuotere la validità dell'ecclesiologia ortodossa o della tradizione canonica.

La C. ortodossa è la C. della tradizione dei Padri; essa non può deviare dai criteri di questa tradizione nelle relazioni interortodosse e interecclesiali e nello sforzo di adattare il suo messaggio alle esigenze spirituali dell'uomo d'oggi. È ovvio che il principio dell'unanimità nella votazione delle decisioni presinodali che dovranno presentarsi al santo e grande Concilio esclude qualsiasi deviazione unilaterale o parziale dalla tradizione patristica ortodossa e stabilisce chiaramente la volontà delle C. locali di restare ferme ai criteri di questa tradizione, i quali assicurano l'unità della C. ortodossa.

I tempi difficili in cui è vissuta la maggior parte delle C. ortodosse hanno dimostrato la forza del culto divino ortodosso nel preservare la vita spirituale di ogni corpo ecclesiastico locale. I fedeli, attraverso la partecipazione all'esperienza del culto divino, acquistano infatti una coscienza più piena non solo dell'unità tra di loro e con il capo divino della C., il Signore Gesù Cristo, ma anche della comunione spirituale con tutti i fedeli ortodossi nel mondo intero. L'unità della tradizione dei Padri, l'unità dell'esperienza cultuale e l'unità della coscienza sinodale sono i criteri di base della vita e della testimonianza dell'ortodossia nel mondo contemporaneo.

Chiese evangeliche

Per 'Chiese evangeliche' s'intende un'ampia e multiforme costellazione cristiana la cui matrice storica è il grande rivolgimento religioso e culturale conosciuto come Riforma protestante. Ne fanno però parte anche C. e movimenti che hanno preceduto e seguito la Riforma del 16° secolo: tra i primi vanno ricordati i valdesi e gli hussiti (questi ultimi fortemente influenzati dal pensiero dell'inglese Wiclif), mentre tra i movimenti che presuppongono la Riforma protestante ma non ne sono un semplice prolungamento vanno menzionati, in particolare, il vasto fenomeno battista, sviluppatosi nel 17° secolo (ma sorto già sul finire del 16°), il metodismo, affermatosi nel 18° secolo, i vari movimenti di 'risveglio' (revival) del 19° secolo e infine il variegato fenomeno pentecostale nel 20°. Molte altre comunità e denominazioni dovrebbero essere menzionate: quaccheri e avventisti, Esercito della salvezza e Chiese dei Fratelli, mennoniti e congregazionalisti (per limitarci a questi), fanno anch'essi parte, insieme ai luterani e ai riformati (cioè zwingliani e calvinisti) della prima ora, della famiglia delle C. evangeliche. Ma a queste che da tempo fanno parte del panorama delle C. evangeliche occorre aggiungerne altre, oggi in formazione, soprattutto in Africa e Asia, non più per l'opera delle missioni europee e americane ma per l'iniziativa evangelizzatrice delle C. indigene. È questo infatti il fenomeno veramente nuovo che si sta affacciando sul palcoscenico della storia cristiana (e quindi anche della cristianità evangelica) al termine del 2° millennio: stanno nascendo o sono in gestazione nuovi tipi di cristianesimo, frutto delle inculturazioni del messaggio cristiano in atto nel continente africano e asiatico. Quale sarà il loro volto? Quali teologie, liturgie, forme cultuali e devozionali, strutture ministeriali fioriranno, una volta che sarà tolta l'ipoteca 'coloniale' imposta a quelle C. dalle missioni occidentali? Esse sono state create, inevitabilmente, 'a immagine e somiglianza' di quelle europee e americane. Ma come diventeranno quando, crescendo e maturando, si libereranno del tutto dalla 'cattività latina' (com'è stata chiamata), nella quale sono state concepite? Il seme della parola evangelica, caduto nel terreno di culture che finora non l'avevano ospitato, porterà frutti inediti. Il cristianesimo e, al suo interno, le C. evangeliche non saranno più soltanto quello che sono state finora.

La Comunione anglicana può essere associata ma non assimilata alle C. evangeliche. Essa costituisce infatti una forma originale di cristianesimo, frutto della Riforma inglese del 16° secolo, in cui convivono creativamente, all'insegna della inclusività (comprehensiveness), elementi tipici della tradizione cattolica (specialmente pretridentina) con orientamenti propri della fede e teologia protestante.

Presenza nel Movimento ecumenico. − Nella seconda metà del 20° secolo, e in misura crescente negli ultimi due decenni, la storia delle C. evangeliche è inestricabilmente intrecciata con quella del Movimento ecumenico, specialmente con quello che fa capo al Consiglio ecumenico delle chiese (WCC: World Council of Churches), di cui fa parte la quasi totalità del protestantesimo storico.

È vero che in questi ultimi 10-15 anni non è diminuita, in qualche caso si è anzi accentuata, l'opposizione al WCC di settori non trascurabili dell'evangelismo contemporaneo, di matrice 'revivalista' e fondamentalista. Questo tipo di protestantesimo con venature carismatiche propugna un ecumenismo spirituale allergico alla creazione di strutture unitarie (mentre il WCC ricerca l'unità visibile dei cristiani) e politicamente neutrale (mentre il WCC ha fatto propria la cosiddetta 'opzione per i poveri', insieme alle varie 'teologie della liberazione' prodotte soprattutto dalle C. del Terzo Mondo). Ma è altrettanto vero che la grande maggioranza della cristianità evangelica non vive più la sua storia come separata da quella della più vasta comunità ecumenica, che ha nel WCC la sua maggiore espressione istituzionale e, allo stesso tempo, il suo principale strumento organizzativo. Il coinvolgimento corale di oltre 300 C. nei programmi e nelle iniziative del WCC (nei cui confronti, peraltro, ogni C. gode di piena autonomia decisionale), l'assidua frequentazione reciproca e la crescente consapevolezza di una comune vocazione e appartenenza, i vincoli di comunione creati da decenni di incontri, dialoghi, consultazioni, assemblee, dibattiti, documenti, culti, preghiere, progetti, aiuti, fanno sì che una parte consistente della storia recente delle C. evangeliche coincida con quella del movimento ecumenico. Non sono solo le C. evangeliche che, insieme alle altre C. cristiane, costruiscono e scrivono la storia del Movimento ecumenico; è anche il Movimento ecumenico che, in diversi modi e in misura cospicua, determina la storia delle C. evangeliche. L'ecumenismo fa ormai parte della loro esistenza quotidiana. Questo ha significato per loro dar vita a una ricca stagione di dialoghi, con quattro interlocutori principali: la C. cattolica romana, l'ortodossia orientale, le C. evangeliche stesse, la comunità ebraica.

Dialoghi con la Chiesa cattolica romana. − Con il Concilio Vaticano ii (1962-65) la C. di Roma ha ricuperato e dilatato la coscienza della sua cattolicità ed è quindi entrata nel Movimento ecumenico da cui fino a quel momento s'era tenuta in disparte, unica tra le grandi C. cristiane. La presenza al Concilio di 'osservatori delegati' delle maggiori famiglie confessionali protestanti ha avuto assai presto un seguito nell'avvio di una fitta serie di dialoghi teologici ufficiali, che ancora continuano. Nessuno infatti è stato interrotto o sospeso, e nessuno è giunto a esaurimento. A una fase che si conclude ne succede un'altra. Il dialogo, si direbbe, è ormai per le C. un modus vivendi. Ogni fase si conclude, di solito, con la stesura di un ampio documento comune. L'insieme di questi documenti costituisce ormai una vera e propria biblioteca di teologia ecumenica. Ecco un quadro dei recenti dialoghi ufficiali a livello internazionale di C. o confessioni protestanti con la C. cattolica romana, con indicazione dei temi affrontati e dei documenti congiunti pubblicati.

