Citta

Enciclopedia del Novecento (1975)

Citta

Pierre George

di Pierre George

Città

sommario: 1. Introduzione. □ 2. Le tappe storiche dell'urbanizzazione. 3. Un bilancio statistico. 4. Il ruolo economico delle città e le funzioni urbane: a) le specificità funzionali; b) le attività indotte; c) l'influenza regionale. 5. Sviluppo urbano e metamorfosi della città: a) estensione e diversificazione funzionale; b) l'automobile nella città; c) la fine della centralità. 6. La crisi della società urbana. 7. L'urbanistica alla ricerca della città di domani. 8. Universalità della città. □ Bibliografia.

1. Introduzione

La parola ‛città' è portatrice di un vasto contenuto di immagini, di storia e di problematica sociale. La città è, in tutto e per tutto, immagine di civiltà. Si pensi a quelle innumerevoli collezioni di stampe che raffigurano le città europee, nordafricane, orientali. Sempre la stessa scena: una ghirlanda di campi accuratamente ordinati e perfettamente coltivati, spesso un fiume, delle mura e, in mezzo a un mucchio di case, edifici maestosi simboleggianti il potere civile e la presenza del sacro. Gli stili differiscono secondo le epoche e i paesi, secondo l'ideologia e i sistemi di governo, ma indicano una stessa volontà, quella del possesso e del dominio della regione circostante, dell'accumulazione dei profitti della rendita fondiaria in un investimento di prestigio e nell'organizzazione di un apparato di difesa, di gestione e di continuità.

Nessuna conquista può avvenire senza la presa della città e, spesso, senza la sua distruzione. La città si identifica, infatti, con il paese di cui è per così dire una cristallizzazione. In essa si elaborano la cultura e l'organizzazione sociale. La città è il centro giuridico e istituzionale del potere. È anche società. E perfino nei contrasti materiali, fatti di modi di vita e di differenziazione nel lavoro, essa è simbolo e, più che simbolo, rappresentazione dell'intera società di un paese e di un'epoca. Nella misura in cui essa accumula i successivi apporti di civiltà e di forme organizzative, che si sovrappongono come una sedimentazione di culture e di regimi politici e sociali, essa è testimone della storia. Si comprende poco dunque il messaggio della città, se non si è prima di tutto decifrato il lungo racconto delle avventure che epoca per epoca hanno formato le immagini multiformi, di cui le città d'oggi ci trasmettono, più o meno fedelmente, il ricordo. È vero che le folle urbane, sempre più numerose, sembrano insensibili a questo ricordo. Ma proprio tale indifferenza spiega la loro angoscia, il malessere della città e la ricerca della città perduta nelle società industriali d'oggi.

2. Le tappe storiche dell'urbanizzazione

Nonostante l'apparente paradosso, è esatto dire che durante almeno venti secoli nel bacino mediterraneo la città è stata, per eccellenza, l'elemento rappresentativo di una società rurale. In effetti, quando le sole risorse produttive erano quelle della terra, la città era il luogo in cui si concentravano tali risorse e in cui erano assicurate le condizioni necessarie alla loro elaborazione: produzione, ordine, organizzazione del lavoro. Essa era anche il luogo dove una parte di queste risorse veniva trasformata, con l'intervento di processi tecnologici specifici, in valori di altra specie: prodotti d'artigianato, costruzioni, opere d'arte, il cui pagamento era reso possibile dalla ridistribuzione di una parte del prodotto agricolo lordo.

In termini concreti, questa funzione si esprime attraverso l'organizzazione di un sistema di difesa e di amministrazione del paese, fondato sull'autorità temporale e religiosa (valore sacro della cinta muraria, supremazia del centro religioso), e attraverso l'installazione del mercato e delle attività artigianali sotto la protezione del potere politico, militare e religioso. Non appena si esce dal quadro dell'autarchia della grande famiglia (γένος, gens, o tribù) e dalla sicurezza connessa a questa autorità, soprattutto attraverso la strada delle associazioni di gruppi familiari, la città appare come una necessità per assicurare la continuità del dominio del territorio agricolo. Essa rappresenta, in primo luogo, per unità originali diverse, il fatto di vivere insieme (sinoicismo) e, di conseguenza, la prima forma di organizzazione di una società e di un'economia globali. Tale è il modello della società nella Grecia antica o quello della civiltà musulmana. Il Medioevo ha sovvertito questa forma di organizzazione del territorio, polverizzando l'autorità e miniaturizzando l'unità di produzione. Ma la rinascita simultanea dei sistemi commerciali e dell'organizzazione politica del territorio ha restaurato per tappe e attraverso conflitti spesso violenti la vocazione della città, centro di dominio territoriale e di scambi interregionali o internazionali. E subito si vede riapparire la triade: il potere (palazzo, cittadella, fortificazioni), il sacro (cattedrale, chiesa o abbazia), il commercio (mercato e quartieri di artigiani). La gerarchia delle città è allora determinata da quella del potere politico; è l'inizio delle relazioni tra città e unità politiche o amministrative.

Le capitali provinciali e le capitali di Stati raccolgono parecchie decine di migliaia di abitanti, superano talvolta il centinaio di migliaia. Ma la più grande città europea nel 1800, Londra, non tocca il milione. Parigi supera appena i 500.000 abitanti, Istanbul ne ha 600.000, Napoli poco più di 400.000; Pietroburgo e Mosca ne hanno due volte meno, proprio come Vienna, la capitale degli Asburgo. È vero che a quell'epoca le città non raccolgono molto più di un decimo della popolazione, cioè non più di 10 milioni di persone in tutta Europa. Nel 1850, su una popolazione mondiale di circa un miliardo di uomini, tutte le città del mondo non ne hanno ancora concentrati stabilmente che 200 milioni, cioè meno di un quinto. Poco più di un secolo dopo, all'inizio del decennio 1970, la popolazione mondiale si avvicina ai quattro miliardi. Le città hanno allora più di un miliardo di abitanti; nei soli paesi industriali, Europa, URSS, Giappone, Nordamerica, 650 milioni su poco meno di un miliardo di abitanti si ammassano nelle città con più di 20.000 abitanti (dati statistici delle Nazioni Unite) e quasi 800 milioni in tutte le città, comprese quelle piccole. La cosa più sorprendente è che nello stesso momento le città dei paesi sottosviluppati hanno all'incirca lo stesso numero di abitanti, ma in rapporto a 2 miliardi e 700 milioni.

In effetti non si può separare la ‛rivoluzione industriale' dalla ‛rivoluzione urbana'. Nel XVIII secolo, l'armonioso seminato di città gerarchizzate a somiglianza dell'autorità è sommerso da un vero maremoto nei paesi toccati per primi dalla grande avventura del carbone, della macchina a vapore e dell'acciaio. L'industria crea nuove città e gonfia bruscamente alcune delle città del passato, giacché essa ha bisogno, per svilupparsi, della concentrazione di grossi effettivi di manodopera. Attinge alle riserve rurali, favorisce un risveglio demografico di cui è beneficiaria. E tutto avviene come se ogni aumento di popolazione dovesse affluire essenzialmente, se non esclusivamente, nelle città. Ovunque vi sono miniere, altiforni, fabbriche ingombranti e rumorose che costruiscono materiali per le ferrovie, nuovi armamenti, intelaiature metalliche, con le quali si fanno i ponti e i nuovi edifici dell'industria; si moltiplicano le città di parecchie centinaia di migliaia di abitanti, nascono agglomerati di più di un milione. Le vecchie capitali di Stato, le capitali provinciali che hanno beneficiato del loro ruolo-guida e della loro posizione rispetto ai grandi incroci ferroviari, diventano a loro volta grandi, grandissime città di parecchie centinaia di migliaia o di parecchi milioni di abitanti, si circondano di fabbriche e di miasmi, di depositi e di stazioni di smistamento. Solo le vecchie città che erano lontane dalle nuove fonti di ricchezza e che sono state trascurate dalle grandi correnti di circolazione, hanno conservato il loro profumo d'altri tempi, con un ritmo di crescita discreto o soffocato.

Tuttavia, durante la prima metà del XX secolo, la febbre della migrazione industriale si placa. L'industria raggiunge un punto di equilibrio; con l'accrescimento rapido della produttività, con il ricorso a nuove fonti di energia, essa mobilita un numero sempre più piccolo di uomini per un giro d'affari sempre più elevato. In compenso la gestione dell'economia e della società, i bisogni degli uomini eccitati dall'offerta, continuamente rinnovata, di prodotti industriali e di servizi, richiamano a loro volta folle sempre più numerose. Esse non sono più, se non in parte, folle di produttori, ma sono sempre più indispensabili animatrici dell'economia detta di consumo. Ed è sempre la città che trattiene e offre occupazione ai nuovi battaglioni di popolazione attiva del ‛settore terziario'; in essa gli uffici rimpiazzano i laboratori e le fabbriche. Ma la marea demografica è passata, e la campagna dei paesi industriali, invecchiata, non può rispondere in modo sufficiente alle richieste. La città continua a crescere a patto di attingere ormai alle riserve lontane delle popolazioni dei paesi poveri, che le mandano i lavoratori per eseguire i servizi più umili e più ingrati.

Nello stesso tempo la città ritrova il suo ‛ruolo dominatore' dello spazio, ruolo definito oggi con l'epiteto di ‛polarizzatore'. Al tempo della prima fase della rivoluzione industriale, la città - intendendo con ciò la città trasformata dall'industria - si opponeva alla campagna, la nuova civiltà urbana alla vecchia civiltà, qualificata allora come rurale, ma che era, di fatto, la civiltà preindustriale. Questa opposizione si esprimeva in termini di modi di vita ed anche di comportamenti politici. Si cercavano sistemi di equilibrio. Oggi la città ha riconquistato il monopolio di una civiltà, la civiltà tecnica, e la impone alla campagna, tanto più che quest'ultima è spopolata e invecchiata. Non vive più dei prodotti della terra, che occupano un posto sempre più ridotto nel prodotto nazionale lordo, ma ha bisogno di tutta la campagna per farne il suo circondario.

