Cinema

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Cinema

Gianni Rondolino

sommario: 1. Le nuove scuole nazionali degli anni sessanta. 2. La fine di Hollywood e la rinascita del cinema americano. 3. Il cinema europeo dell'ultimo trentennio. 4. Il cinema dei paesi extraeuropei. 5. Nuova critica e nuovo pubblico. □ Bibliografia.

1. Le nuove scuole nazionali degli anni sessanta

Dopo la grande stagione del neorealismo italiano e del suo influsso, diretto o indiretto, sulle altre cinematografie - e dopo la ripresa del cinema mondiale nel corso degli anni cinquanta secondo modelli e forme abbastanza simili a quelli del cinema classico prebellico, soprattutto negli Stati Uniti, in Francia, in Unione Sovietica - si avvertirono alla fine del decennio e nei primi anni sessanta fermenti nuovi in molti paesi europei, in particolare in Francia, che diedero origine a nuove scuole cinematografiche nazionali, meno legate alla tradizione e aperte a una duplice sperimentazione, tanto sul piano dei contenuti quanto su quello delle forme. In altre parole, un gruppo di giovani cineasti, formatisi nelle cineteche o attraverso l'esercizio critico su giornali e riviste di tendenza (come, ad esempio, i ‟Cahiers du cinéma" in Francia), volle in qualche modo utilizzare la macchina da presa non già per confezionare film spettacolari, magari di notevole livello artistico, quanto per parlare di sé, della propria generazione e dei propri problemi esistenziali, spesso al di fuori di riferimenti e condizionamenti politici e ideologici. Un richiamo al neorealismo e a certo cinema americano minore, sulla scia di una riscoperta del ruolo e della funzione dell'‛autore', inteso come unico creatore dell'opera, piuttosto che come ‛regista', coordinatore dello spettacolo filmico. In tal senso notevole influenza ebbe, non solo in Francia, la lezione teorica e critica di André Bazin, nonché la cosiddetta politique des auteurs, volta appunto a privilegiare, nel lavoro collettivo e collaborativo proprio della produzione cinematografica, la posizione del regista, considerato alla stessa stregua di uno scrittore, un pittore, un poeta o un musicista: cioè non solo il responsabile artistico di un film, ma anche e soprattutto il suo creatore, con una sua propria poetica, una sua estetica, una sua Weltanschauung. Di qui l'uso - a volte l'abuso - dell'espressione ‛scrittura filmica' in sostituzione di ‛regia'; di qui anche una pratica filmica e una riflessione teorica e critica, in cui la personalità del regista veniva messa in luce, al di là dei limiti e delle convenzioni della produzione cinematografica corrente, come quella di un artista assolutamente libero di esprimere la propria visione del mondo.

Nell'ambito di questa nuova prospettiva formale ed ermeneutica, in Francia, alla fine degli anni cinquanta, si andò formando un gruppo agguerrito e sempre più numeroso di giovani registi che rinnovò in maniera radicale il cinema francese del tempo. Si pensi a François Truffaut, a Jean-Luc Godard, a Claude Chabrol, a Jacques Rivette, a Eric Rohmer - tutti critici dei ‟Cahiers du cinéma" -, ad Alain Resnais e al suo ‛cinema della memoria', e a molti altri. Tutti, in misura più o meno evidente e coerente, interessati a infrangere gli schemi del cinema classico, a richiamarsi tanto alla propria esperienza personale, quanto alle nuove forme della letteratura e delle arti visive: e ciò avveniva sia portando sullo schermo personaggi, situazioni e ambienti che riflettevano direttamente o indirettamente la propria vita, sia destrutturando il racconto, scardinando la rappresentazione secondo nuove regole formali, o meglio inventando di volta in volta le regole necessarie alla costruzione di un film del tutto personale. Di qui, ad esempio, il cosiddetto ‛cinema-saggio', di cui Godard fu uno dei più rigorosi e conseguenti propugnatori, soprattutto con i suoi film della fine degli anni sessanta - a partire da La chinoise (1967) - e degli anni seguenti (Numéro deux, 1975; Passion, 1982; Nouvelle vague, 1990; Allemagne neuf zéro, 1991). Si trattava di un cinema che rifiutava la storia, nel senso tradizionale del termine, il racconto, i personaggi stessi, a favore di una rappresentazione prospettica, sfaccettata, polemica, di fatti e problemi della società contemporanea, invitando - anzi quasi costringendo - lo spettatore a prendere posizione, a reagire alle immagini e alle parole, coinvolgendolo più sul piano della ragione che su quello del sentimento. Un cinema, quindi, animato da un'ispirazione assai diversa rispetto a quella di un Truffaut, la cui opera si è mossa sul versante di un autobiografismo sfumato e di un uso della cinecamera come rivelatrice di passioni e sentimenti (i cinque film su Antoine Doinel, 1959-1979; La chambre verte, 1978), o di un Chabrol, più interessato alla descrizione critica dell'ambiente piccolo borghese o all'analisi di situazioni patologiche (Le boucher, 1970; Masques, 1987; Une affaire de femmes, 1988), o di un Rohmer, delicato narratore di storie di giovani (Ma nuit chez Maud, 1969; Pauline à la plage, 1983), o di un Rivette, geniale manipolatore di situazioni e di comportamenti (L'amour fou, 1969; La belle noiseuse, 1991), o infine di un Resnais, straordinario indagatore dei nessi che legano il passato al presente, sperimentatore accanito di nuove soluzioni formali (L'année dernière à Marienbad, 1961; Providence, 1977; L'amour à mort, 1984).

Sull'esempio della nouvelle vague francese - come fu denominata la nuova scuola che, oltre ai registi citati, comprese decine e decine di altri giovani esordienti - si mossero molti registi in Germania, in Gran Bretagna, in Italia e in parecchi paesi socialisti, dalla Polonia all'Ungheria, dalla Cecoslovacchia all'Unione Sovietica. Per tacere dei fermenti di rinnovamento che si riscontrarono, in quegli anni, anche nell'America Latina e nell'Estremo Oriente (si vedano i molti film nuovi, anticonvenzionali, realizzati in Argentina, in Brasile, in Giappone), e persino negli Stati Uniti, dove tuttavia il movimento rivoluzionario toccò solo marginalmente Hollywood, essendo circoscritto per lo più al cosiddetto New American cinema o al cinema underground, la cui circolazione, in America e in Europa, non toccò le sale cinematografiche, ma piuttosto circoli culturali, cineclub e università. Queste nuove scuole nazionali ebbero naturalmente origini e sviluppi differenti da paese a paese, non foss'altro perché questi giovani autori si trovavano ad affrontare situazioni economiche, sociali, politiche e ideologiche diverse. In Germania, ad esempio, si trattava di ricostruire una cinematografia che aveva dato scarsissimi segni di vitalità dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un paese diviso in due, con gravi problemi politici e sociali. Di qui la necessità di raccogliere attorno ai propugnatori di un nuovo cinema, capeggiati dallo scrittore-regista Alexander Kluge (Der starke Ferdinand, Ferdinando il duro, 1976), un gruppo di giovani disposti a usare la macchina da presa come strumento di conoscenza e di indagine del reale senza troppi riguardi per le convenzioni e il perbenismo della società tedesca, in genere piuttosto conservatrice e non disposta a porsi in discussione; ed è a questi giovani che dobbiamo il cosiddetto Junger deutscher Film. Registi come Wim Wenders (Falsche Bewegung, Falso movimento, 1974; Im Lauf der Zeit, Nel corso del tempo, 1975), Werner Herzog (Jeder für sich und Gott gegen alle, L'enigma di Kaspar Hauser, 1974; Fitzcarraldo, 1982), Rainer Werner Fassbinder (Die Ehe der Maria Braun, Il matrimonio di Maria Braun, 1978; Querelle, 1982) furono per anni i più interessanti e validi rappresentanti di questa scuola, che introdusse anche nuovi modelli formali, originali soluzioni linguistiche, dando vita a una moda ‛cinefila' che ebbe numerosi adepti.