Anglicani. Il dialogo, affidato a una Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica Romana (ARCIC), è iniziato nel 1967 e s'è svolto finora in due fasi. Il rapporto che ha posto fine alla prima fase (ARCIC i, 1981) contiene dichiarazioni comuni su temi cruciali come l'eucaristia, il ministero e l'ordinazione, l'autorità nella C. (due testi), e conclude affermando che, in cammino verso la loro riconciliazione, "le nostre chiese si sono avvicinate nella fede e nella carità". La seconda fase (ARCIC ii), avviata nel 1984, è tuttora in corso. La commissione si riunisce annualmente e nel 1987 ha pubblicato un documento comune su ''La salvezza e la Chiesa''. Gli incontri del 1988 e 1989 hanno avuto come tema ''Chiesa e comunione''. Le relazioni tra la C. cattolica e la Comunione anglicana sono amichevoli (scambio di visite del Pontefice romano a Canterbury nel 1982 e dell'arcivescovo R.A. Runcie a Roma nel 1989), ma l'ipotesi di una piena riconciliazione in tempi relativamente brevi non s'è avverata.

Gli ostacoli maggiori sono due: il primo è l'estensione dei poteri del papa che gli anglicani giudicano eccessiva; il secondo è l'ordinazione delle donne al sacerdozio, che Roma considera inammissibile ma che alcune C. facenti parte della Comunione anglicana (quelle del Canada, degli USA e della Nuova Zelanda) già praticano. La C. d'Inghilterra, da parte sua, ordina donne al diaconato dal 1987, ma non ancora al sacerdozio. La situazione si è ulteriormente aggravata quando una donna sacerdote è stata ordinata vescovo l'11 febbraio 1989, a Boston, dopo che l'anno prima era stata creata vescovo ausiliare (assistant bishop): Barbara C. Harris, di 58 anni, nera e divorziata, è la prima donna vescovo della Comunione anglicana. La Conferenza di Lambeth (che riunisce tutti i vescovi anglicani del mondo), nella sessione del 1988, aveva deciso di ''rispettare'' la decisione di alcune province di eleggere e consacrare donne vescovo, "anche se gli altri vescovi e le altre province non possono ancora riconoscere l'ordinazione di una donna all'episcopato". Così scrisse l'arcivescovo Runcie al pontefice Giovanni Paolo ii nell'agosto del 1988. Il papa rispose nel dicembre dello stesso anno dicendo tra l'altro: "L'ordinazione di donne al sacerdozio in certe province della Comunione anglicana, così come il riconoscimento del diritto di ogni provincia a procedere all'ordinazione di donne all'episcopato... bloccano effettivamente il cammino del riconoscimento reciproco dei ministeri" (tra C. cattolica e Comunione anglicana). Le rispettive posizioni sembrano inconciliabili.

Luterani. Tra la Federazione luterana mondiale (sede a Ginevra) e la C. cattolica romana il dialogo s'è finora svolto in tre fasi: la prima, dal 1967 al 1972, s'è conclusa con un rapporto comune su ''L'Evangelo e la chiesa'', noto come Rapporto di Malta (1972); la seconda, particolarmente intensa, ha dato luogo a ben sei dichiarazioni congiunte nell'arco di 12 anni (1973-84), quattro di carattere teologico e due di rivisitazione ecumenica della storia passata, alla ricerca di una non facile ma pur necessaria riconciliazione delle memorie.

I documenti teologici riguardano l'eucaristia (1978), le vie verso la comunione (1980), il ministero nella C. (1981), l'unità che ci sta di fronte (1984); le due dichiarazioni storico-ecumeniche riguardano la Confessio Augustana in occasione del 450° anniversario della sua stesura (''Tutti sotto uno stesso Cristo'', 1980) e l'ancora controverso riformatore Martin Lutero in occasione del 500° anniversario della sua nascita (''Martin Lutero testimone di Gesù Cristo'', 1983). La terza fase del dialogo, avviata nel 1986, si concluderà nel 1992. La commissione si riunisce annualmente affrontando via via i tre temi seguenti: la giustificazione per grazia mediante la fede, l'ecclesiologia e la sacramentalità. Nell'insieme si può riconoscere nei documenti del dialogo cattolico-luterano una notevole ricchezza teologica e una forte tendenza a mettere in luce le convergenze.

Riformati. Indubbiamente meno intenso è stato finora il dialogo tra l'Alleanza riformata mondiale (sede a Ginevra) e la C. cattolica romana. Programmato fin dal 1968 esso è iniziato nel 1970 e la sua prima fase s'è conclusa nel 1977 con la pubblicazione di un sostanzioso rapporto finale intitolato La presenza di Cristo nella chiesa e nel mondo. È seguito un Rapporto di valutazione (1980) compilato sulla base dei commenti delle Chiese. Nel 1984 è iniziata la seconda fase del dialogo, imperniato sulla C.: il documento comune, la cui gestazione è risultata particolarmente difficile, è stato pubblicato nel 1991 con il titolo: Towards a common understanding of the Church.

Battisti. Il primo colloquio teologico internazionale tra l'Alleanza battista mondiale e la C. cattolica romana s'è svolto con incontri annuali sull'arco di cinque anni (1984-88), sul tema generale ''La testimonianza cristiana nel mondo d'oggi''. Il documento finale comune è stato pubblicato nel 1990. Esso si conclude affermando che "le conversazioni tra battisti e cattolici romani non porteranno nel prossimo futuro a una piena comunione tra i nostri due corpi ecclesiali. Questo però non dovrebbe impedirci di ideare vie concrete per testimoniare insieme nel nostro tempo".

Metodisti. Il dialogo è condotto fin dal 1967 da una commissione mista internazionale su incarico della C. cattolica romana e del Consiglio metodista mondiale. I temi e gli esiti del dialogo vengono resi noti ogni quattro o cinque anni, con un rapporto (Report) che reca il nome della città in cui è stato presentato: Denver 1971 (per il periodo 1967-70), Dublino 1976 (per il periodo 1972-75), Honolulu 1981 (per il periodo 1977-81), Nairobi 1986 (per il periodo 1982-85). Quest'ultimo Report intitolato Verso una dichiarazione sulla Chiesa, è particolarmente ampio e impegnativo.

Tratta "alcune delle questioni più difficili che cattolici romani e metodisti devono affrontare. Malgrado certe somiglianze al livello della struttura ecclesiale e dell'organizzazione delle due Chiese, i metodisti e i cattolici attualmente differiscono nella loro dottrina del ministero e della funzione magisteriale". Tuttavia sembra delinearsi, almeno in via di ipotesi, una certa flessibilità di posizioni riguardo alla funzione papale, s'intende ripensata e ricontestualizzata: "Non sarebbe inconcepibile che in futuro, nel quadro di un'unità restaurata, i vescovi cattolici romani e metodisti possano essere uniti in un solo colleggio episcopale e che il corpo intero possa riconoscere al vescovo di Roma una certa autorità (leadership) e un certo primato" (n. 62). Per quanto concerne invece i dogmi mariani (Immacolata concezione e Assunzione) si afferma che simili dottrine, comunque intese, "non sono considerate" da parte metodista "come essenziali per la fede" (n. 73). Il tema dei prossimi colloqui sarà la tradizione apostolica.

Discepoli di Cristo. Il dialogo ufficiale con la C. cattolica romana, iniziato nel 1977, è avvenuto in una serie di incontri annuali di una commissione internazionale mista, suddivisi in due fasi: la prima (1977-80) su ''Apostolicità e cattolicità nell'unità visibile della Chiesa'' con documento comune pubblicato nel 1981; la seconda su ''La Chiesa come koinonìa in Cristo'' (1983-89): la redazione del documento finale su questo tema è iniziata nella riunione del 1990. Nel corso di tutti questi dialoghi, molte questioni particolari, anche controverse, sono state discusse. Per esempio, l'incontro del 1986 era dedicato all'eucaristia. Al termine, il capo-delegazione dei Discepoli di Cristo ha dichiarato che "nel nostro dialogo abbiamo scoperto che sull'eucaristia abbiamo in comune più di quanto non avremmo osato sperare".

