Clima
Sommario: 1. Introduzione. 2. Paleoclimatologia. 3. Le datazioni con radioisotopi. 4. Gli oceani. 5. L'effetto serra. 6. Le previsioni. 7. Strategie per mitigare l'effetto serra. 8. Questioni che richiedono una regolamentazione internazionale. Bibliografia.
1. Introduzione
Lo studio del clima è cosa ben diversa dalle analisi finalizzate alle previsioni del tempo. La distinzione - lungi dall'avere carattere accademico - è di fondamentale importanza; infatti, per prevedere il tempo atmosferico - un fenomeno limitato nello spazio e nel tempo - si studiano le variazioni della temperatura, della pressione e dell'umidità, i venti, la nuvolosità e le precipitazioni, ossia tutti quei fattori che sono influenzati soprattutto da fenomeni atmosferici; il clima si riferisce invece a grandi estensioni spaziali e a lunghi periodi di tempo (come regola, si considera che abbiano interesse climatologico dati come, ad esempio, la media delle precipitazioni su un periodo di 30 anni). Inoltre, alla determinazione del clima contribuiscono altri quattro fattori, oltre all'atmosfera: gli oceani, le masse ghiacciate, la biosfera e la radiazione solare; dunque, tre componenti terrestri e una extraterrestre. Detto in modo succinto, l'atmosfera assorbe e diffonde parte della radiazione solare incidente, mentre frena l'uscita della radiazione infrarossa emessa dalla Terra, provocando in tal modo un ‛effetto cuscinetto' molto delicato se si pensa che uno degli agenti della trappola infrarossa - l'
Gli oceani sono la sorgente primaria di vapore acqueo, e quindi di nuvolosità, nonché importanti distributori di calore fra le regioni che ne sono povere e quelle che ne sono ricche (rispettivamente, quelle alle alte latitudini e quelle equatoriali) dell'intero globo. Tali scambi avvengono tramite gigantesche correnti che si snodano instancabilmente attraverso gli oceani. Le regioni coperte di ghiaccio assorbono meno calore rispetto alle regioni più scure (un corpo nero è un perfetto assorbitore di calore, un corpo bianco l'opposto) e influenzano così l'albedo, o riflettività del pianeta. Per esempio, l'albedo di una foresta (assai scura) è molto bassa (0,08), mentre quella della neve fresca è dieci volte maggiore (0,8); più grandi sono le estensioni ghiacciate, maggiore è la radiazione che esse riflettono (quando c'è neve fresca, fa infatti più freddo). Infine, la biosfera - forse la componente più difficile da quantificare in tutto lo scenario climatologico - può agire in modi svariati, per esempio sottraendo anidride carbonica all'atmosfera attraverso la vegetazione, o aumentando l'azione fotosintetica del fitoplancton marino che, riducendo la carica di diossido di carbonio (o anidride carbonica, CO2) dell'atmosfera, influenza l'effetto serra e quindi il clima.
Non sappiamo quando sia nato l'interesse dell'umanità per i fattori climatici, ma non sembra azzardato suggerire che sia sempre esistito e che si sia sviluppato parallelamente a quello per le previsioni del tempo. La frase di
Due grandi scienziati inglesi possono a buon diritto essere considerati i padri della climatologia dinamica:
In questo secolo due grandi avvenimenti hanno dato alla climatologia un nuovo impulso: l'avvento dei computers, che possono effettuare un miliardo di operazioni al secondo, e quello dei satelliti, che forniscono dati su nuvolosità, temperatura, vapor acqueo, precipitazioni, concentrazione di ozono (O3) e CO2 relativamente a vaste aree e per lunghi periodi di tempo. Allo stesso tempo, l'umanità si è resa conto che il consumo di combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale) - iniziato con la rivoluzione industriale - innesca reazioni chimiche con l'ossigeno dell'atmosfera generando una notevole quantità di CO2 che si aggiunge al ‛carico' naturale (tanto che esso è passato da un valore di 0,029% nel 1900 a quello attuale di circa 0,035%) potenziando così l'effetto serra naturale e determinando una serie di conseguenze, nessuna delle quali sembra essere particolarmente attraente. È importante sottolineare che nessuno, nella storia documentata dell'umanità, sembra aver suggerito che l'uomo avrebbe potuto diventare una forza capace di influenzare il clima, il quale - come detto all'inizio - implica scale di tempo molto lunghe e quindi generazioni passate e future. Soltanto ai nostri giorni l'umanità ha per la prima volta acquisito la consapevolezza di essere diventata un fattore potenzialmente importante per il clima del nostro pianeta; un fenomeno tanto più serio se si pensa che è irreversibile. Gli studi climatologici - e in particolare la previsione del clima sotto l'azione antropogenica di una popolazione di circa sei miliardi di esseri umani, gran parte dei quali in cerca di un miglioramento delle proprie condizioni di vita e quindi di una quantità sempre maggiore di energia - hanno assunto importanza prioritaria e sono divenuti un obbligo sociale per coloro che hanno gli strumenti e le conoscenze per realizzarli. Ma anche qualora riuscissimo a costruire il modello climatologico più attendibile dal punto di vista dei parametri fisici che abbiamo usato, come possiamo convalidarlo? Aspettare che le previsioni si avverino non è una proposta scientificamente seria né una strategia consigliabile. Non avendo molte scelte, ci si è diretti verso un orizzonte ricco di dati e di grande estensione temporale: la paleoclimatologia.
