CHIMICA ANALITICA CLINICA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

CHIMICA ANALITICA CLINICA

Vincenzo Carunchio

È la parte della chimica analitica che si occupa dello studio delle metodologie che si applicano nelle analisi di laboratorio che interessano il settore clinico. Questa disciplina rappresenta un mezzo di notevole ausilio per il contributo alla formulazione delle diagnosi cliniche, poiché dalla presenza e dal contenuto di particolari specie chimiche in determinati reperti dell'organismo si possono valutare le eventuali variazioni significative rispetto alle condizioni considerate normali, e quindi avere indicazioni sulla fisiopatologia dell'individuo sotto controllo.

Requisiti analitici. − A causa delle sempre più numerose opportunità offerte dalla tecnologia per la introduzione e lo sviluppo di nuove metodologie, la c.a.c. ha soprattutto il compito di procedere alla scelta del sistema analitico che, trasferito a livello operativo (laboratorio di analisi chimico-cliniche), risulti della massima attendibilità, sia cioè dotato di elevato grado di affidabilità rispetto ai requisiti che caratterizzano un metodo di analisi, quali l'accuratezza, la precisione, la sensibilità e la specificità.

L'accuratezza rappresenta una valutazione tra il valore misurato e il valore vero di un campione. Pertanto un metodo analitico è tanto più accurato, quanto più il risultato che da esso si ottiene si avvicina al valore vero. Per quest'ultimo si prende come riferimento il valore del campione standard. Spesso ciò non è possibile ed allora è evidente che il valore che viene preso come vero è quello accettato e dipende dai limiti connessi con le operazioni impiegate per ''accertare la verità''. La precisione rappresenta una valutazione dell'accordo tra i valori delle singole misure che vengono effettuate con un determinato metodo. Si può avere perciò una maggiore indicazione sulla precisione quanto più grande è il numero delle misure effettuate. La precisione di una analisi si valuta in funzione della ripetibilità della misura (che esprime la concordanza dei valori ottenuti dallo stesso operatore e nelle stesse condizioni) e dalla riproducibilità delle misure (che indica il grado di concordanza tra misure ottenute da operatori diversi e in laboratori diversi). La sensibilità di un metodo analitico rappresenta, in termini rigorosi, la pendenza della curva di calibrazione, che si costruisce sperimentalmente riportando in ascisse i valori delle concentrazioni ed in ordinata i valori delle misure corrispondenti. Nelle espressioni correnti la sensibilità viene spesso confusa con il limite di rivelabilità che serve a indicare, invece, la minima quantità della specie che può essere determinata con un certo metodo. La specificità di un metodo analitico fornisce indicazioni sulla validità di effettuare la determinazione di una specie in presenza di altre.

La condizione ottimale nell'effettuare il riconoscimento e il dosaggio di una sostanza sarebbe quella di disporre di un metodo specifico, cioè valido soltanto per quella determinata sostanza; ma, presentandosi molto raramente questa occasione, la possibilità di disporre di un metodo che ''privilegi'' la sostanza in esame in presenza di altre (vale a dire un metodo selettivo verso di essa) rende più che accettabile la situazione. Nelle applicazioni biomediche, dove la composizione dei campioni da analizzare è particolarmente complessa, la ricerca di metodi di analisi selettivi è molto sentita, dato che in loro mancanza diventa necessario effettuare opportune operazioni (precipitazioni, estrazioni, ecc.), le quali, tra l'altro, non sempre assicurano la riuscita ottimale del procedimento.

Errori. − Poiché l'accuratezza e la precisione sono termini che non forniscono elementi quantitativi ma soltanto criteri di valutazione, un modo diffuso di esprimere tali proprietà in maniera razionale è quello di operare mediante l'identificazione dell'errore o meglio della deviazione. L'errore infatti rappresenta la differenza tra il valore ottenuto e il valore vero, mentre la deviazione indica il grado di dispersione (scostamento) dal valore vero. Il risultato che l'operatore fornisce deve rappresentare il valore medio delle singole misure e la possibilità di ottenere il valore reale aumenta con l'aumentare del numero delle prove effettuate.