Pentecostali. Il dialogo internazionale pentecostale-cattolico romano si è svolto in tre fasi. Dopo la prima (1972-77) e la seconda (1977-82), ciascuna conclusa con un rapporto finale, l'obiettivo della terza (1985-89) era di "accrescere la comprensione reciproca" e di "scoprire quali sono le basi teologiche comuni a ciascuna delle due parti, anche se questo obbiettivo non è stato definito nel senso dell'unità organica o strutturale". Il rapporto finale, in via di elaborazione, è centrato sulla nozione di koinonìa e si preannuncia "pieno di intuizioni sorprendenti e di forti scambi di vedute".

Evangelicals. Un dialogo durato sette anni (1977-84) ha avuto luogo tra la C. cattolica romana e rappresentanti del mondo evangelical, di orientamento fondamentalista e 'revivalista'. Ne è uscito un documento notevole sia come ampiezza sia come livello, sulla missione. Vi si affrontano i temi principali della fede: la rivelazione di Dio, l'Evangelo, la C., la missione, la conversione, la testimonianza comune. Per i suoi contenuti e per i suoi firmatari questo documento pubblicato nel 1986 merita una menzione speciale nel quadro della letteratura ecumenica contemporanea. Il suo titolo è The Evangelical-Roman Catholic dialogue on mission.

Un'altra tappa importante nella storia dei rapporti tra cattolici e protestanti in questo ultimo decennio è avvenuta in Germania dal 1981 al 1985. In seguito all'incontro tra il Consiglio della C. evangelica in Germania e il pontefice Giovanni Paolo ii a Magonza (17 novembre 1980), venne istituita una commissione ecumenica congiunta con l'incarico, tra l'altro, di saggiare la consistenza odierna delle condanne dottrinali e delle scomuniche reciproche che la C. cattolica romana e le C. della Riforma si scambiarono nel 16° secolo. La commissione ha affidato questo studio a un gruppo di lavoro ecumenico che, dal 1981 al 1985, ha riesaminato i nodi cruciali del contenzioso teologico cattolico-protestante dalla Riforma a oggi. Ai lavori hanno preso complessivamente parte circa cinquanta teologi cattolici ed evangelici.

I risultati, fatti propri dalla commissione, possono essere così sintetizzati: alcune condanne pronunciate nel 16° secolo nascevano dal fraintendimento delle posizioni anatemizzate. Altre non colgono più la dottrina e la prassi dei cristiani d'oggi. Altre condanne ancora riguardano affermazioni sulle quali oggi s'è raggiunto un certo grado d'intesa e comunque una maggiore comprensione reciproca. Vi sono però anche condanne che riguardano punti sui quali neppure oggi è stato possibile raggiungere un accordo: le ragioni teologiche che le hanno determinate permangono, anche se l'impostazione polemica del discorso è ormai abbandonata.

Dando uno sguardo retrospettivo a un decennio e più di dialoghi bilaterali tra C. evangeliche e C. cattolica romana si può notare anzitutto l'insospettata estensione del fenomeno, la sua continuità nel tempo e, in generale, la buona qualità del lavoro teologico svolto. In secondo luogo si deve constatare che grazie ai dialoghi vengono rimossi non pochi malintesi e pregiudizi, ma talune differenze e divergenze di fondo, anche inerenti alla fede stessa, permangono, impedendo oggi ancora la piena comunione. Infine, dall'andamento di molti dialoghi si ricava un dato comune: alla base delle divisioni tra i cristiani c'è un diverso modo di intendere e vivere la Chiesa.

Dialoghi con le Chiese ortodosse. − Diversi dialoghi bilaterali tra una C. o un gruppo di C. protestanti e una C. ortodossa, a livello nazionale o internazionale, hanno avuto luogo in questo ultimo ventennio. Citiamo, a titolo di esempio, i tre colloqui teologici avvenuti nel 1974, 1976 e 1978 tra la Federazione delle C. evangeliche della Repubblica Democratica Tedesca e la C. ortodossa russa. Oppure, il dialogo tra luterani, riformati e ortodossi negli Stati Uniti a partire dal 1973. Ma i rapporti tra protestanti e ortodossi vengono alimentati e approfonditi soprattutto nel comune coinvolgimento nel Consiglio ecumenico a livello mondiale e nella Conferenza delle C. d'Europa a livello europeo.

Quest'organismo, con sede a Ginevra, raggruppa le C. protestanti e ortodosse d'Europa. È proprio per una iniziativa sua e del Consiglio delle conferenze episcopali cattoliche d'Europa che il 7 ottobre 1984 ha avuto luogo a Trento un importante atto liturgico di riconciliazione tra la cristianità d'Oriente e d'Occidente: al termine di un incontro svoltosi a Riva del Garda, nel culto conclusivo celebrato nella cattedrale di Trento, il credo ecumenico niceno-costantinopolitano del 381 è stato letto nel testo greco originale (poi ripetuto da tutti i presenti in diverse lingue moderne) senza l'aggiunta occidentale del Filioque, che gli ortodossi considerano un'interpolazione arbitraria dei latini e che costituisce un ostacolo non secondario al ripristino della comunione tra Oriente e Occidente. L'episodio di Trento racchiudeva una promessa d'unità.

Dialoghi tra Chiese evangeliche. − Se nella prima metà del 20° secolo e nell'immediato dopoguerra fino agli anni Sessanta l'interdenominazionalismo protestante aveva dato luogo a varie forme associative di C. (federazioni, consigli federali) in genere su scala nazionale, a partire dagli anni Sessanta s'è manifestata nel protestantesimo sia europeo che americano l'esigenza di superare il modello federativo, per istituire, tra C. evangeliche, forme non solo di collaborazione ma di vera e propria comunione. In Europa questa esigenza ha dato un frutto importante: la Concordia di Leuenberg (1973) mediante la quale le due grandi famiglie confessionali nate con la Riforma protestante, cioè quella luterana e quella riformata, hanno stabilito tra loro piena comunione ecclesiale, sul fondamento di una comune comprensione dell'evangelo, del battesimo e della cena del Signore e in virtù del riconoscimento reciproco dei ministeri e delle Chiese. Settantasette C. luterane, riformate e unite d'Europa e tre C. sud-americane ad esse collegate hanno sottoscritto la Concordia, affermando che esse "appartengono insieme all'unica Chiesa di Cristo" (n. 34). Il protestantesimo europeo ha così compiuto il passo decisivo verso la sua 'unità nella diversità'. Dal 1973 al 1987 le C. firmatarie si sono ritrovate in tre assemblee plenarie (1976, 1981, 1987), per approfondire la comunione da poco istituita e proseguire il dialogo dottrinale su temi teologici ed etici rilevanti per la testimonianza comune in Europa.

Ciò nondimeno si deve constatare che, a quasi vent'anni ormai dall'entrata in vigore della Concordia, il processo di integrazione reale del protestantesimo europeo stenta a decollare: l'unità c'è, ma resta sullo sfondo; in primo piano ci sono le unità particolari delle C. territoriali o nazionali oppure le comunioni più vaste offerte dalla Conferenza delle C. europee e dal Consiglio ecumenico. Nella primavera del 1990, certo anche in relazione ai grandi, repentini mutamenti avvenuti nell'Europa dell'Est e, comunque, alla scadenza del 1992, decisiva nel processo d'integrazione europea, è stata avanzata l'idea di convocare un Sinodo evangelico d'Europa. Sarebbe il primo della storia. La proposta è attualmente allo studio.