In Gran Bretagna la situazione era diversa, essendo il cinema inglese degli anni cinquanta fiorente e ricco di film prestigiosi. Ma, come in Francia, si trattava di uscire dagli studi, di abbandonare i vecchi clichés spettacolari, di scendere per le strade e affrontare i problemi della vita quotidiana. Nacque così il movimento che si autodefinì free cinema e che proprio sulla ‛libertà' d'azione e di linguaggio costruì la sua identità artistica: un cinema libero di scegliersi nuovi modelli, magari attinti alla letteratura e al teatro, purché ancorati a una visione critica e spregiudicata della realtà, come dimostrarono i film di Karel Reitz (Saturday night and sunday morning, 1961; Morgan, a suitable case for treatment, 1966), Lindsay Anderson (The sporting life, 1963), Tony Richardson (Tom Jones, 1963), spesso tratti da testi di John Osborne, Alan Sillitoe, Harold Pinter, Arnold Wesker. Una scuola nazionale che si esaurì nel volgere di non molti anni, ma che contribuì anch'essa a svecchiare il cinema tradizionale e a impostare quel nuovo linguaggio che sarebbe stato caratteristico del cinema dei decenni seguenti.

In Italia la produzione cinematografica era invece dominata dai film di genere, di grande successo popolare, dal momento che la stagione del neorealismo si era progressivamente esaurita. Si trattava pertanto di riprendere quella lezione di realismo che i film di Rossellini, De Sica, Visconti avevano impartito, ma di adattarla alla nuova situazione storico-politica, e soprattutto di introdurvi elementi di linguaggio che non ricalcassero i modelli tradizionali. In tal senso, si pensi all'opera di Marco Bellocchio (I pugni in tasca, 1965), Bernardo Bertolucci (La strategia del ragno, 1970; Ultimo tango a Parigi, 1972), Marco Ferreri (La donna scimmia, 1963; Dillinger è morto, 1969), Ermanno Olmi (Il posto, 1961; L'albero degli zoccoli, 1977), i fratelli Paolo e Vittorio Taviani (San Michele aveva un gallo, 1971; Allonsanfàn, 1974), tutti molto attivi anche nei decenni seguenti; ma si pensi soprattutto ai film di Pier Paolo Pasolini, che hanno segnato una tappa fondamentale nella storia del cinema di poesia, di un cinema, cioè, refrattario alla narrazione tradizionale, aperto invece alle suggestioni che poteva offrire un linguaggio filmico libero di reinterpretare la realtà nei modi e nelle forme d'una continua invenzione estetica (Accattone, 1961; Uccellacci e uccellini, 1966; Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975). Sotto questo aspetto - quello, cioè, del recupero di uno stile personale senza trascurare i temi della vita contemporanea, con riflessi anche politici e sociali - il cinema italiano, sviluppatosi a partire dai primi anni sessanta, si è affiancato a quelle scuole nazionali innovative che già in Francia, in Germania e in Gran Bretagna si erano poste il problema linguistico del radicale superamento tanto del cinema tradizionale, quanto di quello nato dal neorealismo e dai fermenti di novità dell'immediato dopoguerra.

In una situazione parzialmente simile, ma sostanzialmente diversa per la profonda diversità delle strutture politiche, economiche e sociali dei rispettivi paesi, il cinema polacco, ungherese, sovietico e cecoslovacco, grazie anche alla crisi politica e ideologica che attraversò quelle società, alla fine degli anni cinquanta e nei primi sessanta sembrò porsi su un piano di rinnovamento contenutistico e formale che non molto differiva da quello delle scuole nazionali cui si è fatto cenno. Un rinnovamento che segnò una netta frattura nei confronti del cosiddetto realismo socialista, che in quegli anni ancora dominava il mondo dell'arte e della letteratura dei paesi dell'Est. Si trattava di riscoprire la vita quotidiana coi suoi problemi e le sue contraddizioni, tanto individuali quanto sociali; ma si trattava anche di rinnovare un linguaggio cinematografico che si era andato sclerotizzando, legato com'era ai grandi modelli del cinema sovietico classico. In questa direzione, con risultati di indubbio valore, si mossero registi come i polacchi Andrzej Munk (Pasaäerka, La passeggera, 1963), Andrzej Wajda (Niewinni czarodzieje, Ingenui perversi, 1960; Czùowiek z marmuru, L'uomo di marmo, 1976), Roman Polanski (Nóä w wodzie, Il coltello nell'acqua, 1962; Rosemary's baby, 1968, negli Stati Uniti), Jerzy Skolimowski (Rysopis, Se-gni particolari: nessuno, 1964; Success is the best revenge, 1984, in Gran Bretagna); gli ungheresi Miklós Jancsó (Szegénylegények, I disperati di Sándor, 1964; Csend és kiáltás, Silenzio e grido, 1968), István Gaál (Magasiskola, I falchi, 1970), András Kovács (Hideg napok, Giorni freddi, 1966), István Szabó (Tuüzoltó utca 25, Via dei Pompieri 25, 1973); i sovietici Andrej Tarkovskij (Ivanovo detstvo, L'infanzia di Ivan, 1962; Andrej Rublëv, 1966-1969), Andrej Michalkov-Končalovskij (Istorjia Asjej Kljačinoj, Storia di Asja Kljacina, 1966), Nikita Michalkov (Neskolko dnej iz žizni I. I. Oblomova, Oblomov, 1979), Sergej Paradžanov (Legenda o Suramskoj kreposti, La leggenda della fortezza di Suram, 1985), Otar Ioseliani (Žil pevčij drozd, C'era una volta un merlo canterino, 1973); i cecoslovacchi Věra Chytilová (Sedmikrásky, Le margheritine, 1966), Miloš Forman (Lásky jedné plavovlásky, Gli amori di una bionda, 1965), Jan Němec (O slavnosti a hostech, La festa e gli invitati, 1966), Evald Schorm (Každý den odvahu, Il coraggio quotidiano, 1964), Jiří Menzel (Ostře sledované vlaky, Treni strettamente sorvegliati, 1966). Un folto gruppo di autori che riuscì, almeno nei primi tempi, a darci dei loro paesi una rappresentazione genuina, problematica, nuova; ma, in molti casi, essi furono poi costretti a rientrare nei ranghi o a emigrare, imponendosi tuttavia fra i più significativi e importanti registi del ventennio seguente (si pensi a Polanski, a Skolimowski, a Tarkovskij, a Michalkov).

