CIMABUE

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1993)

CIMABUE

J. White

(o Cenni di Pepe o Cenni di Pepo)

Pittore fiorentino attivo principalmente in Toscana e ad Assisi tra l'ultimo quarto del Duecento e i primissimi anni del Trecento.L'importanza di C. nella storia dell'arte italiana del Tardo Medioevo e nella moderna storiografia è inversamente proporzionale all'abbondanza della documentazione pervenuta. Era certamente ormai adulto e maestro indipendente quando, il 18 giugno 1272 a Roma, fu citato come testimone in un documento notarile come "Cimabove Pictore de Florencia" (Roma, S. Maria Maggiore, Arch., perg. A45). In seguito, dopo oltre un quarto di secolo di silenzio, è documentato che percepì la somma di dieci soldi al giorno per sé e il suo assistente, dal 2 settembre 1301 al 20 gennaio 1302, per lavorare al mosaico dell'abside della cattedrale di Pisa, opera ancora esistente (Pisa, Bibl. e Arch. Capitolare, Libri d'entrata e d'uscita 1301-1302). Dal momento che si faceva riferimento a lui come "Magister Cimabue pictor Magiestatis", è evidente che era responsabile dell'opera; in particolare gli fu richiesto di aggiungere le figure laterali, subentrando nei lavori a un certo Francesco di S. Simone a Porta a Mare, forse lo stesso Francesco a cui, per motivi sconosciuti, fu tolto l'incarico dei mosaici del battistero di Firenze nel maggio del 1298.Il documento chiave è quello del 19 febbraio 1302 in cui si afferma che C., dopo aver completato un totale di novantaquattro giorni di lavoro - come risulta dai registri -, portò a termine la figura di S. Giovanni, la cui metà superiore si è conservata in condizioni relativamente buone. Si tratta di una figura che dal punto di vista stilistico differisce in modo significativo dal resto del mosaico, completamente restaurato, raffigurante Cristo in trono con la Vergine e, appunto, S. Giovanni, mentre un'iscrizione andata perduta ricorda che la figura della Vergine fu completata non prima del 1321.Il 1° novembre 1301, come "Magister Cenni dictus Cimabue pictore condam Pepi de Florentia", C. firmò un contratto per la realizzazione di una maestosa pala d'altare per l'ospedale di S. Chiara in Pisa, per un compenso totale di centocinque lire, di cui le prime quaranta furono pagate quattro giorni dopo, molto prima della fine del mese, termine che era invece previsto dal contratto (Pisa, Arch. di Stato, Ospedale di S. Chiara, Contratti di ser Giovanni di Bonagiunta, nr. 12, p. 29). Sebbene riguardante un'opera andata perduta, questo documento, di cui non è stata riconosciuta appieno tutta la rilevanza, è senza dubbio uno dei più importanti tra quelli conservati del valico tra 13° e 14° secolo. In primo luogo esso evidenzia che, per un'epoca le cui opere d'arte si sono conservate probabilmente per meno dell'1% del totale effettivo, la storia ricostruita in base a un piccolo frammento può essere estremamente fuorviante. La pala d'altare perduta doveva contenere un dipinto raffigurante una Maestà con la Vergine, santi e apostoli. Nella parte inferiore essa doveva essere fornita di una predella istoriata, il primo esempio del genere, anteriore di un anno alla predella di una perduta Maestà di Duccio per la cappella dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena. Dovevano esservi anche figure di angeli poste, a quanto sembra, entro tabernacoletti alla sommità del complesso e altre immagini, oltre a un crocifisso dipinto e argentato destinato al tabernacolo centrale, con cornici e colonnette, anch'esse rivestite d'argento, mentre le superfici lisce dovevano essere ricoperte di puro oro fiorino. È quindi molto più evoluta delle pale d'altare tardoduecentesche effettivamente conosciute, preannunciando in modo evidente la Maestà di Duccio e le analoghe pale d'altare della fine del decennio. Se la cornice era effettivamente rivestita d'argento, l'opera doveva essere unica anche sotto questo profilo.Ancora più significativamente, alla luce delle discussioni circa la precisa funzione dell'artista in questo periodo e nel successivo - epoche per cui gli specialisti hanno spesso erroneamente supposto che gli artisti si limitassero a realizzare i programmi loro assegnati dalle autorità committenti e dai loro consiglieri -, il ruolo creativo preminente di C. si impone dal documento in modo incontrovertibile. La pala d'altare doveva essere "pictam storiis divine maestatis beate Marie Virginis, apostolorum, angelorum et aliis figuris et picturis de quibus videbitur et placuerit ipsi magistro vel alteri persone legiptime pro dicto hospitali". Anche la sua altezza, che non fu condizionata dalla larghezza dell'altare maggiore, dovette essere stabilita con le stesse modalità. Non si sa con certezza se la pala, che doveva essere terminata nel giro di un anno, sia mai stata effettivamente portata a termine, dato che nei registri della Società dei Piovuti di Firenze alla data del 19 marzo 1302 appare un riferimento ad alcuni eredi del maestro a Fiesole; infine, al 4 luglio 1302, è registrata una citazione dell'artista stesso chiaramente postuma (Firenze, Arch. di Stato, Protocollo di Chiaro d'Andrea, Notariale, cc. 37v, 462).Poiché non si è conservata alcuna opera firmata, soltanto il confronto stilistico con quell'unica, frammentaria immagine musiva di S. Giovanni nell'abside del duomo di Pisa offre una base sicura per costruire coerentemente un catalogo delle opere superstiti di Cimabue. Tra queste le più importanti sono senz'altro gli affreschi del coro e dei bracci del transetto della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, a lui attribuiti per la prima volta nel 1550 da Vasari, il quale li descrive come consumati dal tempo e dalla polvere. Oggi, per la maggior parte degli affreschi, la caduta e lo sfaldamento dell'intonaco e la totale inversione dei valori tonali - causa il deterioramento chimico, da attribuire soprattutto all'uso del