CICLO ECONOMICO

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

CICLO ECONOMICO

Luigi PASINETTI

ECONOMICO L'espressione indica l'andamento fluttuante dell'attività economica di un paese nella sua totalità, quale appare da indici quantitativi globali come quelli riguardanti la produzione nazionale, l'occupazione totale, il livello generale dei prezzi, ecc.

La constatazione che l'attività produttiva non si svolge nel tempo in modo uniforme non è certamente nuova: anche i sistemi economici primitivi, a carattere quasi esclusivamente agricolo, furono sempre colpiti, ad intervalli più o meno lunghi, da periodi di "carestia", normalmente dovuti al verificarsi di condizioni meteorologiche particolarmente avverse che venivano a causare violente cadute nei raccolti annuali. L'espressione "cicli economici" tuttavia si riferisce a fenomeni di natura ben diversa, connessi con l'attività economica in una società di tipo moderno, ossia in una società - quale è quella che è uscita dalla cosiddetta rivoluzione industriale - nella quale non tanto l'attività agricola quanto le attività industriali e commerciali vanno continuamente assumendo un peso sempre più rilevante nell'attività economica complessiva. Ora, l'esperienza degli ultimi 150 anni ha mostrato chiaramente che l'attività produttiva nei paesi industriali presenta nel tempo periodi in cui si verifica una rapida espansione - con l'apertura di nuove branche produttive, il febbrile ampliamento di quelle già esistenti, l'aumento del numero totale delle ore di lavoro, ecc. - e periodi in cui si verificano i fenomeni opposti: produzioni in declino, stasi delle esportazioni, licenziamenti del personale, ecc. Le fasi di questo complesso movimento che per prime attrassero l'attenzione degli studiosi e degli uomini di governo furono, per ovvie ragioni, i movimenti discendenti, che vennero contrassegnati col nome di "crisi economiche". Non si mancò tuttavia di rilevare ben presto una certa periodicità in queste "crisi", il che fece nascere il sospetto che le crisi altro non fossero che una parte di tutto un movimento più completo comprendente, come risultato di un unico meccanismo causale, fasi alterne di prosperità e di depressione. Nacque così il concetto dei cicli economici, o delle fluttuazioni cicliche della congiuntura economica.

I lavori di documentazione statistica al riguardo si sono moltiplicati rapidamente e, specialmente per i paesi economicamente più evoluti (S.U.A., Gran Bretagna, Germania, ecc.), se ne trovano ormai parecchi e molto particolareggiati. Ad ogni ciclo economico si assegna normalmente una durata che va dai 5 ai 12 anni e comprende quattro fasi: una prima fase di espansione, una seconda di svolta superiore e recessione, una terza di depressione, e infine una quarta di svolta inferiore e ripresa. Gli studiosi di statistica economica non hanno mancato di mettere in evidenza, oltre a questi movimenti ciclici, anche altri tipi di andamento economico. Alcuni autori hanno persino sostenuto che, pur prescindendo dalle variazioni di carattere stagionale, esistono almeno due altri tipi di fluttuazioni sovrapponentisi alle prime, uno di durata più lunga (grandi fluttuazioni: 20-30 anni) ed uno di durata più breve (cicli delle scorte: 2-3 anni). Si tratta, tuttavia, di movimenti non così facilmente identificabili e quindi di natura più controversa. Un movimento che invece è molto evidente, oltre a quello ciclico più propriamente detto, è costituito da una tendenza secolare ad un generale aumento.

Per dare un'idea più concreta di tutti questi movimenti, si è rappresentato nella fig. 1 l'andamento durante gli ultimi cento anni (in base ai dati desunti da: S. Fabricant, Output of manufacturing industries 1899-1937, New York 1940; E. Frickey, Production in the United States 1860-1914, Cambridge Mass. 1947; e dal Federal Reserve Bulletin) di un indice esprimente il volume fisico totale della produzione industriale negli S.U.A., il paese che, col più alto reddito pro capite del mondo, possiede anche le più accurate e attendibili rilevazioni statistiche dei fenomeni economici.