Come si è detto, anche nell'America Latina e in Giappone questi fermenti di rinnovamento si manifestarono in film di indubbio fascino e di grande significato, non solo estetico, ma più propriamente politico e ideologico. Non tanto forse la cosiddetta scuola argentina, il cui più noto rappresentante fu Leopoldo Torre Nilsson (Fin de fiesta, 1960), quanto un film come La hora de los hornos (1966-1968) di Octavio Getino e Fernando Solanas (molto attivo anche nei decenni seguenti); e soprattutto il Cinema nôvo brasiliano con le opere ‛rivoluzionarie' di Glauber Rocha (Deus e o diabo na terra do sol, Il dio nero e il diavolo biondo, 1964), Ruy Guerra (Os fuzís, I fucili, 1964) e Carlos Diegues (Bye bye Brasil, 1980). Quanto al cinema giapponese, dominato dai film di Akira Kurosawa, Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu e altri grandi registi, noti e apprezzati anche e forse soprattutto in Occidente, i fermenti di novità coincisero con la crisi politica della società nipponica a quindici anni dalla fine della guerra e dall'ecatombe di Hiroshima e Nagasaki: una crisi d'identità che giovani scrittori, come Yukio Mishima, e cineasti, come Nagisa Ōshima (Gishiki, La cerimonia, 1971), seppero cogliere e rappresentare in romanzi e film di forte impatto contenutistico e formale. Pertanto anche nell'Estremo Oriente e in America Latina la crisi artistica che aveva colpito il cinema nelle sue strutture linguistiche (e in parte produttive) - e che in Europa aveva dato origine al fiorire di scuole nazionali che questa crisi seppero superare con eccellenti risultati non solo formali - fu risolta attingendo a quel grande repertorio di forme e stili che il cinematografo aveva elaborato nella sua storia di oltre mezzo secolo, con una libertà di scelta che può essere riassunta nell'affermazione di Godard, secondo il quale tutto ciò che è proiettato sullo schermo è cinema.

2. La fine di Hollywood e la rinascita del cinema americano

Nel corso degli anni sessanta, in coincidenza con la nascita e l'affermazione, anche internazionale, delle varie scuole nazionali europee, si assistette a un progressivo indebolimento del cinema di Hollywood, dovuto a varie cause, fra le quali la grande e capillare diffusione della televisione, alcune operazioni commerciali sbagliate e il mutamento dei gusti del pubblico giovanile. Proprio il successo di certi film della nouvelle vague e di altre cinematografie europee, col loro stile libero, coi loro personaggi, ambienti e storie legati al mondo dei giovani, alla loro esperienza personale, ai loro miti e riti quotidiani, determinò un qualche insuccesso dei film americani, la maggior parte dei quali realizzati secondo schemi e modelli un po' obsoleti. Solo alla fine del decennio, con un film come Easy rider (1969) di Dennis Hopper, girato in economia, al di fuori delle grandi case di produzione, frutto di una sorta di compromesso fra lo spettacolo tradizionale e la rivoluzione del cinema underground, ci fu una reale ripresa. Quel film, che divenne una sorta di manifesto per le nuove generazioni e che bene coglieva lo spirito irrequieto e rivoltoso dei giovani, non solo americani, in un periodo di riflusso e di nuovi ideali rivoluzionari (siamo negli anni della contestazione giovanile e del maggio francese), diede origine a una nuova produzione che si rifaceva, almeno in parte, a quella europea.

Nel volgere di un decennio il cinema hollywoodiano abbandonò a poco a poco la sua grande tradizione spettacolare - che era ancora seguita, sia pure con notevoli e personali innovazioni, da grandi registi come Arthur Penn (Alice's restaurant, 1969), Sam Peckinpah (The wild bunch, 1969; Straw dogs, 1971), Robert Altman (Nashville, 1975; The player, 1992; Short cuts, 1993), o da un geniale autore indipendente come Roger Corman (The wild angels, 1966) alla cui scuola si formarono alcuni dei giovani della ‛nuova' Hollywood dei decenni seguenti - per intraprendere una strada meno lineare.

Novità linguistiche si coniugavano con una grande libertà nella scelta dei temi e dei soggetti da trattare; personaggi anticonvenzionali erano tratteggiati entro ambienti presi dalla vita quotidiana o stravolti da una fantasia che mescolava la realtà e il desiderio, il sogno e anche la critica sociale. Il cinema diventava il luogo delle contraddizioni, lo specchio d'una società e d'un mondo - quello giovanile - che si manifestavano attraverso percorsi individuali e collettivi sempre diversi, non certo lineari. Sorsero così nuove tendenze spettacolari, unitamente a una progressiva trasformazione dell'organizzazione produttiva di Hollywood, non più concentrata nelle grandi case ‛storiche', ma articolata in una serie di progetti minori, isolati, indipendenti, ovvero in una diversa struttura di produzione, che teneva conto delle mutazioni dei gusti del pubblico, o meglio delle differenze fra gli spettatori, non più omologabili in un unico generico ‛pubblico' indifferenziato, ma portatori di richieste e attese settoriali. Sicché, venendo ormai meno la necessità di una produzione cinematografica secondo i modelli della Hollywood classica, per generi e categorie, data l'assenza di un pubblico anch'esso ‛classico', tradizionale, conservatore, nacque e si sviluppò un cinema che superava i confini dei cosiddetti studio system e star system, cioè delle strutture portanti della produzione hollywoodiana dei decenni precedenti, per avventurarsi su strade che avrebbero portato a una generale riformulazione dei modelli filmici.

Su questa strada si mosse, fra i primi, John Cassavetes, vicino agli artisti del New American cinema, ma in seguito autore di numerosi film che coniugavano originalmente le esigenze dello spettacolo con i bisogni dell'espressione artistica individuale: film spesso costruiti su pochi personaggi e molta improvvisazione, con uno stile libero che ne metteva in luce gli aspetti più genuini e veritieri (Husbands, 1970; A woman under the influence, 1974). A Cassavetes si ispirò per molti versi un regista come Martin Scorsese, che nel volgere di pochi anni divenne il più significativo autore del nuovo cinema americano, essendo alcuni dei suoi film diventati cult movies, con tutte le conseguenze del caso sul piano della cinefilia e del successo popolare (Mean streets, 1973; Taxi driver, 1976; Goodfellas, 1990). Nell'ambito di questa nuova produzione, libera dai condizionamenti precedenti e aperta alle più diverse suggestioni del momento, si sono mossi molti altri giovani registi, come Francis Ford Coppola (Apocalypse now, 1979, il trittico di The godfather, 1971-1990), Brian De Palma (Dressed to kill, 1980; The untouchables, 1989), Michael Cimino (The deer hunter, 1978; Heaven's gate, 1980), Lawrence Kasdan (The big chill, 1984), George Lucas (American graffiti, 1973; Star wars, 1977), Steven Spielberg (Duel, 1971; Close encounters of the third kind, 1977, Raiders of the lost ark, 1981; Jurassic park, 1993), e anche - sul versante di un cinema di genere, soprattutto l'horror e la fantascienza - registi interessanti come John Carpenter (Escape from New York, 1981), Ridley Scott (Blade runner, 1982) o Jonathan Demme (The silence of the lambs, 1991). Ma certamente, insieme a Scorsese, l'autore che meglio ha rappresentato la novità e i fermenti del cinema americano dell'ultimo ventennio è David Lynch, nella cui opera, diversamente accolta dal pubblico e dalla critica, è presente una visione ‛apocalittica' della società e dell'uomo, visti e rappresentati come modelli negativi di un mondo corrotto e corruttore, nel quale l'individuo sembra smarrirsi senza più trovare punti di riferimento o vie d'uscita (Blue velvet, 1986; Wild at heart, 1990).