bianco di piombo - conferiscono a gran parte della composizione l'aspetto di un negativo fotografico danneggiato.La decorazione della chiesa superiore ebbe inizio verso la metà del sec. 13° con le vetrate dipinte del coro e dei bracci del transetto, che formavano di per sé un programma coerente, a partire dal transetto meridionale, con la Creazione e la Caduta, per proseguire nel coro, con l'Infanzia, la Vita pubblica e la Passione di Cristo - ognuna accompagnata dalle rispettive prefigurazioni -, e culminare quindi nel transetto settentrionale, con le Apparizioni angeliche e con quelle del Cristo stesso.L'attento esame degli affreschi, effettuato nel 1979, durante la campagna di restauro intrapresa dall'Ist. Centrale del Restauro, ha dimostrato che i lavori ebbero inizio nella volta e continuarono nel registro superiore delle pareti del transetto settentrionale fino al triforio, che corre tutto intorno, sotto la direzione di un maestro con forti legami con il Settentrione d'Europa, forse con l'Inghilterra, legami che si riflettono nel blu e nel verde acceso, nel forte rosso e giallo grano e nei particolari architettonici gotici che caratterizzano l'opera. La sovrapposizione dell'intonaco tra una campagna dell'opera e la successiva mostra che, quando C. e la sua bottega subentrarono nell'opera, cominciarono a dipingere dalle volte del coro e del transetto meridionale, continuarono con la volta della campata d'incrocio, per poi passare a lavorare uniformemente verso il basso, in direzione del triforio. Iniziarono quindi a eseguire gli affreschi sui registri delle pareti inferiori, che nel transetto vennero portati avanti sistematicamente, a partire da S-O fino all'innesto con la navata, a N-O. Anche nel caso degli affreschi delle pareti inferiori del coro, che possono essere stati realizzati o prima o dopo quelli dei bracci del transetto, sembra che si sia proceduto da S a N.La sequenza discendente, dalle volte al pavimento, dovuta a motivi di ordine pratico quali l'erezione di impalcature e la necessità di evitare danneggiamenti alle parti già eseguite durante il procedere dei lavori, era la normale procedura ereditata dai secoli precedenti e tramandata fino al Rinascimento e oltre. Ad Assisi furono necessarie quattro pontate per giungere all'imposta delle volte e ne occorsero altre tre per la parte inferiore delle pareti. Le zone coperte da una sola stesura di intonaco mostrano che in questo periodo non era ancora stata messa a punto la tecnica delle vere e proprie giornate, mettendo cioè in opera, volta per volta, solo la quantità di intonaco necessaria per ogni singolo giorno di lavoro, consentendo l'esecuzione di un vero e proprio affresco, eseguito cioè sull'intonaco ancora umido. Le giornate infatti avrebbero fatto la loro apparizione solo in opere più tarde, quali ad Assisi i registri inferiori della navata e a Padova gli affreschi della cappella dell'Arena. Tuttavia vi sono segni incerti di un'evoluzione in questo senso nelle zone alte degli affreschi del primo registro, sulla testata del transetto meridionale. Sembra che le impalcature dell'intera area siano state erette sin dall'inizio, dato che ai livelli più alti i lavori della volta del transetto meridionale precedettero quelli della campata d'incrocio, invertendo poi l'ordine mentre si approssimava l'imposta delle volte. La concezione del coro e dei bracci del transetto come uno spazio unitario sembra perciò essere esistita fin dall'inizio nella mente di C. e mantenuta scrupolosamente nel più prosaico dei preliminari, l'innalzamento dell'impalcatura.In termini di contenuto, come di progettualità architettonica, il concetto informatore della transizione dal mondo romanico a quello gotico fu il passaggio da visioni cumulative a sistemi integrati. Nuovi modi di pensare, riassunti in compendi come lo Speculum maius di Vincenzo di Beauvais, con le sue suddivisioni naturali, dottrinali, morali e storiche, o la Summa theologica di Tommaso d'Aquino, dalle rigorose strutture logiche, si ritrovano in termini analoghi in opere quali il Rationale divinorum officiorum di Guglielmo Durando, in cui erano codificati e raccolti tutti gli aspetti del simbolismo ecclesiastico, da ogni gesto del rito della messa a ogni dettaglio dell'edificio in cui quest'ultima veniva celebrata. Questo stesso spirito, che su piccola scala prende corpo nei pulpiti di Nicola Pisano e nella fontana Maggiore di Perugia, trova espressione su larga scala in S. Francesco, dove le scene dell'Antico e del Nuovo Testamento che si snodano tra le finestre divengono il fondamento di uno schema coerente, onnicomprensivo, peculiarmente francescano. Gli affreschi della navata della chiesa inferiore - che probabilmente precedettero la versione ufficiale della vita di s. Francesco, cioè la Legenda Maior di s. Bonaventura, del 1266 - erano un esplicito parallelo tra la vita di Cristo e quella di s. Francesco, disposte su pareti affrontate. Così la Vita della Vergine nel coro riflette l'enfasi posta da s. Bonaventura sul particolare amore di s. Francesco per la Madonna, inseparabile dal suo amore per gli angeli e in particolare per s. Michele, l'eroe dell'Apocalisse che combatte la battaglia dello spirito per il bene dell'umanità, la cui figura è situata alla sommità della parete occidentale del transetto sud, sopra gli arcangeli e gli angeli, i santi e gli apostoli dell'arcata. Il tema degli angeli, che riflette le tendenze mistiche del santo, già presente nelle finestre, venne ripreso nelle scene tratte dall'Apocalisse che si trovano sui registri inferiori del transetto meridionale. Queste evidenziano in modo particolare i tradizionali significati escatologici dell'Apocalisse, in contrapposizione alle interpretazioni gioachimite che si erano fatte largo nell'Ordine per un certo periodo. La particolare devozione di s. Francesco per gli apostoli, soprattutto per s. Pietro e s. Paolo, viene