Dal grafico si può innanzitutto notare una tendenza generale all'aumento - la cosiddetta tendenza secolare crescente di cui si è appena parlato. Tale tendenza è così marcata che, per ragioni di spazio, sull'asse verticale del grafico è stata usata una scala logaritmica. La tendenza crescente è dovuta a ragioni abbastanza comprensibili, le quali si possono grosso modo ridurre all'aumento di popolazione - che ha messo a sfruttamento maggiori risorse naturali - e al progresso tecnico, che ha consentito di mettere più efficientemente in valore le risorse esistenti o di scoprirne, o inventarne, di nuove.

Non è tuttavia di questo tipo di movimento di lungo periodo che ci vogliamo qui interessare (si veda al riguardo la voce Sviluppo economico, in questa App.), bensì del movimento che rimane, allorché si prescinde dalla tendenza secolare crescente. In termini statistici ciò significa che il nostro interesse è confinato all'andamento temporale che la serie storica della fig. 1 manifesta allorché la stessa sia stata depurata del movimento crescente dovuto al trend di lungo periodo. Questa operazione statistica di depurazione ci consente di rappresentare nella fig. 2 la stessa serie storica della fig.1, ma in termini relativi, ossia in termini di deviazioni percentuali dalla tendenza secolare (per rappresentare la quale si è fatto ricorso a due funzioni esponenziali interpolate tra i dati originali).

Come si può vedere, ci troviamo di fronte ora ad un movimento temporale piuttosto complesso il quale, pur nelle numerose irregolarità dovute alle perturbazioni più varie (risultano particolarmente evidenti le conseguenze delle due guerre mondiali), presenta un'inconfondibile successione di fasi alterne di espansione e di contrazione.

I due grafici si riferiscono naturalmente ad una sola serie statistica, ma l'approssimativa regolarità ciclica risulterebbe confermata, anzi ancor meglio definita, se si esaminasse l'andamento temporale di altre grandezze economiche, come il reddito totale, il volume degli investimenti, gli indici dei prezzi, dei corsi azionarî, dell'occupazione totale, ecc. Questi andamenti fluttuanti comportano evidentemente conseguenze gravi e indesiderabili. Specialmente le fluttuazioni dell'occupazione rappresentano il lato più preoccupante dell'intero problema perché, se esse possono assicurare, al massimo, una situazione di piena occupazione nell'ultima fase del periodo di espansione, comportano inevitabilmente una percentuale più o meno elevata di disoccupazione durante tutto l'altro tempo. Da ciò si comprende la pressione che è sempre stata esercitata sugli economisti affinché fornissero agli uomini di governo strumenti di politica economica coi quali si potesse cercare di evitare, o almeno di rendere meno acute, le conseguenze dei periodi di depressione. Il lavoro teorico svolto su questo argomento è stato veramente imponente, ma fino a poco tempo fa era rimasto piuttosto inconclusivo.

Si possono in effetti distinguere, nell'evoluzione del pensiero economico, due periodi nettamente diversi, il cui punto di divisione si può pressappoco collocare negli anni tra il 1930 e il 1935. Le teorie dei cicli economici proposte prima del 1930 presentano una varietà ed una eterogeneità davvero sconcertanti. La ricerca di un meccanismo causale portò l'attenzione degli studiosi a concentrarsi di volta in volta sui fenomeni più disparati: dalla psicologia degli operatori economici ad eventi completamente esterni all'indagine economica come la periodicità delle macchie solari o di certe congiunzioni astrali, dalle caratteristiche della produzione per il mercato alle relazioni tra le industrie producenti beni di consumo e quelle producenti beni capitali, dalla variabile lunghezza dei periodi di produzione alle caratteristiche dei mercati finanziarî e monetarî, e così via. Le teorie che riuscirono a raccogliere i maggiori consensi nei primi trent'anni del presente secolo furono quelle di carattere monetario; anch'esse tuttavia non in modo esclusivo, nel senso che i loro stessi autori riconoscevano che il meccanismo eausale proposto poteva essere soltanto uno dei molti possibili. Ciò veniva senza dubbio a confermare la complessità del fenomeno, ma non dava certo agli uomini di governo una chiara nozione di ciò che avrebbero dovuto praticamente fare, lasciandoli quindi con idee piuttosto confuse (per un esame più particolareggiato dello stato della teoria economica immediatamente prima del 1930, si veda la voce Crisi economiche, vol. XI, p. 913).