2. Paleoclimatologia
Cominciamo con una data recente, in senso geologico: 20.000 anni fa. Enormi ghiacciai coprivano tutto il Canada, gran parte degli Stati Uniti, molte regioni dell'Europa, tutta la Svizzera, parte dell'Italia settentrionale e della
Ma i critici non mancano mai, e la teoria delle glaciazioni fu attaccata dal grande geologo inglese
A questo sfondo intellettualmente piuttosto conservatore si aggiungeva la difficoltà di immaginare l'esistenza di ghiacciai delle dimensioni richieste dalla teoria di Agassiz. Fu infatti solo nel 1852 che si scoprì che l'intera
Quarant'anni dopo il discorso di Neuchâtel, il concetto delle ere glaciali era ormai universalmente accettato; rimanevano tuttavia ignote le cause di tale fenomeno, nonché il modo in cui esso era terminato, e il problema del se e quando avrebbe potuto verificarsi di nuovo. Cominciamo con le solite congetture: il Sole è la sorgente dell'energia che fa funzionare il sistema clima; basterebbe quindi postulare che ci sia stata una diminuzione della radiazione solare (a sua volta generata dalle reazioni nucleari che avvengono al centro della stella) di quel tanto che basterebbe per far precipitare la Terra in una glaciazione. Non solo questa ipotesi non sarebbe scienza, ma non avrebbe alcuna base astrofisica, teorica od osservazionale. Basti ricordare che i dati dei satelliti
Nel 1842, lo scienziato francese A. J. Adhemar fu il primo a suggerire che la causa delle glaciazioni fosse da ricercarsi nelle variazioni del moto della Terra attorno al Sole: non si trattava quindi di un fenomeno postulato ad hoc, ma, se provato, era una conseguenza necessaria. Keplero aveva precedentemente dimostrato che la traiettoria della Terra attorno al Sole non ha la forma di un cerchio (la figura prediletta dai filosofi greci), ma quella assai meno poetica di un'ellisse, il cui grado di eccentricità varia nel tempo, fluttuando dal massimo al minimo in circa 100.000 anni. Al variare dell'eccentricità, varia la distanza media dal Sole e quindi anche l'intensità della radiazione solare ricevuta. Inoltre, la Terra ruota su se stessa e l'asse di tale rotazione è oggi inclinato di circa 23° rispetto alla perpendicolare al piano dell'orbita; ciò causa le stagioni. Oggi, nell'emisfero nord è inverno nel periodo di perielio (punto dell'orbita più vicino al Sole), ma con un'inclinazione in verso opposto al Sole; è invece estate quando la Terra è all'afelio (punto dell'orbita di massima distanza dal Sole), ma con l'inclinazione verso il Sole. All'afelio, la distanza Terra-Sole è di circa 5 milioni di km maggiore che al perielio. Ma già gli astronomi dell'antichità, specialmente Ipparco (120 a. C.), avevano concluso che l'asse di rotazione della Terra non è fisso: oggi punta verso la
Fino al 1950 circa, la teoria di Milankovič venne accettata dalla grande maggioranza dei geologi, i quali conclusero che durante il Quaternario (gli ultimi due milioni di anni, divisi in Pleistocene e Olocene, ove quest'ultimo rappresenta gli ultimi 100.000 anni) erano avvenute quattro, forse cinque, glaciazioni, in accordo qualitativo con le previsioni della nuova teoria la quale prevedeva nove minimi: gli ultimi tre apparivano come un ‛tripletto', mentre i sei rimanenti erano divisi in tre ‛doppietti'. Stava però avvenendo qualcosa di nuovo.
3. Le datazioni con radioisotopi
Agli inizi degli anni cinquanta, l'americano W. L. Libby scoprì un nuovo metodo di datazione basato sul radiocarbonio 14C, un isotopo radioattivo del carbonio, che viene prodotto in quantità minime nella collisione dei raggi cosmici con le molecole di azoto dell'atmosfera. L'1% del carbonio nella vegetazione è 14C; questo, che ha una vita media di 5.730 anni, decade producendo in media 15 disintegrazioni per grammo di C al minuto. Quando la vegetazione muore, cessa l'assorbimento di CO2 dall'atmosfera e quindi anche del 14C. Libby suggerì che tale fenomeno potesse offrire un eccellente orologio naturale per datare l'origine di un fossile: bastava misurare la proporzione del 14C ancora presente nel fossile; l'unica limitazione consisteva nel fatto che non si possono datare fossili con un'età superiore ai 40.000 anni. Il metodo venne rapidamente applicato a una grande varietà di fossili con risultati molto interessanti: risultò che l'ultima glaciazione aveva raggiunto il suo massimo 18.000 anni fa ed era terminata quasi completamente 10.000 anni fa. I nuovi dati indicavano anche che 72.000 anni fa i ghiacciai erano troppo a nord (