esaltata nelle scene con le vite di questi ultimi, dipinte sulle pareti corrispondenti del transetto settentrionale. I quattro evangelisti nella volta d'incrocio, ai quali dovevano forse corrispondere i quattro dottori della Chiesa nella volta della prima campata della navata, sintetizzano il vangelo predicato da Francesco. Infine le due grandi Crocifissioni, che occupano l'intera parete orientale di ambedue i bracci del transetto, dovevano tenere costantemente davanti agli occhi dei frati l'evento centrale della redenzione, rammentando loro nel contempo l'amore supremo del Cristo crocifisso, che domina la vita di Francesco, culminando nel miracolo della sua stimmatizzazione.L'insolita replica della Crocifissione sulle pareti occidentali dei bracci del transetto richiama l'attenzione sui corrispondenti trittici di affreschi su entrambe le pareti di fondo, in cui l'equilibrata reiterazione delle masse - perfino dei dettagli del disegno - intorno a un fulcro centrale è veramente particolare. Il bilanciarsi delle masse e la riproposizione di analoghi schemi compositivi caratterizzano anche le due scene sulle pareti orientali dei bracci del transetto. Soltanto nell'immediata unità strutturale e visiva del coro le rigide ripetizioni architettoniche del Raduno degli apostoli e della Dormitio Virginis sono contrapposte in modo asimmetrico al raggruppamento di figure dell'Assunzione e della Vergine in trono con il Cristo.Questa unificazione di spazi complessi mediante l'equilibrarsi e il ripetersi di temi e schemi compositivi era senza dubbio preparata dalla contrapposizione dei santi e degli apostoli nelle arcate orientali e occidentali del transetto settentrionale e fortemente rafforzata dai gruppi di angeli e santi nelle arcate sui due lati del coro e dagli angeli e dagli arcangeli che si fronteggiano su ciascun lato del transetto meridionale.Queste figure angeliche richiamano l'attenzione sul modo rivoluzionario con cui C. ha cercato non solo di utilizzare la decorazione pittorica per accrescere e arricchire di significato la struttura architettonica, già pregnante di simbolismi per una mente medievale, ma in effetti per estendere e completare lo spazio architettonico precedentemente 'incompiuto'. Così facendo C. si basava su una tradizione che, risalendo all'età degli affreschi architettonici di Pompei, ricompare nelle incorniciature delle sequenze vetero e neotestamentarie del sec. 5° - e dei loro successivi rifacimenti - nelle navate delle basiliche romane di S. Pietro e di S. Paolo f.l.m. e trova un'eco in esempi successivi come la decorazione di S. Crisogono nel sec. 10°, per raggiungere infine l'acme nella decorazione dei registri inferiori della navata della chiesa superiore di Assisi, dopo la partenza di Cimabue.Nelle volte, i massicci costoloni, messi in risalto da ampie bordure a decorazione fitomorfa, erano riccamente ornati a finto intarsio marmoreo e si può supporre che anche le vele con i quattro evangelisti potessero essere in origine concepite come finti mosaici. La parte superiore delle pareti è ovunque arretrata ed è separata da quella inferiore da un passaggio nel muro, aperto da arcate a intervalli regolari. Questa effettiva separazione è visivamente attenuata, almeno in parte, da una fila di mensole a volute, posta immediatamente al di sotto, in modo che, dal punto di vista dell'osservatore, abbia origine dal centro del coro, sì da racchiudere e unificare ulteriormente l'intero spazio, in armonia con la sequenza narrativa che si svolge verso l'esterno per l'intero transetto. Il passaggio e le relative gallerie non sono perciò concepiti come un'interruzione, tale da separare il muro in due zone distinte, ma sembrano aggettare da un'unica superficie unitaria.Tutta la grandezza della visione di C. appare con maggiore evidenza nel lato occidentale del transetto sud, dove le solenni figure di tre arcangeli ad ali spiegate, collegate con naturalezza all'apertura esapartita, si trovano in uno spazio architettonico reale al di sotto dei sei angeli a mezza figura, incorniciati da un'architettura dipinta. Questi grandi arcangeli non sono più, come i loro compagni, semplici figure simboliche, ma vogliono essere delle presenze reali, nello spazio reale occupato dall'osservatore.Questo nuovo atteggiamento nei confronti della rappresentazione pittorica e della realtà, già prefigurato nelle forme effettivamente tridimensionali dei pulpiti di Nicola Pisano, è evidente ovunque, in un realismo non solo fisico, ma anche emotivo, che raggiunge livelli d'intensità senza precedenti nella grande Crocifissione del transetto meridionale. All'interno del disegno rigoroso e simmetrico di quest'ultima l'emozione si manifesta in modo tumultuoso. Nel modo di ricaduta dei drappeggi come nelle loro pieghe si rende visibile un nuovo naturalismo che si spinge ancora più oltre nelle forme relativamente morbide - che richiamano quelle del romano Pietro Cavallini, contemporaneo di C. - del Cristo giudice, sul muro di fondo del transetto. Vi è una nuova vivacità nella caratterizzazione dei personaggi che compongono la folla, comparabile a quella di Nicola Pisano, ma con una più ampia gamma espressiva. I loro violenti gesti di disperazione giungono a vertici di autentica frenesia nella folla angosciata degli angeli, che si muovono convulsi nel cielo. E tuttavia ogni cosa è incentrata sulla ondeggiante curva a esse della gigantesca immagine del Cristo, le cui dimensioni hanno l'intento di dominare non solo il suo immediato contesto compositivo, ma tutto il volume architettonico entro cui si inserisce nel suo complesso l'intera composizione. La stessa forma del Cristo crocifisso appartiene alla tradizione sviluppata da Giunta Pisano, il cui Crocifisso del 1236 si trovava in origine in S. Francesco, e ulteriormente elaborata dall'umbro Maestro di S. Francesco, i cui affreschi della Passione di Cristo e della Vita di Francesco