A risvegliare le ricerche degli studiosi venne la depressione più grave che la storia dei paesi industriali abbia mai registrato, la grande depressione (si confronti il grafico 2), che, iniziatasi negli S.U.A. negli ultimi mesi del 1929, si diffuse in misura più o meno accentuata in tutti i paesi ad economia di mercato. L'avvenimento, che giunse repentino e inaspettato, fece precipitare in pochi mesi il paese industrialmente più evoluto del mondo in una catastrofe senza precedenti. Nei momenti più drammatici dell'intera vicenda (nel 1931-32) la disoccupazione era salita a ben il 25% della popolazione operaia, il che significò 13 milioni di lavoratori disoccupati i qualí, con le relative famiglie, vennero a trovarsi in condizioni disperate. La ripresa fu estremamente faticosa e richiese parecchi anni, in effetti tutto il periodo fino alla seconda guerra mondiale, durante il quale un nuovo governo dovette intervenire con misure di politica economica (deficit di bilancio) che agli esperti tradizionali parvero assurde. Il caos economico era stato troppo grave perché si potesse attribuirne le cause a fenomeni puramente monetarî e finanziarî. Era diventato evidente che ci doveva essere qualcosa di più profondo, insito nella struttura organizzativo-istituzionale stessa di un sistema ad economia di mercato. In questa atmosfera venne alla luce l'opera principale dell'economista inglese John Maynard Keynes, The general theory of employment, interest and money (1936).

La spiegazione che il Keynes diede della grande depressione si può, in breve, enunciare così. Se consideriamo un sistema economico moderno, nel suo insieme e in un certo dato momento, ci troviamo di fronte a tutta una struttura produttiva che è incorporata in edifici, macchinarî, personale addestrato, ecc., cioè in beni capitali che sono quelli che sono, senza possibilità di una rapida variazione. Affinché però vi sia produzione effettiva, non basta che esista capacità produttiva, cioè possibilità di offerta, occorre anche che si manifesti una certa domanda. Ora, quest'ultima presenta possibilità di variazioni molto più violente e improvvise che non l'offerta. Ne segue che, in un certo momento, la produzione totale di un sistema economico, cioè praticamente il reddito globale, dipenderà essenzialmente dal volume della domanda totale.

Il Keynes pertanto concentra la sua analisi sui fattori che in un sistema economico determinano la domanda totale effettiva dei beni finali (D). Egli distingue tale domanda in due parti: domanda per beni di consumo (C) e domanda per beni di investimento (I), cosicché, per definizione:

Il Keynes osserva quindi che, quando ì consumatori ricevono un incremento di reddito, essi tendono in generale e in complesso a spenderne soltanto una parte in beni di consumo. Nelle condizioni più semplici, la domanda di beni di consumo si può quindi indicare come una frazione del reddito totale, il quale ultimo - per i ragionamenti sopra esposti - risulta praticamente uguale alla domanda totale. Possiamo pertanto scrivere:

dove c è una costante minore di 1, chiamata propensione al consumo. Sostituendo ora la relazione [2] nella relazione [1], si può esprimere la domanda effettiva totale come una funzione degli investimenti totali, e cioè:

dove il termine

esprimente l'effetto moltiplicatore di ogni unità di investimento, è appunto chiamato moltiplicatore (si veda per maggiori particolari la voce moltiplicatore, in questa Appendice).