Di questo clima d'incertezza, spesso di paura, a volte di disagio, si sono fatti interpreti in anni più recenti giovani registi come Abel Ferrara (Bad lieutenant, 1992), Jim Jarmush (Stranger than paradise, 1984), Spike Lee (Do the right thing, 1989), i fratelli Joe e Ethan Coen (Barton Fink, 1991) e soprattutto Quentin Tarantino, divenuto con Pulp fiction (1994) un autore di culto, modello di un nuovo cinema violento e aggressivo, ma anche permeato di autoironia e di sarcasmo. E di autoironia, di umorismo, a volte di comicità dichiarata, la cinematografia americana dell'ultimo trentennio non è stata priva, anzi ha ottenuto risultati originali, a volte anche geniali, come dimostrano i film di tradizione ebraica realizzati da autori-attori quali Mel Brooks (Frankenstein junior, 1975), Gene Wilder, Marty Feldman e soprattutto Woody Allen, uno dei più sottili indagatori del costume e della mentalità americana, in particolare newyorchese (Annie Hall, 1977; Manhattan, 1979; Crimes and misdemeanours, 1989).

Al di fuori di queste tendenze, tanto comiche quanto drammatiche, anzi al di fuori della produzione cinematografica americana, in quanto chiuso in un isolamento totale, in una sorta di esilio volontario, si colloca l'opera complessa e difficilmente catalogabile di Stanley Kubrick, autore, negli anni settanta e ottanta, di film memorabili come 2001: a space odyssey (1968), A clockwork orange (1971), Barry Lyndon (1975), The shining (1980), Full metal jacket (1987): capitoli diversi di un grande affresco sulla violenza nella società contemporanea e sulle sue conseguenze sulla vita dei singoli. Dentro il sistema hollywoodiano, sia pure rinnovato nei contenuti e nelle forme, nella ridefinizione dei generi cinematografici e in una più duttile e aperta struttura produttiva, si collocano invece i molti film che sono stati realizzati secondo principî spettacolari che non molto differiscono dai vecchi modelli, o con le nuove tecnologie attraverso le quali si possono ottenere effetti speciali di grande suggestione e di sicuro successo. Di qui il moltiplicarsi di film costruiti con intenti dichiaratamente commerciali, con grandi mezzi tecnici e finanziari, con un dispendio di forze produttive straordinario: film che si sono collocati, soprattutto nel corso degli anni novanta, ai primi posti del mercato cinematografico mondiale, contribuendo non poco, con la loro presenza massiccia e capillare, all'indebolimento delle altre cinematografie, europee ed extraeuropee. Tanto che, in una prospettiva onnicomprensiva che tenga conto degli sviluppi e delle variazioni di percorso, si corre il rischio, in questo scorcio di millennio, di vedere Hollywood non soltanto come simbolo ed emblema del cinema tout court, ma anche come dominatore assoluto del cinema mondiale.

3. Il cinema europeo dell'ultimo trentennio

Le trasformazioni che il cinema hollywoodiano ha prodotto nel mercato cinematografico e il suo successo internazionale, soprattutto presso il pubblico giovanile, non hanno tuttavia impedito al cinema europeo dell'ultimo trentennio di proseguire sulla strada intrapresa alla fine degli anni cinquanta e agli inizi dei sessanta, quando, come si è detto, nacquero e si svilupparono le nuove scuole nazionali. Certo, le difficoltà finanziarie, una diffusa disorganizzazione produttiva, la concorrenza del cinema hollywoodiano e della televisione, la crisi economica e sociale che colpì in particolare i paesi dell'Europa orientale, la caduta del muro di Berlino, con la conseguenza di un diverso assetto politico di quell'area e la fine delle ideologie, non favorirono quel cammino, anzi lo ostacolarono non poco. In alcuni casi si assistette addirittura a un fortissimo calo di produzioni, quasi alla scomparsa di questa o quella cinematografia; in altri casi si modificarono vecchi assetti o si trasformarono modelli e funzioni; in altri ancora, infine, si rimase allo stadio precedente, accontentandosi di amministrare un patrimonio artistico consolidato, con poche o nessuna innovazione.

Per certi aspetti questa è stata la situazione del cinema francese dopo la grande stagione della nouvelle vague, almeno nel senso che i più significativi registi dell'ultimo trentennio rimangono ancora Godard, Chabrol, Rohmer, Rivette, Resnais, Truffaut (morto nel 1984). Non v'è dubbio, infatti, che alcuni loro film, come Hélas pour moi (1993) di Godard, La cérémonie (1995) di Chabrol, i vari Contes (1990-1996) di Rohmer, Jeanne la Pucelle (parte I e II, 1992-1993) di Rivette, Smoking/No smoking (1994) di Resnais, sono fra le opere più interessanti degli ultimi anni. Tuttavia, a fianco di questi maestri, si è sviluppata, se non una vera e propria scuola, certamente una nuova tendenza nel cinema francese, che ha saputo riprendere e aggiornare alcuni motivi e temi della nouvelle vague, immettendovi i fermenti, le attese, le paure, i desideri, le angosce delle nuove generazioni. Si pensi a registi come Luc Besson (Subway, 1985), Jacques Doillon (Le petit criminel, 1990), Cyril Collard (Les nuits fauves, 1992), Léos Carax (Les amants du Pont Neuf, 1991) e molti altri, qual più qual meno interessati alla rappresentazione forte e non edulcorata della realtà contemporanea, magari attraverso un uso originale della metafora, uno stile composito, personaggi e ambienti inusuali. Un cinema in larga misura innovativo, anche se non sempre all'altezza dei propositi, più o meno dichiarati, ovvero chiuso entro schemi contenutistici e formali un poco datati.