L'evoluzione della città nei paesi industriali, l'urbanizzazione, ha esteso la sua ombra e proiettato il suo modello su tutto il pianeta, e i continenti, uno dopo l'altro, anche quelli che erano restati più estranei alla forma di raggruppamento urbano e alla vita urbana, sono conquistati dall'inesorabile assalto dei rurali alla città. Il fenomeno si può scomporre in due tempi: la creazione di ‛embrioni' di urbanizzazione moderna e la grande migrazione. L'estensione a tutto il mondo, da parte delle economie industriali, delle operazioni economiche e tecniche (ricerca di materie prime, apertura di cantieri minerari, sviluppo di colture speciali) e delle conseguenti speculazioni finanziarie, ha reso necessaria l'articolazione di una rete di città che svolgono il ruolo di ‛città di servizio' a beneficio delle economie più avanzate. Secondo i casi, la funzione principale è quella amministrativa o quella propriamente commerciale, ma l'una è inseparabile dall'altra. Il capoluogo o la capitale a funzione amministrativa è la base indispensabile delle attività commerciali. Invece, nel caso dei grandissimi porti di transito, l'attività commerciale eclissa il ruolo amministrativo sottostante. Comunque sia, la città di servizio, integrata in un sistema di mercato internazionale (Rio de Janeiro o Caracas, Bombay o Djakarta, Dakar o Kinshasa), è sede di circolazione monetaria, dove si hanno ‛effetti moltiplicatori' con la miniaturizzazione dei servizi che raggiunge un grado inimmaginabile nei paesi industriali. Ne risulta un effetto di attrazione che potrebbe apparire illusorio in Europa, ma che ha un senso vitale nei paesi sottosviluppati: la distribuzione di piccole razioni di esistenza.

Questa distribuzione permette alla migrazione rurale di non finire in un drammatico vicolo cieco. La sua causa iniziale è, anch'essa, una conseguenza indiretta della penetrazione delle influenze e delle tecniche delle società industriali nei paesi sottosviluppati: la rivoluzione demografica, che fino ad oggi si presenta sotto forma di una riduzione a metà della mortalità e, tenuto conto della costanza del tasso di natalità, di un accrescimento naturale superiore al 2% annuo, corrispondente a un raddoppio della popolazione ogni trent'anni. Poiché la stagnazione dell'economia rurale non permette di assorbire le eccedenze demografiche, queste ultime sono irresistibilmente spinte verso le città, dove esistono possibilità marginali di vita, anche quando manca un vero mercato del lavoro.

È così che le città dell'Africa tropicale, che avevano solo 2 milioni di abitanti nel 1920, hanno raggiunto dai 20 ai 25 milioni in mezzo secolo, e la popolazione delle città dell'America Latina è passata nello stesso tempo da 9 a più di 70 milioni. Non può destare meraviglia, quindi, il fatto che le città dei paesi sottosviluppati siano morfologicamente e socialmente molto diverse da quelle dei paesi industriali.

3. Un bilancio statistico

Senza attribuire più importanza di quanto convenga ai dati numerici, non vi è dubbio che le condizioni della vita urbana e, per conseguenza, la ‛qualità della città' dipendano in buona parte dal grado di concentrazione della popolazione, in altri termini dalla dimensione della città stessa. È dunque indispensabile tracciare un quadro della ripartizione della popolazione urbana del globo secondo il livello quantitativo delle città.

Se la popolazione urbana, definita come la popolazione residente in agglomerati con più di 20.000 abitanti, secondo le norme fissate dalle Nazioni Unite, è calcolata tra i 1.350 milioni e i 1.500 milioni nel corso del decennio 1970, il fatto più importante, dal punto di vista della realtà e dell'immagine della città, è la concentrazione di mezzo miliardo di uomini in città e agglomerati con più di mezzo milione di abitanti. In effetti, il limite quantitativo di 500.000 abitanti può essere considerato come la dimensione al di sotto della quale può persistere una relativa unità della vita urbana, e al di sopra della quale non si può parlare di città ma di agglomerato o di complesso urbano. Nell'Europa occidentale e centrale più di 50 città o agglomerati superano questo limite. Tra esse una trentina hanno più di un milione di abitanti e due più di 5 milioni. Nell'URSS altre quaranta città raccolgono più di 500.000 abitanti, e una decina di queste sono ‛milionarie'; in Giappone troviamo quindici grandi unità con più di 500.000 abitanti, di cui la metà ‛milionarie', e nel Nordamerica una quarantina di città con più di 500.000 abitanti, metà delle quali superano il milione. In totale, nel complesso dei paesi industriali, vi sono circa 200 città o agglomerati con più di 500.000 abitanti, circa 80 con più di un milione, una decina delle quali superano i 6 milioni di abitanti. Queste grandi città sono disposte secondo due sistemi di armonizzazione con le strutture dell'economia industriale contemporanea, e cioè, da una parte, come strutturazione urbana di regioni altamente industrializzate dove, spesso, la città ‛milionaria' o ‛multimilionaria' e al centro di un complesso urbano composto da un numero più o meno elevato di città subordinate: sistema della conurbazione inglese o della regione industriale altamente urbanizzata (Renania tedesca); oppure, dall'altra, come perno di reti urbane regionali: città di transito, metropoli regionali, grandi porti e, a livello superiore, capitali di Stato. Appartengono a questo livello gli agglomerati più vasti: New York con 12 milioni di abitanti, Tōkyō-Yokohama con 14 milioni, Parigi e Londra con più di 8 milioni, Mosca con 7 milioni.

Tra queste grandi città e queste grosse coagulazioni urbane, la concentrazione delle attività e delle popolazioni ha inserito centinaia di ‛città medie', dai 100.000 ai 500.000 abitanti: 50 in Francia, altrettante in Italia, 70 nella Germania Federale, più di 200 nella sola Europa industriale continentale del nord-ovest, circa un centinaio in Inghilterra, 200 nell'URSS, altrettante negli Stati Uniti, un centinaio in Giappone. Ma il fenomeno e la fisionomia della città non si fermano sulla soglia dei 100.000 abitanti. Al contrario, si può ritenere che la vita urbana conservi una più profonda coesione e una sua realtà sociale e culturale nelle città che non toccano questo livello quantitativo. Ce ne sono migliaia. Esse non hanno tutte le comodità e le caratteristiche delle città medie o delle grandi città, ma costituiscono degli ambienti di vita originali, dove si mantiene il contatto col ‛circondario', con forme di esistenza non urbane, intermedie tra ciò che resta della campagna e le città più grandi, dove si coglie meglio la varietà del mercato urbano dei prodotti e dei servizi. L'industria vi si espande progressivamente in cerca di terreni disponibili, nella misura in cui si estendono e si anastomizzano la rete di distribuzione dell'energia e tutto l'insieme dei sistemi di circolazione e di relazione.

I paesi di cultura europea dell'emisfero meridionale presentano i casi più vistosi di superconcentrazione urbana: Buenos Aires ha 9 milioni di abitanti, la conurbazione Buenos Aires-La Plata circa 10 milioni su quasi 25 milioni di abitanti per tutta l'Argentina, Montevideo più di 1 milione su meno di 3 milioni di Uruguaiani. Sydney con 2 milioni e mezzo di abitanti, Melbourne con più di 2 milioni, Adelaide e Brisbane ciascuna con 1 milione circa e Perth con mezzo milione, totalizzano 7 milioni di abitanti su una popolazione complessiva di poco più di 12 milioni per tutta l'Australia.

Nei paesi non industriali l'urbanizzazione è ad un tempo recente e concentrata. Le città più grandi svolgono il ruolo di centro di maggiore attrazione e sono cresciute di più nel corso degli ultimi decenni. Non esistono complessi urbani paragonabili alle ‛reti urbane' dei paesi industriali, se non nei subcontinenti più popolati, Cina, India, o nelle regioni dove esisteva da molto tempo una tradizione urbana, come il Nordafrica e la Nigeria.

Sono naturalmente i paesi dalla popolazione più densa quelli che hanno le più grosse agglomerazioni urbane: più di 30 città con più di 500.000 abitanti in Cina, delle quali più di 20 toccano o superano il milione (Shanghai, più di 10 milioni, Pechino, 7 milioni); una ventina di città con più di mezzo milione di abitanti anche nell'Unione Indiana; una trentina nel subcontinente indiano e nell'Indonesia, compresi alcuni enormi agglomerati di uomini e di miseria, Bombay, Calcutta, ciascuna con più di 5 milioni di abitanti. In totale l'Asia del sud e del sud-est e l'Asia orientale - escluso il Giappone - hanno 70 città con più di 500.000 abitanti, che raccolgono circa 180 milioni di abitanti su un miliardo e 800 milioni di popolazione totale, cioè circa il 10% (la proporzione è del 55% nell'Europa occidentale e quasi del 40% nel Nordamerica).

Nell'America Latina tropicale si contano una trentina di città con più di 500.000 abitanti, delle quali circa la metà supera il milione, ma esse non rappresentano in totale che 38 milioni di abitanti su una popolazione di 230 milioni cioè il 17%. I più grossi agglomerati sono San Paolo, 6 milioni e mezzo, Città di Messico, 7 milioni, Rio de Janeiro, 4 milioni e mezzo, Bogotà, Lima, Caracas, più di 2 milioni ciascuna.

Nell'Africa tropicale, dove i processi di urbanizzazione sono più recenti, solo dieci città superano i 500.000 abitani solo tre il milione (Johannesburg, Lagos e Kinshasa). Queste dieci città, all'inizio del decennio 1970, raggruppano in totale poco più di 8 milioni di abitanti, il 3% della popolazione del continente a sud del Sahara. La più grande città dell'Africa rimane Il Cairo, che ha più di 6 milioni di abitanti, ma la situazione si evolve molto in fretta nell'Africa tropicale, dove la popolazione urbana, nel senso che le attribuiscono i servizi delle Nazioni Unite (agglomerati con più di 20.000 abitanti), è passata da 1,9 a 20 milioni e dal 2,5% al 10% della popolazione totale in mezzo secolo (1920-1970).