È noto dalla statistica che se in un grafico si riporta il numero delle volte (frequenza) che un dato valore è stato ottenuto in una serie di misure che dovrebbero fornire lo stesso valore, si constata che nella maggior parte dei casi i punti sono distribuiti in prossimità di una linea, simmetrica rispetto all'asse delle ordinate e rispondente all'equazione di Gauss. Curve di questo tipo, dette gaussiane, stanno a dimostrare la distribuzione statistica dell'errore e sono caratterizzate da un punto di massimo, corrispondente al valore medio, e da due punti di flesso corrispondenti alla ''deviazione standard'', indicata con σ, che caratterizza la frequenza degli scostamenti dal valore medio.

Da opportuni calcoli sulla gaussiana si ricava che le misure con valori che si discostano di ±j dal valore medio costituiscono il 68,27% del totale, quelle che si discostano di ±2σ costituiscono il 95,45% e se si estende l'intervallo a ±3σ i valori diventano il 99,73% cioè la quasi totalità delle misure. L'ampiezza e la forma della gaussiana forniscono indicazioni sulla precisione, nel senso che quando la deviazione standard è molto piccola si ottengono curve strette, mentre curve allargate si verificano con deviazioni notevoli.

Gli errori possono essere classificati in due categorie: sistematici o determinati e casuali o accidentali. I primi influiscono su una serie di misure allo stesso modo e manifestano la loro incidenza sull'accuratezza del metodo. Errori di questo tipo possono essere eliminati se la sistematicità è imputabile alle operazioni che si compiono (uso improprio di apparecchi, scelte errate delle condizioni operative), mentre non possono essere evitati se dipendono dal metodo applicato. Gli errori casuali o accidentali sono difficilmente catalogabili in quanto dipendono da fattori che è difficile controllare, come l'abilità dell'operatore, oppure dalle apparecchiature (variazione di tensione, variazione di flusso) oppure dall'ambiente (variazione di temperatura, variazione dell'umidità). Data quindi la scarsa capacità di razionalizzare l'incidenza di tali errori, si comprende come soltanto con un numero elevato di misure si riesca a ridurre l'imprecisione.

Controllo di qualità. − In aggiunta a questi criteri di carattere generale per la valutazione dei metodi analitici, va tenuto presente che i laboratori di analisi chimico-cliniche, i quali rappresentano i fruitori dei risultati della ricerca che si sviluppa in c.a.c., presentano esigenze del tutto particolari rispetto ad altri laboratori che sono interessati all'analisi chimica di materiali di natura diversa (acque, alimenti, medicinali, rifiuti, ecc.), principalmente perché dai primi la risposta (il risultato), che occorre ai fini di una pronta diagnosi, deve essere fornita nel più breve tempo possibile, ed inoltre perché l'analisi viene generalmente condotta su campione unico. Queste situazioni contingenti non consentono quindi di seguire le scrupolose indicazioni che sono raccomandate per limitare gli errori accidentali e quindi l'imprecisione. Non verificandosi perciò le condizioni per applicare i descritti criteri della media e delle deviazioni, per far fronte a questa situazione nella c.a.c. viene seguito un sistema di controllo che, attraverso la raccolta di dati di una rete di laboratori opportunamente collegati, consente di individuare variazioni che mettono in evidenza errori casuali ed errori sistematici. La realizzazione di un sistema di ''controllo di qualità'', che è di fondamentale necessità per l'andamento razionale e corretto dell'intera organizzazione dei laboratori di analisi chimico-cliniche, richiede una preparazione che presenta anche aspetti di natura amministrativa e legislativa. Dal punto di vista operativo, una volta realizzate le condizioni strutturali e organizzative, è fondamentale disporre di campioni di controllo sui quali effettuare le analisi contestualmente ai campioni incogniti. I risultati ottenuti in laboratorio da un operatore vengono dapprima confrontati con quelli ottenuti nello stesso laboratorio da altri operatori (intra) e successivamente confrontati con i risultati ottenuti da altri operatori in altri laboratori (inter). Per seguire l'andamento del processo è necessario disporre di ''carte di controllo'' che permettono di dare un rapido giudizio preliminare sulla situazione.

