COLESTEROLO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

COLESTEROLO

Emanuele Djalma Vitali

(v. colesterina, X, p. 727; colesterolo, App. III, I, p. 403)

La rilevanza scientifica dei temi nutrizionali, metabolici, clinici e terapeutici che vertono sul c. trova eloquente riscontro, tra l'altro, nell'assegnazione di quattro premi Nobel a ricercatori che negli ultimi decenni hanno fornito basilari contributi sulla colesterologenesi (K. E. Bloch e F. Lynen, 1964) e su altri aspetti del metabolismo del c., tanto sull'animale da laboratorio quanto sull'uomo, sia in condizioni normali sia in condizioni patologiche geneticamente determinate (M. S. Brown e J. L. Goldstein, 1985).

La storia delle conoscenze sulla sintesi intracellulare del c. prende avvio dalla dimostrazione, da parte di Bloch e D. Rittenberg (1942-45), che il processo, nella sua fase iniziale, utilizza acido acetico. Lo stesso Bloch, sulla scorta di una serie d'indizi sperimentali, ebbe poi due felici intuizioni: ipotizzò l'esistenza di alcune importanti tappe intermedie della biosintesi del c. (formazione dell'unità isopentenilica, dello squalene, del lanosterolo) e comprese il fondamentale ruolo biologico del c., nel quale ravvisò un precursore di ormoni steroidei (corticosteroidi, androgeni ed estrogeni), oltre che degli acidi biliari.

L'esatto meccanismo della prima tappa della sintesi intracellulare del c. (reazione tra radicale acetico e coenzima A, con formazione di acetilcoenzima A, simbolo acetilCoA) si deve (1951) a F. Lynen che contribuì anche, contemporaneamente a J. W. Cornforth, G. Popjak, Bloch e altri, a una compiuta dimostrazione della complessa sequenza della biosintesi del c., ossia: acetilCoA (o acetato attivo) → acido mevalonico → isopentenil-pirofosfato → squalene → lanosterolo → colesterolo. Tutti i 27 atomi di carbonio del c. derivano dall'acetilCoA.

È stato anche appurato, tra l'altro: che il c. è un fondamentale costituente di tutte le membrane delle celllule animali; che esso è sintetizzato da tutti gli elementi cellulari dell'organismo e soprattutto da quelli epatici (80% circa); che la maggior parte del c. epatico è trasformata, dal fegato stesso, in acidi biliari (i quali, pervenuti con la bile nell'intestino, condizionano l'assorbimento dei grassi, compreso il c. alimentare); che, con gli acidi biliari, viene escreto anche c. libero di origine epatica (esso viene in parte espulso con le feci e in parte riassorbito, per ritornare quindi al fegato); che, nei soggetti metabolicamente normali, la sintesi epatica di c. rallenta o addirittura si arresta, per un meccanismo di feedback, dopo un pasto molto ricco dello stesso c. (una ridotta biosintesi si ha anche nel digiuno prolungato, ma per diverse e intuibili ragioni: viene a cessare il rifornimento di fattori nutritivi che sostengono la produzione di acetilCoA); che normalmente, in caso di alimentazione equilibrata, la quantità di c. presente nell'organismo è in netta prevalenza di origine endogena (cioè sintetizzata dall'organismo) e solo in minor misura derivante dal c. esogeno, ossia introdotto con alimenti di origine animale (essendo questo steroide estraneo al mondo vegetale); che la biosintesi del c. tende ad aumentare quando l'alimentazione è ipercalorica, qualunque sia la natura dell'eccesso (per es., sovrabbondanza di soli carboidrati), anche se l'apporto alimentare di c. è scarso o addirittura assente (regimi alimentari a base di soli vegetali e loro derivati); che, infine, il più marcato effetto ipercolesterolemizzante è esercitato da particolari acidi grassi saturi: acido laurico (C:12, ossia con molecola a 12 atomi di carbonio), acido miristico (C:14) e acido palmitico (C:16).