4. Il ruolo economico delle città e le funzioni urbane

Nei paesi industriali l'economia urbana si confonde con l'intera economia nazionale o regionale nella misura in cui tutto il potere di gestione e di decisione è concentrato nella città. Solo le forme di produzione che richiedono l'utilizzazione diretta del terreno (agricoltura, pesca, sfruttamento forestale, sfruttamento minerario) e che non implicano concentrazione di personale, come le trivellature petrolifere, sono dislocate fuori della città, pur essendo praticamente dirette dai meccanismi economici urbani: mercato, credito, fornitura di materiali, ecc.

Si è soliti dissociare dalle funzioni urbane la funzione agricola dando la priorità alla localizzazione delle attività e della produzione, anche se essa è guidata dalle condizioni di mercato, di finanziamento e di attrezzatura che sono sempre più ‛urbane'. Tutte le altre forme di attività sono urbane, ma l'originalità di ogni città e di ogni agglomerato dipende dal peso che ciascuna attività ha nell'insieme della sua vita economica.

Lo studio delle funzioni urbane, che è stato particolarmente raccomandato dalla scuola geografica francese sotto l'impulso di G. Chabot e sviluppato dai geografi americani (C. D. Harris) e svedesi (W. Olsson, G. Alexandersson), fa valere tre serie di considerazioni: la specificità della città, che deriva dalla prevalenza d'una o più attività; la creazione di un sistema tecnico e economico di sostentamento rispondente ai bisogni propri della popolazione, raggruppata nella città o nell'agglomerato; il ruolo regionale, svolto dalla città in quanto centro di attività economiche, concernente uno spazio più o meno esteso, qualificato come zona di influenza della città stessa.

a) Le specificità funzionali

L'introduzione storica che abbiamo fatto ci consente di distinguere rapidamente tre grandi ‛famiglie' di città: le città-mercato o città-deposito, le città industriali, le città centri di gestione e di potere territoriale. In secondo luogo devono essere prese in considerazione categorie complementari, come le città di guarnigione o città-fortezza, le città-laboratorio e i centri di ricerca (le ‛città atomiche'), le città universitarie, le città centri di turismo e di soggiorno. L'esperienza mostra che, anche quando si tratta di grandi categorie economiche di portata universale, i tipi ‛puri' sono rari. Anzi, più una città è importante, meno probabilità ci sono di poterla classificare senza riserve sotto una sola voce.

Città-mercato, città-deposito. - Le città-mercato e le città-deposito sono le eredi dirette delle città del periodo preindustriale, ma hanno ricevuto tutte l'impronta dell'economia di mercato, generata dall'economia industriale, sia che si tratti di raccogliere i prodotti grezzi dello spazio circostante e di smistarli, sia che si tratti di assicurare la distribuzione di prodotti industriali elaborati. Questo tipo di funzione può essere assicurato a livelli quantitativi e spaziali molto diversi, in modo che esso può corrispondere a città di varie dimensioni, che vanno dalla piccola città al grande centro di commercio internazionale.

Secondo la dimensione, a un tempo, della funzione e della città, cambiano i caratteri urbani. La piccola città- mercato che domina un territorio ristretto resta molto spesso simile alla città di una volta ed è ricca di forme rappresentative della vita rurale. I grandi porti esportatori di prodotti grezzi hanno una fisionomia molto diversa e assumono spesso l'aspetto di metropoli. La funzione si integra, d'altronde, in molti casi, con quella del dominio politico e amministrativo del territorio di raccolta dei prodotti. Essa rappresenta la globalità dell'economia di alcuni paesi, e si identifica con l'intera società in un caso come quello di Buenos Aires. Tuttavia la funzione può anche essere isolata da ogni altro contesto, come a Singapore o a Hong-Kong, in condizioni molto particolari.

In tutti i casi la città-mercato, o la città-deposito, si definisce come una città in cui la maggior parte delle entrate proviene dall'esercizio della funzione commerciale, anche se quest'ultima ha attirato e alimenta, in questa o in quella forma, altre funzioni, come la funzione amministrativa o la funzione industriale a titolo secondario (Rotterdam).

Città industriali. - La città industriale per eccellenza è la città creata interamente dall'installazione dell'industria. Gli esempi possono essere presi dai grandi bacini minerari dove, prima della rivoluzione industriale, non esisteva che qualche villaggio. Qui la ragion d'essere e la base del reddito della città sono sia la miniera in sé, sia il complesso di integrazione nato dallo sfruttamento minerario: le città della Ruhr, quelle del ‛paese nero' gallese, della Slesia o del Donbass e, negli Stati Uniti, Pittsburg o Duluth. Ma la varietà di tipi delle città industriali è grande. E bisogna in primo luogo distinguere le città ‛monoindustriali' da quelle ‛polindustriali'. La città monoindustriale è certamente quella che presenta maggiore originalità, perché è caratterizzata da un particolare tipo di industria e da una corrispondente società industriale. Segnaleremo in modo particolare il caso delle città che sono centri di industrie tessili e che in tutta l'Europa, da Manchester a Lodz e a Ivanovo, passando per Roubaix e Wuppertal o Liberec, presentano gli stessi tipi di officine, di case padronali, di quartieri operai. La stessa immagine si ripete nella Nuova Inghilterra e negli Appalachi pennsilvani. È vero che l'identità deriva sia dalla destinazione dei fabbricati che dalle strutture sociali e dalla comune dotazione delle installazioni (prima metà del sec. XIX). La stessa somiglianza esiste tra le città del carbone, da Newcastle a Saint-Étienne, da Katowice ad Ostrava, da Oviedo a Gorlovka. Una terza famiglia è quella costituita dalle città che hanno fabbriche metallurgiche, spesso, tuttavia, molto vicine alle città minerarie e confuse in parte con esse: Essen, Birmingham, Bytom.

A un livello dimensionale inferiore, molte piccole città sono centrate su una o più fabbriche appartenenti alla medesima branca industriale e costituiscono dei microcosmi tecnologici, economici e sociali: città che hanno industrie del cuoio, della ceramica, del legno, dell'orologeria e della piccola meccanica di precisione: come le città della Foresta Nera, o Ivrea o Eindhoven.

La città polindustriale è, al contrario, una grande città o almeno una città media, che possiede imprese dipendenti da diverse branche della produzione, o unite da sistemi di integrazione tecnica o finanziaria, o indipendenti le une dalle altre, le quali costituiscono un mercato di lavoro differenziato, ma sempre dominato dall'occupazione industriale: cosa che conserva alla città, sul piano sociale, il carattere di una città operaia.

Le interferenze tra la funzione di deposito e quella industriale sono generali nei grandi porti, dove l'afflusso delle merci e i bisogni della navigazione attirano industrie di ogni genere. I porti più grandi sono nello stesso tempo grosse città polindustriali: Amburgo, Genova, Rotterdam.

Centri di gestione. - La funzione di centro di gestione si afferma come funzione dominante nelle grandi metropoli regionali e nelle capitali di Stati. Essa riguarda più spesso funzioni commerciali e industriali che danno occupazione a una parte importante della popolazione attiva. In questo senso si è potuto dire che le città più grandi erano largamente plurifunzionali e si prestavano male a classificazioni sistematiche.

Solo le capitali tenute volontariamente in disparte dal mondo economico e finanziario, Washington, Canberra, Brasilia o Ottawa, offrono esempi di città dalle funzioni politiche dominanti e talvolta esclusive. Capitali politiche e città amministrative non sono, d'altronde, i centri di decisione e di impulso sul piano economico. Il ruolo di metropoli economiche corrisponde alla presenza dell'apparato di direzione finanziaria, industriale e commerciale, che può essere indipendente dall'apparato amministrativo, e in ogni caso nettamente dominante in rapporto a questo: New York è l'esempio più significativo, in Europa Düsseldorf, Francoforte o Milano, mentre a Parigi e a Londra sono concentrate tutte le funzioni di gestione, politica, amministrativa e economica. La cosa più significativa è che oggi queste città di gestione economica si staccano sempre più dalle funzioni industriali, che nel XIX secolo si erano aggregate intorno ai nuclei d'affari. La crescente complessità della funzione di gestione, cioè la sua diversificazione in rapporto con la moltiplicazione dei bisogni e delle attività, respinge dai ‛centri della città', specializzati, l'industria e il semplice commercio; inoltre vi è una tendenza generale a eliminare l'industria, dalle grandi città d'affari, trasferendola in città satelliti. In altri termini, i centri di gestione diventano città di settore terziario e anche, più precisamente, di ‛terziario superiore'.