Iniziava così un nuovo periodo di ricerca. Invece di usare fossili di superficie, si analizzarono fossili ricavati dai fondi marini. Tutto iniziò con la spedizione inglese della nave H. M. S. Challenger, che solcò gli oceani dal 1872 al 1875 riportando in patria una quantità tale di materiale da analizzare che il resoconto finale richiese ben 50 volumi. Di speciale interesse per la climatologia fu la scoperta che una certa specie di Foraminiferi vive solo in acque calde, mentre un'altra specie vive esclusivamente in acque fredde: una separazione così netta e naturale poteva venir immediatamente utilizzata per studiare fenomeni climatici basandosi sull'analisi di sequenze di sedimenti marini. I Foraminiferi sono organismi marini unicellulari che abitano in gusci fatti di carbonato di calcio, CaCO3; quando muoiono, si depositano sul fondo del mare diventando sedimenti marini e il CaCO3 dei loro gusci mantiene le caratteristiche dell'acqua in cui abitarono. Dopo il 1947, in seguito alla scoperta dello svedese B. Kullenberg di un nuovo pistone che permetteva di effettuare carotaggi di lunghezza fino a 10-15 metri, si aprì una nuova era di studi. Si scoprì, per esempio, che nell'Oceano Pacifico il tasso di sedimentazione non è superiore a l mm al secolo, il che permette di studiare l'intero Pleistocene con carotaggi relativamente corti, mentre nell'Oceano Atlantico il tasso è di 3 mm al secolo. I primi risultati vennero annunciati nel 1953 da F. B. Phleger, F. L. Parker e J. F. Peirson della Scripps Institution of Oceanography (California): usando 39 carotaggi di Kullenberg, si concluse che nel Pleistocene c'erano state nove glaciazioni. Studi dello stesso tipo, condotti presso la
Era forse necessario un altro orologio capace di risalire maggiormente nel tempo, al di là dei 40.000 anni del 14C? Nel 1965, Broecker iniziò ad applicare alla paleoclimatologia un nuovo metodo di datazione, suggerito nel 1956 da J. W. Barnes dei laboratori di
Rinasceva Milankovič? I risultati indicavano che negli ultimi 400.000 anni si erano verificate sei glaciazioni con una periodicità di circa 100.000 anni, ma che non c'era simmetria fra prima e dopo: periodi di espansione glaciale della durata di circa 100.000 anni terminavano in modo assai brusco. Il geologo cecoslovacco G. Kukla era arrivato indipendentemente allo stesso risultato: le glaciazioni avvengono lentamente ma spariscono rapidamente. Per coordinare gli sforzi che si stavano facendo in vari laboratori, il 1° maggio del 1971 si creò il CLIMAP, un progetto il cui obiettivo primario era quello di ricostruire quella che era stata la storia degli Oceani Atlantico e Pacifico negli ultimi 700.000 anni, un intervallo di tempo chiamato periodo Brunhes in onore del geofisico francese che nel 1906 aveva scoperto l'inversione di polarità del campo magnetico terrestre. Al progetto CLIMAP parteciparono, oltre agli Stati Uniti, sette paesi europei, con più di cento scienziati. Data la predominanza del ‛pulso climatico' di 100.000 anni, sarebbe stato possibile rivelare gli altri due ‛battiti' di 23.000 e 41.000 anni, o questi sarebbero stati schermati dal rumore di fondo? Si dovette applicare una tecnica di analisi nota come analisi spettrale (impiegata per esempio nello studio delle note che emette una corda di violino) e i risultati furono quanto mai soddisfacenti. In un lavoro apparso nella rivista americana ‟
4. Gli oceani
Ma come succede spesso nella scienza, c'era qualcosa che non quadrava ancora. Perché mai il ‛battito' di 100.000 anni risultava essere il modo fondamentale di funzionamento quando in realtà il suo effetto sulla insolazione stagionale era inferiore a quello degli altri due battiti? Inoltre, i cicli astronomici iniziano e decadono in modo continuo, mentre le glaciazioni non sono affatto simmetriche. E neppure si può pensare che l'emisfero nord determini in modo causale le glaciazioni nell'emisfero sud, poiché è stato ampiamente documentato che durante una glaciazione i ghiacciai si formano e scompaiono in modo sincrono nel nord e nel sud. Ma come può allora un cambio stagionale, per esempio in
Gli esperti di polline ci dicono altresì che in seguito alla ‛resurrezione' del nastro oceanico dopo l'ultima glaciazione, nel giro di 100 anni avvenne un fatto singolare: il nastro si spense di nuovo, precipitando la Terra in una subitanea era glaciale. Infatti, quelle regioni nordiche che avevano cominciato a popolarsi di foreste tornarono a essere coperte soltanto da praterie e arbusti, il più conosciuto dei quali è un fiore noto come
Abbiamo descritto un intreccio di fenomeni, di indizi sospetti, di impronte digitali, una tela di ragno con causazioni che agiscono in tutte le direzioni. I climatologi moderni sono archeologi e futuristi al tempo stesso: dalla lettura del polline di 10.000 anni fa, a quella dei sedimenti marini, a quella dell'aria di 160 mila anni fa, cercano di tessere un quadro coerente onde identificare le cause e quantificare gli effetti. Impresa ardua da cui può dipendere la futura gestione del nostro pianeta. Gli oceani, termostato del nostro clima, dimostrano una personalità assai più irta e capricciosa di quanto pensassimo; sollecitati da forze esterne, essi non reagiscono in modo docile, e quindi non possiamo cullarci nell'illusione che il clima futuro sia solo gradualmente diverso da quello di ieri. Tutto ciò appartiene alla mistica screditata del gradualismo. Oggi ci sono forti indizi che quando le sollecitazioni esterne raggiungono una certa soglia, il sistema scatta in modo brusco da uno stato a un altro, come un elettrone quantizzato in un atomo: un fenomeno che abbiamo accettato su scala microscopica ma che inconsciamente respingiamo su scala globale, e tale reticenza è forse il problema più grande. Chi sosteneva che natura non facit saltus, non conosceva il grande salto che occorse 11.000 anni fa.
