Colesterolo

Universo del Corpo (1999)

Colesterolo

Giancarlo Urbinati

Il colesterolo (dal greco χολή, "bile", e στερεός, "solido") deve il suo nome all'essere stato identificato per la prima volta nei calcoli biliari. È una sostanza di fondamentale importanza biologica in quanto possiede funzioni energetiche, è un costituente di membrane e guaine, è precursore di numerose sostanze organiche. I disturbi, congeniti o acquisiti, del metabolismo del colesterolo (e, più in generale, delle lipoproteine che lo veicolano), che portano a un aumento della sua concentrazione nel plasma (ipercolesterolemia), rappresentano uno dei principali fattori di rischio dell'arteriosclerosi e delle sue complicanze d'organo.

Natura e funzioni

Il colesterolo, isolato nella seconda metà del Settecento dal chimico francese Poulletier de la Salle (De Fourcroy 1789) dall'estratto alcolico di calcoli biliari umani, dei quali è il principale costituente, ricevette inizialmente il nome di colesterina da M.-E. Chevreul (1816). Solo all'inizio del 20° secolo venne chiamato colesterolo, a indicare la natura chimica di alcol (la primitiva denominazione è peraltro tuttora in uso in molti paesi, soprattutto di lingua non inglese).Chimicamente, si tratta di un composto aliciclico, la cui struttura comprende il nucleo del ciclopentanoperidrofenantrene con i suoi quattro anelli, un ossidrile in posizione C₃, un doppio legame tra C₅ e C₆, una catena idrocarburica ramificata a 8 atomi di carbonio nella posizione C₁₇, e due gruppi metilici nelle posizioni C₁₀ e C₁₃. La struttura generale è la stessa degli acidi biliari, degli ormoni steroidei gonadici e surrenali, e della vitamina D, tutte sostanze che hanno nel colesterolo il loro precursore. La sua solubilità in acqua è molto bassa, e ancora minore è quella dei prodotti della sua esterificazione in posizione C₃, con un acido grasso a catena lunga, che ne aumenta infatti il carattere idrofobico. In circolo, il colesterolo si trova per circa il 30% come tale (colesterolo libero), e per il restante 70% in forma esterificata. La presenza nel plasma di quantità elevate di colesterolo è resa possibile dalla sua incorporazione nelle lipoproteine (v.), che costituiscono un sistema in grado di trasportare queste molecole idrofobiche in un mezzo acquoso qual è il plasma, e di rifornire gli specifici tessuti in cui esse sono necessarie. Pur non avendo il colesterolo funzioni energetiche, la sua importanza biologica è grandissima, in quanto è un costituente di tutte le membrane cellulari degli organismi animali, di gran parte di quelle intracellulari, nonché delle guaine mieliniche dei neuroni centrali e periferici. Inoltre, il colesterolo è, come già detto, il diretto precursore degli acidi biliari e di numerosi composti steroidei di natura ormonale o vitaminica. Gli ormoni steroidei vengono prodotti, a partire dal colesterolo non esterificato, a livello delle gonadi e della corteccia surrenale. È stato stimato che in un uomo normale oltre 50 mg di colesterolo al giorno vengono impiegati per sintetizzare ormoni steroidei, mentre in una donna in fase luteinica circa 50-100 mg al giorno sono convertiti in ormoni.

Il colesterolo presente nel plasma ha origini diverse: 1) dietetica, vale a dire dal colesterolo contenuto negli alimenti; 2) biliare, cioè dal colesterolo eliminato come tale nella bile o recuperato attraverso il circolo enteroepatico; 3) dalle cellule intestinali desquamate, nelle quali è stato sintetizzato (si tratta di quantità trascurabili); 4) endogena, per biosintesi ex novo a partire dall'acetato. Il colesterolo apportato con gli alimenti o recuperato dalla bile attraverso il circolo enteroepatico ammonta a circa 0,5-2 g al giorno, e per quasi il 90% si trova in forma libera; il restante 10% esterificato viene idrolizzato da un'esterasi specifica pancreatica. Il colesterolo libero (provvisto di una certa polarità) entra nella composizione delle micelle miste e diffonde liberamente nell'enterocita a livello del digiuno; all'interno della cellula intestinale esso viene in parte riesterificato e, insieme alla quota sintetizzata in situ, incorporato nei chilomicroni (v. lipoproteine). L'entità dell'assorbimento dipende dalla quantità di colesterolo presente nel lume intestinale (al di sopra di certi valori non ne viene più assorbito); anche la presenza di steroli vegetali, che competono con il colesterolo, e il particolare fenotipo dell'apolipoproteina E sono in grado di condizionare l'assorbimento. La biosintesi endogena a partire dall'acetato comporta una sequenza di eventi, il cui punto-chiave è rappresentato dalla trasformazione dell'idrossimetilglutaril-coenzima A (HMG-CoA, Hydroxymethyl-glutaryl coenzyme A) in acido mevalonico, catalizzata dall'HMG-CoA reduttasi. L'entità della colesterolosintesi dipende dalle esigenze funzionali delle cellule, soprattutto epatiche: se la quantità di colesterolo introdotta con la dieta è insufficiente, la sintesi aumenta per soddisfare il fabbisogno di tessuti e organi; se, al contrario, è sufficiente per venire incontro alle richieste organiche, il colesterolo stesso provoca una retroinibizione della propria sintesi, agendo a livello dell'enzima chiave HMG-CoA reduttasi. Per quanto riguarda il destino del colesterolo, poiché la maggior parte del suo metabolismo (circa il 70%) ha luogo a livello del fegato, preminente è la sua eliminazione attraverso la bile, come tale in forma libera o previa trasformazione negli acidi biliari primari colico e chenodesossicolico. Una quota minore viene trasformata in ormoni steroidei, sessuali e surrenali, in vitamina D3 o calciferolo (attraverso la formazione di 7-deidrocolesterolo e la successiva irradiazione di quest'ultimo composto con raggi ultravioletti a livello della cute).