In un sistema economico moderno, afferma quindi il Keynes, non vi è alcun meccanismo che impedisca agli investimenti di esser tanto bassi da far sì che la domanda effettiva generata dalla relazione [3] risulti inferiore all'ammontare che sarebbe richiesto per ottenere la piena occupazione dei fattori produttivi. Se tale situazione si verifica, l'equilibrio tra domanda e offerta che bene o male si forma sul mercato comporta un certo volume di disoccupazione sia dei lavoratori sia dei beni capitali esistenti (equilibrio di sotto-occupazione). Ecco la causa delle depressioni che ogni tanto affliggono i paesi ad economia di mercato. Indicata la causa, il Keynes passa a suggerire i rimedî. Si tratta, egli continua, di immettere ulteriore domanda nel mercato, in modo da innalzare la domanda totale a quel livello che produce la piena occupazione. Non è necessario che tale domanda assuma una forma piuttosto che un'altra, basta che sia domanda e come tale può esser provveduta dallo stesso stato, mediante un aumento deliberato della spesa pubblica, anche al di là delle possibilità di entrata (deficit spending). Questo era appunto il nuovo strumento anti-ciclico che il Keynes veniva a suggerire, strumento che sembrò rivoluzionario all'inizio, ma che in seguito apparve facilmente inseribile nella politica economica dei paesi ad economia di mercato, senza peraltro sovvertirne l'ordinamento istituzionale.

Con questa teoria, il Keynes veniva a fornire una spiegazione delle depressioni, ma non necessariamente del loro ricorrere periodico. Toccava ad altri economisti il compito di completare il quadro teorico, mediante la formulazione di una relazione che spiegasse anche l'altra componente della domanda effettiva: la domanda per beni di investimento. All'uopo si è fatto ricorso al cosiddetto "principio di accelerazione" (v. accelerazione, in questa App.), il quale dice, nella sua forma più semplice, che non vi è bisogno di investimenti netti (cioè investimenti al netto delle sostituzioni degli impianti logorati) quando la produzione rimane ad un livello costante nel tempo. Nuovi impianti occorrono invece allorché la produzione aumenta. Pertanto gli investimenti totali netti risulteranno grosso modo proporzionali agli incrementi (cioè al saggio di accelerazione nel tempo) della domanda totale.

Denotando con v questo coefficiente di proporzionalità, e coi suffissi t - 2, t - 1, t, ecc. i successivi periodi di tempo a cui le nostre variabili si riferiscono, possiamo scrivere:

Sostituendo ora questa relazione nella [3] e risolvendo l'equazione così ottenuta, si può dimostrare (la dimostrazione si trova nei lavori citati nella bibliografia) che la produzione generata dalla domanda totale (la variabile D) e, come conseguenza, l'occupazione dei beni capitali e delle forze lavorative possono descrivere col passar del tempo un movimento ciclico, che presenta caratteristiche diverse a seconda dei valori assunti dai coefficienti c e v.

Quasi tutte le teorie dei cicli economici che sono state avanzate dal 1930-35 in poi sono basate sul meccanismo or ora menzionato, sebbene lo stesso sia presentato in modo più complesso.

Le varie teorie proposte differiscono tra loro per il modo di interpretare i movimenti temporali della produzione e dell'occupazione, la cui ciclicità viene spiegata diversamente a seconda del valore che si attribuisce ai coefficienti c e v, e inoltre per il modo con cui gli altri fattori (specialmente i fenomeni monetarî e gli avvenimenti esterni all'attività economica) vengono inseriti nello schema teorico precedente. Tutte queste interpretazioni sono tuttavia d'accordo nel ravvisare la causa principale dei cicli economici nelle caratteristiche organizzativo-istituzionali stesse di una società ad economia di mercato, le quali danno luogo a quei movimenti cumulativi di espansione e di contrazione che si è cercato di rappresentare col meccanismo dinamico sopra descritto basato sull'interazione tra il moltiplicatore e il principio di accelerazione. Come conseguenza, queste interpretazioni sono venute anche a confermare i fondamenti teorici della politica economica anti-ciclica suggerita dal Keynes, consistente nell'alimentare la domanda effettiva totale mediante la spesa pubblica, ogni qualvolta la domanda risulti troppo debole per mantenere la piena utilizza2ione della capacità produttiva esistente.