Città specializzate. - Tra le città specializzate, quelle che attirano di più l'attenzione sono le ‛città-museo' dei vecchi paesi storici europei trasformate in centri di turismo: Siena, Carcassona, Avignone, Bruges; le città di cura come Karlovy-Vary, Vichy o Luchon, le grandi città balneari, come Cannes, Mar del Plata, Miami o Acapulco; le città di turismo di lusso, costiero o lacustre, come Rapallo, Stresa, Locarno; i centri di turismo di alta montagna, come Chamonix, Davos, Cortina d'Ampezzo, Berchtesgaden o Innsbruck. Le une e le altre, in diverso grado, subiscono le variazioni dovute ai ritmi di attività delle ‛stagioni' di frequenza. Diverse sono le città universitarie, sebbene anche la loro attività sia, a suo modo ma in maniera più costante, stagionale: Gottinga, Tubinga in Germania, Oxford in Inghilterra, le città universitarie dell'Ontario in Canada, o la Pennstate University City negli Stati Uniti. Strettamente considerate come tali esse diventano rare, nel senso che, a poco a poco, altre attività vengono a innestarsi sulla primitiva funzione universitaria. Oxford è in parte una città industriale e Heidelberg è entrata nella conurbazione industriale di Ludwigshafen-Mannheim.

b) Le attività indotte

Ogni città, per il fatto di essere il luogo di raccolta di parecchie decine o addirittura di parecchie centinaia di migliaia di abitanti, è in se stessa un organismo economico e tecnico complesso, che deve rispondere ai bisogni della sua popolazione. E più elevato è il livello tecnologico della collettività urbana, più sono differenziati e complessi questi bisogni. I minuti compiti ausiliari della vita quotidiana rurale, assunti dalla famiglia, diventano nella città oggetto di servizi specializzati, tecnicizzati, raffinati, moltiplicati. Bisogna nutrire, proteggere, curare, istruire, disciplinare, trasportare. La concentrazione della popolazione è essa stessa creatrice di occupazioni che sono state chiamate occupazioni da attività indotte. Queste attività devono essere distinte da quelle che danno alla città la sua specificità. Nelle valutazioni che riguardano la ripartizione della popolazione attiva urbana, si separano gli impieghi di servizio urbano, compreso il commercio necessario alla popolazione urbana, da quelli che costituiscono il ruolo specifico dell'economia urbana nell'economia regionale o nazionale. I molteplici studi fatti a questo scopo arrivano alla conclusione che nelle città europee dal 15 al 20% della popolazione attiva è impiegato per assicurare la vita materiale e la copertura dei bisogni della popolazione urbana; negli Stati Uniti tale percentuale raggiunge il 25%. Dunque la specificità funzionale delle città dei paesi industriali si definisce secondo la natura dell'occupazione del rimanente 85, 80 o 75%.

c) L'influenza regionale

Nelle società preindustriali la giurisdizione delle città sulle regioni si confondeva col dominio politico del territorio. Oggi è la proiezione dell'attività economica della città su uno spazio più o meno grande che definisce il suo impatto sulla regione. Le città a funzione industriale specializzata hanno rapporti semplici con lo spazio: si tratta unicamente del loro perimetro di rifornimento di materie prime e della loro zona di distribuzione. È una proiezione spaziale di attività settoriali, senza una necessaria relazione con un controllo generale delle attività regionali. La città-mercato ha, per definizione, la sua area di raccolta e di diffusione. Ma il concetto di zona d'influenza è adoperato soprattutto per i centri di gestione che hanno, per natura, funzione di ‛metropoli'.

In effetti, proprio tramite le attività del settore terziario e del terziario superiore, oggi si realizzano i legami tra i centri direttivi e la loro area di influenza. Questo legame si esprime nell'intensità e nell'estensione spaziale dei ‛fenomeni di flusso': trasmissione delle decisioni, impulsi, ordinazioni, movimenti di capitali, di merci, circolazione delle persone. La proiezione di questi flussi sullo spazio che li concerne permette di tentare una delimitazione dei ‛raggi' o delle ‛zone di influenza delle metropoli'. Ma nelle economie complesse le interferenze sono numerose. Una metropoli ha, in un determinato campo, relazioni di dimensione internazionale e subisce, per alcune forme di servizi o di commercio, l'influenza di una città concorrente. Le differenziazioni derivano più dal confronto tra somme di dati diversi che da una gerarchia globale pura e da un rigoroso incastro delle zone d'influenza.

Nei paesi non industriali le funzioni urbane sono originate, per la maggior parte, dal trasferimento in essi delle attività delle città dei paesi industriali. Le funzioni dominanti sono funzioni di amministrazione e di gestione, in cui interferiscono le iniziative nazionali e gli interventi di società straniere, e funzioni di mercato, condizionate anch'esse dai meccanismi dei mercati internazionali. Tuttavia nelle piccole città (come quelle del Nordafrica, per es.) si possono trovare quasi intatte le forme d'attività di tipo tradizionale: amministrazione locale, mercato e centro d'artigianato. In ogni caso non si possono usare gli stessi criteri nel misurare la ripartizione delle attività all'interno di queste città, per l'abbondanza delle attività-fantasma e dei mestieri superflui, che non riescono a nascondere una disoccupazione cronica, aggravata dall'arrivo ininterrotto di nuovi cittadini.

L'apertura di cantieri minerari si accompagna alla creazione di città di operai o all'annessione ai villaggi circostanti di quartieri di abitazione più o meno stabili che ne modificano il carattere. Gli esempi più spesso riportati di città minerarie in paesi non industriali sono quelli delle ‛città del rame' nell'Africa centrale. Il Brasile ha il privilegio di possedere parecchie generazioni di città minerarie, comprese le città storiche del periodo dell'oro (Ouro Prêto, nello stato di Minas Gerais). Possiede inoltre un esempio impressionante, unico nel suo genere, di antica città-mercato, stazione di posta di una catena di commercio internazionale (il commercio del caffè), ingrandita a dismisura per il suo cambiamento in città industriale. Si tratta di San Paolo, che allo stesso tempo mostra la convergenza delle iniziative nazionali e straniere nel processo di crescita di una città in un paese non industriale.

L'India ha città industriali, simboli di un capitalismo nazionale (Jamshedpur), e quartieri industriali, che abbondano intorno ai grandi agglomerati commerciali e amministrativi, come Bombay e Calcutta.

Resta il fatto che il dramma delle città dei paesi non industriali è il crescente scompenso tra l'attività generatrice di occupazione e l'offerta di forza-lavoro non utilizzata.

5. Sviluppo urbano e metamorfosi della città

Lo sviluppo urbano si misura su due scale dimensionali: popolazione effettiva e superficie occupata. In tutti e due i casi assistiamo a un cambiamento qualitativo. La popolazione urbana di un tempo era una popolazione ‛sedentaria', che viveva di generazione in generazione nello stesso quartiere della città e vi esercitava la medesima professione di padre in figlio. La popolazione urbana d'oggi è una popolazione mobile, scarsamente stabilizzata, che passa da una città all'altra e si sposta all'interno della stessa città, costretta dalle nuove forme di utilizzazione dello spazio urbano a migrazioni quotidiane, che contribuiscono a rompere i suoi legami con lo spazio, attraverso la demoltiplicazione dello spazio vissuto.

Il fatto più direttamente valutabile è la distribuzione e la diversificazione dello spazio urbanizzato. La città preindustriale è un tutto, composito, certamente, ma strutturato su uno spazio generalmente fortificato e amministrativamente unificato (si ricordi lo scarso margine di distinzione tra la città e il ‛comune'). Solo la piccola città, non toccata o poco toccata quantitativamente dalla crescita demografica, resta conforme a questa struttura. Nei paesi in cui i comuni urbani erano già prima molto estesi, le città hanno conservato la loro unità amministrativa, ma l'espansione dello spazio urbanizzato rompe tuttavia l'unità morfologica iniziale (caso di Napoli, per es.).

Bisogna tuttavia ricordare sempre che le città antiche erano dei veri ammassi di popolazione su superfici ridotte, innanzitutto per ragioni difensive e poi perché le tecniche dell'epoca non richiedevano molto spazio per il dispiegarsi delle attività tradizionali.

In tutti i casi conviene analizzare i processi della trasformazione morfologica delle città che hanno subito forti incrementi di popolazione e di superficie e le forme d'uso differenziale del suolo urbano.

a) Estensione e diversificazione funzionale

Lo sviluppo urbano, rispondente a una modificazione delle attività funzionali nella città e del ruolo della città nella regione, e le nuove forme di utilizzazione dello spazio urbano trasformano l'immagine della città e le condizioni di vita quotidiana della sua popolazione. I due motori della crescita sono l'industrializzazione e la proliferazione delle attività di commercio e di gestione degli affari pubblici e privati. Ciò provoca due diverse serie di processi di occupazione del suolo urbano.

L'industria cerca spazi piani, facilmente accessibili, serviti dai sistemi di trasporto che meglio convengono ai suoi bisogni. Nella prima fase della rivoluzione industriale, che poggiava sull'utilizzazione massiccia del carbone e trattava grosse quantità di prodotti pesanti, gli spazi ricercati sono stati le pianure o i fondivalle accessibili per via fluviale e provvisti di vaste installazioni ferroviarie. Più tardi è stato ricercato il servizio stradale e oggi la vicinanza degli aeroporti. L'industria si è così stabilita fuori degli antichi confini delle città, prima nei sobborghi, poi nei dintorni, e, per almeno mezzo secolo, nel Nordamerica e nell'URSS, nell'Europa occidentale e in Giappone, si è avuta una stretta correlazione tra l'industria e l'insediamento operaio. Tutte le città che hanno beneficiato, un tempo, di un forte movimento di industrializzazione, sopportano oggi il peso di quartieri operai rapidamente degradati, perché costruiti con poca spesa e in un ambiente sfavorevole. Gli spazi industriali, corrispondenti agli accessi più facili delle città, bloccano letteralmente il loro sviluppo lungo i grandi assi di comunicazione serviti dalle ferrovie, o costituiscono almeno soluzioni di discontinuità nell'occupazione dei suoli. Si è parlato talvolta di ‛cinture' industriali e operaie. Si tratta più di uno sbarramento delle principali vie di accesso che di un accerchiamento continuo. Da un punto di vista pratico, la sfumatura è secondaria.

Ora, nello stesso periodo e più ancora durante il periodo seguente, che è quello degli ultimi trent'anni, la crescita urbana deriva dall'ampliamento di tutte le attività di scambio, di gestione finanziaria o amministrativa e di promozione tecnica (insegnamento, ricerche scientifiche, formazione dei quadri). L'insieme delle attività dette ‛terziarie' (commercio, banche, assicurazioni, gestione delle società, agenzie commerciali, agenzie di viaggi e di turismo, amministrazione sempre più diversificata, istituti scolastici, universitari, laboratori, luoghi di riunione e di spettacolo) assorbe sempre più spazio e occupa continuamente sempre più persone. In ciò si è voluto vedere, per almeno un secolo, l'espressione stessa della ‛centralità' nella città. Si tratta di attività che provocano l'afflusso di visitatori e costituiscono tutte insieme una specie di ‛rappresentatività' della città. È dunque normale che esse si integrino con il patrimonio simbolico della continuità e dell'eredità storica: monumenti, luoghi storici, musei.