Queste carte non sono altro che grafici (fig. 1), nei quali si riportano i giorni sulle ascisse e si traccia una retta parallela alle ascisse, con valore di ordinata pari al valore medio M ed altre parallele a distanza di ±2σ, ±3σ. Si riporta ogni giorno sul grafico il valore medio delle misure e se si verifica che esso è compreso nella zona tra +2σ e −2σ (limiti per l'allarme) e comunque non al di là di ±3σ (limiti per l'intervento), questo equivale a dire che statisticamente, per quanto visto in precedenza, il 99,73% delle misure cade entro i limiti di controllo e che quindi non più dell'1% può trovarsi al di fuori (fig. 1A). L'andamento delle misure attraverso le carte di controllo offre all'attenzione dell'osservatore altri spunti anche quando tutti i dati sono compresi nei limiti prefissati. Se ad esempio i valori si collocano tutti da un lato rispetto al valore medio (fig. 1B), oppure seguono variazioni che sono costantemente verificate in una sola direzione (fig. 1C), si hanno egualmente indicazioni sulla esistenza di errori sistematici.

Le carte di controllo sono dunque di grande utilità perché rappresentano una guida rapida per la valutazione della accuratezza del metodo seguito, come anche della precisione, consentendo di intervenire sollecitamente per cercare le cause degli errori e per apportare le eventuali modifiche operative.

Valori normali. − Il contributo che la c.a.c. fornisce per la valutazione delle condizioni fisiopatologiche di un individuo assume un aspetto determinante per la formulazione di diagnosi cliniche, quando i risultati analitici ottenuti vengono raffrontati ai valori che sono ritenuti quelli dell'individuo sano. Questi valori, però, sono quelli che risultano da valutazioni statistiche, perché ovviamente non possono essere noti i valori dei singoli individui, né è semplice stabilire la condizione di ''sano''. Si fa perciò uso del termine di ''valore normale'' riferito ad un determinato parametro, intendendo con questa espressione il valore medio ricavato da una serie di misure effettuate per quel parametro su un insieme di individui, il più ampio possibile, che al momento vengono ritenuti sani. Dato che il valore normale ha significato biologico, l'insieme degli individui deve risultare quanto più possibile omogeneo, valutando opportunamente i vari fattori genetici, fisiologici e ambientali che possono influire sulla grandezza del parametro. Pertanto nella individuazione degli insiemi deve essere tenuto conto del tipo di popolazione (etnia), del sesso, dell'età, del clima, delle abitudini alimentari, ecc.

Poiché dunque i valori normali sono ricavati da dati statistici e poiché essi costituiscono la base di riferimento per stabilire la eventuale condizione patologica di un individuo, questi valori non possono essere presi in maniera rigida, ma piuttosto vengono di norma stabiliti gli ambiti entro i quali i risultati ottenuti possono essere ritenuti accettabili per valutare la condizione di sanità di un individuo. In tal modo si parla, con maggiore aderenza alla realtà, di ambiti normali. Se ad esempio, come spesso avviene, la frequenza dei dati sperimentali per stabilire un valore normale fornisce una curva gaussiana, la condizione è ritenuta normale se il valore ottenuto è compreso in un ambito i cui limiti sono determinati da due volte la deviazione standard (±2σ) e comincia a destare preoccupazione se oltrepassa i limiti definiti da tre volte la deviazione standard (±3σ).

Campionamento. − In c.a.c. il prelievo, la conservazione e il trattamento dei campioni non possono sempre rispettare le regole che di norma sono seguite nelle analisi chimiche di altri settori. Infatti il materiale prevalentemente trattato in c.a.c. è rappresentato da campioni di urine e di sangue.

Per il campionamento dell'urina la specificazione essenziale riguarda il tipo di prelievo, che può essere casuale (ossia se è avvenuto in un qualsiasi momento della giornata) o temporale (ossia se è ricavato dalla somma delle emissioni effettuate in un determinato periodo), e la precauzione principale da osservare è l'aggiunta di opportune sostanze batteriostatiche nel caso in cui l'analisi non venga eseguita a brevissima distanza di tempo.