nella chiesa inferiore risalgono probabilmente al 1260-1263 circa. D'altro canto l'intera composizione partecipa della grande corrente di forme e iconografie bizantine - che si andavano sempre più amalgamando con le locali tradizioni toscane a seguito dell'affluire di artisti dall'Oriente dopo la caduta di Costantinopoli nel 1204 - predominante nell'intera Europa orientale nei primi tre quarti del sec. 13° e che si riflette nell'affresco della Crocifissione, più o meno contemporaneo, a Sopočani in Serbia. Sia che nel grande Crocifisso in S. Domenico ad Arezzo vada vista una produzione tarda della bottega di Coppo di Marcovaldo oppure una primitiva opera di C., a cui è attribuito, in ogni caso un confronto con il Crocifisso del Maestro di S. Francesco, del 1272 (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), testimonia la sua eccellente qualità. Risale probabilmente alla metà degli anni settanta il Crocifisso di Arezzo, che è un preludio alla più viva resa anatomica e alla maggiore tensione di membra e moti della figura di Assisi, di cui il Crocifisso nel refettorio di Santa Croce a Firenze, danneggiato dall'alluvione del 1966 e restaurato negli anni seguenti, sembra essere invece l'erede diretto. In quest'opera, che probabilmente risale alla prima metà degli anni ottanta e che può essere attribuita con un buon margine di sicurezza a C., la morbidezza delle carni, mai raggiunta prima, e la diafana sensibilità delle forme del drappeggio contribuiscono alla resa di una nuova e commovente umanità nella flessuosa figura dagli arti allungati.Il terzo e forse il più importante precedente dello schema decorativo realizzato da C. in S. Francesco, oltre alle fonti toscane e a quelle di origine bizantina, si trova nella Roma del 13° secolo. In Toscana e in generale nell'Italia settentrionale e centrale la transizione da un'economia basata sul baratto a una fondata sul denaro, l'assurgere della Toscana stessa a centro dell'attività bancaria in Italia e in gran parte dell'Europa, gli inizi della moderna organizzazione industriale nel commercio tessile, la sempre maggiore concentrazione nelle città di una popolazione in rapida crescita e la veloce espansione degli Ordini mendicanti condussero in quel volgere di tempo a un'espansione senza precedenti, soprattutto dal punto di vista edilizio, di gran lunga più importante, nelle sue conseguenze economiche, di tutto ciò che si registra nelle arti figurative. Nessun fenomeno analogo si manifestò al contrario a Roma, una città che in termini di commercio e popolazione sembrava ristagnare tra le rovine della sua passata grandezza. Anche il trionfo del papato sull'impero e l'accesso al soglio pontificio di Niccolò III (1277-1280), cioè Giangaetano Orsini, membro di una delle più potenti famiglie romane e uomo di smisurata ambizione personale, nonché dotato di un profondo senso del potere e consapevole della grandezza della storia di Roma, non ebbero come conseguenza la ripresa di un'attività edilizia di tipo civile, bensì l'avvio di un grande progetto di restauro e di rinnovamento degli schemi decorativi paleocristiani nelle grandi basiliche, chiaramente finalizzato a testimoniare la rivendicazione del potere da parte del papato e l'affermazione della legittimità della successione apostolica.Non è infatti senza significato il fatto che ad Assisi C. abbia dipinto, nell'affresco raffigurante S. Marco, la prima convincente veduta di Roma, attraverso le raffigurazioni, ben articolate da un punto di vista prospettico, di Castel Sant'Angelo, del Pantheon, della torre delle Milizie, insieme a una delle grandi basiliche con in facciata il mosaico della Déesis - forse S. Pietro, che Niccolò III fece restaurare assieme agli adiacenti palazzi, scelti come residenza papale al posto del Laterano - e al palazzo Senatorio, con gli stemmi Orsini bene in vista, possibile riferimento a Niccolò III in quanto papa e in quanto senatore. La data più probabile per l'esecuzione del ciclo sembra perciò essere il 1277-1280: le rappresentazioni di Asia, Giudea e Grecia nella volta della campata d'incrocio sono probabilmente riferimenti specifici alle missioni francescane in Oriente, iniziate nel 1278. Molto più rilevante, da un punto di vista artistico, è ad Assisi la derivazione, apparentemente diretta ma in una versione ridotta, della Vita di s. Pietro e di quella di s. Paolo dal ciclo del portico dell'antica S. Pietro, a quanto pare anch'esso databile intorno all'inizio dell'ultimo quarto del sec. 13° e più tardi ripreso a S. Piero a Grado (Pisa). La maggiore solidità strutturale delle architetture dipinte da C., con il loro scorcio frontale prospetticamente corretto, con gli edifici accentrati e la coerente veduta a volo d'uccello, è tanto evidente quanto la derivazione iconografica dalla tradizione romana. Ovunque, negli affreschi con le Vite di s. Pietro e di s. Paolo, le forme architettoniche e quelle del paesaggio sono costantemente impiegate per sostenere le figure e dar loro maggiore consistenza, per accentuare, arricchire e allo stesso tempo rendere più chiara la narrazione e, non da ultimo, per dare inizio a un processo di creazione di uno spazio pittorico realistico, all'interno del quale l'azione può aver luogo, mentre ogni scena viene a bilanciarsi rispetto alle altre, all'interno di uno sviluppo narrativo coerente. Lo scorrere dell'azione da sinistra a destra, nelle tre scene di apertura, la composizione pienamente equilibrata della Crocifissione di s. Pietro, al centro del muro di fondo del transetto settentrionale, e l'attenta conclusione compositiva creata dalla disposizione delle figure all'interno del bilanciato paesaggio tripartito, che fa da sfondo alla scena finale della Decapitazione di s. Paolo, mettono in mostra gli essenziali principi compositivi seguiti e sviluppati nel ciclo di S. Francesco della navata della chiesa superiore e ulteriormente ampliati e