Negli Stati Uniti, invece, l'esigenza di superare il modello federativo ha preso corpo in un progetto di comunione ecclesiale tra C. diverse, imperniato sull'idea di patto (Covenant). Vi sono coinvolte nove C. di diverse tradizioni: episcopale, presbiteriana, riformata, metodista, congregazionalista. L'obiettivo è di incamminarsi "verso una Chiesa veramente cattolica, veramente evangelica e veramente riformata". La piena comunione ecclesiale è fondata su un consenso nella confessione di fede, nella comprensione del culto, dei sacramenti e dei ministeri e si attua mediante il reciproco riconoscimento dei membri e delle Chiese. Il documento teologico che sta alla base del consenso è del 1984, mentre il processo di integrazione delle C. nella comunione mediante il patto (Covenanting process) è iniziato con un'apposita consultazione nel dicembre del 1988 e si prevede che possa concludersi con il pronunciamento delle singole C. entro il 1995. Se il responso sarà positivo, esse entreranno tra loro in ''comunione mediante il patto'' (Covenant communion).

Dialogo con gli ebrei. − Un capitolo a parte nella recente storia ecumenica delle C. evangeliche è quello dei loro rapporti con il popolo ebraico. È un capitolo che le C. hanno cominciato a scrivere solo dopo la fine della seconda guerra mondiale e il tentativo hitleriano, reso possibile anche da complicità ecclesiastiche dirette e indirette, di cancellare il popolo di Israele dall'Europa (e, potendo, dal mondo), annientandolo fisicamente. Questa tragedia senza nome è anche l'epilogo di quasi due millenni di antisemitismo cristiano, ora morbido, ora brutale. Le C. se ne sono rese conto e dal 1945 hanno avviato un faticoso ma fecondo processo di presa di coscienza sia in ordine alle loro responsabilità nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei, sia in ordine al significato teologico dell'esistenza del popolo ebraico accanto a loro, alla luce dei capitoli 9, 10 e 11 della Lettera ai Romani di Paolo. Molte C. evangeliche europee e americane hanno cominciato ad affrontare la questione con coraggio e capacità autocritica.

Particolarmente importanti sono due documenti. Il primo è la dichiarazione del Sinodo della C. evangelica della Renania, intitolata Per il rinnovamento dei rapporti tra cristiani ed ebrei (1980). Vi si riconosce, tra l'altro, "il perdurare dell'elezione del popolo ebraico come popolo di Dio", per cui cristiani ed ebrei sono, secondo le rispettive vocazioni, "testimoni di Dio davanti al mondo e gli uni davanti agli altri". Perciò la C. non può praticare nei confronti di Israele la stessa missione che pratica nei confronti di tutti gli altri popoli. Il secondo documento da segnalare è una dichiarazione dell'assemblea generale della C. presbiteriana in America (1987). Essa si caratterizza anzitutto per una critica più marcata degli elementi e atteggiamenti antiebraici presenti nella tradizione cristiana, in secondo luogo per l'affermazione secondo cui i cristiani devono ricordare che "gli ebrei stanno già, a motivo del patto, in un rapporto con Dio", e infine per un discorso sulla ''promessa della terra'' come parte integrante del patto divino, ma con questa precisazione: "Siamo uniti a coloro, fra le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei, che si dichiarano solidali con i Palestinesi i quali, in quanto espropriati, reclamano giustizia".

Accanto a questi documenti di C., ve ne sono già molti altri di comitati misti di cristiani ed ebrei. Inoltre molte C. e famiglie confessionali hanno avviato dialoghi con rappresentanti della comunità ebraica, riprendendo così le fila di un discorso interrotto quasi duemila anni or sono. Sono invece ancora piuttosto rare le esperienze di condivisione nel culto e nella preghiera.

Presenza nella società contemporanea. − Una delle conseguenze più appariscenti della secolarizzazione della società e della cultura che da almeno due secoli caratterizza gran parte del mondo moderno, a cominciare da quello tradizionalmente cristiano, è la progressiva marginalizzazione delle Chiese. Il corpus christianum s'è di fatto dissolto, anche se alcune sue forme caratteristiche resistono a oltranza, come sopravvivenze di epoche ormai tramontate. Ma il dilagare della secolarizzazione nella società post-industriale, mentre rarefà il numero dei praticanti e anche dei militanti nelle grandi C. storiche (Mainline Churches), non estingue il bisogno religioso di molti, anzi in qualche modo lo incentiva.

In questi ultimi anni, si sono consolidati due fenomeni paralleli che si richiamano e condizionano a vicenda: l'erosione numerica delle C. tradizionali da un lato, e dall'altro la crescita, talvolta tumultuosa, sia di nuovi culti non cristiani sia di gruppi e organizzazioni cristiane fondamentaliste. Per quanto concerne i nuovi culti, c'è un'espansione in Occidente, sia cattolico che protestante, delle grandi religioni mondiali (buddhismo, islamismo, induismo, nelle loro varie scuole o tendenze), che è proseguita con successo nell'ultimo decennio; ma c'è anche una proliferazione di altri gruppi, movimenti, associazioni religiose, per lo più di provenienza o ispirazione orientale e non di rado con tendenze gnosticheggianti (New Age religion).

Una parte dei protestanti allontanatisi dalla C. confluisce in questo universo religioso poco appariscente ma in crescita e ormai saldamente radicato nei paesi tradizionalmente cristiani. L'altro fenomeno religioso esploso (è il caso di dirlo) in questo decennio nell'area del protestantesimo storico, soprattutto statunitense (ma già esportato in alcuni paesi dell'America Latina) è il televangelismo e, intorno ad esso, due vasti movimenti d'opinione: la Nuova destra cristiana (New Christian right) costituitasi nel 1980 con lontane ascendenze maccarthiste, in appoggio alla candidatura di R. Reagan alla presidenza degli Stati Uniti, e la Moral majority fondata da J. Falwell. Questo mondo religioso comunemente detto evangelical è politicamente conservatore, culturalmente reazionario e spiritualmente 'revivalista'. È difficile valutare la consistenza e pronosticare la durata del fenomeno: è sintomatico, per esempio, che nel 1989 la Moral majority sia stata sciolta dal suo fondatore in quanto, secondo lui, ha esaurito il suo compito.

Anche in Europa c'è stato e c'è un protestantesimo evangelical (traslitterato in evangelikal nell'area linguistica tedesca) ma con caratteristiche in parte diverse: soprattutto è immune dalle fatue seduzioni e mistificazioni del televangelismo e non è così smaccatamente politicizzato come quello americano (o agguerrite frange di esso). In Europa il movimento numericamente e teologicamente più consistente s'è avuto in Germania, con l'organismo Kein anderes Evangelium ("Nessun altro Vangelo") fondato nel 1966 e con la ''Conferenza delle comunità confessanti'' creata nel 1970. Punto d'incontro di questo variegato mondo evangelical fu il Congresso internazionale per l'evangelizzazione del mondo avvenuto a Losanna nel 1974. Negli ultimi 15 anni la tensione tra le Chiese protestanti storiche e le correnti evangelical non si è sopita, i motivi di fondo del contrasto permangono: gli evangelicals continuano a essere una minoranza motivata e battagliera, ma i toni più duri della polemica sembrano essersi un poco smorzati e in qualche occasione il dialogo è subentrato all'anatema.