Sul campionamento del sangue, invece, vanno fatte maggiori precisazioni perché, in funzione delle richieste cliniche, le analisi vanno effettuate su sangue venoso (in prevalenza) oppure arterioso oppure capillare. Per le analisi del sangue va tenuto presente che queste non vengono tutte eseguite sul medesimo materiale, ma, a seconda dei casi, sul sangue intero o sul plasma (che rappresenta la parte fluida dopo centrifugazione) o sul siero (che rappresenta la parte che rimane fluida dopo la coagulazione e quindi priva anche del fibrinogeno). Quando è richiesto l'impiego del sangue intero oppure del plasma diventa necessario impedire la coagulazione e allo scopo viene fatto uso di agenti anticoagulanti, quali ad esempio l'eparina, l'EDTA, l'ossalato, avendo cura di scegliere tra questi quello che è compatibile con i saggi successivi. Nel trattamento dei campioni di sangue particolare attenzione viene posta al fine di evitare l'emolisi (vale a dire il fenomeno che determina la fuoruscita di emoglobina dai globuli rossi), la quale può provocare errori anche rimarchevoli per la presenza nel campione di plasma o siero, di specie chimiche che possono rappresentare interferenze nei saggi specifici.

Nella preparazione dei campioni di fluidi biologici (sangue, urina, liquido cerebrospinale) da sottoporre all'analisi chimica, si procede molto frequentemente ad una operazione preliminare, la deproteinizzazione, in quanto la eliminazione delle proteine serve a prevenire la formazione di schiuma e di possibili torbidità e soprattutto a impedire che esse reagiscano direttamente con i reattivi di analisi, provocando errori nei risultati. Poiché la deproteinizzazione consiste essenzialmente in una precipitazione, la si può realizzare in vari modi: aggiunta di reattivi specifici o di elettroliti, trattamento con solventi immiscibili con acqua, variazione di pH, ecc.

Sviluppo delle metodologie. − La ricerca in c.a.c. si è enormemente sviluppata a partire dagli anni Sessanta per vari motivi tendenti alla stessa direzione: il progresso conseguito dalla chimica analitica nelle ricerche di base (ad esempio, nello studio degli equilibri in soluzione) e nella realizzazione di nuove metodiche; i vantaggi realizzati dalle innovazioni tecnologiche sulle apparecchiature per le analisi chimiche strumentali, che hanno portato a una maggiore oggettività del risultato e a una maggiore rapidità nella esecuzione, con la conseguenza di una maggiore diffusione della strumentazione; e soprattutto gli sviluppi che si sono verificati nello studio dei processi biochimici, che hanno favorito la interpretazione degli stati fisiologici o patologici in relazione alla concentrazione di determinate specie chimiche nei fluidi biologici (sangue, urina, ecc.) o nei reperti solidi (calcoli, feci, ecc.). E così nel giro di pochi anni l'analista del laboratorio chimico-clinico è passato dalla conoscenza di metodiche scarsamente sensibili e selettive e di tecniche che fornivano valori appena indicativi, alla disponibilità di sistemi analitici dotati di elevata attendibilità e rapidità. Parimenti l'avanzamento realizzato nella ricerca di metodiche più affidabili ha apportato un considerevole contributo al clinico che raccoglie elementi per la diagnosi, il quale dalla conoscenza di dati scarsi e poco chiari è passato a una informazione non solo più certa, ma spesso del tutto nuova.

Allo sviluppo delle metodiche valide per la c.a.c. molto ha contribuito l'impiego degli enzimi e reciprocamente lo studio sull'attività enzimatica (anche questa di notevole interesse per alcune diagnosi cliniche) è considerevolmente progredito a causa dei successi realizzati con l'impiego di tecniche analitiche avanzate. Il rapporto enzimi-analisi, d'altronde, ha di recente riscontrato tale interesse da superare i confini della c.a.c. e rappresentare un particolare settore di ricerca, soprattutto nel campo delle biotecnologie. Nello studio della chimica analitica l'impiego degli enzimi ha consentito di risolvere brillantemente i problemi che si presentano allorché i campioni da analizzare sono costituiti da miscele di specie chimiche molto complesse. Gli enzimi, infatti, essendo dotati di elevatissima specificità di azione, se inseriti opportunamente in un sistema analitico, permettono di realizzare la condizione per superare le difficoltà causate da quelle specie chimiche che, quando presenti, possono intralciare l'andamento del processo o comunque influire sul risultato analitico (interferenze).