Soltanto questi tre acidi grassi saturi sono di per sé capaci d'innescare aumenti della colesterolemia: non solo quando l'alimentazione è ipercalorica, ma anche in caso di dieta normocalorica e normolipidica (ossia se le calorie fornite dai grassi sono pari o inferiori al 30% delle calorie totali giornaliere).

Invece, nel contesto di un'alimentazione equilibrata (cioè con armonica ripartizione delle quote di energia fornite da proteine, carboidrati, grassi ed eventuali piccole dosi di alcool), gli altri acidi grassi saturi non elevano la colesterolemia e non comportano, quindi, rischi aterogeni. Privi di effetto ipercolesterolemizzante sono gli acidi grassi saturi a catena breve e media (C:4-C:10), come dimostrato da J. M. R. Beveridge e altri (1959), S. A. Hashim e al. (1960), F. Grande (1962) ecc., e un acido grasso saturo a lunga catena, assai diffuso in natura, l'acido stearico (C:18), come risulta da vecchi studi di E. H. Ahrens e al. (1957), di L. Horlick e al. (1957), poi convalidati da A. Keys e al. (1957), da D. M. Hegsted e al. (1965) e infine riconfermati, con più evoluta metodologia, da A. Bonanome e S. M. Grundy (1988).

È da notare che i tre acidi grassi saturi ad azione ipercolesterolemizzante sono contenuti in elevata percentuale soprattutto in certi oli vegetali, in particolare di cocco, di palma e di palmisti (v. fig.), massicciamente utilizzati dall'industria alimentare, specialmente dolciaria, anche nei paesi industrializzati.

Molteplici argomenti sottolineano, da un lato, l'opportunità di più articolate distinzioni a proposito degli effetti metabolici degli acidi grassi saturi (spesso indiscriminatamente imputati di azione ipercolesterolemizzante e aterogena); dall'altro la necessità di abbandonare, in sede di discussione scientifica, l'inopportuna e fuorviante contrapposizione fra grassi vegetali e animali. Ai primi, infatti, appartengono anche i menzionati oli tropicali (che sono i grassi naturali più ipercolesterolemizzanti in assoluto); e ai secondi, ovviamente, appartiene il cosiddetto ''olio di pesce'' (più propriamente si tratta di grassi della fauna ittica, compresi i mammiferi marini), addirittura proposti e impiegati, dal 1980, nella prevenzione e terapia dell'aterosclerosi e in particolare della cardiopatia ischemica (non a scopo ipocolesterolemizzante, ma come antiaggreganti piastrinici). Comunque, agli iniziali entusiasmi sull'efficacia antiaterogena del grasso di pesce − di cui sono peculiari componenti gli acidi eicosapentenoico e docosaesenoico (cosiddetti acidi grassi omega-3 o n-3) − è seguita una rimeditazione critica e sperimentale (G. J. Reis e altri, 1989)

Colesterolo, lipoproteine, rischio aterogeno. - Il trasporto e il destino metabolico del c. circolante nel sangue sono strettamente condizionati dalle lipoproteine, particelle a struttura composita, lipidica e proteica. Queste presentano un nucleo centrale idrofobico − costituito da c. esterificato (ossia coniugato con una molecola di acido grasso) e trigliceridi − e un rivestimento monomolecolare, in parte lipidico (c. non esterificato e fosfolipidi, i quali assicurano al complesso lipoproteico il carattere dell'idrosolubilità) e in parte proteico. Si tratta di proteine caratteristiche − apoproteine-, in gran parte sintetizzate dal fegato, in minor misura dalla parete intestinale e, nel corso di attività fisica sufficientemente intensa, anche a livello dei muscoli scheletrici (Th. Ruys e altri, 1989).