Se nei paesi tradizionalmente cristiani le C. protestanti storiche perdono membri per le ragioni accennate (oltre che, s'intende, per il basso tasso di natalità), diverso è il quadro offerto dalle C. nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, specialmente in Africa e in Asia. Qui si registra un incremento notevole, di cui beneficiano tutte le C. cristiane. Per esempio i luterani, che nel decennio 1978-88 hanno perso membri in Europa e negli Stati Uniti, sono invece cresciuti in Africa da 2.875.149 a 4.688.689 e in Asia da 2.762.339 a 4.072.364 membri. Assai più contenuto il loro incremento in America Latina (da 1.085.840 a 1.240.133) e in Oceania (da 678.183 a 754.678). Anche le C. che non registrano flessioni numeriche in Europa e in Nord America crescono molto più rapidamente nei paesi del Terzo Mondo che altrove. Così per es. i battisti africani erano 886.978 nel 1981 e 1.448.275 nel 1988, quelli asiatici (compresa l'Oceania) erano 1.580.210 nel 1981 e 2.328.058 nel 1988, mentre nello stesso periodo l'incremento dei battisti europei è stato di sole 36.826 unità (da 1.074.117 a 1.110.943). Se queste linee di tendenza dovessero essere confermate nei prossimi decenni, si può prevedere che in un futuro non molto lontano le C. evangeliche, come le altre C. cristiane, saranno sempre meno caratterizzate − numericamente, culturalmente, spiritualmente − come fenomeno ''occidentale''.

Malgrado la flessione numerica che possono aver subito, le C. evangeliche costituiscono ancora, alla fine degli anni Ottanta, in diversi paesi o regioni d'Europa e del Nord America, la maggioranza della popolazione. Si tratta tuttavia di una maggioranza 'anagrafica', la cui appartenenza alla C. è, in molti casi, un fatto più sociale che propriamente spirituale. La C. resta comunque l'organizzazione di base più diffusa. Forse è per questo che proprio là dove il processo di secolarizzazione ha raggiunto lo stadio più avanzato (come in alcuni paesi di antica tradizione protestante, per esempio quelli scandinavi), le C. continuano a esistere e a operare come 'C. di Stato', senza che ciò sia stato finora seriamente messo in questione né dalla C. né dallo Stato. È un paradosso istruttivo: società secolare e Stato (blandamente) confessionale si danno la mano.

Ma sia in questa situazione sia in quella, assai più comune, in cui C. evangeliche e Stato vivono in regime di reciproca autonomia (anche là dove c'è, a vari livelli, collaborazione), il problema maggiore, sulla soglia degli anni Novanta, resta quello del rapporto tra le C. e la massa dei battezzati. Non solo perché è ormai ragguardevole il numero dei cosiddetti 'cristiani senza Chiesa', cioè di coloro che preferiscono coltivare e praticare il cristianesimo fuori delle istituzioni ecclesiastiche; ma soprattutto perché appare legittimo, almeno pensando alla situazione odierna delle C. evangeliche (e non solo evangeliche) in Europa, porre la domanda seguente: le C. sono ancora luoghi di comunicazione di massa? Esse riescono ancora a inquadrare religiosamente la popolazione. Ma riescono anche a comunicare con essa? Ci sarebbe da dubitarne se si pensa, per es., al livello allarmante di analfabetismo religioso imperante nei paesi di tradizione cristiana, malgrado i grandi investimenti, in uomini e mezzi, fatti dalle C. in campo catechistico, per istruire bambini, giovani e adulti. Il risultato non è confortante. Per molti, anche in Europa, il cristianesimo è di nuovo, come per gli Ateniesi del primo secolo, l'annuncio di "cose strane", la predicazione di un "dio straniero" (Atti degli Apostoli 17, 20 e 18).

C'è un altro aspetto della presenza delle C. evangeliche nella società contemporanea, che va menzionato. Malgrado la loro posizione di effettiva e, si direbbe, crescente marginalità, anche in paesi o regioni in cui conservano, tutto sommato, una consistenza sociologica ragguardevole, le C. evangeliche continuano a esercitare − in forme e misure diverse ma, si può dire, senza eccezioni, tranne nei paesi in cui la legge dello Stato glielo vieta − un'estesa e capillare attività diaconale, che dal 2° dopoguerra in poi è ininterrottamente cresciuta, quantitativamente e qualitativamente. Al crescente impegno nel sociale s'è accompagnato, proprio in questi ultimi anni, un animato dibattito critico interno su senso e funzione della diaconia cristiana nella società contemporanea: non di supplenza nei confronti di uno Stato latitante ma di esempio e incentivo perché esso assuma tutte le sue responsabilità in questo campo. La C. è per sua natura una comunità diaconale al servizio − qualificato professionalmente e motivato vocazionalmente − della persona umana sofferente o bisognosa. Il campo d'intervento è vastissimo e in continua mutazione, perché, accanto ai vecchi, 'nuovi poveri' si affacciano ai margini della società opulenta, che li attira o li produce, e comunque li respinge. Nella misura in cui la diaconia della C. si svolge realmente sulla frontiera sempre mobile dell'emarginazione sociale, essa costituisce un contributo non secondario a quella umanizzazione della società che è condizione stessa della sua sopravvivenza.

Una parola, infine, sul ruolo svolto dalle C. evangeliche nella ''grande svolta'' ('rivoluzione' la chiamano i protagonisti) avvenuta nell'Est europeo negli ultimi mesi del 1989 e nei primi del 1990. È ancora presto per dare una valutazione complessiva. Certamente nella Repubblica Democratica Tedesca e in Romania le C. evangeliche hanno svolto un ruolo di primo piano. In altri paesi invece, come la Cecoslovacchia e l'Ungheria, in cui pure le C. evangeliche, benché minoritarie, hanno una certa consistenza numerica e da secoli fanno parte integrante della storia nazionale, non hanno svolto un ruolo particolarmente significativo. Il quadro, dunque, non è omogeneo e i giudizi dovranno essere differenziati. In attesa di conoscere e capire meglio l'intera vicenda, si possono fare tre rilievi.

Il primo è che specialmente in Germania orientale le C. hanno effettivamente preparato la svolta, offrendosi già da molti anni come spazi di libertà, in cui gruppi e personalità dissidenti potevano riunirsi e parlare: la libertà della parola di Dio ha generato la libertà delle parole degli uomini. Il secondo rilievo è che là dove le C. sono riuscite a mantenere una relativa indipendenza resistendo al tentativo del regime di asservirle e strumentalizzarle, esse hanno acquistato credibilità anche agli occhi dell'opinione pubblica secolarizzata, che ha espresso la sua fiducia affidando a non pochi uomini di C. (per lo più pastori) posti di alta responsabilità politica. Quel che invece non è accaduto è un incremento numerico di fedeli: le grandi folle che riempivano le C., dopo la svolta, si sono dileguate. Il terzo rilievo è che in alcune C. la svolta ha determinato una crisi profonda: molte leaderships ecclesiastiche, giudicate conniventi o troppo condiscendenti con l'establishment comunista, hanno perso ogni credito presso la base e hanno dovuto dimettersi o sono state destituite.

Linee di testimonianza. − La testimonianza è la ragione d'essere della C., perciò la storia della C. è anche storia della sua testimonianza. Nell'ambito della cristianità evangelica si sono manifestate, a partire dagli anni Sessanta, due tendenze assai diverse, in tensione critica e talvolta aspramente polemica tra loro, come abbiamo già accennato. La prima, maggioritaria, prevalente nelle grandi C. storiche, comporta un approccio scientifico, e perciò critico, alla Sacra Scrittura, al dogma e alla teologia, favorisce e promuove il movimento ecumenico, pratica la 'teologia del dialogo' con le altre religioni e la cultura laica, accetta il rischio di prese di posizione e azioni politiche non solo individuali, come singoli cristiani, ma collettive, come comunità cristiane. La seconda tendenza, minoritaria ma combattiva, diffida della teologia accademica, rifiuta l'approccio critico alla Bibbia, vede nell'ecumenismo il pericolo di un cedimento della coscienza confessante e missionaria della fede, nega la legittimità cristiana di un impegno diretto della C. nelle vicende politiche, guarda con sospetto la 'teologia del dialogo' ritenendola rinunciataria e velleitaria insieme. Tra C. storiche e mondo evangelical non ci sono stati scismi; dopo gli scontri iniziali, si è creata e accettata una situazione di coesistenza senza convergenza, tuttora vigente.