L'esperienza dimostra che questa accumulazione di funzioni di direzione e di rappresentanza è limitata, per quanto riguarda lo spazio, e selettiva. Essa valorizza una parte della vecchia città, ma mai, o molto raramente, tutta la vecchia città. Il centro d'affari, dove i valori fondiari e immobiliari toccano quote vertiginose, confina con vecchi quartieri che cadono in rovina. Per ragioni diametralmente opposte - il costo eccessivo dei locali da un lato, la degradazione immobiliare dall'altro - l'antico nucleo urbano perde la sua popolazione. Il centro d'affari è luogo di lavoro senza abitanti e i vecchi quartieri degradati sono abbandonati alle categorie sociali più sfavorite, generalmente agli immigrati. L'unità tra habitat e lavoro, cioè una fra le più urbane delle funzioni, è spezzata.

Sotto la pressione dei bisogni di alloggiamento della popolazione attiva del settore terziario, le cui attività sono situate per la maggior parte nel centro, è stato necessario estendere lo spazio edificato, costruire quartieri nuovi attraverso l'espansione progressiva della città lungo assi determinati dalla presenza di terreni disponibili o di periferie più o meno continue grazie all'urbanizzazione di villaggi suburbani.

Secondo i periodi e i paesi, l'estensione spaziale si effettua nel quadro di una unità amministrativa, il comune urbano, i cui confini sono stati ampliati, in caso di bisogno, a mano a mano che la città cresceva, oppure su una struttura amministrativa spezzettata, ereditata dall'antica struttura rurale, anteriore all'urbanizzazione. Così sono apparsi gli ‛agglomerati urbani', che associano a una città un numero più o meno elevato di comuni di ‛periferia'. Quando l'insieme è dilatato e comprende numerosi nuclei importanti, senza che nessuno tocchi la dimensione della città originale che resta il perno dell'insieme urbanizzato, si applica il termine ‛conurbazione', dovuto all'inglese P. Geddes.

Almeno fino alla fine del XIX secolo, l'insediamento umano è stato concepito come un insediamento collettivo stipato, anche se il numero dei piani delle case, così come lo spazio occupato da giardini interni, pubblici o privati, variava secondo le città.

La tradizione della città fortificata, chiusa nelle sue mura intorno al nucleo iniziale, si è prolungata con la costruzione in ordine fitto dei quartieri operai e anche dei quartieri borghesi della fine del XIX secolo e dell'inizio del XX, giacché la speculazione sul prezzo dei terreni spingeva ad aumentare il volume della rendita sulle più piccole superfici possibili: strade strette, cortili interni ridotti. A questo punto, si realizza una vera rivoluzione nella concezione dello sviluppo per quanto concerne le classi privilegiate e le classi medie. In tutta l'Europa e nel Nordamerica viene lanciata l'idea di una nuova organizzazione dello spazio urbano e suburbano, tale da ammettere come principio fondamentale la separazione tra zone funzionali e spazi abitati e da promuovere l'insediamento unifamiliare. L'insediamento individuale, più o meno fitto, prolifera in Inghilterra, si estende sul continente, in Germania, in Francia, nei Paesi Bassi, in forme diverse: città costruite in un sol blocco da un promotore che realizza serie di case identiche, separate o gemelle, o lotti di costruzioni individuali molto eterogenee. Il Nordamerica riproduce la stessa esperienza sulla scala dimensionale che gli è propria. Solo i paesi mediterranei restano attaccati alla formula di un insediamento concentrato in immobili collettivi.

Ne risulta, nei paesi dove l'insediamento individuale si è esteso, un'espansione orizzontale che tocca proporzioni gigantesche negli Stati Uniti. Questa espansione corrisponde a una separazione radicale tra i luoghi di lavoro e le zone di abitazione e dà origine a un fenomeno nuovo, la generalizzazione delle migrazioni quotidiane della popolazione attiva tra abitazione e lavoro, dette movimenti pendolari (commuting in inglese, Pendelwanderungen in tedesco), tipiche soprattutto della popolazione attiva occupata nel centro. Per venti anni in Europa, meno a lungo nel Nordamerica, questi movimenti pendolari sono stati ritmati dal servizio dei treni di periferia, che continuano oggi a riversare nel centro delle città d'Europa, degli Stati Uniti, del Giappone, dell'URSS, l'ondata degli impiegati dell'amministrazione, delle banche, del commercio. Ma oggi un altro fattore tecnico è entrato nel quadro del movimento urbano, l'automobile, e ha provocato una crisi dell'utilizzazione dello spazio urbano che rimette in causa tutto lo schema di organizzazione di questo spazio, e più particolarmente l'esistenza stessa del centro in quanto centro funzionale.

b) L'automobile nella città

L'uso dell'automobile ha esteso le dimensioni della città, permettendo spostamenti quotidiani su distanze molto superiori a quelle che segnavano i limiti della città di un tempo. La forma e l'estensione delle città americane sarebbero inconcepibili senza l'automobile. E l'Europa attinge senza sosta dalle tecniche e dalle immagini urbanistiche dell'America: autostrade a grande circolazione, svincoli che evocano il nodo gordiano, strade secondarie, strade di servizio locale e un esercito di segni convenzionali, che costituiscono un nuovo linguaggio per iniziati motorizzati.

L'automobile ha liberato i processi di crescita della città dalle costruzioni legate al passaggio delle ferrovie. Le grandi città, che si erano smisuratamente allungate quali antenne lungo le valli seguite dagli assi ferroviari, utilizzano gli spazi intercalari più vicini alla massa urbana, prima trascurati perché poco accessibili. Questa nuova strategia dello sviluppo spaziale coincide, in Europa, con il nuovo problema di limitare le spese determinate dall'estendersi indefinito delle cinture di sobborghi con case individuali. Il ritorno a un insediamento urbano più denso assume la forma di composizioni architettoniche nuove, che dispongono una serie di grandi costruzioni di uso collettivo in un ‛piano aperto', entro spazi divisi tra la costruzione, i prati verdi, i giardini d'infanzia e le zone di parcheggio. In Francia si è dato loro il nome di grands ensembles e, se si tratta di un insediamento di qualità, di residence. Esse sono servite da un sistema di viabilità inserito sui grandi assi di collegamento con l'esterno e col centro della città. Un buon numero sorge su alture che godono di paesaggi più aperti e di una migliore aerazione rispetto alle ‛antenne' dei sobborghi ferroviari.

Ma non basta assicurare il servizio stradale dei quartieri nuovi, l'accesso alle città per mezzo di vie di penetrazione (o radiali), e costruire strade periferiche o viali circolari. La città si deve aprire all'automobile, altrimenti il suo centro d'affari e di attività multiple deperisce. Tutte le città del mondo debbono cercare la soluzione al problema di come consentire l'accesso verso il centro direzionale o funzionale all'invasione motorizzata. Le difficoltà sono di due tipi: l'ingresso di un numero sempre più grande di veicoli e la riserva di spazi per il loro parcheggio. Più posti di parcheggio si assicurano, più veicoli entrano; più veicoli entrano, più posti di parcheggio bisogna creare. Più limitato è lo spazio, più si costruiscono in altezza uffici e magazzini; più ci sono uffici e centri di vendita gli uni sugli altri, più posti di parcheggio occorrono ai piedi delle torri. E l'urbanesimo affonda nell'irriducibile contraddizione e nell'assurdo. Oggi non è realistico pensare che il numero degli automobilisti e degli utenti dell'automobile stia per diminuire, quali che siano le difficoltà della circolazione e del parcheggio. Il sogno di sostituire i trasporti individuali con trasporti pubblici meno ingombranti rientra nel campo dell'utopia, anche nei paesi a regime autoritario. Troppi fattori convergono per condannare il cittadino all'uso dell'automobile, almeno a breve e medio termine. E la città che deve cambiare e che cambia.

c) La fine della centralità

Le attività centrali sono per natura quelle che attirano prevalentemente una clientela e un personale che utilizza l'automobile. La saturazione è raggiunta più o meno rapidamente secondo le disponibilità di spazio, ma è inevitabile a breve scadenza. Il dilemma è semplice: limitare localmente in modo autoritario l'uso dell'automobile o spostare verso luoghi più facilmente accessibili tutte, o parte, delle attività del centro. In realtà non si tratta di un dilemma quanto piuttosto di due soluzioni abbinabili: autorizzare solo la circolazione a piedi nel centro commerciale e nel centro degli affari, demoltiplicare il centro con l'allontanamento di una parte delle sue attività.

Optare per la prima soluzione è cosa più complessa di quel che sembra, quando ci si limiti a una semplice formulazione, perché non esiste settore di circolazione a piedi senza la possibilità di riservare, vicino, uno spazio o un volume per il parcheggio dei veicoli. Le soluzioni tecniche variano da una città all'altra: associazione della rete di circolazione a piedi con un sistema di parcheggi, situati alle estremità dei principali itinerari di passeggio (le ‛zone pedonali' degli urbanisti); sovrapposizione di livelli adibiti a usi diversi: parcheggi sotterranei, strade d'accesso automobilistico nel sottosuolo e, allo scoperto, vie di passeggio che danno accesso ai negozi e agli immobili di uffici, o inversamente circolazione automobilistica in superficie e gallerie commerciali nel sottosuolo: Düsseldorf o Monaco, Stoccolma o Montreal. Una tale sistemazione si accompagna a un alleggerimento del centro e a una scelta tra le attività che rimangono, e beneficiano della nuova organizzazione della circolazione, e quelle che emigrano.