Nelle applicazioni che riguardano la c.a.c. sono dunque di grande rilevanza i vantaggi offerti dalla presenza di un determinato enzima, il quale assicura lo svolgimento predominante della reazione che esso governa, ove si consideri la notevole complessità dei fluidi biologici (sangue, urina), che sono più frequentemente sottoposti all'analisi di laboratorio.

Nelle metodiche analitiche che comportano l'impiego di enzimi, la reazione viene prevalentemente seguita mediante misure spettrofotometriche o mediante misure potenziometriche. Nel primo caso le operazioni, pur essendo molto semplici e caratterizzate da elevata attendibilità e rapidità, presentano lo svantaggio del notevole consumo di enzima, che è un elemento da non trascurare, dato il considerevole costo di questo pregiato materiale al momento attuale. Il metodo potenziometrico, invece, non richiede consumo di enzima, perché questo non viene posto nella soluzione (e perciò rinnovato per ciascun campione), ma inglobato opportunamente (o, come si usa dire, immobilizzato) con del materiale polimerico ed accoppiato con una opportuna membrana ionosensibile (fig. 2), in modo da realizzare un tipo di elettrodo, chiamato ''supersensore'', che viene a far parte di un conveniente circuito potenziometrico, per mezzo del quale si ottengono segnali che permettono di risalire alla concentrazione della specie da analizzare. Una reale limitazione all'impiego del metodo potenziometrico per le analisi in presenza di enzima è tuttavia attualmente costituita dalle difficoltà tecniche che si possono incontrare nella costruzione degli elettrodi o nella conduzione delle misure; ma quando l'una e l'altra difficoltà saranno superate, i laboratori chimico-clinici avranno a loro disposizione un sistema analitico complessivo che risulterà di grande validità e vastità nel lavoro di routine.

Se l'introduzione degli enzimi nella c.a.c. ha prodotto il miglioramento della attendibilità dei risultati mediante l'aumento della specificità delle rispettive reazioni, lo studio delle reazioni enzimatiche ha portato anche all'approfondimento delle metodiche analitiche atte a valutare il contenuto di enzimi nei fluidi biologici, dal quale possono essere tratte informazioni utili per la diagnosi di talune malattie (diagnostica enzimologica). È bene ricordare che la quantità dell'enzima si esprime in funzione della sua attività mediante la grandezza chiamata ''unità internazionale'' (U.I.), la quale è definita come la quantità di enzima che ad una data temperatura e in determinate condizioni trasforma in un minuto una micromole di sostanza (substrato).

Dalla biologia, oltre che per gli enzimi, sono venuti altri consistenti contributi allo sviluppo della c.a.c. per quanto riguarda lo studio delle condizioni di miglioramento della specificità delle reazioni. Infatti incontrano grande interesse nella ricerca (con successivo trasferimento al laboratorio di analisi chimico-cliniche) le metodologie analitiche che comportano reazioni di tipo immunochimico. È noto dalla biochimica che vi sono sostanze che, in particolari condizioni, sono capaci di provocare la formazione di altre sostanze, le quali possono reagire con le prime in maniera altamente specifica. Le prime sono chiamate antigeni, ai quali corrispondono i relativi anticorpi. La reattività antigene-anticorpo, la cui manifestazione più evidente è la formazione di precipitati, ha fornito l'occasione per sviluppare varie tecniche analitiche, tra le quali la più diffusa è la radioimmunologica nota come RIA (dall'inglese Radio Immuno Assay), che, essendo dotata anche di grande sensibilità, rappresenta un metodo di vasta applicazione pratica.

Bibl.: J. S. Annino, Clinical chemistry, Boston 1964; R. Richterich, Chimica clinica, Roma 1968; R. J. Henry, D. C. Cannon, J. W. Winkelman, Trattato di chimica clinica, Padova 1977; G. D. Christian, Chimica analitica, ivi 1986; V. Carunchio, Chimica bioanalitica, Roma 1990.

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