Le lipoproteine (simbolo internazionale apo, o Apo, seguìto da una lettera maiuscola e da un numero, romano o arabo, per consentirne la classificazione), oltre ad assolvere un ruolo strutturale, ne svolgono altri specificamente funzionali: alcune attivano enzimi che intervengono nel metabolismo lipidico (lipoproteinlipasi, lecitina colesterolo aciltransferasi); altre, giunte a contatto con cellule epatiche e di altri organi, con fibroblasti, elementi endoteliali, ecc., si legano a specifici recettori di membrana, presenti nella cellula captante, che avvia la fase catabolica della particella lipoproteica.

Le varie classi di lipoproteine differiscono non solo per alcuni aspetti chimici ma ancor più per mobilità elettroforetica e per densità, donde la scelta di classificarle, oltre che elettroforeticamente, anche con un criterio densitometrico, grazie alla possibilità di separarle mediante ultracentrifugazione e precipitazione.

In base alla loro densità (e circoscrivendo il discorso alle tre classi più significative) si possono distinguere: VLDL (Very-Low-Density Lipoproteins), LDL (Low-Density Lipoproteins) e HDL (High-Density Lipoproteins). Approssimativamente, queste tre classi corrispondono ad altrettante frazioni lipoproteiche − rispettivamente pre-beta, beta e alfa - individuabili con metodi elettroforetici.

Le VLDL posseggono un limitato patrimonio apoproteico (in buona parte rappresentato da apo B-100, di origine epatica) e sono prevalentemente costituite da trigliceridi, di cui regolano il trasporto e parte del destino metabolico: veicolano i trigliceridi al tessuto adiposo e a quello muscolare (che è in grado di metabolizzare, ai fini energetici, gli acidi grassi). In circolo, e a livello di tali tessuti, i trigliceridi trasportati dalle VLDL subiscono l'azione idrolitica della lipoproteinlipasi (subendo modificazioni strutturali) e in parte si trasformano in LDL.

Nelle LDL, la componente apoproteica, di poco superiore alla classe precedente, è esclusivamente costituita dall'apo B-100, mentre la componente lipidica è con decisa prevalenza rappresentata da c. esterificato con acidi grassi: circa i tre quarti del c. ematico è trasportato appunto dalle LDL. Pertanto le LDL sono altamente implicate nel meccanismo di comparsa dell'aterosclerosi.

Goldstein e Brown (1977) hanno chiarito il destino catabolico delle LDL. L'apo B-100 è ''riconosciuta'' (e quindi legata) da specifici recettori (particolari molecole glicoproteiche) situati nelle membrane di cellule epatiche: in tal modo prende avvio il processo d'incorporazione, da parte della cellula, di LDL, con un processo di endocitosi (inglobamento della particella intera). Le LDL sono poi convogliate nei lisosomi e degradate a c., acidi grassi, glicerolo, lecitina, amminoacidi. Il c. libero può essere incorporato direttamente dalla membrana della cellula ''fagocitante'', come componente strutturale, oppure essere utilizzato come materiale di riserva all'interno della cellula: questo c. è in grado d'inibire l'azione della 3-idrossi-3-metilglutarilCoA riduttasi, enzima chiave per la sintesi cellulare del colesterolo. Tale meccanismo inibente spiega il temporaneo arresto, già menzionato, della colesterologenesi, in caso di eccessivo apporto alimentare di colesterolo.

In definitiva, la funzione fisiologica delle LDL sarebbe quella di fornire c. alle cellule dell'organismo e di contribuire al controllo omeostatico della colesterolemia. Tuttavia un eccesso di LDL si configura come un sicuro fattore di rischio aterogeno, particolarmente coronarico (v. oltre).

Ancora Goldstein e Brown hanno messo in luce la dinamica che porta allo scompenso dei meccanismi omeostatici che normalmente regolano la colesterolemia. Essi studiarono (1974) un paziente affetto da ipercolesterolemia familiare, malattia genetica con elevatissima concentrazione ematica di LDL (oltre il doppio del normale nei soggetti eterozigoti, oltre il quintuplo in quelli omozigoti: questi ultimi generalmente muoiono per infarto del miocardio in età adolescenziale); constatarono che in tale affezione le cellule sono quasi sprovviste o del tutto prive di recettori per le LDL (o che comunque questi ultimi sono funzionalmente anomali); e per di più dimostrarono che la sintesi di tali recettori è normalmente regolata da un gene particolare. Quindi le cellule del fegato, in caso di ipercolesterolemia familiare, non sono in grado di sintetizzare i recettori e di catabolizzare le LDL, donde il loro accumulo nel sangue.