5. L'effetto serra
Contrariamente a quanto si pensa, l'effetto serra non è una scoperta recente; già nel 1827, infatti, il matematico J. B. Fourier scriveva: ‟Il problema delle temperature globali, uno dei più importanti e difficili di tutta la filosofia naturale, si compone di elementi alquanto diversi che dovrebbero essere considerati da un unico punto di vista generale". Se allo stesso Fourier è stata attribuita la paternità dell'espressione ‛effetto serra' (effet de serre), tuttavia per le prime stime concrete di tale fenomeno si dovette attendere il 1896, anno in cui il chimico svedese S. Arrhenius calcolò che se fosse raddoppiato il tenore in CO2 dell'atmosfera si sarebbe avuto un aumento globale della temperatura media di 5 °C - risultato abbastanza vicino a quello odierno. È interessante osservare che nel suo libro World in the making, pubblicato nel 1906, Arrhenius perveniva a una conclusione ottimistica, affermando che questo aumento della temperatura avrebbe comportato un miglioramento del clima e raccolti più abbondanti. Se l'ipotesi dello studioso svedese si sarebbe rivelata esatta per le regioni del mondo alle alte latitudini, egli tuttavia non poteva immaginare che lo stesso fenomeno avrebbe avuto un impatto negativo sulle aree più povere della Terra, peggiorando le loro già precarie condizioni di vita. Del problema si occuparono anche altri autori, in particolare T. C. Chamberlain nel 1899 e S. G. Calander nel 1938, nel 1940 e infine nel 1949, anno in cui pubblicò il saggio intitolato Può il CO2 influenzare il clima? Tutte queste analisi non prendevano tuttavia in considerazione due elementi importanti: il fatto che gli oceani assorbono circa la metà di tutte le emissioni di CO2, e il ruolo dei meccanismi di feedback (sia positivo che negativo), i quali rendono il problema assai più arduo da quantificare. L'idea che l'effetto serra potesse non avere effetti benefici per tutti faticò comunque ad affermarsi. Ancora nel 1957, in quello che viene considerato a buon diritto un saggio fondamentale in questo campo di studi, R. Revelle e H. E. Suess, della Scripps Institution, osservarono che il genere umano va conducendo un esperimento geofisico senza precedenti ‟che non avrebbe potuto essere realizzato in passato né potrà essere riprodotto in futuro. Nel giro di pochi secoli stiamo restituendo all'atmosfera e agli oceani il carbonio organico immagazzinato nelle rocce sedimentarie nel corso di centinaia di milioni di anni" (v. Revelle e Suess, 1957). L'esperimento in questione, ovviamente, è quello iniziato con la rivoluzione industriale, ossia con l'uso di combustibile fossile per produrre energia, un processo che comporta un aumento della concentrazione di CO2 nell'atmosfera. Come si sa, tanto gli oceani quanto la vegetazione scambiano enormi quantità di carbonio (l'unità di
I processi fisici che sono alla base dell'effetto serra sono abbastanza semplici e hanno ben poco in comune con quelli che si verificano nelle serre vere e proprie, la cui principale funzione è quella di evitare la dispersione del calore da parte del vento. La radiazione solare che raggiunge la Terra (di cui il 30% viene riflesso nello spazio; è il fenomeno della cosiddetta riflessività o albedo) non viene arrestata dall'atmosfera. Raffreddandosi, la Terra emette radiazione (raggi infrarossi) di lunghezza d'onda assai superiore a quella della radiazione incidente; poiché alcuni dei gas che compongono l'atmosfera terrestre, H2O (vapore acqueo), O3 (ozono), CO2, N2O (protossido di azoto) e CH4 (metano) possiedono stati rotazionali e vibrazionali esattamente a quelle frequenze, la radiazione viene in tal modo trattenuta e quando viene riemessa solo una frazione si perde nello spazio, mentre il resto viene rinviato verso la Terra. Ciò forma una coltre naturale che mantiene più alta la temperatura.
L'effetto serra naturale ha permesso al nostro pianeta di avere una temperatura media sui 18 °C, mentre su
Tabella 1
Dal 1958 C. D. Keeling ha installato due stazioni di misurazione, una nelle
Prima di esaminare alcune previsioni su un possibile effetto serra di origine antropica, occorre sottolineare il fatto che il CO2 non è l'unico gas a trattenere il calore che altrimenti si disperderebbe nello spazio; esistono altri gas responsabili dell'effetto serra. In effetti, sulla base di un confronto diretto tra molecole di diversi gas, il CO2 risulta essere il gas con effetto più debole; quello del CH4 è 30 volte più forte, quello di N2O 200 volte più forte e i ben noti CFC, i clorofluorocarburi, hanno effetto circa 20.000 volte più forte. Il motivo per cui ciascuno di questi gas preso separatamente ha un'incidenza minore rispetto al CO2 è dato dalla loro concentrazione assai più bassa. Le principali fonti di CH4 sono i terreni paludosi (25-170 Tg annui; 1 Tg o teragrammo = 1012 grammi), le risaie (40-170 Tg), la fermentazione del concime organico (40-110 Tg), la combustione della biomassa (30-110 Tg), la produzione e la distribuzione di gas naturale (20-50 Tg), l'estrazione del carbone (10-40 Tg) e le termiti (5-45 Tg), per un totale complessivo di 0,2-0,8 Gt annue, e un incremento dello 0,6% annuo. Quanto agli ossidi d'azoto, l'emissione totale è stimata sui 7,8-25,3 Tg annui. Consideriamo, infine, i CFC: si tratta di composti artificiali - le cui emissioni sono stimate intorno ai 0,33 Tg annui - che vennero scoperti nel 1928 dall'americano T. Midgley Jr., un chimico impiegato alla General Motors. È una storia triste e interessante al tempo stesso. Nel 1922 egli scoprì il piombo tetraetile, usato come additivo per carburanti, che si rivelò decisivo per il boom dell'industria automobilistica. Molti anni più tardi risultò peraltro che queste sostanze hanno effetti nocivi, e per questo motivo si è passati alla benzina senza piombo. I clorofluorocarburi scoperti da Midgley erano di fatto sostanze chimiche ‛miracolose' per i processi di refrigerazione, e per molti anni furono comprensibilmente considerati un grande successo industriale. Nel 1974 due chimici,