Sotto questo aspetto, che riguarda in egual misura il linguaggio e i temi affrontati, è parso più vivace e dinamico il cinema inglese e irlandese, che da un lato si è richiamato alla lezione del free cinema - con un'attenzione particolare alle questioni sociali, al mondo del lavoro, alle difficoltà della vita quotidiana - e dall'altro si è aperto a una serie di sperimentazioni nei vari campi dello spettacolo, con originali soluzioni filmiche. In quest'ultimo ambito un posto di rilievo spetta a due artisti come Peter Greenaway, autore, fra l'altro, di The cook, the thief, his wife and her lover (1989) e di Prospero's books (1991), e Derek Jarman, cui si devono Edward II (1991) e Wittgenstein (1993): geniali e provocatori registi dell'immagine e degli ambienti, fuori degli schemi abituali dello spettacolo, attenti a riscoprire tutte le possibilità fascinatorie dello schermo, usato come specchio riflettente della fantasia. In questo senso essi sono parsi ben più interessanti di un regista-attore come Kenneth Branagh, aggiornato ma superficiale interprete cinematografico del teatro di Shakespeare. Nell'ambito invece di un cinema ‛sociale', attento ai problemi concreti della Gran Bretagna o dell'Irlanda contemporanee, si sono distinti soprattutto Stephen Frears (The snapper, 1993), Kenneth Loach (Raining stones, 1993), Mike Leigh (High hopes, 1988) e, appartato nel suo mondo privato e in larga misura autobiografico, Terence Davis (Distant voices, still lives, 1988).

Quanto alla Germania, esauritasi la spinta innovatrice del Junger deutscher Film, solo Fassbinder (morto nel 1982), Herzog e Wenders hanno dominato il cinema tedesco per un lungo periodo, con un successo di critica e di pubblico internazionali. Basti pensare a Berlin Alexanderplatz (1980) del primo, a Cobra verde (1988) del secondo, e soprattutto all'opera complessiva del terzo - Paris, Texas (1984), Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987), Bis ans Ende der Welt (Fino alla fine del mondo, 1991), In weiter Ferne, so nah! (Così lontano, così vicino, 1993) - che è diventata, per la giovane critica e il pubblico cinefilo, una sorta di modello del cinema contemporaneo. La presenza di questi autori ha posto in secondo piano una produzione cinematografica che, pur fra difficoltà economiche e disaffezione degli spettatori, ha tuttavia mantenuto un certo livello qualitativo, grazie all'apporto di registi come Edgar Reitz (Heimat, 1980-1984) e Werner Schroeter (Malina, 1991), oltre all'opera aristocratica, sperimentale ed elitaria di Hans Jürgen Syberberg (Hitler, ein Film aus Deutschland, 1977). Né l'unificazione delle due Germanie, dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989, ha segnato una ripresa produttiva o una diversificazione della produzione cinematografica, che, anzi, si è vieppiù appiattita su modelli e schemi spettacolarmente tradizionali e privi di vere necessità espressive.

Tale situazione ha dominato per tutti gli anni settanta e ottanta anche il cinema italiano, circoscritto - con poche eccezioni - nel campo del divertimento popolare, della commedia becera o del dramma volgare, ottenendo tuttavia gran successo di pubblico, almeno in certi casi.

Ma ci sono state appunto le eccezioni, rappresentate dalle opere di registi che avevano esordito nei primi anni sessanta e che hanno proseguito nei decenni seguenti il loro cammino personale, un poco ai margini del mercato, con risultati certamente positivi. Ferreri, ad esempio, col suo cinema anticonformista, provocatorio, aggressivo (La grande abbuffata, 1973; I love you, 1986); i fratelli Taviani, coi loro film raffinati e intellettualmente stimolanti (Padre padrone, 1977; Fiorile, 1993); Olmi, col suo sguardo delicato e profondo (Lunga vita alla signora, 1987); Bertolucci, con la grandiosità del suo cinema ‛internazionale' (Novecento, 1976; L'ultimo imperatore, 1987; Piccolo Buddha, 1993); e poi Bellocchio (Gli occhi, la bocca, 1982), Ettore Scola (La famiglia, 1986), Liliana Cavani (Il portiere di notte, 1974) e altri. A costoro occorre aggiungere il nome di Sergio Leone, considerato il maestro del western ‛all'italiana', geniale artigiano dello spettacolo popolare (Per un pugno di dollari, 1965; C'era una volta in America, 1984). A questi autori se ne sono poi affiancati altri non meno interessanti, come Pupi Avati, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore e soprattutto Gianni Amelio (Il ladro di bambini, 1992), Sergio Citti (I magi randagi, 1996), Franco Piavoli (Voci nel tempo, 1996) e colui che viene considerato, anche fuori d'Italia, il miglior rappresentante del cinema italiano degli anni novanta, Nanni Moretti (Palombella rossa, 1989; Caro diario, 1993). Registi che alla feroce concorrenza del cinema americano hanno saputo opporre un baluardo fatto di film intelligenti e personali, ma che tuttavia sono rimasti ai margini del mercato per una serie di ragioni attribuibili in egual misura alla distribuzione e all'esercizio cinematografico, dominato dai prodotti d'oltre Oceano (come d'altronde avviene nella maggior parte dei paesi europei ed extraeuropei).

Al di fuori di quelle che possiamo ancora considerare come le grandi cinematografie europee - la francese, l'inglese, la tedesca e l'italiana - si è assistito, nel corso dell'ultimo trentennio, a una certa ripresa della produzione in aree marginali, come la Spagna o il Portogallo, a fronte tuttavia di un calo sensibile della produzione nei paesi dell'Europa settentrionale e della crisi gravissima che ha colpito, dopo la fine del comunismo e le conseguenti trasformazioni politiche e sociali, i paesi dell'Europa orientale. La spinta di rinnovamento che aveva caratterizzato quelle cinematografie agli inizi degli anni sessanta si era ormai da parecchi anni esaurita. Ma nel corso degli anni novanta, pur fra notevoli difficoltà, tanto economiche quanto politiche e sociali, la ripresa, soprattutto in quella che fu l'Unione Sovietica, è sembrata assumere proporzioni significative, attraverso lo sviluppo di taluni elementi di novità che già erano apparsi nel decennio precedente, durante l'era di Gorbačëv. Si pensi in particolare a Sergej Bodrov (S.E.R.-Svoboda eto raj, La libertà è il paradiso, 1989), a Vitalij Kanevskij (Samostojatelnaja žizn', Una vita indipendente, 1991), a Pavel Lounguine (Taxi blues, 1990), ad Aleksandr Sokurov (Moskovskaja elegija, 1987), al lituano Šarunas Bartas (Few of us, Lontano da Dio e dagli uomini, 1996). In quella che fu la Iugoslavia il nome di maggior spicco è certamente quello di Emir Kusturica (Underground, 1995); mentre in Polonia l'autore che ha riportato quella cinematografia a un altissimo livello artistico, con una serie di film di straordinario fascino contenutistico e formale è Krzysztof Kieslowski (Dekalog, Il decalogo, 1987-1989; il trittico Trois couleurs, girato in Francia: Bleu, 1993; Blanc, 1994; Rouge, 1994). Per quanto riguarda infine la Spagna e il Portogallo, dopo la fine delle dittature di Franco e di Salazar e l'avvento di governi democratici, il cinema ha ripreso un suo cammino, con risultati di volta in volta accattivanti o invece deludenti, originali ovvero tradizionali, dimostrando tuttavia un fermento di novità e una operosità certamente interessanti. In Spagna l'autore che più ha fatto parlare di sé per l'aggressività dei suoi film, l'anticonformismo dei temi, la libertà dello stile, è Pedro Almodóvar (La ley del deseo, 1987; Carne trémula, 1997), che ha saputo darci della società spagnola contemporanea un ritratto provocatorio attraverso storie e personaggi fortemente metaforici. Ma anche Juan José Bigas Luna, Montxo Armendariz e altri hanno ottenuto buon successo di critica e di pubblico, per un loro modo personale di raffigurare vizi e virtù del popolo spagnolo. Quanto al Portogallo, in cui si è sviluppata una nuova scuola nazionale con i film di Joâo Botelho, Teresa Villaverde o del più anziano Paulo Rocha, il regista che ha mantenuto per decenni il primato per l'originalità del suo stile, la profondità dei temi trattati, la sottile e malinconica poesia che emana dai suoi personaggi e dagli ambienti in cui li cala, è Manuel de Oliveira, autore di molti film ineffabili, fra i quali O passado e o presente (1971), Francisca (1981), A divina comèdia (1991), Vale Abraâo (1993).