Laddove non sussistano anomalie genetiche, l'aumento delle LDL (e del c. a queste legato) è generalmente imputabile a eccessi o errori alimentari, alla conseguente, esaltata colesterologenesi e alla relativa inadeguatezza funzionale dei recettori in questione.

Le HDL debbono la loro relativamente alta densità all'elevata percentuale (intorno al 50% in peso) della loro componente apoproteica, alquanto composita: in prevalenza apo A (apo A-I, attivatrice della lecitina colesterolo aciltransferasi, che esterifica il c., legandolo ad acidi grassi, e apo A-II), in minor misura apo C (apo C-I, apo C-II che attiva la lipoproteinlipasi, apo C-III), apo D e apo E. Tali apoproteine sono elaborate e secrete in parte dal fegato, in parte dalla parete intestinale (apo A-I) e, in corso d'impegnativa attività fisica, anche dalla compagine muscolare, almeno nei soggetti con normalità del metabolismo lipidico (e non, per es., nei portatori di deficit ereditario di lipoproteinlipasi). Le HDL sono suddivise in due sottoclassi: HDL2 e HDL3, queste ultime di minori dimensioni ma di più alta densità, per la prevalenza della componente apoproteica.

Le HDL appena secrete (''HDL native'') hanno forma discoidale: entrate in circolo, esse incorporano man mano c. libero a livello delle membrane cellullari degli organi periferici (quindi anche dell'endotelio arterioso) e di altre particelle lipoproteiche (chilomicroni, VLDL, LDL), lo esterificano, lo immagazzinano nel loro nucleo lipidico interno (assumendo così la forma sferica già ricordata) e infine lo convogliano al fegato per l'ulteriore metabolizzazione. In tal modo, le HDL svolgono un'azione protettiva, donde il nome popolare, ma improprio, di ''c. buono'' dato al c. legato alle HDL. Quest'ultimo, tuttavia, non possiede di per sé caratteri o proprietà particolari: la funzione protettiva, antiaterogena, in realtà è svolta dall'intera particella lipoproteica, con il suo specifico patrimonio di apoproteine (e relativa attività-enzimatica).

Il significato biologico di queste ultime è stato sottolineato dal riscontro, nell'ambito di certi gruppi familiari, di gravi e precoci coronaropatie insorte in assenza di significative alterazioni del livello ematico di c. (sia totale, sia legato a HDL e LDL) e di trigliceridi, e in presenza, invece, di ereditarie anomalie − quantitative o qualitative − di alcune apoproteine: per es., diminuzione di apo A oppure aumento di apo B-100 strutturalmente anormale (J. A. A. Ladias e altri, 1989), ecc.

Sembra pertanto ipotizzabile che in un prossimo futuro, per valutare più adeguatamente l'entità del rischio coronarico, si possa utilizzare, anche nella pratica clinica, il dosaggio delle apoproteine normali e l'identificazione di quelle abnormi.

Temi di ricerca, prevenzione e terapia. - Marcati aumenti delle LDL (e del c. da queste ampiamente trasportato) accelerano o forse inducono il meccanismo di comparsa delle lesioni aterosclerotiche macroscopicamente apprezzabili, comprese quelle iniziali (fatty streaks: v. arteriosclerosi, in questa Appendice) che sono prevalentemente dovute ad accumuli di macrofagi (monociti) rigonfi di esteri di c. (foam cells).