Aspetti quantitativi del metabolismo del colesterolo

Nell'organismo vi sono circa 60 g di colesterolo, i 2/3 dei quali si trovano in un pool relativamente stabile costituito da cute, tessuto adiposo e tessuto muscolare; il restante terzo costituisce un pool relativamente più mobile, che circola attraverso il fegato. Il meccanismo primario per l'allontanamento del colesterolo dal fegato è la sua trasformazione in acidi biliari a opera della 7α-colesterolo idrossilasi: il consumo di colesterolo in questo processo è ulteriormente esaltato dalla formazione preferenziale di acido chenodesossicolico anziché di acido colico, e dalla coniugazione con taurina anziché con glicina. Infatti, sia l'acido chenodesossicolico sia i tauroconiugati solubilizzano una maggior quantità di colesterolo libero, che può pertanto essere secreto come tale nella bile. Una volta penetrati nell'intestino, gli acidi biliari e il colesterolo libero vengono riassorbiti nel circolo enteroepatico, i primi per il 95% e il secondo per il 50%. Il blocco del circolo enteroepatico porta all'eliminazione all'esterno di una maggior quantità di tali composti, con la conseguenza di una riduzione dei rispettivi pool mobili. Per rifornire il pool carente degli acidi biliari viene attivata la 7α-colesterolo idrossilasi, e ciò provoca a monte una riduzione del contenuto in colesterolo dell'epatocita, alla quale contribuisce anche la mancata ricircolazione del colesterolo secreto direttamente nella bile. Per il sistema di autoregolazione esistente nella cellula epatica, verranno quindi attivate sia la sintesi della proteina recettoriale (con conseguente aumentata espressione di recettori sulla superficie cellulare) sia quella del colesterolo.

L'ipercolesterolemia quale fattore di rischio cardiovascolare

L'ipercolesterolemia può essere oggi considerata il più importante fattore di rischio coronarico (e di altre complicanze d'organo dell'aterosclerosi) modificabile (v. arteriosclerosi; rischio). I dati epidemiologici al riguardo sono pressoché univoci. I livelli medi di colesterolemia sono significativamente correlati con l'incidenza di coronaropatie, e ciò sia nel confronto tra popolazioni diverse sia all'interno di una medesima popolazione. L'andamento del rischio legato a questa variabile è inizialmente lineare e tende poi a divenire esponenziale. Una correlazione simile a quella che si osserva tra colesterolemia e incidenza di cardiopatia coronarica è rilevabile anche tra consumo di grassi saturi (che è uno dei maggiori determinanti della colesterolemia) e la stessa incidenza. Correlazioni significative tra dieta e colesterolemia non si sono peraltro mai riscontrate a livello individuale, ma ciò può essere facilmente spiegato sulla base dei concetti statistici di variabilità intra- e interindividuale. Anche gli studi sulle popolazioni migranti (per es. sui giapponesi viventi in patria o stabilitisi, nella loro migrazione verso oriente, alle isole Hawaii o in California) confermano l'importanza dei fattori ambientali (probabilmente di natura dietetica), oltre che di quelli genetici. Tutti questi dati, a supporto di numerose evidenze cliniche e sperimentali, relative quest'ultime alla possibilità di indurre lesioni aterosclerotiche in numerosi animali di laboratorio per mezzo di diete ricche di colesterolo o di acidi grassi saturi, hanno portato alla formulazione della cosiddetta ipotesi lipidica della cardiopatia coronarica; questa teoria, certamente troppo semplicistica, in quanto il problema eziopatogenetico delle coronaropatie (e, più in generale, delle complicanze d'organo dell'aterosclerosi) non può essere ridotto a questa unica dimensione, contiene peraltro una buona parte di verità. D'altro canto, l'associazione tra colesterolemia e cardiopatia coronarica presenta tutti i caratteri necessari perché alla colesterolemia stessa possa essere riconosciuto un valore causale: intensità, ripetibilità in studi e popolazioni diverse, indipendenza da altri fattori, gradualità, continuità e sequenza temporale.