arricchiti da Giotto a Padova e a Firenze. Fino ad allora, in pittura le figure si trovavano per lo più non già all'interno, ma davanti allo spazio architettonico e paesaggistico; tuttavia lo spirito di innovazione e di ricerca - che trova i suoi fondamenti in una conoscenza della tradizione classica derivata soprattutto dalla Toscana, da Bisanzio e da Roma - è evidente così in schemi narrativi più recenti come nel rapporto tra la struttura decorativa nella sua globalità e il suo nuovo fondale architettonico, nell'accezione italiana del Gotico.Sul muro di fondo, in particolare, e anche nella Crocifissione sul muro orientale - in cui la scena dello Svenimento della Vergine è sicuramente un inserto posteriore e stilisticamente autonomo, posto su una sezione di intonaco separata - l'analisi della quantità di lavoro svolto di tappa in tappa dalla bottega ha condotto all'ipotesi che, in un periodo di poco posteriore, venisse coinvolta nell'opera una compagine di artisti completamente diversa. L'avvicendamento di artisti, probabilmente numerosi, della bottega di C. e la diversa misura in cui quest'ultimo intervenne, personalmente, negli stadi finali di un'importante e lunga committenza sono le cause più probabili delle evidenti variazioni riscontrabili.Ricerca strutturale e prospettica e volontà di affrontare il problema della rappresentazione realistica dei personaggi sacri sono caratteristiche anche dell'unica importante pala d'altare attribuibile con certezza a C., la Madonna in trono con il Bambino, angeli e profeti proveniente da Santa Trinita (Firenze, Uffizi). Ancora una volta è evidente il processo di desunzione - e allo stesso tempo di trasformazione - dell'impianto dall'eredità del passato. La forma a timpano, che ricorda quella della facciata di una semplice chiesa romanica o di una cappella - forma che ritorna nella Madonna Rucellai di Duccio da Boninsegna, del 1285 (Firenze, Uffizi) - compare per la prima volta in opere quali la tavola con S. Francesco e scene della sua vita, dipinta da Bonaventura Berlinghieri (Pescia, S. Francesco) nel 1235, un decennio dopo la morte del santo, avvenuta nel 1226.La composizione, che presenta angeli stanti in sostituzione di una coppia di piccole figure in volo, ha strette relazioni con l'affresco di C. raffigurante la Madonna in trono con il Bambino e s. Francesco nella chiesa inferiore di Assisi, che probabilmente precede di pochissimo gli affreschi della chiesa superiore. Il tipo di trono, in legno intagliato, con un motivo a sfera e rocchetto e i gradini scanalati, è comune a entrambe le opere e si ripresenta di nuovo in quello più imponente di Cristo e della Vergine nell'affresco della chiesa superiore. Sebbene entrambi gli affreschi assisiati mostrino difficoltà nella resa del rapporto prospettico tra i lati del trono e i suppeddanei, non vi possono essere dubbi sull'intenzione di C. di fornire ai personaggi un piano d'appoggio stabile, determinando nel modo più chiaro possibile il loro progressivo inserimento nello spazio.È impossibile stabilire con sicurezza la datazione della Madonna di Santa Trinita, ma la mancanza di un qualsivoglia riflesso della Madonna Rucellai - sotto molti aspetti la tavola più matura dell'epoca e sicuramente quella più evoluta dal punto di vista tecnico - rende probabile che la pala per Santa Trinita sia la più antica delle due. Le loro dimensioni (m. 3,852,23 il dipinto cimabuesco; m. 4,502,92 la Madonna Rucellai) sono tali da alludere in entrambi i casi alla monumentalità di un affresco. Tuttavia laddove la pala Rucellai, nonostante le dimensioni, presenta sempre un tocco da miniaturista e un'incredibile complessità e precisione nella realizzazione dello sfondo d'oro, la Madonna di Santa Trinita - dipinta da un maestro in possesso di una tecnica da frescante, dall'iniziale stesura dell'intonaco ai ritocchi finali di pennello, di estrema qualità, malgrado l'uso infelice del bianco di piombo ad Assisi - è caratterizzata da larghezza di tratto piuttosto sommario e da un'incisione del fondo d'oro, a modulo quadrato relativamente semplice, che sembra eseguita a mano libera.Sebbene non vi siano contrasti prospettici nella costruzione del massiccio trono, che si innalza fino a condurre gradualmente l'occhio verso le figure dominanti della Vergine e del Bambino, il problema degli appoggi del trono, sul retro, non appare risolto, dato che ancora una volta solo la coppia inferiore di angeli poggia su una solida base; peraltro una persuasiva umanità è presente in queste figure, la cui fisicità è evidenziata dai drappeggi che ricadono morbidamente. Il modo raffinato con cui l'inclinazione del capo fa volgere lo sguardo verso l'interno trova una corrispondenza nello sguardo devoto, rivolto verso l'alto e l'interno, dei due profeti più lontani, alla base della pala. La simmetria nella disposizione delle figure e delle strutture architettoniche incornicianti la Vergine e il Bambino è ulteriormente rafforzata dall'analoga simmetria del colore delle ali e delle vesti degli angeli. Queste ultime si inseriscono nel contempo in una scala cromatica continua, che, dagli intensi rossi corallo, passando per il rosa, il lilla, il grigio-lilla, attraverso grigi caldi e freddi, arriva al grigio-blu e progressivamente, verso il basso, ai colori perfettamente puri degli abiti della Vergine.La possibilità che la tavola di Santa Trinita, malgrado il suo carattere monumentale, preceda gli affreschi di Assisi piuttosto che seguirli non può essere esclusa, stante la questione parzialmente irrisolta della prospettiva e della definizione strutturale della gamba e del ginocchio sporgente della Vergine che pure permette di istituire un confronto con l'affresco della chiesa inferiore; per non parlare poi della sorprendente capacità prospettica e della solidità perfettamente definita presenti nell'affresco con Cristo e la Vergine in trono nella chiesa superiore. Il