Collezioni d'arte

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Collezioni d'arte

Red.
Arturo Carlo Quintavalle

La storia del collezionismo in campo artistico e del mercato di opere d'arte a questo collegato è svolta nell'Enciclopedia Italiana sotto la voce arte, che dedica una specifica sezione al commercio antiquario degli oggetti artistici (IV, p. 661), e sotto la voce museo (XXIV, p. 113), dove viene esaminato il percorso che dalle raccolte di oggetti d'arte conduce all'istituzione museale. Riferimenti a c. pubbliche e private si trovano anche nelle voci delle maggiori città e in biografie di personaggi storici che hanno legato il loro nome a importanti raccolte (Scipione Borghese, famiglia Albani ecc.). *

Arte e pubblico: collezionismo pubblico e privato, committenti e sponsor

Nella storia del rapporto fra arte e pubblico mai forse ci si è trovati davanti a una situazione tanto diversa dal passato e mai forse, come in questi ultimi tre decenni, la critica ha insistito nel riproporre antichi modelli di analisi per riflettere sugli eventi di oggi; mai ci si è trovati, riguardo ai temi della committenza, del collezionismo pubblico e privato, della sponsorizzazione come finanziamento e promozione della produzione delle opere, davanti a mutamenti tanto profondi quanto poco avvertiti, anzi, spesso, di fatto rimossi. Collezionismo, committenza e sponsorizzazione riguardano la fase di scelta e acquisizione delle opere, il rapporto pubblico-privato rende possibile la fruizione delle opere medesime: tutto questo rimanda al problema della funzione dell'arte nella società, o di quello che per arte si intende in un preciso contesto, e a un'analisi della storia e del ruolo del museo. Il tema del collezionismo e della committenza coinvolge, perciò, vari fattori: fruizione, quindi disponibilità delle opere; promozione da parte di mecenati o sponsor come finanziatori della produzione delle opere stesse; vicenda delle figure dei collezionisti privati e delle strutture che essi in questi anni vengono proponendo come sistema pubblico o aperto al pubblico.

Se si considera il paese che, nel settore del sistema museale, appare più marcatamente in fase di rapida trasformazione, gli Stati Uniti, si scopre che il tradizionale sistema del museo, pur caratterizzato dall'alta dignità raggiunta ormai da almeno due generazioni, non mostra sostanziali, innovativi sviluppi dal tempo della creazione (1929) del Museum of Modern Art di New York, mentre d'altra parte emergono nuove figure di collezionisti (imprese, banche ecc.) e sponsor.

Il sistema dei musei negli USA è legato a precise tradizioni, che sono quelle antiche dei musei europei, ma presenta alcuni vantaggi grazie a una legislazione fiscale che favorisce l'acquisizione di donazioni, consentendo la detrazione dall'imponibile del valore della donazione stessa. Il museo negli USA segue un'attiva politica culturale esponendo al pubblico le sue c., presentando le nuove acquisizioni, attuando una politica espositiva di grande rilievo, anche in collegamento con le grandi strutture europee, dal Louvre alla National Gallery di Londra, dai musei tedeschi a quelli russi. L'innovazione più evidente, in questo sistema, sono le sponsorizzazioni, che finanziano rassegne ed esposizioni ma anche - e non sono casi rari - ristrutturazioni o ampliamenti del museo. Le grandi mostre che travalicano l'Atlantico, prodotte da un grande museo americano insieme con uno o più musei europei, sono sponsorizzate da una o anche diverse imprese collegate che finanziano i trasporti delle opere d'arte, così come le loro assicurazioni, il catalogo e la pubblicità, e così via. Dunque le imprese espositive sempre più appaiono dipendenti dal privato; ma risulta evidente che le sponsorizzazioni sono rivolte soprattutto a eventi artistici di grande richiamo nell'ambito di una cultura più divulgata, come le mostre degli impressionisti, dell'École de Paris, di V. van Gogh (v. anche esposizione, in questa Appendice).

