SIMONETTA, Cicco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 (2018)

SIMONETTA, Cicco

Maria Nadia Covini

– Nacque nel 1410 circa da Antonio de Gucia di Caccuri e da Margherita Simonetta, a Policastro, città in cui la famiglia materna era autorevole e rispettata.

Ebbe molte sorelle e due fratelli, Giovanni, storiografo e segretario ducale (v. la voce in questo Dizionario), e Andrea.

La sua istruzione fu sicuramente eccellente e basata su solidi fondamenti umanistici, sulla conoscenza del latino e forse anche della lingua greca. Intraprese gli studi notarili e divenne notaio, titolo che poi gli fu utile nella carriera cancelleresca, mentre è da escludere che avesse un dottorato in legge. Gli fu invece molto caro il titolo di cavaliere che ottenne da Francesco Sforza nel 1450.

Entrò al servizio di quest’ultimo poco dopo il 1430, e nel 1436 siglò a San Miniato la sua condotta con la lega veneto-fiorentina. Doveva il suo impiego allo zio materno Angelo Simonetta, che in veste di segretario e uomo di fiducia seguiva il condottiero romagnolo dai tempi in cui militava nel regno meridionale.

Le sigle Cichus seguono gli atti del condottiero, diventato signore di alcune città della Marca di Ancona. Insieme a Giovanni Ulesi, Antonio Minuti, Facino da Fabriano, Vincenzo Amidani e allo zio Angelo (che però visse a lungo in Veneto), Simonetta fece parte dell’agguerrita e sapiente segreteria che dalla Marca seguì il condottiero in Lombardia nel 1447, dopo la morte di Filippo Maria Visconti. A partire da questa data, la sua avventura umana e professionale fu tutta lombarda. La sua presenza nelle retrovie della battaglia di Caravaggio (settembre 1448) è ricordata dall’opera storiografica del fratello Giovanni, che proprio in quel passo accenna alla grande fiducia che lo Sforza riponeva in lui. Dopo la conquista sforzesca del Ducato di Milano (1450), fu posto a capo della cancelleria secretaria, il vertice di un complesso assetto cancelleresco, articolato in vari settori. Molti cancellieri e registratori sottostavano alla sua autorità, rafforzata dai regolamenti da lui accuratamente stilati e fatti giurare: ai sottoposti imponeva riservatezza, puntualità, rigore, decoro, e delineava una rigorosa divisione delle competenze e delle mansioni.

Simonetta abitò inizialmente a Cremona, dove rogò degli atti notarili e ottenne la cittadinanza, poi a Lodi dove ebbe una famiglia, sia pure ‘concubinaria’. Attorno al 1451 sposò una dama milanese dal nome illustre, Elisabetta Visconti del ramo di Besnate e Ierago. Il matrimonio, nonostante la dote non eccelsa, fu decisivo per Simonetta, che aspirava a diventare un vero nobile lombardo. Elisabetta era una donna saggia e avveduta e il legame fu solido: otto figli nacquero tra il 1453 e il 1464, tutti destinati a brillanti carriere e matrimoni.

Tutti i maschi studiarono diritto civile o canonico a Pavia. Il primogenito Gian Giacomo, umanista e bibliofilo, e Antonio, entrarono nella segreteria ducale, e Sigismondo fu a sua volta uno stretto collaboratore del padre. Ludovico intraprese la carriera ecclesiastica ed ebbe benefici e cariche importanti. Antonio sposò Beatrice Sanvitale, Margherita divenne moglie di Guido Torelli di Guastalla, Ippolita del conte Gaudenzio di Matsch, mentre Cecilia fu promessa a Gaspare Ambrogio Visconti, poeta e letterato.

I due figli naturali, nati da Giacomina da Lodi nel 1451 e nel 1453, ricevettero dal padre attenzioni e opportunità di carriera, e in particolare Guido Antonio divenne un autorevole ecclesiastico, così come alcuni nipoti che Cicco sostenne negli studi e nelle carriere. Per l’educazione dei figli Simonetta arruolò i migliori educatori, e allestì per loro una casa a Pavia dove erano seguiti da precettori e servitori, anche se il padre sorvegliava attentamente le loro tipiche irrequietezze di studenti. Spesso acquistò libri e dispense per i figli, e la sua biblioteca, incrementata da continui acquisti, doveva essere di notevole pregio, anche perché molti letterati e poeti si rivolgevano a lui come protettore e mecenate, e gli dedicavano le loro opere.