Nel 1985 tre scienziati britannici, J. C. Farman, B. G. Gardiner e J. D. Shankin, annunciarono in un articolo pubblicato su ‟Nature" la scoperta di un ‛buco nell'ozono' nella regione antartica (v. Farman e altri, 1985). I tre studiosi avevano misurato per molti anni i livelli di ozono come parte del progetto British Antartic Survey, constatando già nel 1981 una sua diminuzione sull'Antartide (base di Halley Bay); essi pensarono tuttavia che si trattasse di un errore dovuto all'usura dello strumento di rilevazione, e decisero di non divulgare questi dati. Ma dalle rilevazioni ottenute con un nuovo spettrofotometro risultò una diminuzione del 50% nel contenuto di ozono, dato che costituiva una significativa conferma empirica dell'ipotesi teorica formulata undici anni prima da Rowland e Molina; l'effetto, inoltre, era di proporzioni di gran lunga maggiori di quelle previste dai modelli puramente chimici, in quanto le particolari condizioni climatiche della regione antartica potenziano notevolmente l'efficienza dei processi chimici alla base del fenomeno. Questa scoperta destò un comprensibile allarme, in quanto le molecole di ozono proteggono la Terra dalla radiazione ultravioletta che può creare gravi danni alla salute, come tumori della pelle, cataratte, immunodeficienze, ecc. Midgley si suicidò nel 1944 dopo che gli era stata diagnosticata una poliomielite, ma gli fu perlomeno risparmiata l'amara consapevolezza che la sua scoperta più brillante - che aveva reso l'aria condizionata e la refrigerazione beni di largo consumo e aveva creato un giro d'affari di miliardi di dollari - aveva un effetto così nocivo sull'ambiente.
I clorofluorocarburi si sono rivelati dunque doppiamente dannosi: non solo sono tra i gas responsabili dell'effetto serra, ma impoveriscono lo strato d'ozono. Per questo motivo sono stati oggetto di particolare attenzione da parte dei legislatori di diversi paesi, i quali nel Protocollo di
Sebbene non si possa affermare con assoluta certezza che l'uso di questi gas abbia aumentato l'effetto serra naturale, tuttavia una serie di circostanze sembra confermare l'ipotesi che un loro incremento abbia già provocato effetti tangibili. In primo luogo, durante l'ultimo secolo la temperatura della superficie terrestre è aumentata di circa 0,5 °C. I dati osservativi dimostrano un aumento complessivo, che tuttavia non è lineare: a un incremento costante dal 1880 al 1949 ha fatto seguito una fase di diminuzione che è durata circa un trentennio (sino al 1980), dopo la quale la temperatura ha ripreso ad aumentare. In secondo luogo, il livello del mare si è innalzato di circa 1 mm all'anno nel corso dell'ultimo secolo. In terzo luogo, va considerato il caso dell'Antartide. Sotto certi aspetti, l'ultima glaciazione è ancora in atto, poiché l'Antartide è un ghiacciaio non ancora disciolto. La catena montuosa transantartica divide il continente in due regioni, l'Antartide orientale e l'Antartide occidentale. Quest'ultima poggia su un arcipelago sommerso grande all'incirca quanto le Filippine, mentre l'Antartide orientale poggia su un continente sommerso, e contiene circa 30 milioni di km3 di ghiaccio, che rappresentano il 91% del volume totale dei ghiacciai esistenti sulla Terra. Attualmente, l'Antartide occidentale si estende su un'area che rappresenta solo il 10% di quella dell'Antartide orientale, ma durante l'ultima glaciazione essa costituiva un terzo dell'intero continente. Sebbene i due terzi della regione si siano inabissati, resta ancora una quantità di ghiaccio tale che, se dovesse sciogliersi, farebbe innalzare il livello del mare di circa 6 m. Se tale fenomeno si verificasse nell'Antartide orientale, d'altro canto, il corrispondente innalzamento del livello del mare sarebbe di 60 metri. Alcune parti dell'Antartide occidentale sono franate in anni recenti: tra il 1974 e il 1979 è collassato il ghiacciaio di barriera Wordie, un'area di 250 km2 e con un volume di 37,5 km3 di ghiaccio; nel 1986 è stata la volta del tavolato di ghiaccio di Larsen e del promontorio di Filchner, e della lingua di ghiaccio Thwaites, per un totale di 23.525 km2 e un volume di 5.460 km3 di ghiaccio; nel 1987 è sprofondato il ghiacciaio di barriera Ross (5.508 km2 e un volume di 1.650 km3 di ghiaccio). La frana più recente si è verificata nel 1995 e ha riguardato la penisola di Larsen (2.849 km2, la stessa estensione del
6. Le previsioni
La branca della scienza che si serve di questi dati climatici per formulare previsioni sul clima futuro fu creata da un brillante scienziato inglese,
Consideriamo ora le principali caratteristiche di tale rapporto, sintetizzate nella tab. II, nella quale i cinque asterischi indicano che il fenomeno ha una probabilità di verificarsi vicina alla certezza; due asterischi, per contro, classificano un evento come scarsamente probabile. Tutti i GCM prevedono un aumento globale della temperatura di 2,5 °C; tuttavia questo effetto di riscaldamento non è uniforme: è massimo alle latitudini polari (sino a 10-12 °C), minimo nelle regioni equatoriali (1-2 °C). È importante capire la ragione di questa mancanza di uniformità. Alle alte latitudini il riscaldamento globale fa sciogliere il ghiaccio e modifica di conseguenza l'albedo, in quanto i terreni aridi, più scuri del ghiaccio, riflettono meno e assorbono maggior calore. Si tratta del fenomeno noto come ‛amplificazione polare' o ‛feedback dell'albedo di superficie ghiacciata'. Il fatto che tale fenomeno sia riprodotto da tutti i GCM aumenta la fiducia nella loro attendibilità. D'altro canto, l'effetto di riscaldamento non è altrettanto sensibile nell'emisfero meridionale, perché qui la quantità di terra coperta di ghiaccio è notevolmente inferiore e perché il ghiaccio dell'Antartide è troppo spesso per potersi sciogliere.