Rimangono tuttavia da interpretare certi intimi meccanismi che avviano e accelerano il processo aterosclerotico, e in particolare due ordini di fenomeni: a) la sequenza di eventi molecolari che conferiscono alle LDL proprietà aterogene, ossia un effetto citotossico nei confronti degli endoteli arteriosi e delle sottostanti fibrocellule muscolari lisce della tunica media; b) i processi enzimatici e i fenomeni di liberazione di mediatori chimici che trasmettono ai monociti l'attitudine ad aderire agli endoteli stessi e a penetrare nello spazio sottoendoteliale, per trasformarsi in foam cells.

Numerosi indizi sperimentali inducono a ritenere che l'effetto aterogeno delle LDL sia indotto o potenziato da alterazioni strutturali, di natura metabolica, cui possono andare incontro alcuni costituenti della particella lipoproteica: particolarmente significativi appaiono i processi ossidativi a carico, inizialmente, degli acidi grassi polinsaturi e poi del c. (H. Imai e altri, 1976; S. K. Peng e altri, 1985; D. Steinberg e altri, 1989). Il processo ossidativo, a genesi ancora poco chiara, potrebbe essere indirettamente innescato dalla produzione (a livello degli endoteli, delle fibrocellule muscolari lisce delle arterie e di altre cellule) di radicali liberi dell'ossigeno (v. radicali liberi, Patologia da, in questa Appendice). Tale processo coinvolgerebbe, poi, i componenti lipidici dell'LDL e infine l'apoproteina. Questa, una volta alterata nella sua struttura, non sarebbe più riconosciuta dai recettori specifici, ma verrebbe inglobata dai macrofagi che così si trasformano in foam cells.

L'aumento della concentrazione nel sangue di LDL non è il solo fattore in causa nell'aterogenesi e quindi nel meccanismo di comparsa delle lesioni coronariche che possono complicarsi con eventi trombotici, e quindi con l'infarto del miocardio. Indagini epidemiologico-cliniche a lungo termine hanno sottolineato il ruolo di altri elementi causali: a) biochimici (eccessiva concentrazione di trigliceridi e di fattori interferenti sulla coagulabilità del sangue: fibrinogeno, fattori vii e viii della coagulazione, proteine specifiche liberate dai granuli alfa delle piastrine, ecc.); b) clinici (ipertensione arteriosa, obesità, diabete: quest'ultima condizione favorisce il processo di glicosilazione − ovvero di coniugazione con glucosio − dell'apo B-100, fenomeno che ostacola il riconoscimento di questa da parte dei recettori epatici, e quindi la normale catabolizzazione delle LDL, che in maggior numero saranno fagocitate dai macrofagi); c) gli sfavorevoli stili di vita: alimentazione ipercalorica o squilibrata, specie se aggravata da eccessivo apporto di grassi con elevate percentuali di acidi laurico, miristico e palmitico; abuso di alcolici (mentre piccole dosi di alcool inducono talora lievi aumenti delle HDL); eccessivo carico di nicotina; abuso di psicostimolanti; frequente o prolungata esposizione a eventi ansiogeni o angosciosi; insufficiente attività fisica.

Per contro, elevati livelli ematici di HDL (e di c. da queste trasportato: ''colesterolo HDL'') sono statisticamente associati a un minor rischio di coronaropatia, almeno nei casi in cui la colesterolemia totale rientra nei valori normali o moderatamente elevati e non incombono altri fattori di rischio sopra menzionati.

In considerazione, se non altro, della natura multifattoriale dell'aterosclerosi, i soli valori di colesterolemia costituiscono, almeno ai fini della prevenzione individuale, un indice alquanto grossolano di valutazione del rischio arterioso (A. G. Shaper, 1975). Comunuque, ai fini della prevenzione a livello collettivo, nei paesi sanitariamente evoluti, dal 1984 sono stati varati programmi nazionali rivolti a sensibilizzare il pubblico nei confronti della necessità di più frequenti controlli della colesterolemia e della tempestiva correzione, dietetica ed eventualmente farmacologica, dei suoi aumenti.