La testimonianza delle C. storiche negli ultimi due decenni s'è svolta prevalentemente lungo le linee contestate dagli evangelicals, cioè quella ecumenica e quella politica. Della prima abbiamo già detto. Della seconda occorre anzitutto cogliere la novità. Tradizionalmente le C. sono state (e in larga misura sono ancora) un fattore d'ordine, di stabilità politica e consenso sociale. A partire dagli anni Cinquanta del nostro secolo, un grande mutamento è avvenuto e sta avvenendo nella coscienza cristiana: sempre più spesso e in contesti molto diversi la C. diventa strumento di presa di coscienza politica e forza d'opposizione, con esiti destabilizzanti per il potere costituito. Non è un caso che il ricco martirologio cristiano di questi ultimi decenni (si pensi, in campo evangelico, al pastore battista M. L. King e in campo cattolico all'arcivescovo O. Romero, ma i nomi sono migliaia) sia quasi tutto politicamente qualificato: molti cristiani subiscono il martirio per i risvolti politici 'sovversivi' della loro testimonianza.

Come si è giunti a questa svolta? Essenzialmente per due vie. La prima è quella percorsa dalla C. evangelica confessante nella Germania hitleriana. Anche se la sua opposizione fu diretta più contro la C. asservita al regime nazista che contro il regime stesso, fu quella l'occasione di una presa di coscienza fondamentale: il nesso possibile, e in quel caso irrinunciabile, tra confessione di fede e opposizione al potere costituito, tra resistenza teologica e resistenza politica. Questa esperienza decisiva della C. confessante tedesca, emblematicamente riassunta nella figura del pastore, teologo, cospiratore politico, martire D. Bonhoeffer, giustiziato il 9 aprile 1945 nel campo di sterminio di Flossenbürg, è stata dopo la guerra universalizzata attraverso il Movimento ecumenico ed è diventata patrimonio di molta parte della cristianità non solo evangelica.

La seconda via per la quale si è giunti alla maturazione della coscienza politica delle C. è quella percorsa dai cristiani del Terzo Mondo e dai neri americani (per lo più appartenenti a C. evangeliche) che si sono mobilitati contro la povertà, il sottosviluppo, lo sfruttamento, l'oppressione sociale e razziale. Qui più chiaramente che altrove divenne chiaro che la mobilitazione contro l'ingiustizia sociale e le sue cause è compito irrinunciabile della C. perché è parte integrante dell'annuncio e della pratica dell'evangelo cristiano. Il Sud povero del mondo cristiano ha così evangelizzato politicamente e spiritualmente il Nord ricco, e la cristianità evangelica nel suo insieme, pur tra resistenze e opposizioni come s'è visto, ha preso coscienza delle inderogabili implicazioni politiche dell'Evangelo che essa proclama e della necessità per la C. di viverle come parte costitutiva della sua testimonianza.

Non potendo qui descrivere tutti gli aspetti e momenti di questo vasto processo in pieno svolgimento, ci limitiamo, a titolo di esempio, a documentarne tre, in primo piano specialmente nell'ultimo decennio: la questione del razzismo e, in particolare, dell'apartheid in Sud Africa; la pace; i diritti umani.

Per quanto concerne il razzismo e l'apartheid, che è la più iniqua e la più violenta delle sue forme istituzionali, è successo nel 1982 un fatto del tutto inedito nella lunga storia dell'Alleanza riformata (che raccoglie la larga maggioranza dei riformati di tutto il mondo; fu fondata a Edimburgo nel 1877): l'assemblea generale di Ottawa, dopo aver dichiarato "con i cristiani riformati neri dell'Africa del Sud che l'apartheid è un peccato e che la sua giustificazione morale e teologica è una parodia dell'Evangelo e che nella sua pervicace disubbidienza alla parola di Dio è un'eresia teologica", e dopo aver constatato che due C. sudafricane bianche, malgrado ripetuti colloqui con l'Alleanza "non hanno ancora trovato il coraggio di prendere coscienza del fatto che l'apartheid contraddice la natura stessa della Chiesa e oscura l'Evangelo davanti al mondo", per cui continuano a praticarlo e sostenerlo, ha preso la decisione dolorosa ma inevitabile di sospenderle come C.-membro dell'Alleanza.

S'è trattato, in sostanza, di una forma di scomunica, che trascrive sul piano della disciplina ecclesiastica la scomunica dell'apartheid. La formula della ''sospensione'' non attenua la gravità del giudizio, apre soltanto la possibilità di una reintegrazione qualora le due C. "abbiano dimostrato nelle loro dichiarazioni e nella loro prassi un cambiamento del cuore". Il senso della decisione di Ottawa è chiaro: praticare l'apartheid non è solo una trasgressione morale, è un'''eresia teologica''; non è solo negazione dell'amore, è rinnegamento della fede. Davanti all'apartheid le C. si trovano in uno status confessionis: è in gioco non soltano la coerenza tra vita e fede ma la fede stessa.

Due anni più tardi, l'assemblea generale della Federazione luterana mondiale (Budapest 1984) ha preso una posizione analoga nella motivazione e identica nella sanzione, nei confronti di due C.-membro, una del Sud Africa, l'altra della Namibia.

Un altro fatto significativo (e inedito rispetto al passato) è che nel corso dell'ultimo decennio molte C. evangeliche europee e americane finanziariamente forti hanno deciso di ritirare tutti i loro fondi depositati presso banche direttamente o indirettamente coinvolte in iniziative industriali o commerciali con il Sud Africa. Gli esiti morali, materiali e psicologici di queste decisioni sono stati tutt'altro che irrilevanti, come qualcuno pensava o sperava. Intanto, delle due C. riformate sospese a Ottawa, una s'è ritirata dall'Alleanza e l'altra non ha modificato il proprio comportamento: perciò l'Alleanza, nella sua ultima assemblea generale (Seul, agosto 1989), ha confermato la sospensione del 1982. In Sud Africa, comunque, il fronte cristiano anti-apartheid si allarga: fra i protagonisti ci sono il vescovo anglicano Desmond Tutu e il pastore riformato Allan Boesak.

Un altro polo intorno a cui è ruotata la testimonianza delle C. evangeliche nell'ultimo decennio è quello della pace. Dopo la seconda guerra mondiale, ma soprattutto a partire dagli anni Settanta (non senza rapporti con il trauma della guerra del Vietnam, subìto profondamente da tutto l'Occidente), s'è fatta strada nella coscienza dei credenti la convinzione che la pace come esperienza personale e progetto collettivo è parte integrante e qualificante dell'esistenza e testimonianza cristiana: il cristiano è come tale uomo di pace, che semina pace intorno a sé e la costruisce insieme agli altri.