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Possiamo menzionare un altro meccanismo analogo, che peraltro è assai più arduo da quantificare. La quantità di metano, CH4, attualmente congelato nella tundra è conosciuta solo per ordini di grandezza, ma è probabile che all'aumentare della temperatura globale si scioglieranno maggiori quantità di CH4, che raggiungendo l'atmosfera incrementeranno l'effetto serra, con la conseguenza di far sciogliere altro metano, e così via. Non sono che due esempi dei meccanismi di feedback ai quali devono essere ascritte le discrepanze tra i diversi modelli; l'esatta descrizione di tali meccanismi - senza i quali il problema sarebbe abbastanza semplice e non controverso: l'aumento della temperatura si aggirerebbe intorno a 1 °C - costituisce per molti versi il problema più arduo nella climatologia basata sui modelli matematici.
Per quanto riguarda l'umidità del suolo, i risultati possono essere sintetizzati nel modo seguente. In presenza di umidità, parte dell'energia termica è impiegata nell'evaporazione dell'acqua e quindi, contrariamente a quanto avviene nei climi aridi, non tutta riscalda il suolo. Di conseguenza, le previsioni climatiche per l'Africa Centrale dipendono in misura notevole dal tasso di umidità del suolo, e ciò spiega le discrepanze tra i diversi modelli, alcuni dei quali prevedono un aumento della temperatura di 4-6 °C, altri di 0-2 °C. Tuttavia, la maggiore incertezza deriva dal comportamento delle nubi, in quanto esse possono determinare meccanismi di feedback sia negativi che positivi. Attualmente, l'albedo è di circa il 30%, di cui il 20% dovuto alle nubi e il restante 10% alle radiazioni diffuse dalla superficie terrestre (ad esempio, dal ghiaccio e dalla neve). Solo sulla base di questi elementi si potrebbe concludere che le nubi hanno un effetto di raffreddamento sulla Terra. Tuttavia, il problema è assai più complesso, in quanto le nubi assorbono anche una certa quantità del calore emanato dalla Terra. Parte di questo calore viene diffuso verso l'esterno, parte ritorna verso la superficie terrestre; quest'ultimo contribuisce all'effetto serra e all'aumento della temperatura (è quindi un feedback positivo), mentre la quota di calore che si disperde all'esterno contribuisce a raffreddare il pianeta (si tratta quindi di un feedback negativo). Sulla base del clima attuale siamo in grado di stabilire se a prevalere è l'effetto di riscaldamento o quello di raffreddamento. Quest'ultimo corrisponde a -45 W/m2 (watt al metro quadro), mentre il riscaldamento è pari a + 30 W/m2: in complesso, dunque, le nubi raffreddano la Terra. Per quanto riguarda il clima futuro, le differenze nelle previsioni sul riscaldamento globale della superficie terrestre che si riscontrano tra i modelli - differenze che arrivano a un fattore 3 - dipendono in larga misura dal modo in cui sono considerate le nubi. I GCM prevedono che in un mondo con una concentrazione raddoppiata di CO2, vi saranno più nubi alte che nubi basse: le prime sono più fredde (la temperatura diminuisce con l'altezza a un ritmo di 6,5 °C per km) e irradiano meno; il loro valore di albedo è basso e quindi l'atmosfera trattiene maggior calore - un feedback positivo che porta a un aumento della temperatura. Inoltre, le nubi più basse, che in generale sono più brillanti e più bianche, hanno un'albedo superiore e quindi un effetto di raffreddamento; poiché sono in quantità inferiore, anche la loro incidenza globale è ridotta. In conclusione, gli attuali GCM prevedono un'albedo delle nubi ridotta, e poiché quella terrestre è determinata in larga misura dalle nubi, il loro effetto risulta dominante, sicché oggi si prevede che le nubi determineranno un feedback positivo (aumento della temperatura), assai simile a quello dell'albedo di superfici ghiacciate considerato in precedenza. Per queste ragioni, si afferma spesso che i risultati dei GCM debbono essere presi sul serio ma non alla lettera: sul serio, perché sono in grado di cogliere con sufficiente precisione le caratteristiche generali, ma non alla lettera in ragione delle difficoltà cui abbiamo accennato.