Infine si possono citare, per la loro originalità e unicità nel panorama del cinema europeo, le opere del greco Theo Angelopulos (O thiasos, La recita, 1975; Topio stin omihli, Paesaggio nella nebbia, 1988; To vlemma tou Odysseu, Lo sguardo di Ulisse, 1995), del finlandese Aki Kaurismäki (Tulitikkutehtaan tyttö, La fiammiferaia, 1989; La vie de bohème, 1991; Kaus pilvet karkaavat, Nuvole in viaggio, 1997), del danese Lars von Trier (Europa, 1991; Breaking the waves, 1996).

4. Il cinema dei paesi extraeuropei

Mentre in Europa le varie cinematografie nazionali erano costrette a riorganizzarsi di fronte alla massiccia concorrenza del cinema americano e della televisione, con risultati non sempre convincenti e tra non poche difficoltà economiche e finanziarie, fuori d'Europa, in Asia, in Africa, in Oceania, nacquero e si svilupparono produzioni di vario genere e successo, anche internazionale, che, pur non potendo opporsi a Hollywood, conquistarono un proprio spazio autonomo. Erano film e autori che riuscirono a rappresentare in maniera originale e autentica taluni caratteri fondamentali delle rispettive società e culture, a coglierne la mentalità, i costumi, l'ideologia. Film e autori molto diversi fra loro, come diversi erano i paesi d'origine, ma accomunabili in questo loro porsi al di fuori della tradizione occidentale, tanto americana quanto europea. In Estremo Oriente, ad esempio, si affermarono nelle cosiddette ‛tre Cine' - di Pechino, di Taipei e di Hong Kong - tre differenti scuole cinematografiche che si imposero, soprattutto negli anni ottanta e novanta, sul mercato mondiale. Nella Repubblica Popolare Cinese, dopo la morte di Mao Tse-tung (Mao Zedong) e la progressiva trasformazione politica, i registi di quelle che vennero chiamate la quarta e la quinta generazione formarono un gruppo alquanto omogeneo di autori, interessati a ripercorrere la storia recente della Cina con occhi disincantati e critici. Chen Kaige esordì nel 1984 con Huang tudi (Terra gialla), cui fecero seguito alcuni film di notevole valore artistico e politico (Haizi wang, Il re dei bambini, 1988; Bawang bieji, Addio mia concubina, 1993); Zhang Yimou esordì nel 1987 con Hong gaoliang (Sorgo rosso) e si affermò in tutto il mondo con Dahong denglong gaogao gua (Lanterne rosse, 1991) e Huozhe (Vivere!, 1994); altri più giovani registi seguirono una medesima strada, come Tian Zhuangzhuang o Liu Miaomiao. A Taiwan, accanto a Edward Yang, Tsai Ming-liang o Ang Lee (noto per i film girati negli Stati Uniti, The wedding banquet, 1993; Eat drink man woman, 1994), il nome più prestigioso è certamente quello di Hou Xiaoxian, autore sottilmente inquietante e stilisticamente rigoroso di Niluohe nüer (La figlia del Nilo, 1987) e di Beiqing chengshi (Città dolente, 1989). A Hong Kong infine, oltre ai film personali e intimisti di Ann Hui, di Allen Fong, di Clara Law, si è imposta l'opera complessiva di Tsui Hark, regista di film fantasiosi e travolgenti (come Dao ma dan, ovvero Peking opera blues, 1986; i quattro episodi di Once upon a time in China, 1991-1994), e quella più recente di John Woo (Hard boiled, 1992; Hard target, 1993), che hanno influenzato non poco certo cinema americano violento o di effetti speciali; e più recentemente quella di Wong Kar-Wai (Chongqing senlin, Hong-Kong Express, 1994; Duoluo tianshi, Angeli perduti, 1995; Cheun gwon tsa sit, Happy together, 1997).

In Giappone, oltre ai grandi maestri del passato ancora attivi, come Kurosawa (Kagemusha, 1980; Ran, 1985; Konna yume wo mita, Sogni, 1990; Hachigatsu no rapusodi, Rapsodia in agosto, 1991) o Shōhei Imamura (Unagi, L'anguilla, 1996), alcuni giovani registi, il migliore dei quali è certamente Takeshi Kitano (Sonatine, 1993; Hana-bi, 1997), hanno dato vita a una vera e propria scuola cinematografica nazionale, che si sta imponendo soprattutto all'estero per una sua propria originalità di forme e di contenuti. E nuovi registi si sono anche affermati in Corea, nelle Filippine o in India, dopo la grande stagione degli anni cinquanta e seguenti, dominata dalla figura di Satyajit Ray (Shatrani ke khilari, I giocatori di scacchi, 1977; Ganashatru, Un nemico del popolo, 1988).

In Africa, a fianco della produzione egiziana, nota in Occidente per l'opera di Yusuf Shahin (Yussef Chahine) (El massir, Il destino, 1997), o di quella algerina e di altri paesi arabi, presente a volte nei festival internazionali, si è andata sviluppando, nel corso degli anni settanta e ottanta, una produzione che ha coinvolto i paesi francofoni e anglofoni nati sulle macerie degli imperi coloniali, seguendo l'esempio di alcuni registi che già in precedenza avevano realizzato i loro film con grande coraggio e indipendenza, come il senegalese Ousmane Sembène, autore, fra l'altro, di La noire de... (1966) e di Camp de Thiaroye (1987). Nel Mali si è affermato Souleymane Cissé (Finyé, Il vento, 1982; Yeelen, 1987); in Costa d'Avorio, Désiré Ecaré (Visages de femmes, 1985); nel Burkina Faso, Gaston Kaboré (Wênd kûuni, 1982; Zan boko, 1988) e Idrissa Ouedraogo (Yaaba, 1989; Tilai, 1990): registi che hanno saputo cogliere con grande sottigliezza psicologica, a volte con umorismo, le trasformazioni sociali e le contrapposizioni fra tradizione e modernità nei loro paesi.