Sempre più inserito nella società milanese, Simonetta iniziò dai primi anni Cinquanta ad acquistare vari immobili presso la chiesa di San Tommaso in Terramara, oggi via Broletto, unificandoli in un grande e confortevole palazzo. Da Francesco Sforza ottenne delle formidabili patenti (da lui stesso redatte, presumibilmente, e con molta cura) che gli facilitarono l’accumulo di ricchezze e nuove opportunità di crescita sociale: in particolare, nel 1451 e nel 1455, ebbe una cittadinanza ‘globale’ e una vasta esenzione fiscale, insieme allo zio Angelo e a tutti i fratelli e cugini. Dallo Sforza ottenne anche una doppia concessione relativa al luogo di Sartirana in Lomellina: la possessione ducale, compresa l’antica roggia risalente a Gian Galeazzo Visconti, e l’investitura nel feudo con castello, terre e pertinenze (1451-52). Con queste basi iniziò a farsi concedere, sempre con contratti molto favorevoli data la sua posizione, terre, acque e fondi da vari enti ecclesiastici e anche da privati.

A Sartirana ottenne anche una vasta possessione dal monastero pavese di S. Pietro in Ciel d’Oro. Ebbe poi affitti, enfiteusi e proprietà a Morsenchio in pieve di San Donato, a Fagnano in pieve di Rosate, a Cassine di Pero in pieve di Trenno, tutti nel Milanese, e vari altri fondi dislocati in tutto il dominio lombardo. Con vari acquisti, il feudo di Sartirana divenne il centro di un’azienda estesa fino a Castelnovetto e Valle, a Rosasco (terre del vescovo di Pavia), in Oltrepò a Corana (dal vescovo di Milano), a Gazzo al di là del Sesia (dal protonotario di Monferrato, commendatario dell’abbazia di Lucedio), a Torre Beretti e in varie località lomelline. Molte di queste terre gravitavano sugli assi fluviali del Po e del Sesia, e anche le tenute nei dintorni di Milano godevano di acque provenienti da risorgive e da fontanili.

Simonetta infatti si rivelò uno straordinario interprete delle novità più avanzate dell’imprenditoria agraria lombarda: tra le sue iniziative, spiccano le impegnative imprese di scavo di nuove rogge, che consentivano di aumentare le superfici a prato, abbinare agricoltura e allevamento e vendere acque ad altri proprietari. Inoltre, fu particolarmente abile nell’accorpare proprietà e organizzarle in vasti poderi dati a massari e gestiti mediante contratti minuziosi. La sua gestione dei fondi fu oculata e attenta, basata su un controllo serrato dei numerosi dipendenti, fattori e massari, spesso fatti destinatari di un profluvio di lettere, regolamenti, note contabili, giacché Simonetta proprietario e imprenditore fondiario non lasciava nulla al caso. Per vendere i prodotti della terra sceglieva le piazze più remunerative e si avvantaggiava delle tratte ottenute dal duca. Molte derrate venivano invece recapitate, per via d’acqua, alla sua casa milanese.

Un momento chiave della sua biografia fu il testamento dettato nel 1461 al notaio di fiducia, Giacomo Perego, che era anche notaio camerale. In anni in cui la sua posizione sociale e professionale si era rafforzata, il suo progetto originario era cambiato: non verteva più sulla famiglia d’origine e sulla residenza comune con i fratelli, ma sulla promozione della famiglia coniugale e dei figlioletti nati dalla Visconti.

Dal 1456 aveva fatto rogare atti di separazione dai fratelli Giovanni e Andrea, che ormai, dopo essere stati da lui avviati e appoggiati alle loro carriere, l’uno di segretario, l’altro di castellano, potevano andare per la loro strada. Il testamento del 1461 rispecchiava la minuziosa precisione di Simonetta, un uomo costantemente con la penna in mano per programmare l’esistenza di coloro che gli erano vicini: in esso esprimeva la sua alta concezione etica e lasciava spazio ai desideri e ai talenti dei figli, incoraggiati a seguire le proprie attitudini, non mancando di esprimere gratitudine allo zio Angelo, origine dei suoi successi professionali e sociali.

In quanto capo della segreteria ducale, Simonetta divenne presto autorevole e indispensabile, e Francesco Sforza ebbe a dire che, se non ci fosse stato, si sarebbe dovuto «farlo di cera» (B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, 1978, p. 1369). Dirigeva la diplomazia ducale rafforzatasi negli anni della pace di Lodi e della lega italica, coordinava il lavoro dei cancellieri, decideva in merito a ogni concessione di ufficio, carica e beneficio; era rispettato, omaggiato, adulato.

Peraltro, non pochi erano i cortigiani e i notabili che vedevano con fastidio la sua crescente autorità e ricchezza, e che mostravano disprezzo verso il ‘forestiero’, l’uomo che da origini modeste o addirittura vili (secondo i più malevoli) era diventato potentissimo. Ben conscio di queste insidie, Simonetta si muoveva con circospezione: fino al 1476 la sua conduzione degli affari di Stato fu autorevole, ma sempre prudente e avveduta.