Il protestantesimo tedesco, rompendo con la tradizione militarista del proprio paese, è stato protagonista in questo processo di presa di coscienza. Un ruolo determinante è stato svolto dai Kirchentag, grandi assemblee di base convocate dal 1949 in poi ogni due anni in diverse città della Germania intorno ai temi cruciali della testimonianza cristiana nel nostro tempo. Attraverso i Kirchentag centinaia di migliaia di evangelici sono stati sensibilizzati alle tematiche della pace. Non stupisce quindi che proprio dalla Germania sia venuta pochi anni or sono la parola sulla pace più meditata e meglio motivata tra tutte quelle pronunciate dalle C. evangeliche negli ultimi decenni. Si tratta di un ampio documento intitolato La confessione di fede in Gesù Cristo e la responsabilità della Chiesa per la pace, adottato all'unanimità e pubblicato nel 1982 dal direttivo (Moderamen) dell'Alleanza riformata della Germania Federale. Il pregio maggiore del documento sta nella solidità del suo impianto teologico, mentre la sua novità consiste nell'affermazione secondo cui oggi, di fronte alla minaccia costituita dai mezzi di distruzione di massa, la questione della pace − come quella dell'apartheid- pone i cristiani nello status confessionis, cioè davanti all'alternativa di confessare o rinnegare l'Evangelo e, con esso, la loro stessa fede.

Questo punto di vista s'è rivelato tutt'altro che pacifico nelle C. e tra i teologi, scatenando un dibattito vivacissimo non ancora sopito. Ma al di là della controversia teologica resta il fatto che in questo scorcio di secolo (uno dei più bellicosi e insanguinati di tutta la storia umana) la pace sta diventando, nei propositi delle C., una priorità della loro testimonianza. Questo orientamento è condiviso da molte C., non solo evangeliche: basti pensare alla riuscita assemblea ecumenica di Basilea (maggio 1989) intorno al tema ''Pace nella giustizia'' e, più in generale, al programma ''Giustizia, pace, integrità del creato'' che costituisce uno dei progetti principali del Consiglio ecumenico delle C. per gli anni Novanta, anche oltre l'assemblea mondiale di Seul (marzo 1990) che gli è stata dedicata.

Uno dei tratti salienti dell'odierno movimento cristiano per la pace è che quest'ultima è vista e promossa non isolatamente ma in stretta correlazione con la giustizia e la salvaguardia del creato: la pace è, insieme, politica, sociale, religiosa, ecologica; ciascun aspetto presuppone gli altri e si invera in essi. È però doveroso, terminando, segnalare un rischio che incombe sul pacifismo oggi predicato dalle C.: quello di ridursi a un'escalation di parole, a un radicalismo verbale senza riscontri reali nella vita dei cristiani. È il rischio di una testimonianza retorica sulla pace.

Un terzo ambito 'politico' al quale le C. evangeliche hanno collegato la loro testimonianza nel decennio trascorso è quello dei diritti umani. Molti documenti sono stati redatti e diffusi. Particolarmente importante è quello sul ''Fondamento teologico dei diritti umani'', pubblicato nel 1976 dall'Alleanza riformata. Vi si legge tra l'altro: "Questi diritti, cioè le libertà personali e il benessere sociale, sono fondamentali per la dignità umana. Al centro del primo c'è il rispetto per l'umanità degli altri. Al centro del secondo c'è la giustizia del condividere le risorse e il potere del mondo. Entrambi sono fondamenti secolari di quella comunità responsabile che Dio vuole per il suo popolo e implicano una lotta contro i poteri di questo mondo".

Ma piuttosto che moltiplicare le citazioni (che risuonano da tutti i pulpiti), conviene riferire un esempio concreto di difesa dei diritti umani dato da un certo numero di C. evangeliche americane a partire dagli inizi degli anni Ottanta. Si tratta dell'iniziativa chiamata Sanctuary Movement. Riallacciandosi alla tradizione biblica in vigore per un certo periodo secondo cui un uomo minacciato, se si teneva presso l'altare del santuario, aveva salva la vita (I Re 1, 50; 2, 28), diverse C. locali con i loro pastori si sono fatte 'santuario' per gli immigrati clandestini dall'America Centrale, provenienti dai paesi a regime dittatoriale di quella regione. Trattandosi di persone immigrate illegalmente, in base alla legge americana dovevano essere rimpatriate, ma il rimpatrio poteva essere, per loro, fatale. Per tal motivo, sfidando la legge, le C. hanno offerto loro accoglienza e protezione, anche legale, pur esponendosi, a loro volta, alle sanzioni della legge. Anche se non pochi pastori sono stati incarcerati, il rimpatrio degli immigrati, di solito, è stato impedito. Così, il Sanctuary Movement è stato un modo originale ed efficace di riconoscere ai clandestini i 'diritti umani' che la legge negava loro. Nel 1985 più di 200 C. e Sinagoghe si erano fatte 'santuario'.

Infine, a proposito di testimonianza, c'è da segnalare il fatto che diverse C., in tutti i continenti, hanno voluto riformulare in linguaggio odierno l'''essenziale della fede'' cristiana ed evangelica. Il testo più recente, in questa linea, è la "Breve Dichiarazione di fede" (A brief statement of faith) presentato alla 202ª assemblea generale della C. presbiteriana degli Stati Uniti, nel 1990. Molte altre, anche molto ampie, l'hanno preceduta negli ultimi trent'anni. Queste dichiarazioni o confessioni di fede rivelano gli aspetti del messaggio cristiano che le C., nei diversi contesti in cui operano, mettono oggi in maggiore evidenza nella catechesi e nella predicazione.

Resta da accennare, concludendo, ai problemi più controversi fra quelli dibattuti nelle C. nell'ultimo decennio. Variano, ovviamente, secondo i luoghi e i tempi, ma due almeno vanno menzionati sia per le novità che rappresentano sia per le lacerazioni che hanno provocato: il primo è la consacrazione (od ordinazione) di ministri omosessuali, il secondo è l'applicazione a Dio di un linguaggio inclusivo.

La controversia sull'omosessualità è divampata in particolare nella C. unita del Canada che nel 1988, nel corso del suo 32° consiglio generale, aveva dichiarato che tutte le persone che confessano la fede in Gesù Cristo e gli prestano ubbidienza, possono essere membri di C. "indipendentemente dal loro orientamento sessuale", e che "tutti i membri ... sono eleggibili a essere presi in considerazione per il ministero ordinato". Anche se l'ordinazione di omosessuali e lesbiche non è esplicitamente affermata, è però preventivata come possibile. Si poteva temere (e qualcuno prevedeva) un esodo di pastori a motivo di questa decisione. Ma non c'è stato: solo 36 pastori su 4000 hanno lasciato la C. unita del Canada. Altre C. protestanti, intanto, si sono pronunciate diversamente. Nel 1978 l'assemblea generale dei presbiteriani d'America ha dichiarato che "la pratica omosessuale recidiva non s'accorda con i requisiti per l'ordinazione". Nel 1984 la C. metodista unita s'è così espressa: "Siccome l'omosessualità è incompatibile con l'insegnamento cristiano, omosessuali confessi e praticanti non devono essere accettati come candidati, né ordinati ministri, né incaricati di servire nella Chiesa metodista unita". I luterani d'America, infine, hanno ribadito nel 1988 che omosessuali dichiarati e praticanti non possono essere ordinati pastori.

In Europa la situazione non è chiara. Nelle C. c'è reticenza e imbarazzo. Esse affrontano la questione solo se costrette, quando si presentano casi di omosessualità dichiarata da parte di pastori o candidati al ministero. In generale l'omosessualità non è più considerata peccato (tranne che negli ambienti conservatori di orientamento fondamentalista). Ma l'omosessualità di un pastore non viene considerata semplicemente una questione individuale e privata, perché un pastore, come ministro della C., "è anche rappresentante della dottrina della chiesa", e l'omosessualità "contraddice la norma della dottrina cristiana". Così si legge in una presa di posizione della Commissione teologica della C. luterana unita di Germania (VELKD) del 1979, cui ha fatto seguito un più ampio documento ufficiale della stessa C. intitolato Pensieri e criteri per il servizio di omòfili nella Chiesa (1980). Vi si afferma, in sostanza, che un pastore può essere omosessuale (a nessun candidato al ministero o all'ordinazione si chiede se è omosessuale o no) ma non può vivere liberamente e pubblicamente come tale. In altri termini, l'omosessualità dei pastori è ammessa o tollerata finché non diventa fatto pubblico; in caso di omosessualità pubblicamente dichiarata e praticata, il pastore dovrà rinunciare al ministero. In particolare non sono autorizzate coppie omosessuali nelle case pastorali. Queste posizioni dei direttivi delle C. sono state aspramente criticate come ambigue e insoddisfacenti da gruppi di omosessuali credenti. La questione, dunque, è più che mai aperta.