Se la precipitazione aumenta alle latitudini alte, quale sarà il suo effetto sul nastro oceanico? Detto in altri termini, quanta acqua dolce sarà necessaria per ‛indebolirlo'? Una possibile risposta è stata offerta nel 1995 dall'oceanografo tedesco S. Rahmstrof, che impiegò una tecnica molto nota negli studi sul caos, consistente nel registrare il comportamento (la risposta) di un sistema dinamico (il nastro) in funzione di un parametro di controllo (in questo caso, l'ammontare di acqua dolce). Ecco i risultati più salienti conseguiti in tal modo: 1) un flusso pari a 1/6 di quello del Rio delle Amazzoni spegnerebbe la corrente del Labrador, ma questo evento verrebbe preceduto da quello che nella teoria del caos è noto come ‛biforcazione di Hopf'. Il nastro oceanico comincia a oscillare con un periodo di 22 anni; la variazione nella sua portata è di 1-3 milioni di metri cubi al secondo e la corrispondente variazione della temperatura è di 0,2 °C. Va sottolineato che tutto ciò accade con un flusso di acqua dolce pari a 1/6 di quello del Rio delle Amazzoni, una perturbazione a prima vista minima su un sistema che ha una portata media pari a 100 volte il flusso considerato; 2) se si torna indietro sottraendo acqua dolce, il nastro oceanico non ritorna al suo stato iniziale, ma si stabilizza su un nuovo stato di equilibrio avente una portata pari solo al 75% di quella precedente; 3) qualora si aumentasse l'afflusso di acqua dolce e si arrivasse a un valore pari a 1/4 della portata del Rio delle Amazzoni, verrebbe raggiunto un punto senza ritorno. Di lì in poi il sistema precipiterebbe; quindi un ulteriore aumento, per quanto piccolo, lo spegnerebbe del tutto. Il nastro oceanico sembra pertanto possedere due stati di equilibrio (75 e 100) e soffrire di ‛fibrillazioni' aventi un periodo di 22 anni: il tutto avverrebbe con perturbazioni assai minute rispetto alla sua maestosa portata. Un vero
7. Strategie per mitigare l'effetto serra
Purtroppo per i responsabili delle scelte politiche e per tutti noi, i GCM attualmente a disposizione non sono in grado di quantificare in modo preciso i mutamenti nella temperatura e/o nelle precipitazioni, né l'effetto di variazioni quali l'innalzamento del mare a livello regionale. Ciò per una serie di ragioni, tra cui la potenza ancora limitata dei computers, la qualità e la quantità dei dati misurati, e infine la quantificazione ancora insoddisfacente degli effetti degli oceani e delle nubi. Nonostante queste incertezze, le previsioni e gli scenari che emergono dai GCM sono abbastanza preoccupanti da aver suscitato un interesse mondiale circa la possibilità di un effetto serra di origine antropica. A meno di non liquidare l'intero problema nella speranza che, una volta eliminate le incertezze scientifiche tuttora esistenti, risulti che non esiste il previsto aumento della temperatura e con esso gli effetti che ne conseguirebbero, l'unico atteggiamento responsabile consiste nel cercare di ridurre le emissioni di CO2 e di altri gas che provocano l'effetto serra.
Il problema tuttavia è tutt'altro che semplice. In primo luogo, quasi tutto il mondo ha tratto beneficio dall'impiego dei combustibili fossili; molte generazioni hanno contribuito a creare il problema e la responsabilità non può essere imputata a una singola nazione o industria: tutti abbiamo dato il nostro contributo, sebbene in misura notevolmente diversa. Poiché l'ipotesi di una drastica riduzione dell'impiego di combustibili fossili è assolutamente utopica e, se attuata, probabilmente creerebbe il caos economico, e poiché i paesi meno sviluppati hanno tutto
E se si riuscisse a indurre gli oceani ad assorbire una quantità leggermente superiore ai 100 e più miliardi di tonnellate di C che già scambiano oggi con l'atmosfera? Nel 1996, scienziati americani, inglesi e messicani annunciarono risultati sorprendentemente positivi sulla possibilità di fertilizzare gli oceani. In oceanografia esiste da anni un enigma: ci sono almeno tre regioni in cui persiste una biomassa dotata di clorofilla incomprensibilmente bassa, sebbene vi siano abbondanti nutrienti, fosfati e nitrati. L'esperimento, chiamato IronExII (c'era stato un IronExI, ma di durata troppo breve per permettere conclusioni statisticamente valide), si svolse a 3,5° di latitudine S e 104° di longitudine W e iniziò il 29 maggio 1995. Il primo giorno si fertilizzò il mare con 225 kg di ferro (solfato di ferro) mescolato con un tracciante passivo (esafluoruro di zolfo, SF6) sparso su un rettangolo di 72 km2. I solchi erano distanti 400 metri, ma dopo appena un giorno si constatò che la turbolenza oceanica aveva causato una distribuzione uniforme nei 25 metri di profondità dello strato limite dell'oceano (questo venne verificato con l'aiuto dei traccianti). Altri 112 kg di ferro vennero immessi nel terzo e nel settimo giorno della spedizione. Ogni giorno veniva effettuata una serie di misurazioni delle variabili di interesse: temperatura, salinità, contenuto di ferro, SF6, CO2, DMS (dimetilsolfati), fitoplancton, ecc. La risposta biologica fu rapida e uniforme: una fioritura di biomassa clorofillica corrispondente a un aumento del 3.000% e una diminuzione della fugacità di CO2 del 60%. Questo importante risultato ha fatto passare dallo stadio di ipotesi a quello di realtà la tanto discussa fertilizzazione degli oceani quale possibile agente anti-effetto serra. Non si è risolto il problema, non illudiamoci, ma si è aperta una nuova possibilità.