Fu apprezzato anche dal nuovo duca Galeazzo Maria Sforza (1466-76), giovane spesso volubile e capriccioso, autoritario ma insicuro, che in Simonetta trovò un collaboratore fedele e un consigliere discreto e protettivo. Nello scontro tra il duca e la madre Bianca Maria Visconti, il segretario non ebbe esitazioni a schierarsi dalla parte di Galeazzo, dato che i nemici di entrambi si annidavano nella cerchia dei nobili ghibellini vicini alla duchessa.

Egli era in effetti ‘storicamente’ guelfo e filoangioino (dagli Angiò aveva ricevuto onorificenze, per quanto virtuali) e la sua scelta di campo fu netta, anche se non lo mise al riparo da sgarbi e insidie: per esempio quando, nel corso della vendita di entrate camerali del 1466, i suoi avversari cercarono di contrastare gli acquisti di nuovi feudi lomellini.

Lo Sforza contava molto sulla sua collaborazione per il suo progetto accentratore e tendenzialmente assolutistico, anche se in alcuni momenti diminuì la sua autorità creando dei nuclei cancellereschi speciali, come quello sulle condanne e confische, che dal 1468 fu affidato a Giacomo Alfieri e ad altri collaboratori. Simonetta non poté che piegarsi e obbedire, ma di lì a poco l’Alfieri cadde in disgrazia e la guida della cancelleria fu di nuovo accentrata nelle sue sapienti mani.

Alla fine del 1476, l’assassinio di Galeazzo Maria fu un evento capitale per la storia dello Stato milanese e una svolta decisiva per la vicenda di Simonetta, che sotto Bona di Savoia e il giovane duchetto Gian Galeazzo Sforza ebbe un ruolo di effettivo leader politico. Era infatti a capo di un Consiglio ristretto che si riuniva nel castello di porta Giovia, e che fu appositamente creato per affrontare la difficile situazione interna e la politica estera. Ne facevano parte pochi prescelti, che con Simonetta condividevano le maggiori decisioni, mentre molti consiglieri si trovarono privi di ogni autorità.

Uno degli atti più dirompenti di questi mesi fu la decisione di sottoporre a processo il capitano Donato Del Conte, allo scopo di far venire allo scoperto le trame dei fratelli Sforza contro la reggente e il duchetto: in seguito alle confessioni estorte al prigioniero, gli Sforza e Roberto Sanseverino furono allontanati ed esiliati, ma contro Simonetta si schierarono molti potenti nemici e l’odio nei suoi confronti aumentò a dismisura. Altrettanto traumatica fu la decisione di allontanare dal castello la guardia capeggiata da Ambrosino da Longhignana.

Temendo per la propria incolumità, Simonetta dovette rinchiudersi nelle stanze più protette del castello e nel corso del 1477-79 scampò a numerosi tentativi di sicari che volevano attentare alla sua vita; ma a sua volta, con metodi non meno spregiudicati, cercò di far fuori alcuni nemici.

Anche le sue ricchezze e fortune aumentarono: ebbe il feudo di Sale nell’Oltrepò, incrementò i possessi fondiari, assicurò cariche, benefici e matrimoni importanti a figli e parenti. Fu un feudatario attento al benessere e alla promozione delle sue comunità, ma non alieno da atteggiamenti autoritari e dall’uso di forme sommarie di giustizia, atti che poi si ritorsero contro di lui al tempo della caduta e del processo.

Gli anni della reggenza furono assai difficili per il Ducato: le milizie sforzesche subirono una grave sconfitta dagli svizzeri e Genova fu perduta; si inasprirono i rapporti con il re di Napoli, a causa anche degli orientamenti antiaragonesi di Simonetta, mentre le antiche alleanze tra le potenze italiche erano logorate dalla crisi politico-militare seguita alla congiura dei Pazzi. I fratelli Sforza e il Sanseverino intensificarono le loro trame e ottennero significativi successi nel corso del 1479. Dopo varie affermazioni militari sull’Appennino tra Tortona e Genova, Roberto Sanseverino (nemico capitale di Cicco) e Ludovico Maria Sforza (sopravvissuto ai fratelli Ottaviano e Sforza Maria) sconfissero le milizie ducali e riuscirono a rientrare nel Ducato, chiedendo subito a Bona l’arresto del primo ministro. L’11 settembre 1479, insieme al fratello Giovanni, Simonetta fu catturato e portato nel castello di Pavia. Le case sue, dei fratelli, di parenti e amici, furono derubate e saccheggiate; furono confiscati i beni, i figli costretti alla fuga. Restò prigioniero a Pavia fino alla fine di ottobre del 1480 quando, dopo vari rivolgimenti, a Milano presero il sopravvento i ghibellini, in particolare Pietro Pusterla, Antonio Marliani e il conte Giovanni Borromeo, i quali imposero a Ludovico Maria, reggente di fatto del ducato, il processo e l’esecuzione capitale di Cicco.