Sebbene non sussista una generale e assoluta concordanza di pareri, almeno per i giovani adulti di entrambi i sessi si considerano ottimali i valori di colesterolemia totale tra 180 e 200 mg per dl (ossia 4,65÷5,18 millimoli per litro). Minore concordanza esiste per quanto riguarda i valori accettabili per l'età matura e avanzata: per es., per un sessantenne, in Francia la Sécureté sociale considera accettabile una colesterolemia totale fino a 260 mg/dl (6,72 mmol/l), valore, quest'ultimo, che la maggioranza degli statunitensi considera ''ad alto rischio''.

Talora, il cosiddetto ''rischio di aterogenicità'' è orientativamente e convenzionalmente valutato in base al rapporto quantitativo tra c. totale e c. HDL. Più tale valore è basso (inferiore a 4,5), più il rischio è limitato; più è elevato, maggiore sarebbe il rischio (essendo in tal caso implicito che il livello ematico di c. LDL è eccessivo, in senso assoluto o relativamente). Comunque, nella pratica clinica, quando la colesterolemia totale è molto elevata (superiore a 300 mg), il calcolo di tale rapporto (e quindi il dosaggio del c. HDL) si può considerare superfluo, perché il rischio è senz'altro consistente.

Il trattamento dell'ipercolesterolemia ha aspetti molteplici. Inizialmente, accanto a un miglioramento dello stile di vita e alla sorveglianza clinica di altre eventuali condizioni morbose concomitanti, la terapia, per opinione concorde, dovrebbe essere soltanto dietetica: dieta ben calibrata dal punto di vista energetico (normocalorica nei soggetti magri o con normalità ponderale, ipocalorica in quelli in sovrappeso); limitazione dei lipidi di ogni genere (valutando, beninteso, anche i ''grassi invisibili'' presenti nei vari generi alimentari, come latte e prodotti caseari, preparazioni dolciarie, frutta oleosa, ecc.), in modo che le calorie lipidiche giornaliere rappresentino meno del 30% delle calorie totali; massimo contenimento dell'apporto dei tre suddetti acidi grassi realmente ipercolesterolemizzanti e degli acidi grassi insaturi in forma trans (presenti nei grassi idrogenati), con la stessa azione metabolica (R.P. Mensink e M.B. Katan, 1990) apporto di acidi grassi polinsaturi essenziali adeguato (almeno il 2% delle calorie totali), ma non eccessivo (nel contesto di una dieta normo o ipocalorica essi favoriscono la diminuzione della colesterolemia totale, ma abbassano anche il livello ematico di c. HDL); contenimento dell'apporto di c. alimentare (molti suggeriscono di non superare la media giornaliera di 300 mg); astensione dai grassi ossidati, ossia irranciditi o sottoposti a prolungato stress termico; abbondante apporto di fibre vegetali (soprattutto attraverso ortaggi ricchi di caroteni); ecc.

Qualora il trattamento dietetico non sortisca gli effetti desiderati (la qual cosa avviene soprattutto quando l'ipercolesterolemia ha una componente genetica), è necessario abbinare ad esso la terapia medicamentosa (niacina, clofibrato, resine sequestranti gli acidi biliari a livello intestinale, inibitori della 3-idrossi-3-metilglutarilCoA riduttasi, ecc.). Occorre tenere presente che i farmaci ipocolesterolemizzanti, se impiegati per reale necessità, debbono essere assunti a lunghissimo termine; che nessuno di essi è del tutto esente da effetti indesiderabili; che alcuni di questi ultimi sono più probabili in caso di inosservanza della dieta.

In casi particolarmente gravi, come nella menzionata ipercolesterolemia familiare, i risultati terapeutici possono essere insoddisfacenti anche quando si associano due farmaci ipocolesterolemizzanti a meccanismo d'azione complementare e dieta rigorosa. Soprattutto in soggetti giovani, con livelli di colesterolemia superiori ai 500 mg/dl, sono stati avviati promettenti tentativi di plasmaferesi, ossia di periodica rimozione dal sangue, in circolazione extracorporea, della maggior parte delle LDL plasmatiche (LDL-aferesi).

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