Poiché il gas naturale genera, per unità di energia prodotta, una quantità minore di CO2 rispetto al petrolio e soprattutto al carbone, una strada possibile per arginare l'aumento di CO2 potrebbe essere quella di passare dal carbone al petrolio e quindi al metano. Ricordiamo che in unità di kWh per libbra di CO2, il carbone ha un potenziale di 0,56, il petrolio di 0,70 e il metano di 1,01. È interessante anche osservare l'andamento delle emissioni di CO2 nel tempo. Nel 1950, il 44,1% delle emissioni di CO2 era imputabile al Nordamerica, il 23,4% all'Europa occidentale, il 18% ai paesi del blocco sovietico e il 5,7% ai paesi in via di sviluppo. Nel 1980, l'apporto del Nordamerica è sceso al 26,6%, quello dell'Europa al 16,5%, mentre quello dei paesi ex socialisti è aumentato passando al 24,7%, e lo stesso vale per i paesi in via di sviluppo, passati al 12,2%. Nel 1950, le emissioni complessive di CO2 ammontavano a 1,62 Gt, mentre nel 1980 raggiungevano le 5,7 Gt, con un incremento del 300% (per quanto riguarda gli Stati Uniti, la ripartizione per settore delle emissioni di CO2 è la seguente: trasporti 31,8%, servizi elettrici 33,4%, industria e commercio 27,5%, usi domestici 7,4%). Queste cifre mettono in luce la prima difficoltà: la produzione di CO2 da combustibile fossile si è spostata e si prevede si sposterà ulteriormente dai paesi industrializzati alle nazioni in via di sviluppo, che perseguono una aggressiva strategia di sviluppo economico. Se si considera inoltre che le risorse di combustibile fossile recuperabile sono ancora consistenti, che esiste una infrastruttura internazionale per il suo sfruttamento e che mancano fonti di energia alternative che possano entrare in competizione con esso, è realistico prevedere che la dipendenza dai combustibili fossili non è destinata a diminuire nel prossimo futuro. Questa fonte di energia fornisce il 62% dell'elettricità mondiale, mentre l'energia idroelettrica ne fornisce il 19% e quella nucleare il 17%. Si calcola che le risorse mondiali di metano e petrolio dureranno 40-50 anni e quelle di carbone 200 anni. Più del 90% delle risorse carbonifere è concentrato in appena sette paesi: Stati Uniti (28,5%), ex Unione Sovietica (26,4%), Cina (10,7%), Australia (7,1%), Germania occidentale (6,4%), Sudafrica (6,5%) e Polonia (4,6%). È interessante notare inoltre che negli Stati Uniti nel 1966 il carbone era responsabile del 30,3% delle emissioni di CO2, nel 1976 del 25,5% e nel 1986 del 33,7%; nei decenni considerati, le emissioni di CO2 dovute al petrolio rappresentavano rispettivamente il 45,5%, il 52,7% e il 47,6%, mentre per quanto riguarda il metano le percentuali erano rispettivamente del 24,2%, del 21,6% e del 18,7%. In altre parole, è aumentato l'uso del carbone.
8. Questioni che richiedono una regolamentazione internazionale
Gli eventuali pericoli legati all'effetto serra devono essere affrontati a livello mondiale, così come è accaduto per l'assottigliamento dello strato di ozono. Si tratta infatti di un problema globale, che richiede una soluzione globale; nessuna nazione può agire da sola, o ritenersi esente da obblighi. Innanzitutto, va sottolineato che l'espressione ‛riscaldamento globale', come ha osservato R. C. J. Sommerville, è fuorviante, perché un mutamento di pochi gradi della temperatura non risulta percepibile. Ciò che viene avvertito, invece, sono gli effetti locali provocati dal fenomeno, come l'incremento dell'intensità e della frequenza degli uragani (i quali sono alimentati dagli oceani tropicali caldi), le modificazioni nell'andamento delle precipitazioni e infine l'effetto più preoccupante di tutti, ossia l'innalzamento del livello del mare, che potrebbe avere conseguenze disastrose per decine di milioni di persone, che per la maggior parte vivono nei paesi meno sviluppati (ad esempio i bassopiani del
Non può essere una coincidenza che tutti questi problemi ambientali si presentino in concomitanza con una vertiginosa crescita demografica. Basti dire che se nel 1960 la popolazione mondiale ammontava a 3 miliardi, oggi arriva a 6 miliardi. Mentre la popolazione è raddoppiata, le emissioni di CO2 sono triplicate, il che indica un netto incremento delle emissioni pro capite. I parametri chiave sono pertanto il nostro stile di vita, la quantità di energia che utilizziamo e il modo in cui la produciamo. Se è vero che un watt risparmiato è un watt guadagnato, è altrettanto vero che centinaia di milioni di persone non hanno mai potuto disporre di alcun tipo di energia: il 30% della popolazione cinese, ad esempio, non ha mai avuto l'elettricità.
La curva di Keeling ha assunto un valore emblematico. Per quanto prosaica possa sembrare, essa offre il quadro più eloquente e veritiero del destino dell'umanità. Non è del tutto corretto affermare che occorre salvare il pianeta Terra, perché la Terra non ha bisogno di essere salvata; è esistita per miliardi di anni e continuerà a esistere sino a che il Sole deciderà altrimenti. È l'uomo che deve essere salvato dai danni ambientali che si è auto-inflitto; il Protocollo di Montreal e la Convenzione sul clima stipulata a
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