problema viene in parte sollevato, dal punto di vista dell'osservatore, dalla collocazione sul gradino inferiore della gamba destra anziché di quella sinistra della Vergine, il che lascia il Bambino senza relazione con il ginocchio destro della Madre, che nell'affresco di Assisi fornisce invece un sostegno particolarmente saldo. La questione viene complicata anche dalla resa del panneggio sulla gamba sporgente in avanti, di per sé reso più complesso dalle lumeggiature dorate del drappeggio. Questa tecnica - derivata dall'arte bizantina ed elevata ad altissimi livelli di sofisticata stilizzazione in opere come la Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo, del 1261 (Siena, S. Maria dei Servi) - nel dipinto cimabuesco inizia, soprattutto per quanto riguarda la veste del Bambino, a conferire ai panneggi il caratteristico aspetto appena sgualcito di un vero tessuto lavorato in oro.Il carattere innovativo di quest'opera non si limita alle sue qualità formali e descrittive. Così come i pulpiti di Nicola Pisano rivestono particolare importanza poiché ampliano gli schemi iconografici preesistenti, ugualmente nella Madonna di Santa Trinita la presenza di Geremia, Abramo, Davide e Isaia, con i loro cartigli, dà una nuova profondità ed estensione di significato alla composizione tradizionale. Ad aggiungere una nuova dimensione al contesto tematico della pala d'altare non è solo la specifica relazione dei cartigli dei profeti con il ruolo della Vergine nella storia della salvazione, ma la generale associazione delle due figure principali con le profezie del Vecchio Testamento, che fornivano la prova del riconoscimento di Cristo come il Messia. La loro presenza all'interno della scena principale è nello stesso tempo un preludio allo sviluppo della predella come entità figurativa separata, completamente incorniciata, spesso con personaggi a mezza figura, cui si fa riferimento, per es., nel documento di allocazione a C. della pala d'altare per S. Chiara a Pisa.Nessuna delle pale d'altare simili a quest'ultima, che di volta in volta sono state associate al nome di C., può essere convincentemente riconosciuta come prodotto della sua bottega e nessuna di esse riflette l'ambizione compositiva del trono della Madonna di Santa Trinita o l'innovazione tematica sia pure ancora in nuce della predella. La Madonna in trono con Bambino e angeli in S. Maria dei Servi a Bologna, molto spesso attribuita a C., presenta un trono che può essere messo in relazione con l'affresco della chiesa inferiore di Assisi e dietro il trono una coppia di angeli visibili per metà, alla maniera della Madonna di Coppo di Marcovaldo in S. Maria dei Servi a Orvieto, oltre a una Vergine di proporzioni molto diverse da quelle che è possibile osservare in qualunque altra opera di Cimabue. La pala di Bologna è stata considerata un'opera ora degli esordi, ora del periodo intermedio o, ancora, tarda. Ciò dovrebbe indicare che si tratta di un lavoro di un maestro autonomo, a conoscenza dello stile tardo di C., ma condizionato in modo determinante dai modi delle opere più antiche.Questo sembra essere certamente il caso dell'unica altra opera su tavola di una certa rilevanza, spesso attribuita a C., cioè la Madonna in trono con Bambino e angeli (Parigi, Louvre) proveniente da S. Francesco a Pisa. Le dimensioni (m. 4,242,76) sono analoghe a quelle della Madonna Rucellai di Duccio, come pure assai simile è la tipologia del volto della Vergine, mentre il trono presenta analogie sia con la Madonna di C. nella chiesa inferiore di Assisi sia con la pala Rucellai. Il rigoroso trattamento del panneggio che descrive le forme corporee costituisce un chiaro progresso rispetto agli ultimi sviluppi degli affreschi nella chiesa superiore di Assisi, in totale contrasto con la situazione della Madonna di Santa Trinita; il Bambino, per contro, dipende ancora da una precedente tipologia statica e allungata. Nonostante ciò, in questa imponente opera, che probabilmente risale al 1290-1295 ca., la simmetria cromatica attentamente calibrata è direttamente derivata dalla pala d'altare di Cimabue. Nelle sue intime connessioni tanto con C. che con Duccio, la tavola del Louvre è un'ulteriore dimostrazione degli svantaggi conseguenti alla polarizzazione critica in due campi contrapposti, fiorentino e senese, dell'arte toscana della fine del 13° e dell'inizio del 14° secolo.La tendenza a trascurare o a non rendersi conto di quanto gli artisti fossero mobili - trasferendosi da un luogo all'altro attraverso gli instabili confini politici del tempo, spesso portandosi dietro le loro botteghe e cambiando cittadinanza quando lo avessero richiesto le circostanze, o anche la facilità con cui i committenti più attenti e ambiziosi, laici ed ecclesiastici, erano pronti ad assumere gli artisti migliori, senza tener conto della città di origine o della temporanea presa di posizione politica - è parzialmente responsabile della generale propensione della passata letteratura critica ad attribuire a Duccio il grande oculo chiuso da vetrate colorate nel duomo di Siena. Questa ipotesi è stata formulata in considerazione della collocazione dell'oculo e inoltre della posizione di Duccio, considerato il pittore più importante della città. La finestra, che viene menzionata per la prima volta in un documento del settembre del 1288, quando fu decretato che essa dovesse essere invetriata a spese del comune su richiesta dell'Opera del duomo, assieme ad altri riferimenti e ai pagamenti per l'esecuzione nel 1288, è una delle fondamentali testimonianze della storia dell'arte italiana della fine del 13° secolo. Né nella particolareggiata fisionomia delle figure o nella foggia delle pieghe del panneggio - in cui si notano analogie con i modi dei ricadenti panneggi cimabueschi -, né nella tipologia o nella struttura spaziale dei troni sono presenti le caratteristiche proprie dello stile di Duccio