Nessuna grande città può pretendere di conservare nel suo solo centro la totalità delle funzioni che ne costituiscono il suo specifico ruolo e la sua fortuna. Si opera una selezione tra ciò che resta al centro e ciò che è trasferito in altri luoghi ad uso degli abitanti di quartieri lontani o in nuovi centri che, almeno per alcune funzioni, sostituiscono il centro tradizionale, o si sforzano di farlo. In senso stretto, si tratta effettivamente della fine della centralità, perché si verificano lo scoppio fisico del centro e la rottura dell'unità di funzioni che assicurava questa centralità. Il vecchio centro, il vero centro, tende sempre più a non essere altro che la città-museo, il ritrovo dei turisti, la sede di un commercio di lusso o di folklore. Nuovi complessi immobiliari, nei quali si cerca di affermare una nuova armonia tra la funzione, il prestigio e le comodità quotidiane, accolgono gli affari, l'amministrazione, l'università. Il commercio al dettaglio viene incontro alla clientela, ammassata fuori della città o venuta dall'esterno senza poter più raggiungere l'antico centro, nell'ambito dei supermercati o delle grandi superfici di vendita. Il cartello ‛centro della città' non ha altro che un significato storico e un uso turistico. Le funzioni qualificate come centrali, nel senso di principali e di specifiche, sono ormai svolte fuori dal centro della città. I movimenti della popolazione attiva all'interno della città risultano sempre più complicati. Essi assumono, ancora più che in passato, un carattere settoriale, secondo la natura delle attività e delle professioni, anche all'interno di una stessa famiglia. La circolazione non viene così semplificata, ma disarticolata. E vi si può vedere un simbolo della disarticolazione della società urbana.

6. La crisi della società urbana

Paradossalmente, la società urbana appare disarticolata nel momento in cui si identifica con la società intera dei paesi industriali, al punto che non è inesatto dire che la crisi della società urbana è la crisi della società industriale. Anche nei paesi sottosviluppati la crisi della società urbana, quale che sia la specificità delle sue forme, rispecchia la crisi generale della società, provocata dall'aver esteso a tutto il mondo le contraddizioni della società industriale. Ma non si può capire la situazione presente senza inquadarla in una prospettiva storica.

Se la città dell'antichità mediterranea è stata rappresentativa di una società di proprietari fondiari - che ritroviamo ancora in posizione di forza in alcune città francesi e italiane dell'area mediterranea -, la città europea del XVIII secolo e dell'inizio del XIX è la sede di una società borghese, le cui basi economiche sono il commercio, l'artigianato, la manifattura, e che si distingue dalla società rurale a predominio aristocratico, nonostante ci siano molteplici rapporti tra le due società. Questa società borghese e mercantile, pur presentando forti contrasti interni, è una, e una è anche la città, ad eccezione dei suoi sobborghi. Le attività possono differenziare alcuni quartieri, ma la vita urbana resta una vita collettiva, centrata sui luoghi di incontro che simboleggiano i diversi legami della comunità: la cattedrale o la chiesa, l'amministrazione comunale, la piazza centrale, i portici, la via principale o il corso. L'anno è intercalato da feste religiose o civili, che sono manifestazioni collettive dell'unità della società urbana. In alcuni casi vi è la coesistenza di più collettività, diverse per quanto riguarda la loro appartenenza etnica o religiosa. L'unità nella difesa dei comuni interessi prevale sui particolarismi culturali o confessionali, salvo che durante crisi passeggere. Rimane essenziale l'affermazione della personalità della città in rapporto al circondario rurale e al potere esterno.

La rivoluzione industriale ha provocato simultaneamente cambiamenti quantitativi e qualitativi. Le masse operaie, delle quali aveva bisogno l'industria, non potevano trovare posto nell'antico spazio edificato e, nello stesso tempo, non si inserivano nella società urbana tradizionale.

I nuovi rapporti di classe diversificano la popolazione urbana. Le rivoluzioni del XIX secolo hanno rivelato la gravità della rottura dell'unità della società urbana. Questa appare, all'inizio del XX secolo, come una triade: classe dirigente, classe operaia (proletariato) e classe media, eterogenea, ma soprattutto preoccupata di distinguersi dal proletariato e di avvicinarsi, almeno con i suoi comportamenti e con la localizzazione del suo insediamento, alla classe dirigente. La geografia e la sociologia elettorali delle grandi città rendono evidenti non solo le divisioni sociali e politiche, ma anche le segregazioni spaziali delle classi sociali e dei modi di vivere.

L'unificazione delle abitudini e delle aspirazioni nella vita materiale, il condizionamento culturale da parte dei mass media, l'elevazione generale dei livelli di vita, di consumo e di ricorso ai servizi, creano un'apparenza di unità che, di fatto, esprime più un allineamento generale della società che non il ritorno alla realtà di una comunità urbana. E qui è la realtà geografica che permette di cogliere le fratture esistenti. L'applicazione del principio della Carta di Atene, e più ancora le costruzioni derivate dallo sviluppo urbano, hanno distrutto l'unità di spazio e l'unità di tempo della città. Separando, empiricamente sotto la pressione delle necessità, o volontariamente in nome di una nuova concezione, i modi di utilizzazione dei suoli urbani, Si è spezzata l'unità della vita urbana. Il cittadino d'oggi deve dividere il suo tempo fra il suo luogo d'abitazione, quello di lavoro e quello di svago e di distensione. Egli è sempre più assoggettato a spostamenti secondo itinerari quotidiani o settimanali. La città non costituisce più uno spazio vissuto, al quale l'individuo aderisce, dove lascia a ogni incrocio e a ogni casa una parte del suo passato, ma un aggregato di spazi funzionali, che si esprimono più per costrizioni che per attrazioni affettive. Da queste costrizioni nascono aggressività e contestazioni riguardo all'alloggio e alle attrezzature dell'ambiente di insediamento, riguardo ai mezzi o alle condizioni di trasporto e di circolazione; nascono conflitti d'inquilini, di utenti dei trasporti, conflitti di lavoro, tutti settorializzati, inclusi negli antagonismi dell'intera società ma estranei, in realtà, al simbolo della città e al suo centro creativo.

Si comprende meglio la moltiplicazione e la segregazione dei fenomeni di aggressività, partendo dall'analisi del modo di percepire la città da parte del cittadino e del suo atteggiamento negativo nei riguardi di ciò che egli riceve da essa. Diverse analisi sociologiche, condotte sia nei grandi agglomerati europei che nelle città americane, hanno reso evidente la perdita della percezione globale della città da parte del cittadino, e nello stesso tempo la perdita della coscienza di legami, sia organici che affettivi, con tutta la città. Alla base di questa perdita del senso di comunità cittadina si trova la scomparsa dei valori sacrali e dei simboli culturali. La città non è più un luogo consacrato dalla protezione soprannaturale, cioè dal santo protettore della città, portatore di un messaggio venuto dalle generazioni precedenti e spesso considerato come il fondatore; essa non è più nemmeno l'espressione di un'eredità culturale. Non integra più in se stessa neppure i suoi cimiteri, simboli della comunità. E, ciò che più conta, non è più conosciuta nel senso della percezione diretta e dell'integrazione della personalità dell'individuo attraverso i legami tra il vissuto e la cornice del vissuto. È diventata uno spazio impersonale, espresso da un sistema di cifre, corrispondente a diversi codici. È entrata nell'astrazione simboleggiata dalla espressione numerica. Il vincolo municipale perde il suo significato, l'amministrazione urbana diventa lontana, si confonde con l'apparato burocratico in generale. Ed è proprio, a contrario, dalla constatazione di una rottura di contatto, che si è inventata la nuova strategia della ‛partecipazione'.

Questo dissolversi dei legami tra gli abitanti della città e la città non è soltanto un contrasto dimensionale tra le proporzioni della città e la capacità di percezione dell'ambiente da parte degli individui. Essa ne è senza dubbio, per una parte, la conseguenza. Ma il processo di isolamento dell'individuo nella città si spinge molto più lontano. Infatti tale individuo non riesce a ricostituire un microambiente a livello del nuovo quartiere. I soli microambienti sociologici esistenti sono quelli dei vecchi quartieri, che costituivano le maglie del tessuto interno della coscienza urbana. Ogni operazione di rinnovamento e, a maggior ragione, ogni estensione di nuove zone di urbanizzazione generano la solitudine del cittadino. Le collettività più vive sono quelle formate da oriundi di uno stesso paese d'origine e anche questo è un modo di esprimere il rifiuto di integrazione in un ambiente che ha perduto la sua capacità di accoglienza, cioè di assimilazione non solo numerica e formale.

Ci sono ormai due atteggiamenti da parte del cittadino di fronte alla società: passivo o negativo. È passivo il conformismo nei confronti di una società globale la cui immagine è imposta ininterrottamente dai mass media, dalla pubblicità, da tutte le forme che favoriscono il mimetismo sociale; la città non è altro che il luogo di concentrazione di esseri che accettano il loro condizionamento. È negativo il rifiuto di far parte di questa società che, per effetto dell'ammassamento umano e dell'anonimato, fa delle città i più importanti assembramenti di asociali. Non è necessario legare la nozione di delinquenza o anche di marginalismo radicale al termine di asociale. Questo termine designa individui non integrati piuttosto che casi di rifiuto della partecipazione o casi di aggressività. L'indifferenza al destino della città e l'astensionismo elettorale ne sono le forme più significative. Ma il passaggio dall'indifferenza all'aggressività è facile. Esso si manifesta in diversi modi: rifiuto di contribuire a un'azione collettiva, degradazione e sporcizia dell'ambiente. Nelle circostanze meno critiche la perdita della coscienza di appartenere alla città e, inversamente, di possedere la città - dunque di essere responsabili nei riguardi della cosa posseduta - si traduce in una miniaturizzazione del quadro di vita, che coesiste con la sua universalizzazione. L'abitante appartiene a un immobile, a una ‛scala', a un ‛complesso' immobiliare, o, secondo l'età, a una scuola, a un'officina, talvolta a un club. Il suo luogo effettivo di esistenza e il suo sistema di relazioni personali sono ridotti ad un microcosmo discontinuo. E, nello stesso tempo, è sottoposto a un bombardamento costante di immagini e informazioni su scala planetaria. Tra queste due condizioni egli è disorientato. Prova il bisogno di riprendere contatto con un ambiente reale, finito, percettibile, sul quale possa agire, e anche con gruppi che abbiano un centro comune di interessi. È attirato anche dall'ignoto che gli è rivelato in modo inafferrabile (nel senso proprio del termine) dall'informazione scritta, radiodiffusa o televisiva. ‛Scombussolato', va a cercare altre forme di contatto col concreto e con l'immaginario nell'evasione periodica, nella seconda casa, nella vacanza, nell'‛esplorazione del mondo' offertagli dalle agenzie di viaggio e dalle compagnie di charter. Il cittadino diventa, nei limiti delle sue possibilità economiche, un nomade.