Il procedimento fu condotto da persone che gli erano particolarmente avverse, e che si vendicavano dei torti ricevuti, come l’Alfieri, il causidico Francesco Bolla, Teodoro Piatti, Filippo Aliprandi.

Il 30 ottobre 1480, dopo la condanna e un penoso testamento in cui disponeva di beni che già non erano più suoi, la testa di Simonetta rotolò sugli spalti del castello di Pavia, sotto gli occhi del suo carceriere, il castellano Giovanni Attendolo, uno tra i tanti che dal segretario sforzesco avevano ricevuto favori e protezione, e che ora lo rinnegavano. I beni mobili e immobili del condannato furono distribuiti, in modo tumultuoso e disordinato, tra gli accusatori e gli avversari.

Molti avanzavano pretese, ma di lì a poco la duchessa Bona di Savoia, che aveva deciso le prime donazioni, cadde in disgrazia, e vari beni passarono di mano in mano: lottizzazioni e alienazioni improvvisate dilapidarono l’ingente patrimonio di terre e acque attentamente costruito negli anni. La vedova di Cicco riuscì a mettere in salvo alcuni oggetti preziosi, già nascosti in un monastero milanese, e con tenaci azioni legali recuperò alcuni possessi fondiari: ma il grosso dei beni fu disperso. La disgrazia di Simonetta travolse i suoi più vicini familiari e sodali, in particolare il fratello Giovanni, esiliato, e alcuni cancellieri e collaboratori rimastigli fedeli.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano: Miscellanea storica, 9a e 9b (raccolta di atti su Simonetta); Famiglie, 176, Simonetta; Notarile, bb. 635-641, 1255-1259, 2243; Iohannes Simonetae Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS, XXI, 2, Bologna 1932, ad ind.; I diari di C. S., a cura di A.R. Natale, Milano 1962; Acta in consilio secreto in castello Porte Iovis Mediolani, a cura di A.R. Natale, I-III, Milano 1963-1969, passim; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Torino 1978, p. 1423 e passim.

A. Redaelli, Della vita di Cico Simonetta Segretario dei Duchi di Milano Francesco primo Sforza, Galeazzo Maria e Gio. Galeazzo Maria Sforza, in Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio, XX (1829), pp. 170-176, 263-278; XXI (1829), pp. 25-39; XXII (1829), pp. 194-233; XXIII-XXIV (1830), pp. 84-97, 181-192; XXIX (1831), pp. 248-258; C. Magenta, I Visconti e gli Sforza nel castello di Pavia, Milano 1883, I, pp. 511-516; II, pp. 343-348, 371-375, 389-437 e passim; F. Leverotti, «Diligentia, obedientia, fides, taciturnitas... cum modestia». La cancelleria segreta nel ducato sforzesco, in Ricerche storiche, XXIV (1994), 2, pp. 311-335; F. Senatore, «Uno mundo de carta». Forme e strutture della diplomazia sforzesca, Napoli 1998, pp. 85-97; M. Pedralli, Novo, grande, coverto e ferrato: gli inventari di biblioteca e la cultura a Milano nel Quattrocento, Milano 2002, pp. 505-510; F. Somaini, Un prelato lombardo del XV secolo. Il card. Giovanni Arcimboldi vescovo di Novara, arcivescovo di Milano, Roma 2003 (in partic. pp. 292-298); M. Simonetta, Rinascimento segreto. Il mondo del Segretario da Petrarca a Machiavelli, Milano 2004, pp. 106-118; E. Rossetti, Sotto il segno della vipera. L’agnazione viscontea nel Rinascimento. Episodi di una committenza di famiglia (1480-1520), Milano 2013, pp. 39-49; M.N. Covini, La patente perfetta. I privilegi accordati ai Simonetta dagli Sforza, in Cittadinanza e mestieri. Radicamento urbano e integrazione cittadina nell’età delle signorie, a cura di B. Del Bo, Roma 2014, pp. 179-206; Ead., L’assimilazione dei forestieri nelle élites della Milano sforzesca. La vicenda dei Simonetta di Calabria, in Milano città delle culture, a cura di M.V. Calvi - E. Perassi, Roma 2015, pp. 175-182; Ead., Potere, ricchezza e distinzione a Milano nel Quattrocento. Nuove ricerche su C. S., Milano 2018.

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