quali si riscontrano nella quasi coeva Madonna Rucellai o nella Madonna dei Francescani (Siena, Pinacoteca Naz.), di poco posteriore. D'altra parte la struttura spaziale del trono dell'Incoronazione e lo scorcio delle due figure principali sono strettamente connessi con quelli dell'analogo affresco nella chiesa superiore di S. Francesco. La testa di s. Luca è sorprendentemente cimabuesca e alcune delle teste della Dormitio Virginis hanno forti analogie con i personaggi sul lato destro della Crocifissione nel transetto meridionale di Assisi. Diversamente dagli angeli di Duccio, che hanno sempre ali marroni, tutte le ali degli angeli nella vetrata senese esibiscono grande varietà di colori, come ad Assisi o nella Madonna di Santa Trinita. Come ad Assisi - e a differenza di quanto avviene in opere di pittori su tavola in generale e di Duccio in particolare - sono presenti frequenti sovrapposizioni tra il bordo del trono e le figure. Infine la complessità spaziale della Dormitio, largamente preannunciata nella scena di Assisi, non trova corrispondenza alcuna nell'analoga scena della Maestà di Duccio, collocata nel duomo di Siena, proprio sotto l'oculo, ben due decenni dopo.Il senso cimabuesco dell'organizzazione dello spazio, la sua capacità non solo di armonizzare forma e significato, ma anche di far sì che l'una valesse ad accrescere l'altro e ancora la capacità di operare con materiali tradizionali e trasformarli, sono tutti elementi ben visibili nella vetrata di Siena. Altrettanto evidente è la qualità dell'opera, che costituisce la quintessenza degli artisti più raffinati: la capacità di fare della grande arte con mezzi semplici. Al centro si trova l'Assunzione della Vergine con al fianco i quattro santi protettori di Siena: una disposizione - che avrebbe aperto la strada alla Maestà di Duccio - particolarmente appropriata in una chiesa dedicata alla Vergine e in una città, la civitas Virginis, che riconosceva a quest'ultima il merito di averla salvata dai Fiorentini nella battaglia di Montaperti del 1260. Sotto l'Assunzione si trova la Dormitio e sopra di essa è visibile l'Incoronazione della Vergine, secondo una disposizione che riprende - dandogli per la prima volta un'espressione realmente monumentale - un altro motivo conduttore dell'arte italiana della fine del sec. 13° e degli inizi del 14°, facendo corrispondere a una tematica di ascesa una disposizione formale ascendente. Questa risoluzione semplice e tuttavia straordinariamente efficace - a cui era stata data per la prima volta una forma definita da Bonanno Pisano nelle porte in bronzo realizzate per Pisa e Monreale durante gli anni ottanta del sec. 12° - appare adottata da Jacopo Torriti, intorno al 1295, in una scala altrettanto imponente di quella della vetrata senese, nel mosaico dell'Incoronazione nell'abside di S. Maria Maggiore a Roma. Ancora più tardi, tra il 1308 e il 1311, la stessa soluzione doveva trovare una grandiosa espressione nella Maestà di Duccio. Infine, all'interno del cerchio della finestra di C., nei quattro angoli lasciati liberi dallo schema cruciforme dei quattro settori principali, sostanzialmente rettangolari, si trovano i quattro evangelisti, diffusori del vangelo nei quattro angoli della Terra. La conoscenza dell'opera svolta ad Assisi dai maestri vetrai del Nord in quella che fu, al momento della realizzazione, e ancora resta la più grande serie di vetrate dipinte in Italia è di per sé il motivo più probabile per la scelta di C. da parte dei committenti senesi. Non è perciò sorprendente che C. abbia accolto le ultime tendenze della produzione dell'area di frontiera franco-tedesca, in particolare sostituendo ai toni rossi e blu, scuri e carichi, che precedentemente erano i colori dominanti, una gamma cromatica più chiara, i cui colori principali sono il bianco, il verde e il giallo chiaro e brillante, come già è possibile scorgere nella finestra del transetto meridionale della chiesa superiore di Assisi. La luminosità dei colori si accompagna a un disegno nitido e di ampio respiro, per il quale le uniche analogie possibili con il Nord sono costituite dalle altrettanto semplici e grandiose composizioni delle vetrate romaniche, come per es. il grande oculo di Poitiers, degli inizi del 13° secolo. Ciò che ne scaturisce è un'opera dalla connotazione esclusivamente italiana; è il primo caso noto di un pittore di affreschi che lavori sul vetro adottando le dimensioni e lo stile del suo medium espressivo abituale. I singoli vetri sono accuratamente selezionati sulla base della loro uniformità di tono, della sfumatura del colore e della trasparenza e l'effetto complessivo non è affidato alla preziosa inconsistenza delle prime vetrate medievali. La struttura in piombo è così ampia e semplice da fondersi quasi, ma non completamente, con i naturali contorni esterni e interni sia delle figure sia delle forme architettoniche. Nel colore sono presenti una chiarezza e una luminosità primaverili. La ristretta gamma cromatica è fissata su una base blu chiara, e non molto carica, che ricorda il cielo del pittore di affreschi e viene ripresa nelle vesti della Vergine. Un acceso giallo canarino si contrappone a un giallo oro, un rosso porpora pallido, ma talvolta più scuro, e un rubino rosso sangue si combinano successivamente all'interno di una composizione cromatica stabilita sulle semplici melodie contrappuntistiche dell'Incoronazione e dell'Assunzione. Nella prima scena compare un'alternanza orizzontale di blu e rubino, di verde e porpora, nei mantelli e nelle vesti. Nell'Assunzione, grazie alla sua collocazione centrale, il contrappunto orizzontale e verticale delle vesti e delle ali dei quattro angeli agli angoli si accompagna a un'audace simmetria diagonale che fa risaltare il cerchio che racchiude l'enfatico schema cruciforme della partizione principale. Infine, è mediante il colore, e il colore soltanto, che viene conseguita