In seguito alle indicazioni fornite dagli studi epidemiologici longitudinali di tipo osservazionale, sin dalla fine degli anni Cinquanta ebbero inizio i tentativi di verificare la validità dell'ipotesi della reversibilità del rischio, mediante esperimenti di prevenzione della cardiopatia coronarica attraverso la riduzione della colesterolemia con vari mezzi, sia dietetici sia farmacologici. I primi studi di questo tipo fornirono risultati incerti e spesso discutibili, a motivo delle imperfette procedure metodologiche con cui vennero condotti e della limitata numerosità dei campioni esaminati. Dopo circa un decennio vennero, quindi, avviati nuovi esperimenti di prevenzione multifattoriale, resi possibili grazie anche all'evolversi della teoria e delle applicazioni dell'analisi multivariata, molti dei quali hanno dato risultati decisamente positivi. Gli esperimenti di prevenzione secondaria, condotti cioè in soggetti portatori di una cardiopatia coronarica dimostrabile, pur sottolineando la preminente importanza del trattamento dei fattori di rischio secondari (dipendenti dall'esito della malattia e di natura anatomica, funzionale, elettrocardiografica e fisiopatologica), hanno ribadito l'opportunità di continuare a considerare, ai fini di una loro riduzione, anche i livelli dei fattori di rischio primari, tra cui la colesterolemia. Ciò ha ricevuto peraltro indiscutibile conferma dai risultati di alcuni recenti esperimenti, che hanno dimostrato, per mezzo di valutazioni obiettive coronarografiche ripetute nel tempo, come la riduzione dei livelli colesterolemici, ottenuta con farmaci o con procedure chirurgiche quali il by-pass ileale, sia in grado di determinare una più lenta progressione e, addirittura, la regressione di lesioni coronariche già costituite.

Le linee-guida per la prevenzione

Sulla base delle numerose evidenze di ordine sperimentale, clinico ed epidemiologico ormai esistenti riguardo ai rapporti tra aumentati livelli di colesterolo e cardiopatia coronarica, la comunità scientifica statunitense, con la Consensus conference di Bethesda del dicembre 1984 (Consensus development conference 1985) affermava il valore causale della colesterolemia elevata e l'efficacia della sua riduzione a fini preventivi, chiudendo un'epoca di dubbi e di polemiche e dando così l'avvio all'era delle realizzazioni pratiche. Analoghi pronunciamenti si ebbero in seguito in numerosissimi paesi, tra cui l'Italia (Consiglio nazionale delle ricerche 1986). Negli Stati Uniti, l'importanza e la dimensione del problema portarono presto all'elaborazione di un programma nazionale di educazione sul colesterolo (National heart, lung, and blood institute 1988), che forniva le linee-guida per il trattamento della colesterolemia negli adulti dai 20 anni in su, e i cui punti principali erano i seguenti: il livello del colesterolo totale (determinato in almeno due occasioni per confermarne i valori, prima di intraprendere qualsiasi azione) deve essere adottato per l'identificazione occasionale e per la classificazione iniziale dei soggetti, nonché per il monitoraggio del trattamento dietetico; il colesterolo-LDL (la frazione di colesterolo circolante legata alle lipoproteine a bassa densità; v. lipoproteine) viene invece considerato quale indice-chiave per assumere qualsiasi decisione in merito a un eventuale trattamento farmacologico; i tagli che definiscono le varie classi di rischio, come pure gli obiettivi del trattamento dietetico e farmacologico, non sono specifici per età o per sesso; la presenza di cardiopatia coronarica in atto o di altri fattori di rischio coronarico influenza il piano terapeutico; i tagli per la terapia farmacologica creano una barriera di protezione nei confronti di un uso inappropriato o troppo facile dei farmaci ipocolesterolemizzanti. Sulla base della colesterolemia sia totale sia -LDL, vengono inoltre raccomandati schemi di follow-up. Viene ribadito che in questo campo le misure dietetiche costituiscono il fondamento della terapia (come già quello della prevenzione), e che su di esse occorre concentrare ogni sforzo prima di dare inizio a un trattamento farmacologico. Più recentemente, altre linee-guida sono state proposte anche da un comitato di studio internazionale della European society of cardiology, della European atherosclerosis society, e della European society of hypertension, che ha fornito gli indirizzi strategici per l'intervento preventivo (a livello individuale e di popolazione) e indicato i principi per il trattamento dei singoli fattori di rischio, tra i quali in primo luogo gli elevati livelli di colesterolo e di altri lipidi plasmatici. In questo documento sono anche prese in considerazione alcune situazioni particolari, quali quelle della donna, dell'anziano e del soggetto in età evolutiva, e sottolineata l'importanza della prevenzione secondaria. Riguardo a quest'ultima, vi è da dire che mentre un rapporto costo/beneficio favorevole non è stato dimostrato per l'uso di farmaci ipolipidemizzanti nella prevenzione primaria della cardiopatia coronarica (salvo che in caso di alti livelli sierici di colesterolo, o di coesistenza di più fattori di rischio, o di impiego di composti poco costosi e/o altamente efficaci), chiaro appare invece il vantaggio, anche in termini economici, del trattamento dei pazienti con cardiopatia ischemica in atto. La tendenza all'impiego dei farmaci ipolipidemizzanti, prevalentemente in ambito di prevenzione secondaria, si sta sempre più affermando, ed è già stata accettata dalle autorità sanitarie di numerosi paesi. Nella donna, l'osservazione che il rischio cardiovascolare aumenta nel passaggio dall'età feconda alla menopausa fisiologica o chirurgica ha suggerito l'esistenza di un rapporto con il particolare assetto endocrino femminile. Il problema è certamente assai più complesso di quanto possa sembrare, ma è comunque certo che il ricambio lipidico è notevolmente influenzato da fattori ormonali. La tendenza attuale, favorevole alla terapia sostitutiva ormonale a lungo termine in età postmenopausale, sembra essere giustificata, oltre che dall'obiettivo di prevenire almeno in parte il passaggio a un profilo lipidico di tipo 'maschile', da quello, forse ancor più importante, di compensare gli effetti negativi indotti dalla carenza estrogenica sull'anabolismo osseo, e quindi l'osteoporosi. Nell'anziano, studi epidemiologici sia trasversali sia longitudinali hanno messo in evidenza una riduzione dei livelli medi di colesterolemia.