Questo disadattamento sociale a una condizione di vita, che diventa quella degli otto decimi delle popolazioni dei paesi industriali, è portatore di gravi rischi nei campi più svariati: nella morale, quale forma dei rapporti degli uomini gli uni con gli altri, nell'atteggiamento nei riguardi della vita e della procreazione, nella creatività e, infine, nella produzione, condizioni tutte per l'esistenza delle generazioni future. Non esistono esempi capaci di dimostrare che la distruzione di una società non abbia aperto la strada a un'altra società a più o meno lungo termine. Ma l'accelerarsi dei mutamenti tecnici rende particolarmente difficile la genesi di una nuova società. Il problema, specialmente nel campo dell'urbanistica che è la codificazione a posteriori o a priori della società urbana, ha ispirato diversi atteggiamenti. L'empirismo consiste nel lasciare che si sviluppino delle contraddizioni e, da esse, dei processi innovatori che possano produrre forme originali di società, con relativa strutturazione del loro ambiente di vita.

Il dirigismo si pone come fine la creazione anticipata di questo ambiente, giudicando a priori un'evoluzione che si vede in funzione di determinate posizioni ideologiche o dogmatiche. Più spesso, le basi di riferimento sono le esperienze del passato. E, a questo riguardo, la ricerca delle nuove città - tra cui le ‛città nuove' - può incorrere nella critica di passatismo.

7. L'urbanistica alla ricerca della città di domani

La ricerca della città di domani, che ha come oggetto la definizione delle operazioni sia per migliorare le condizioni di vita nelle attuali città, sia per creare nuove città, è il tema centrale e la stessa ragione d'essere dell'urbanistica. Ma le dimensioni attuali del problema estendono la competenza dell'urbanistica a tutta la sistemazione del territorio.

Sia sul piano teorico che sul piano pratico possono essere distinte tre direzioni principali di ricerca: la ricerca delle dimensioni ottimali della città o dell'unità di vita urbana, compatibile con le tecniche e i modi di vita attuali; al di là di questa nozione di dimensione, e prendendola come punto di partenza, la ricerca delle modalità di ristrutturazione degli agglomerati esistenti, comprese le opere di rinnovamento di alcune parti di tali agglomerati; infine la ricerca di nuovi modelli di città e di urbanizzazione del territorio. Le prime due ricerche sono, in se stesse e per la loro stessa natura, orientate verso l'applicazione del principio di continuità e, in una certa misura, sono chiamate a tentare la restaurazione dei valori ereditati. La terza può avventurarsi in prospettive innovatrici e si smarrisce, talvolta, in una urbanistica e in un'architettura di tipo fantascientifico.

La prima ricerca, cioè quella dell'optimum dimensionale, nasce da due preoccupazioni, l'una economica, che è quella del costo ottimale per individuo della manutenzione delle infrastrutture e della garanzia dei servizi; l'altra sociologica e psicologica: la preoccupazione di restaurare, o conservare, l'unità della città come centro di vita omogeneo e autosufficiente. La dimensione ottimale della città, degna di questo nome, si situa oggi tra due limiti massimi. Il limite superiore è quello al di sopra del quale si perde il contatto tra l'abitante e la città, concepita (come centro di vita globale integralmente percepito. Il limite inferiore è quello al di sotto del quale non è più possibile assicurare tutte le condizioni di vita economiche e sociali che ci si aspetta dalla città, se non a prezzo di un costo marginale inaccettabile. Tra questi due limiti si profilano due immagini ugualmente soddisfacenti sul piano teorico: l'una si lega alla tradizione, in altri termini al passato; l'altra abbozza la ricerca di un nuovo tipo di urbanizzazione. La prima è quella della città media, l'altra è quella dell'urbanizzazione diffusa, strutturata su un sistema di relazioni ad alta frequenza, che estende i modi di vita urbana a uno spazio più o meno vasto, suscettibile, nei casi limite, di confondersi interamente con lo spazio regionale: urbanizzazione globale, o reticolato urbano coerente, che si realizza più facilmente in un paese ad alta densità di popolazione.

L'immagine della città media è essa stessa ancora piuttosto vaga nella mente degli urbanisti e degli amministratori. Essa può essere definita da un insieme di funzioni o da un numero di abitanti. C'è un certo coordinamento tra l'uno e l'altro fattore ma non un rapporto quantitativo e qualitativo fisso. Dal punto di vista funzionale, la città media è quella che assicura ai suoi abitanti - e a coloro che vi si recano per soddisfarvi bisogni di acquisto, di ricorso ai servizi o di distrazione e di cultura - la soddisfazione delle loro aspettative. Il contenuto varia, dunque, secondo i tipi di civiltà e i livelli di ‛consumo' nel senso più largo del termine. Dal punto di vista sociale, la città media è quella che si presenta come un centro vivo di vita collettiva. Ad eccezione delle grandissime metropoli, nessuna città può aspirare a un monopolio dei servizi per la sua popolazione e per la sua zona di influenza, ma si può parlare di equilibrio tra l'attrezzatura urbana e i bisogni di una popolazione quando è debole o trascurabile il ‛tasso di evasione' in materia di acquisto o di prestazione di servizi di ogni tipo. Questo equilibrio è raggiunto nei paesi industriali dell'Europa occidentale per città la cui popolazione è compresa tra i 100.000 e i 500.000 abitanti. È generalmente ammesso che, per potere assicurare in modo redditizio tutti i servizi e tutte le attività commerciali, occorre che una clientela tra i 300.000 e i 350.000 abitanti frequenti la città; ciò tuttavia non significa che essa debba risiedervi totalmente. Ci si trova dunque di fronte a due ipotesi già formulate. La prima è quella dell'‛urbanizzazione concentrata' in città medie da 100.000 a 300.000 abitanti, o in grandi città da 300.000 a 1 milione di abitanti; esse possiedono la totalità dei servizi e possono aspirare a conservare una personalità, soprattutto se la loro struttura si presta a esercitare la funzione di centralità di un nucleo di valore economico e sociale.

La seconda ipotesi è quella dell'‛urbanizzazione diffusa' in unità di vita quotidiana; esse associano la residenza, il lavoro e la distribuzione dei servizi e dei bisogni di tipo comune, e sono collegate molto agevolmente, per mezzo di una rete di comunicazioni multiformi di grande efficacia, a un nucleo funzionale di livello superiore, cioè a una città più importante, che concentri in se stessa le funzioni ‛rare', senza essere necessariamente una città molto più grande per quanto riguarda la sua popolazione effettiva. Alcune regioni tedesche, come la Svevia-Franconia o l'Hannover, l'Olanda e il Belgio corrispondono a questa immagine.

La piccola città è oggi inconcepibile come centro di vita isolato, perché non offre né un sufficiente mercato di lavoro, né una struttura di servizi e di commercio sufficiente per i bisogni di una popolazione del livello di consumo e di vita di quelle dei paesi industriali. Ma essa è perfettamente vitale e suscettibile di costituire un microambiente urbano apprezzabile, se integrata a un sistema di relazioni e di complementarità di alta efficacia.

Se si considera che la città media da 100.000 a 300.000 o anche 500.000 abitanti corrisponde all'unità organica e sociologica della città moderna, è possibile considerare la struttura degli agglomerati ‛disurbanizzati' dal gigantismo modellandone lo spazio urbano intorno a nuclei capaci di catalizzare di nuovo la vita collettiva per mezzo di unità vitali. Si potrebbero evitare le degradazioni del gigantismo, frazionando l'agglomerato ipertrofizzato e ottenendo così un aggregato di città, aventi ciascuna la propria vita e unite soltanto gerarchicamente con il nucleo iniziale, che avrebbe il ruolo di metropoli, ma del tutto estraneo alla vita urbana nelle sue forme essenziali e giornaliere. Così è stata concepita la ristrutturazione dell'agglomerato parigino nel quadro dello schema direttivo. Essa implica il rinnovamento o la creazione di nuclei chiamati a diventare i nuovi poli della vita economica, sociale e culturale.

Il rinnovamento parte da un postulato: la necessità di far rivivere una certa immagine della città, in quanto espressione di un'eredità e simbolo di una continuità. Lo spirito dell'operazione può dunque essere qualificato come passatista. È implicito che la restaurazione o la conservazione di una cultura urbana è inseparabile dalla salvaguardia dei monumenti e dei quartieri storici. Si tratta di inserire un patrimonio ereditato nel quadro di vita attuale, con la stessa cura che abbiamo per la conservazione e la trasmissione della letteratura e del pensiero dei secoli passati. Scarsa importanza viene data poi alla strategia dell'operazione: selezione di edifici privilegiati, restauro di interi quartieri o ricostruzione in ‛neo-antico'. Le esperienze più riuscite tecnicamente sono talvolta deludenti dal punto di vista sociale. Il quartiere rinnovato perde la sua popolazione, diventa quartiere-museo, centro di turismo e di commercio di lusso o di folklore e, in realtà, non realizza la vera funzione di centralità, legata oggi ad altri ambienti e ad altri richiami. A questo riguardo, i centri di tipo moderno, organizzati per l'incontro e il passeggio dei pedoni in gallerie all'aperto o in centri sotterranei, separati dalla circolazione automobilistica, rispondono meglio, senza dubbio, alla vocazione di ‛centro della città', e si riallacciano, in nuove forme, alla tradizione dei portici, delle gallerie e delle grand'places. Ma non basta sottrarre con un regolamento municipale qualche strada all'uso dell'automobile, perché l'operazione riesca. Un nuovo centro di città o di quartiere viene concepito come un insieme funzionale e ricreativo. Non ci sono ricette universali. Fino ad oggi esistono esperienze riuscite e insuccessi.