Ma la cinematografia extraeuropea che più ha dimostrato una propria originalità nell'ultimo decennio, cioè in anni in cui, tanto in Asia quanto in Africa, le altre cinematografie hanno segnato il passo col rischio di una grave involuzione artistica ed economica, è quella iraniana, nonostante la situazione interna, politica e sociale, dopo la rivoluzione islamica del 1979, non sia favorevole alla libera circolazione delle idee. Fra i nuovi autori, accanto a Rakhshan Bani-Etemad e a Mohsen Makhmalbaf, si è imposto internazionalmente Abbas Kiarostami, straordinario indagatore dello spirito del proprio popolo e affascinante descrittore di ambienti e atmosfere (Khāne-i dust kogiāst?, Dov'è la casa del mio amico?, 1987; Nemā-ye nazdīk, Close up, 1990; Zendegī edāmeh dārad, E la vita continua, 1992; Zīr i darakhtān-i zaytūn, Sotto gli ulivi, 1994).

Su un diverso versante culturale, intriso di cultura occidentale e più legato alle forme dello spettacolo cinematografico abituale, con una tradizione alle spalle che, in alcuni casi, risale agli anni trenta e prima ancora, il cinema nell'America Latina, in Canada, in Australia e in Nuova Zelanda ha dato negli ultimi anni non pochi segni di vita, ponendosi da un lato in contrapposizione a Hollywood, ma, dall'altro, accettandone taluni modelli e formule. Si pensi ai film dell'australiano Peter Weir (The last wave, 1977; Witness, 1985), ma soprattutto a quelli della neozelandese Jane Campion, divenuta in breve tempo una delle registe di punta del nuovo cinema mondiale (An angel at my table, 1990; The piano, 1993; Portrait of a lady, 1996). Si pensi anche ai canadesi David Cronenberg e Atom Egoyan: il primo, inquietante autore di film immersi in atmosfere torbide o malate (Dead ringers, 1988; Naked lunch, 1991; Crash, 1996); il secondo, geniale autore di film stravaganti o drammaticamente complessi (Exotica, 1994; The sweet hereafter, 1997). Quanto all'America Latina, dopo la stagione delle scuole nazionali argentina e brasiliana negli anni sessanta, e di qualche interessante tentativo di produzione indipendente in altri paesi, soprattutto a Cuba, c'è stata una lunga stagnazione, dovuta a molteplici fattori, sia politici sia economici, persistendo la massiccia concorrenza del cinema hollywoodiano e attraversando alcuni di quei paesi gravi e drammatiche crisi politiche. Più di recente si sono avvertiti alcuni segni di ripresa, che non hanno tuttavia raggiunto i mercati mondiali e che non paiono ancora così solidi da preannunciare la nascita di nuove scuole nazionali. Piuttosto si dovrebbe parlare di singole personalità di registi che, a volte in patria, più spesso in esilio, hanno continuato un loro discorso artistico e ideologico, ponendosi il più delle volte in conflitto coi propri governi o criticando la mentalità diffusa o la politica reazionaria. Ad esempio il boliviano Jorge Sanjinés Aramayo (Yawar mallku, Sangue di condor, 1969; La noche de San Juan, 1971); i cileni Miguel Littin e Raúl Ruiz, il primo autore di La tierra prometida (1973) e di Los náufragos (1994), il secondo di un gran numero di film realizzati in diversi paesi (Palomita blanca, 1973; L'île au trésor, 1986). Soprattutto il messicano Arturo Ripstein, la cui opera pare rifarsi a Buñuel, di cui fu amico, ma anche a certo cinema messicano degli anni quaranta e cinquanta, per il gusto dichiarato per le storie melodrammatiche e gli ambienti sordidi (El castillo de la pureza, 1972; La reina de la noche, 1994; Profundo carmesí, 1996).

Si tratta di aspetti diversi e magari contraddittori di un modo di far cinema che solo marginalmente rientra negli schemi classici della produzione europea e americana, preferendo, nel migliore dei casi, una propria strada autonoma, attraverso la quale poter manifestare la tradizione culturale, i costumi sociali, le trasformazioni politiche di ogni singolo paese, e più ancora una propria visione del mondo, non sempre coincidente, anzi il più delle volte divergente da quella consueta. In altre parole, è quella che possiamo chiamare una nuova scuola cinematografica, che attraversa un po' tutte le cinematografie dei paesi extraeuropei e prospetta nuovi modelli e nuovi contenuti.

5. Nuova critica e nuovo pubblico

Il panorama dell'ultimo trentennio del cinema mondiale non sarebbe completo se non si accennasse anche alle trasformazioni significative che hanno subito la teoria e la critica cinematografiche, a mano a mano che le singole scuole cinematografiche proponevano nuovi schemi spettacolari o sovvertivano quelli tradizionali; e anche alle sensibili modificazioni, a volte ai radicali mutamenti, del pubblico cinematografico, non più identificabile come un insieme unitario, ma frazionato e persino disperso in molteplici rivoli. Da un lato, la critica cinematografica, e successivamente la teoria, si è trovata di fronte a nuovi modelli spettacolari, a un cinema che rifiutava le vecchie regole, gli schemi, i modelli, destrutturando a poco a poco la tradizionale narratività filmica e la drammaturgia classica, che solo in parte il neorealismo aveva incrinato; dall'altro, il pubblico ha cominciato a fare scelte individuali e collettive che corrispondevano sempre meno ai canoni consueti, privilegiando di volta in volta questo o quel genere o sottogenere cinematografico, che d'altronde il nuovo cinema andava corrodendo dall'interno, mescolando i caratteri peculiari di ciascun genere spettacolare, introducendo varianti e modificazioni, creando nuovi modelli. Inoltre, la diffusione capillare della televisione in ogni strato sociale e la conseguente crisi delle sale di quartiere e di periferia nelle grandi città o di quelle delle città di provincia e dei paesi, che perdevano di anno in anno il consueto pubblico popolare, non soltanto hanno ridotto notevolmente il numero degli spettatori, ma ne hanno modificato le caratteristiche: non più spettatori generici, anonimi, intercambiabili, ma soprattutto giovani, motivati, con gusti diversi, curiosi e insofferenti. Di qui una produzione cinematografica diversificata, che voleva rivolgersi a pubblici differenziati, con prevalenza di quello giovanile; di qui anche una radicale modificazione delle stesse sale, che dovevano tenere conto di questa diversificazione, riducendo le dimensioni e creando una molteplicità di schermi, a seconda delle necessità e dei gusti degli spettatori.

Sul piano della critica e della teoria, sono nate e si sono sviluppate, nel corso degli anni sessanta e seguenti, una miriade di nuove riviste giovanili che hanno dato vita a quella che è stata chiamata ‛cinefilia', ovvero un amore per il cinema a senso unico, esclusivo, comprendente l'intera produzione cinematografica come universo a sé stante, punto di incontro e di sintesi delle più varie esperienze esistenziali e culturali. Di conseguenza, anche la critica si è andata a poco a poco orientando verso una pratica ermeneutica che privilegiava il discorso personale, il gusto individuale, magari rifacendosi a presupposti ideologici o politici riletti in chiave soggettiva o di gruppo. Ciò soprattutto dopo la contestazione giovanile del 1968 e la diffusa politicizzazione della cultura. Quanto alla teoria, finito il tempo delle sistemazioni globali o dei rigidi schemi di riferimento a modelli teorici precedenti - in particolare all'idealismo prima, al marxismo poi - gli studiosi si sono mossi in diverse direzioni di ricerca con lo scopo di riaprire, in una differente prospettiva, la questione della peculiarità del cinema, dei suoi caratteri originali, delle sue articolazioni linguistiche.