Altrettanto aperta e controversa è la questione del linguaggio più idoneo a esprimere la realtà di Dio, in sé e nella sua rivelazione. La discussione, molto animata, è appena iniziata e impegnerà a lungo le Chiese. Tradizionalmente esse parlano di Dio al maschile, pur sapendo che Dio non è né maschio né femmina. È evidente che un linguaggio esclusivamente maschile può essere riduttivo e, alla lunga, fuorviante. Il linguaggio inclusivo cerca di superare questo limite senza compromettere il carattere personale del Dio della fede cristiana. Di recente in alcune C. hanno cominciato a circolare preghiere e inni a Dio ''Padre e Madre'', e non più soltanto, com'è stato finora, a Dio ''Padre''. Siccome però ''Padre'' è il nome di Dio specialmente rivelato da Gesù, ci sono forti resistenze ad accogliere qualsiasi modifica, anche aggiuntiva: si teme che un Dio ''Padre e Madre'' non sarebbe più il Dio di Gesù. La questione è molto delicata e complessa. Il tempo delle decisioni è ancora lontano. Molte C. stanno appena prendendo coscienza del problema.

La presenza in Italia. − L'avvenimento principale di quest'ultimo decennio di storia del protestantesimo italiano è senza dubbio la stipula di intese tra lo Stato italiano e alcune C. evangeliche, in tardiva attuazione dell'art. 8 della Costituzione della Repubblica italiana secondo cui i rapporti tra le confessioni religiose, diverse dalla cattolica, e lo Stato "sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze". La prima intesa, che ha aperto la strada costituendo una sorta di modello per quelle successive, è stata quella con le C. rappresentate dalla Tavola Valdese, firmata il 21 febbraio 1984 e trasformata in legge dello Stato nell'agosto dello stesso anno. Il principio ispiratore dell'intesa può essere così formulato: le C. rappresentate dalla Tavola Valdese intendono vivere nello Stato italiano in un regime di libertà senza privilegi. In seguito, altre due intese sono state concluse: quella con l'Unione italiana delle C. avventiste del 7° giorno e quella con le Assemblee di Dio in Italia, entrambe firmate il 29 dicembre 1986. L'intesa con l'Unione delle C. battiste è avviata.

Altro fatto di rilievo nel decennio è la decisione del Sinodo valdese del 1988 di rinunciare alla possibilità, offerta dallo Stato alle C. con cui aveva stipulato un'intesa, di partecipare con lo Stato stesso e la C. cattolica alla ripartizione dell'8‰ del gettito complessivo IRPEF, in proporzione alle scelte indicate da ogni singolo contribuente. Pentecostali e avventisti hanno accettato l'offerta. La decisione del Sinodo valdese è stata molto combattuta: la mozione relativa è stata approvata con un solo voto di scarto. L'opinione della C., al riguardo, è divisa. Il dibattito continua.

Non si è placata in questi anni la polemica intorno all'insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica. La stessa magistratura ha emesso sentenze difformi in ordine alla facoltatività o meno della cosiddetta ''ora alternativa'' prevista per gli alunni che non si avvalgono dell'istruzione religiosa cattolica. Al di là dell'''ora di religione'' sono in gioco questioni di fondo quali la laicità della scuola pubblica e l'uguaglianza di tutti i cittadini nella libertà. Non vi sono per ora segnali di una prossima soluzione del problema accettabile per tutti.

Storica, infine, si può considerare la decisione presa nel 1988 dalla C. cattolica romana e dalla C. valdese di avviare tra loro un ''dialogo ufficiale''. Non era mai accaduto prima. Le due delegazioni, nominate rispettivamente dalla Conferenza episcopale e dal Sinodo valdese, hanno affrontato la spinosa questione dei matrimoni interconfessionali.

Bibl.: R. H. Boyd, India and the Latin captivity of the Church. The cultural context of the Gospel, Cambridge 1975; The Orthodox Church and the Churches of the Reformation. A survey of Orthodox-Protestant dialogues, Faith and Order Paper 76, WCC, Ginevra 1975; Homosexuelle Christen. Zur Hoffnung berufen?, AG ''Homosexuelle und Kirche'', Colonia 1979; Gedanken und Masstäbe zum Dienst von Homophilen in der Kirche, Luth. Kirchenamt der VELKD, Hannover 1980 (ciclostilato); Weg und Zeugnis. Bekennende Gemeinschaften im gegenwärtigen Kirchenkampf 1965-1980, a cura di R. Bäumer, P. Beyerhaus, F. Grünzweig, Bielefeld 1980 (19812); Zagorsk I-III. Die theologischen Gespräche zwischen der Russischen Orthodoxen Kirche und dem Bund der Evangelischen Kirchen in der DDR. Berichte - Referate - Dokumente, a cura di Ch. Demke, Berlino 1982; Reformed witness today. A collection of confessions and statements of faith issued by Reformed Churches, a cura di L. Vischer, Berna 1982; Ottawa 1982, a cura di E. Perret, Ginevra 1983; Chiamati ad essere testimoni dell'Evangelo oggi. Un invito alla riflessione e all'azione dall'Assemblea dell'Alleanza Riformata Mondiale, Torino 1984; Budapest 1984. ''In Christ - Hope for the World'', a cura di C. H. Mau, Ginevra 1985; The COCU Consensus. In quest of a Church of Christ Uniting, Princeton 1985; Lehrverurteilungen - Kirchentrennend? I. Rechtfertigung, Sakramente und Amt im Zeitalter der Reformation und heute, a cura di K. Lehmann e W. Pannenberg, Gottinga 1986; J. Moltmann, La diaconìa. Il cristiano nella prospettiva del Regno di Dio, trad. it., Torino 1986; New religious movements and the Churches, a cura di A. R. Brockway e J. P. Rajashek, Ginevra 1987; Die Kirchen und das Judentum. Dokumente von 1945-1985, a cura di R. Rendtorff e H. H. Henrix, Paderborn-Monaco 1988; Konkordie und Ökumene. Die Leueneberger Kirchengemeinschaft in der gegenwärtigen ökumenischen Situation, a cura di A. Birmelé, Francoforte sul Meno 1988; A. Ribet, Per un'alternativa al Concordato. Testo commentato dell'Intesa tra Stato italiano e chiese rappresentate dalla Tavola Valdese, Torino 1988; M. Rubboli, Religione alle urne. Gli ''evangelicals'' e le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ivi 1988; The theology of the Churches and the Jewish people. Statements by the World Council of Churches and its member Churches, a cura di A. Brockway e R. Rendtorff, Ginevra 1988; Who are the Anglicans? Profiles and maps of the Anglican Communion, a cura di Ch. H. Long, Cincinnati (Ohio) 1988; Churches in Covenant communion. The Church of Christ Uniting, Princeton 1989; Handbook of member Churches, World Alliance of Reformed Churches, Ginevra 1989; R. Rendtorff, Hat denn Gott sein Volk verstossen? Die evangelische Kirche und das Judentum seit 1945. Ein Kommentar, Monaco 1989; P. Ricca, Le chiese evangeliche e la pace, Firenze 1989.

Per quanto riguarda i rapporti tra C. e Stato, v. stato e chiesa, in questa Appendice.

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