Più direttamente aperta alle esigenze del futuro, sebbene dominata dalla ricerca delle basi e delle condizioni per l'unità sociologica e culturale urbana, è la problematica della ‛città nuova'. L'idea è nata in Inghilterra ed è stata applicata, subito dopo la seconda guerra mondiale, per rimediare all'iperconcentrazione dell'agglomerato urbano londinese. Quasi nello stesso tempo, era iniziata nell'area urbana di Stoccolma un'identica esperienza che doveva ispirare molti urbanisti e amministrazioni urbane (Vällingby). A poco a poco la concezione della ‛città nuova' si è precisata e ha assunto la forma di un nuovo schema di ripartizione della popolazione e delle attività all'interno del territorio dei paesi industrializzati. Originariamente si trattava di bloccare piccole frazioni della popolazione, attirata da Londra, in centri residenziali piacevoli, sistemati in modo da offrire alloggi e servizi a categorie sociali diverse, e provvisti di possibilità di lavoro in numero sufficiente e abbastanza diversificate per trattenere sul posto la maggior parte della popolazione attiva e ridurre al minimo le migrazioni quotidiane per lavoro (movimenti pendolari).

L'esperienza ha dimostrato che la scelta di dimensioni troppo piccole - meno di 100.000 abitanti - non permetteva di realizzare unità autonome vitali, malgrado le precauzioni prese inizialmente per scoraggiare i viaggi quotidiani verso il centro di Londra. A partire dal 1960, gli organismi inglesi preposti alla sistemazione del territorio e alla sistemazione urbana (Land and town planning) hanno elaborato modelli dimensionali e strutturali diversi, tenendo conto dei fattori di parziale insuccesso delle prime città nuove. Quelle che si realizzano attualmente, specialmente nell'ovest dell'Inghilterra, sono previste per accogliere parecchie centinaia di migliaia di abitanti e costituire dei mercati di lavoro largamente differenziati. I paesi socialisti hanno integrato la nozione di città nuova nella pianificazione economica: si tratta, da lunga data, di zone residenziali associate a un complesso industriale che comporta anch'esso, a livello del lavoro, un circondario culturale e uno o più centri di distribuzione. Qui la nozione di mercato del lavoro sparisce ed è sostituita da quella del rapporto città-fabbrica, progressivamente complicata dalla diversificazione tecnologica del lavoro e dall'ampliamento della funzione di distribuzione. Al contrario, negli Stati Uniti i promotori privati delle città nuove sono raramente riusciti ad attirare, come speravano, gli investimenti industriali, e spesso le città nuove sono semplici quartieri di abitazione, periferie isolate. In Francia a questo proposito si sono tentate due diverse versioni. L'una ai margini dell'agglomerato parigino: città nuove, incluse nello schema direttivo, previste per ricevere entro 10-15 anni da 300.000 a 400.000 abitanti, e collocate attorno a zone industriali e ad un centro urbano (Évry, Cergy-Pontoise, ecc.); l'altra in forma di poli ben individualizzati, al di fuori delle zone già urbanizzate: nella regione lionese, l'Isle-d'Abeau, e nella regione di Rouen, La Vandreuil. Nelle stesse condizioni i Tedeschi hanno compiuto numerose e spettacolari esperienze (Amburgo nord).

Il tratto comune a tutte le esperienze è la condizione di privilegio di cui godono gli urbanisti nel lavorare eccezionalmente in un ambiente nuovo e nel poter concepire in tutta libertà la distribuzione delle masse urbane e i dispositivi per la circolazione. Inglesi, Svedesi, Tedeschi, Francesi da un lato, paesi socialisti dall'altro, hanno creato dei modelli che testimoniano molta inventiva e la preoccupazione di risolvere i problemi che si sono posti nell'adattare le città antiche alle forme attuali di circolazione, di lavoro e di vita. L'ambiguità di fondo rimane: siamo cioè sufficientemente informati sui bisogni e sulle aspirazioni dei cittadini di oggi e di quelli del 1980 o del 2000, per rispondervi adeguatamente nell'organizzazione dello spazio e nella messa in opera delle attrezzature? Oppure, volontariamente o involontariamente, foggiamo un nuovo tipo di cittadino e di vita cittadina, imponendo un ambiente più o meno costrittivo? Per prudenza o timidezza si evita generalmente di chiarire questa ambiguità ispirandosi all'immagine ereditata. E allora sorge un dubbio. La città è chiamata a rinnovare nella sua evoluzione lo stesso processo di sviluppo sociale della città antica - anche se in forme e disposizioni diverse - o entrerà come un bambino ritardato in una società ancora imprevedibile? (V. anche urbanistica).

8. Universalità della città

Lo slancio dato all'urbanizzazione dai molteplici effetti, diretti e indiretti, dell'industrializzazione si è sviluppato in tutti i continenti. Ma bisogna, in realtà, distinguere due grandi categorie di città. Alla prima appartengono quelle la cui crescita dipende dall'attrazione che esercitano grazie alla loro capacità, anche irregolare, di assicurare occupazioni e promozione professionale e sociale ai nuovi cittadini, cioè le città delle economie industriali e quelle che possono essere loro equiparate, come le grandi città della zona temperata dell'emisfero sud. Alla seconda categoria appartengono le città che si gonfiano sotto una pressione demografica insostenibile nelle campagne, sia per l'insufficienza delle possibilità oggettive di produzione (sovrappopolamento assoluto), sia per le strutture agrarie paralizzanti (latifondo) e per l'arcaismo dei sistemi di coltura e di allevamento.

L'amministrazione urbana e la prospettiva urbanistica hanno all'incirca gli stessi problemi da risolvere in tutti i paesi industriali e, soprattutto, le soluzioni si somigliano sempre più. In queste condizioni, come potrebbe non esserci somiglianza anche tra gli ambienti urbani, la vita quotidiana, il malessere delle società urbane europee, americane, giapponesi? Analogamente, anche se ci sono differenze importanti tra le scene della strada o il quadro di vita delle città dell'Asia, dell'Africa o dell'America tropicale, il problema maggiore per tutte le città dei paesi sottosviluppati è quello che oggi viene detto ‛insediamento sotto-integrato' o ‛non integrato'. In realtà, molto più che un semplice problema di insediamento, è un problema interamente sociale. Alla base della città sono la funzione amministrativa e la funzione commerciale, che spesso consiste in una funzione di deposito al servizio dei mercati internazionali. Sussidiariamente, e in collegamento con questa funzione di deposito, la città è residenza della società e dell'apparato che dominano la produzione agricola e mineraria delle materie ivi fatte transitare. Anche tenendo conto della moltiplicazione degli impieghi (intermediari, mediatori, rivenditori al dettaglio, funzionari con piccole responsabilità) che alimentano una classe media sensibilmente diversa dalla classe media delle città dei paesi industriali, quest'economia può sopportare soltanto effettivi di popolazione urbana relativamente limitati, che si dispongono lungo una scala sociale molto estesa, dominata da una classe di proprietari fondiari, di grossi commercianti, di capi dell'esercito e dell'amministrazione, cioè dai principali beneficiari del prodotto nazionale lordo. Ora, abbiamo già detto che queste città, e soprattutto quelle che hanno il rango di capitale o di grandi metropoli regionali, esercitano l'effetto di un faro sugli strati sociali più diseredati e più famelici della campagna. La loro popolazione cresce, e cresce rapidamente, per l'accumularsi di una massa sradicata, senza lavoro, che è al limite della fame, minata dalla sottoalimentazione cronica e da varie carenze, portatrice di germi e di parassiti. La città deve addossarsi la sua presenza senza poterla accogliere economicamente.

L'aspetto più direttamente percepibile di questa crisi cronica dell'urbanizzazione nei paesi sottosviluppati è la moltiplicazione degli insediamenti improvvisati, molto spesso senza il minimo trattamento del suolo occupato. Le loro caratteristiche sono note: localizzazione nei luoghi meno adatti all'urbanizzazione (i soli dove li si tollera) e nei più insalubri; agglomerati di rifugi fragili, insufficienti a proteggere dalle intemperie, dai roditori, dai parassiti, ed esposti alle tempeste, alle inondazioni, agli incendi; ammassi di rifiuti, inquinamenti di ogni genere, promiscuità e contagi (bidonvilles, villas miserias, callampas, favelles, barriadas, tugorios, ranchos del Nordafrica e dell'America Latina, ‛villaggi' suburbani delle metropoli africane, catapecchie e sordidi baraccamenti delle città indiane, ecc.). La popolazione instabile, decimata dalle malattie e dalla mortalità infantile, può essere difficilmente censita, ma ci si azzarda spesso ad affermare che essa supera il numero della popolazione propriamente urbana di molte capitali americane o africane. L'insediamento sottointegrato o non integrato non è che una conseguenza dell'incapacità dell'economia urbana di fornire lavoro, redditi e, quindi, mezzi per pagare un affitto e per giustificare degli investimenti immobiliari. È violentissimo il contrasto tra le costruzioni di prestigio del centro della città all'americana, con strade di grattacieli ingombre di vetture di lusso e dalle illuminazioni abbaglianti, e il brulichio oscuro di coloro che non sono ammessi al paradiso urbano, ma vengono a mendicarvi il semplice diritto di sopravvivere.

Dappertutto si sono cercati degli espedienti; attualmente è difficile immaginare delle soluzioni: separazione radicale degli insediamenti, come a Brasilia (parecchie decine di chilometri tra la capitale di prestigio e le ‛città-satelliti' della povera gente); sistemazione di un minimo di servizi e di attrezzature (distribuzione dell'acqua, distruzione dei rifiuti) nelle zone abbandonate all'insediamento spontaneo (parecchie città dell'Africa tropicale, fraccionamientos proletarios del Messico, la maggior parte delle bidonvilles delle città marocchine). Bisognerà attendere che l'economia sia capace di assicurare il lavoro a flussi migratori, rallentati da una riduzione della pressione demografica e da una migliore utilizzazione della popolazione rurale nelle campagne. Il problema della città si confonde quindi con quello di tutta l'economia e dell'intera società. E si può ben concludere che, dovunque, la città è insieme rappresentativa di una storia molto lunga e di un presente pieno di incertezze.

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