La novità che emerge dalla situazione statunitense riguarda, in particolare, l'evoluzione della figura del collezionista e del committente. Se a partire dalla fine del secolo 19° i grandi collezionisti erano coloro che determinavano i modelli e che alla fine donavano le proprie raccolte allo Stato, o alla città, negli ultimi anni ha assunto sempre maggiore importanza il collezionismo delle grandi imprese, delle banche, come attività di investimento: le banche oggi spesso investono in opere d'arte, acquistano interi blocchi di opere di singoli maestri e li conservano, li capitalizzano. Molte volte, però, la motivazione delle grandi imprese è quella di promuovere la propria immagine e quindi, oltreché investire per es. in strutture edilizie dal forte carattere simbolico, come i grattacieli, propongono alla pubblica fruizione grandi sculture o parchi con opere d'arte. L'uso di porre sculture di grandi maestri all'esterno o nell'atrio delle sedi dell'impresa è consueto a New York e nelle maggiori città statunitensi, e contribuisce a quel sistema di arredo urbano che diventa un sistema di comunicazione nuovo, rispetto alle chiuse strutture del museo. Si tratta di una dissacrazione, in un certo senso, del museo, ma anche di una risposta coerente alla constatazione che una massa enormemente più grande di fruitori può essere coinvolta, offrendo un insieme di servizi all'interno della città che evidenzi la nuova cultura che entro di essa si viene proponendo.

La situazione in Europa è in parte diversa da quella degli Stati Uniti: in primo luogo perché nel dopoguerra è stata largamente sostenuta la politica museale tradizionale, individuando proprio nel museo il nodo del mutamento, la possibilità di un rapporto nuovo con il pubblico. Lo sviluppo del sistema del museo, con le nuove aperture e le trasformazioni, ha comportato un rapporto diverso col collezionismo e con le donazioni. Basta riflettere su quella che era la situazione in Europa alcuni decenni fa: in Francia prima della creazione del Beaubourg (Centre G. Pompidou) e del Musée d'Orsay a Parigi; in Spagna prima del museo Reina Sofía a Madrid, del museo Picasso a Barcellona, del museo Guggenheim a Bilbao; in Germania prima dell'asse dei musei lungo il Reno fino a Colonia e a Bonn, senza dimenticare Francoforte e il recente rinnovamento dei musei d'arte antica, moderna e contemporanea di Berlino; in Italia prima del sistema dei nuovi musei d'arte antica di Roma, Palazzo Altemps e Palazzo Massimo, e di quelli di arte contemporanea, a cominciare dalla Galleria nazionale d'arte moderna sempre a Roma. In Europa, una grande tradizione museale e anche di donazioni e sponsorizzazioni del contemporaneo è sempre esistita in Svizzera, quantomeno dall'età fra le due guerre. La Germania invece ha dovuto ricostruire un proprio sistema museale per l'arte contemporanea perché quello antecedente è stato distrutto con la politica hitleriana nei confronti della cosiddetta entartete Kunst ("arte degenerata"). Quanto all'Inghilterra il sistema attuale, complesso e organizzato, da una parte con la Royal Academy dall'altra con la Tate Gallery, ha una lunga tradizione e appare stabilizzato, mentre a Parigi, prima della creazione delle già citate nuove strutture, il sistema per l'arte contemporanea si fondava sulla sequenza dei due padiglioni al fondo dei giardini delle Tuileries, con le raccolte degli impressionisti da una parte e le Ninfee di C. Monet dall'altra, e, dal 1947, sul Musée d'art moderne nel Palais de Tokyo. La situazione europea sembra dunque puntare in parte verso un'altra direzione rispetto a quella statunitense, tendendo a sviluppare le stesse antiche strutture museali, a rinnovarle, a fornirle di apparati e servizi rivolti alle esigenze del pubblico, al suo ristoro, al suo loisir; la politica museale europea non risulta innovativa e tantomeno rivoluzionaria. In Germania, tuttavia, si sono organizzate grandi strutture espositive indipendenti e alternative a quelle museali, le Kunsthalle, che hanno una lunga tradizione fin dal tempo della cultura Jugend; queste Kunsthalle finiscono per collegarsi direttamente al mercato e ne sono, in qualche maniera, un'eco. La situazione tedesca appare diversa da quella di altri paesi europei proprio perché finisce per riflettere, sia pure con qualche decennio di ritardo, quella delle organizzazioni museali e del collezionismo statunitense. Questa politica penalizza la tradizione artistica nazionale ed europea per proporre un linguaggio per immagini globalizzato dal sistema pubblicitario e dall'attività imprenditoriale dei grandi trustees dell'arte. In questa direzione il problema dell'investire in arte si pone in modo chiaro in Germania dove, da un lato, le imprese private propongono al pubblico opere rappresentative della propria immagine, sculture donate alle città o ai Länder, mentre parallelamente prosegue la politica delle grandi donazioni di opere a importanti strutture museali, come nel caso della c. Ludwig a Colonia. La situazione tedesca mette l'accento prima di tutto sulla crescita delle strutture museali, spesso affidate a grandi progettisti (H. Hollein, R. Meier) che si trovano fra l'altro ad affrontare il difficile problema dell'esposizione di nuove forme dell'arte. Dunque questo genere di struttura museale e questo tipo di opere presenta molti problemi e trova indubbie difficoltà di fruizione da parte di un pubblico in genere ancora impreparato. La situazione appare contraddittoria anche altrove: pochi i musei che innovano nel senso proposto in Germania, come quelli di Rivoli e Prato in Italia.