la chiarezza spaziale della complessa composizione della Dormitio, con le quindici figure degli astanti disposte non in schiere serrate, ma con grande vivacità in ampi raggruppamenti dinamici di quattro o cinque personaggi. Come Duccio smentisce lo stereotipo secondo cui i Senesi furono semplicemente dei coloristi decorativi, così C. dimostra una comprensione e un controllo del colore puro e non carico altrettanto caratteristici dell'arte di Firenze, attraverso tutto il sec. 13°, di quanto lo sono il gusto fiorentino per il disegno e la solida forma strutturale. In effetti, l'audace intensità del disegno - nelle poche teste che recano qualche traccia di una qualità originale molto vicina all'affresco di Assisi - dimostra che il C. colorista non dimentica come si disegna.La vetrata inoltre induce a considerare un altro aspetto fondamentale della produzione artistica del Tardo Medioevo: il ruolo della bottega. Non vi è alcun dubbio che per la realizzazione e il montaggio delle vetrate venissero impiegati maestri specializzati. Cosa più importante, anche se C. fu personalmente responsabile della concezione generale e di alcuni almeno dei disegni dei volti sui vetri preparati, deve aver quasi certamente lasciato alla sua squadra l'allestimento dei disegni preparatori, sulle tavole di legno utilizzate come modello dai maestri vetrai. Imponendo due media di espressione artistica, la vetrata senese rappresenta un esempio estremo del processo di collaborazione che aveva luogo in quel periodo nell'esecuzione di tutti i grandi cicli di affreschi, come delle pale d'altare e dei complessi scultorei. Parlare degli affreschi di C. ad Assisi è una semplificazione. Non si trattava semplicemente di distribuire il lavoro lungo le pareti, come nelle Vite di s. Pietro e di s. Paolo e nella Crocifissione nel transetto settentrionale, dove l'intervento del cantiere era stato di maggiore entità. Anche dove appare una qualità artistica di prim'ordine furono all'opera numerosi lavoranti, apprendisti e maestri collaboratori, attivi nelle varie fasi dell'esecuzione di ogni singola parte di una pala d'altare, di un affresco o di un rilievo.Anche nei mosaici, come per es. quelli della cupola del battistero di Firenze, notevoli varianti stilistiche compaiono frequentemente entro aree molto limitate, anche quando non si tratta di tessere inserite ex novo nel corso di antichi restauri. In quel ciclo la presenza di particolari cimabueschi - per es. nella scena dell'Imposizione del nome di s. Giovanni, che in ogni caso fu una delle ultime a essere completata e quindi probabilmente realizzata solo molto tempo dopo la morte di C. - non giustifica tuttavia la tesi secondo cui, in quanto responsabile dell'opera, C. avrebbe partecipato solo di tanto in tanto all'esecuzione di alcune piccole zone.La tendenza a ridurre il caleidoscopico risultato di un lavoro di équipe al prodotto di un'unica mano, ad assegnare qui una testa lì un drappeggio a questo o a quell'artista, ad attribuire tutto ciò che può sembrare il lavoro migliore dal punto di vista estetico - a seconda dei gusti in un dato periodo storico o della preferenza di un particolare osservatore - a qualsiasi nome di spicco, oppure a postulare che il capo documentato di una équipe fosse necessariamente o invariabilmente l'artista migliore impegnato nell'opera, è tanto sospetta, da un punto di vista logico, quanto la tendenza invalsa ad attribuire arbitrariamente la maggior parte delle poche opere superstiti a pochi nomi famosi. Nel caso di C. il problema è aggravato dal fatto che la moderna storia dell'arte è un'invenzione fiorentina, basata sin dai primordi sul concetto del genio, quale concepita dal suo antico precursore. Sebbene sia stato C. lo sconfitto, entrambe le caratteristiche si ritrovano già congiunte nella famosa terzina di Dante: "Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura" (Purg. XI, vv. 94-96). Nelle Vite di Vasari C. diviene, con il suo successore fiorentino, uno dei primi eroi, nella battaglia combattuta per sottrarsi all'abisso della barbarie medievale, che segue le grandi gesta dell'Antichità e precede le conquiste ancor più meravigliose del Rinascimento. La storia di Vasari, strutturata biograficamente, è così convincente, così sicuro il suo concetto della superiorità fiorentina, così debole la sua comprensione della natura non fiorentina di alcune conquiste nell'arte, soprattutto senesi, in un periodo che risaliva già a quasi trecento anni prima, che soltanto gradualmente, anche con l'aiuto delle tecniche e dei metodi di approccio a disposizione dei moderni studiosi, e del tutto mancanti a Vasari, è andata formandosi una visione forse più equilibrata e certamente di maggior respiro. I quattro secoli trascorsi, con le incalcolabili perdite del materiale originale, con la progressiva degradazione del poco che sopravvive, dimostrano che il compito di collocare in un contesto appropriato le conquiste artistiche legate al nome di C. incontra difficoltà quasi insormontabili. Ciò malgrado, per quanto i primi autori non abbiano visto quel contesto e per quanto la loro prospettiva storica sia stata semplicistica e sbagliata nei particolari, essi avevano però ragione su una cosa. Si trovavano di fronte a opere che possedevano veramente il segno del genio, qualunque fosse stata la dinamica della produzione o lo status socio-economico dei loro realizzatori. Il frammentario mosaico del duomo di Pisa, gli oscuri resti e gli echi di glorie passate negli affreschi di Assisi, la monumentale tavola dipinta della Madonna di Santa Trinita e il finestrone circolare di Siena sono opere che testimoniano un fatto importantissimo: finché sopravvivono, tutte le grandi opere d'arte, per quanto mutile, conservano ancora il loro potere di parlare all'occhio e alla mente, sino al momento della loro dissoluzione finale.

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