Gli ultimi sviluppi del pensiero economico non sono ormai tanto nel senso di opporre forti obbiezioni a questo schema teorico, quanto nel senso di precisarne da un lato i limiti di applicabilità e di inserirlo dall'altro in una visione più completa dei movimenti temporali di un sistema economico moderno. Per quanto riguarda il primo aspetto, si fa notare che tutta l'analisi keynesiana è basata sul presupposto che il sistema economico di cui si tratta abbia già raggiunto in passato la piena occupazione delle forze lavorative. Ne segue che la politica economica della spesa pubblica indiscriminata può applicarsi soltanto per combattere la disoccupazione cosiddetta appunto congiunturale, che si manifesta periodicamente nei paesi già industrializzati. Essa non può invece essere adottata per curare la disoccupazione che esiste nei paesi sottosviluppati, che è dovuta non già a fenomeni ciclici bensì alla mera inesistenza delle strutture produttive necessarie per dar impiego a tutta la popolazione in età di lavoro. Per quanto riguarda, infine, il secondo aspetto, si cerca ormai non più di guardare al ciclo economico come fenomeno a sé stante, bensì di metterlo in relazione con i fattori (progresso tecnico e aumento di popolazione) che nel lungo periodo determinano quella tendenza crescente di cui si parlava all'inizio. Tentativi in questo senso sono già stati effettuati, e il lettore può trovarli nei lavori più recenti menzionati nella sottostante bibliografia. Si spera di giungere, per questa via, ad una interpretazione unitaria e più completa di tutto l'intero problema dei movimenti nel tempo dei sistemi economici industriali.

Bibl.: Si veda innanzitutto la bibliografia già elencata sotto la voce crisi economiche (vol. XI). Si ricordano inoltre, tra i lavori con copiosa documentazione empirica: J. Schumpeter, Business cycles, 2 volumi, New York 1939; E. Frickey, Economic fluctuations in the United States 1866-1914, Cambridge, Mass., 1942; A. F. Burns e W. C. Mitchell, Measuring business cycles, New York 1946; R. C. O. Matthews, A study in trade-cycle history: economic fluctuations in Great Britain 1933-1842, Cambridge 1954. Particolari interpretazioni del c. e. in: R. Frisch, Propagation problems and impulse problems in dynamic economics, in Economic essays in honour of Gustav Cassel, Londra 1933; M. Kalecki, A macro-dynamic theory of business cycles, in Econometrica, 1935; N. Kaldor, A model of the trade cycle, in Economic Journal, 1940; V. Marrama, Teoria e politica della piena occupazione, Roma 1948; R. J. Hicks, A contribution to the theory of the trade cycle, Oxford 1950; R.M. Goodwin, The non-linear accelerator and the persistence of business cycles, in Econometrica, 1951; M. Fanno, Le teorie delle fluttuazioni economiche, in Giornale degli economisti, 1952; G. Demaria, Le leggi dello sviluppo pro capite nelle economie contemporanee, in Giornale degli economisti, 1955; J. S . Duesenberry, Business cycles and economic growth, New York 1958; L. Pasinetti, Fluttuazioni cicliche e sviluppo economico, in L'industria, 1960; F. di Fenizio, Diagnosi, previsioni politiche congiunturali in Italia, Roma 1960. Di carattere più generale: G. Haberler, Prospérité et dépression, Ginevra 1937; A. H. Hansen, Business cycles and national income, New York 1951; M. Fanno, La teoria delle fluttuazioni economiche, Torino 1956.

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