Tra i fattori responsabili di tale declino potrebbero esservi la diminuzione del peso corporeo, le modificate abitudini alimentari e, forse, un diverso assetto metabolico. Il complesso dei dati disponibili sembra comunque confermare che il valore predittivo dei livelli colesterolemici, sebbene più debole che nei giovani adulti, si mantiene anche nei soggetti anziani. Non sembra quindi giustificato l'abbandono di eventuali trattamenti già in atto, mentre più dubbia appare l'opportunità di iniziare nell'anziano interventi che comportino restrizioni male accette dal paziente e in grado di peggiorarne ulteriormente la già precaria qualità di vita. Quello della prevenzione dell'ipercolesterolemia, come di altri fattori di rischio coronarico, è ritenuto a giusto titolo un problema che interessa non soltanto gli adulti, ma anche i soggetti in età evolutiva. Va infatti ricordato che le complicanze d'organo dell'aterosclerosi non rappresentano che il punto di arrivo di un lento processo che si svolge lungo l'intero arco della vita, come è dimostrato dagli studi epidemiologici osservazionali che hanno permesso di tracciarne la storia naturale, e che l'orizzonte clinico viene in genere superato solo a partire dal 4°-5° decennio di vita, con la comparsa di eventi patologici gravi, spesso fatali, e comunque sempre altamente invalidanti. L'età pediatrica rappresenta quindi il periodo più adatto per dare inizio all'attuazione di misure preventive: per es., riduzioni anche modeste dei livelli medi dei principali fattori di rischio, tra cui i lipidi sierici e in particolare il colesterolo, se trasferite nell'età adulta potrebbero diminuire in maniera sostanziale la morbosità incidente e la mortalità per queste condizioni morbose. Infatti, per numerose variabili considerate fattori di rischio aterosclerotico è stata più volte confermata l'esistenza del fenomeno del tracking, cioè la tendenza a mantenere nel tempo un ordine di rango. È pertanto legittimo immaginare che i bambini con più elevati livelli dei fattori di rischio possano divenire adulti a rischio particolarmente elevato e considerare invece relativamente protetti quelli con valori più bassi di questi stessi fattori. Ciò sembra suggerire l'opportunità della ricerca precoce dei fattori di rischio in età pediatrica. Questo atteggiamento, anche se non condiviso da tutti, sembra oggi prevalere: quale livello desiderabile di colesterolemia nei soggetti in età evolutiva è stato recentemente indicato quello di 170 mg/dl o meno.

Bibliografia

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