Proprio richiamandosi alla linguistica generale di de Saussure e alla conseguente teoria semiotica diffusasi nel campo della letteratura, in Francia soprattutto, ma anche in Italia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e altrove, alcuni studiosi hanno dato vita a una vera e propria semiotica del cinema, che ha analizzato i meccanismi di produzione del senso caratteristici del linguaggio filmico. In quest'ambito di ricerche, e in settori paralleli, si sono affermati in campo internazionale Christian Metz (che riprese e sviluppò precedenti formulazioni di Jean Mitry), Raymond Bellour, Gianfranco Bettetini, David Bordwell, Francesco Casetti, Seymour Chatman, Gilles Deleuze, François Jost, Juri Lotman, Pier Paolo Pasolini, Marie-Claire Ropars e altri, i cui lavori hanno contribuito in maniera significativa a riprendere e sviluppare il discorso teorico sul linguaggio filmico, con l'intento di coglierne le peculiarità dall'interno, attraverso l'analisi puntuale degli elementi costitutivi e dei rapporti con lo spettatore. Da questo punto di vista, al di là delle polemiche e delle discussioni che animarono, soprattutto negli anni sessanta e settanta, il dibattito teorico, non v'è dubbio che la semiotica del cinema e gli studi che a essa direttamente o indirettamente si rifanno (o che la contestano), hanno contribuito a una più netta e rigorosa definizione del campo di ricerca, con influenze non trascurabili sulla critica cinematografica e la sua pratica. La quale critica, oltreché sulle riviste, sui periodici, sui quotidiani, si è esplicata, nell'ultimo decennio, anche attraverso i canali della televisione, i festival cinematografici, le rassegne monografiche o retrospettive, cioè i luoghi di un consumo diverso del cinema, più adatto ad approfondire forme e contenuti dello spettacolo. Entro questo orizzonte di nuove possibilità conoscitive e divulgative, anche la diffusione delle videocassette ha contribuito a un generale riesame del cinema come arte, e a una sorta di riscrittura della storia del cinema sulla base di una diretta conoscenza delle opere del passato prossimo e remoto.

Questa conoscenza - e per certi versi questo appiattimento della ricezione dei film in un consumo contemporaneo che privilegia la sincronia rispetto alla diacronia, con la conseguenza di una visione storicamente errata - ha rimesso in discussione la stessa natura dello spettacolo cinematografico, sempre meno occasionale o legato all'unicità della rappresentazione e sempre più condizionato da precise scelte individuali o di gruppo. Ne deriva una situazione fruitiva che non differisce molto da quella delle arti tradizionali, con la possibilità per lo spettatore di vedere o rivedere interi film o parti di essi, comportandosi come il lettore di libri, l'ascoltatore di dischi, il visitatore di gallerie e musei. Infatti l'uso capillare delle videocassette, anche in ambito universitario, ha permesso di considerare il prodotto filmico come opera in sé, collezionabile e catalogabile secondo criteri sostanzialmente analoghi a quelli relativi ai prodotti della musica, della letteratura, delle arti visive. Una catalogazione che significa di fatto la creazione di un repertorio di opere, al quale si può attingere in ogni momento; e, di conseguenza, un rapporto individuale col cinema che, a ben guardare, differisce notevolmente dal consueto rapporto che si stabilisce nelle sale cinematografiche, per loro natura luoghi di ricezione collettiva.

Queste modificazioni graduali del cinema come spettacolo e del pubblico come spettatore, nel corso degli anni ottanta e novanta, hanno contribuito a modificare, almeno in parte, lo stesso linguaggio cinematografico. Nel senso che, rivolgendosi a pubblici settoriali o addirittura a spettatori individuali, è stato possibile allargare notevolmente la gamma delle possibilità tecniche ed estetiche. Le suddivisioni fra generi e sottogeneri, cinema di finzione e cinema documentaristico, spettacolo popolare e sperimentazione formale - che per molti decenni avevano costituito gli assi portanti di una teoria e di una storia del cinema per categorie, scuole, periodi, ecc. - hanno a poco a poco perso di significato, nella generale tendenza a trasformare il linguaggio cinematografico in un linguaggio onnicomprensivo, adatto alle più diverse esigenze informative ed espressive, e dando per scontata la presenza di pubblici diversi, composti da spettatori che, anche individualmente, potevano fare le loro scelte. Pertanto, pur nella crisi che il mercato cinematografico mondiale attraversa da non pochi anni, riscontrabile nella chiusura di molte sale e quindi nella disaffezione degli spettatori tradizionali, paradossalmente si assiste a una sorta di moltiplicazione delle occasioni offerte di vedere film, spesso per mezzo dei nuovi canali di distribuzione, come i festival e le videocassette. Questo aumento produttivo e di consumo si inserisce nel più vasto campo del cosiddetto ‛tempo libero', in cui la vita contemporanea, almeno in Occidente, si è articolata. Un tempo dedicato al divertimento, alla cultura, ai viaggi, ad altre attività non lavorative, nel quale il cinema si colloca con una sua propria specificità. Ed è questa specificità, all'interno del mondo composito e molto vasto della visione, che in questi ultimi decenni si è arricchita di molteplici mezzi tecnici e nuove tecnologie, consentendo al cinema, alla fine del suo primo secolo di vita, di mantenere una posizione di rilievo. Anche perché, se ci si richiama all'etimologia della parola ‛cinematografo' (scrittura del movimento), non v'è dubbio che tutte le forme e le tecniche di ripresa, proiezione o creazione dell'immagine semovente - attraverso la televisione, il computer e qualsiasi altra possibile macchina iconografica - non possono che rifarsi all'invenzione dei fratelli Lumière, intesa correttamente come punto d'arrivo di una ricerca scientifica e tecnica che si è sviluppata nel corso dei secoli precedenti. Una ricerca che ha prodotto, nel XX secolo, quella che è stata definita la civiltà dell'immagine, di cui il cinema è certamente la struttura portante.

Sotto questo aspetto si può dire che il cinema, alle soglie del XXI secolo, continua a essere uno dei fenomeni di maggior rilievo culturale, estetico, sociale, della civiltà multimediale. I diversi ambiti tecnici, produttivi, divulgativi, in cui l'immagine semovente trova oggi la sua applicazione, consentono di considerare la produzione strettamente cinematografica come una parte, importante ma non esclusiva, dell'universo iconico che ci circonda. Pertanto, parlare di cinema dell'ultimo trentennio, annotandone i risultati più importanti o le tendenze più significative, significa soltanto dare alcune informazioni che vanno continuamente aggiornate e soprattutto confrontate con quanto si è fatto e si sta facendo negli ambiti che sono stati citati. Solo avendo presente il quadro di riferimento nella sua totalità, il discorso sul cinema può assumere un carattere peculiare e come tale inserirsi nel più generale discorso sulla produzione e sul consumo, individuale e collettivo, delle immagini, statiche e semoventi, in tutti i loro aspetti di natura tecnica e artistica, politica e sociale.

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