La situazione europea mostra dunque simmetrie e contraddizioni rispetto a quella statunitense; si mantiene la mitologia, il feticismo nei confronti di alcune opere chiave come Guernica di Picasso a Madrid, le Ninfee di Monet a Parigi o le sale di W. Turner alla Tate Gallery di Londra, ma mancano rapporti con gli sponsor a livello del territorio un poco ovunque, dalla Germania alla Francia, per non parlare di Spagna e Italia. Il sistema poi appare carente in quanto all'ampliamento della tipologia dei materiali musealizzati: la progettazione del museo si fonda infatti, in Europa, su modelli tradizionali, rivolti prevalentemente a opere d'arte, dalla scultura alla pittura.

Più che a modificare il sistema del museo come concepito dalla tradizione, in Europa si tende a creare un sistema di raccolte specializzate; come in parte accade anche negli Stati Uniti dove nascono, per es., collezioni anche rilevanti di fotografia, a volte offerte da collezionisti, o in altri casi (come quello della Eastman Kodak a Rochester) originate dall'attenzione per la storia della fotografia da parte di una grande impresa. Per la fotografia, la politica della sponsorizzazione come promozione da parte delle imprese non ha molto peso in Europa dove sono semmai gli enti locali e le strutture museali nazionali a organizzare, come in Francia e in Inghilterra, grandi raccolte. Lo stesso si deve dire, sempre in Europa, per un altro sistema di spazi espositivi e di conservazione che raccoglie materiali diversi da quelli dei musei tradizionali, le raccolte di disegno architettonico e di design che, in Olanda o in Inghilterra, hanno strutture centralizzate e che altrove, a Berlino con il Bauhaus Archiv e a Parigi con l'atelier di Le Corbusier, puntano su movimenti o su singole personalità di progettisti; diversa ancora la situazione in Italia, dove si ha una grande dispersione e frammentazione dei materiali, salvo che al polo di raccolta più antico e ricco, il Centro studi e archivio della comunicazione (CSAC) dell'università di Parma.

Rispetto agli USA la situazione europea non presenta rapporti con sponsor che abbiano una progettualità e un impegno sul tessuto urbano comparabili; è soprattutto la Germania che presenta punti di contatto, specie per quanto concerne le banche, con la politica di immagine attuata dalle imprese negli Stati Uniti. Dunque la tendenza prevalente a livello europeo è la conservazione delle opere all'interno dei musei, ai quali in genere collezionisti o imprese propongono le proprie donazioni, visto che anche in Francia, diversamente dall'Italia, l'agevolazione fiscale sul valore delle donazioni è operante.

L'orientamento del collezionismo in direzione delle opere tradizionali e il configurarsi di un collezionismo specializzato verso ambiti nuovi, come quello della fotografia, del design e della progettazione architettonica - riscontrato sia nella tradizione statunitense che in quella europea -, non deve farci perdere di vista il problema globale del rapporto fra opere d'arte e pubblico e le ideologie sottese alle diverse aree di fruizione; né si deve dimenticare la funzione che le opere d'arte finiscono per svolgere, nella prospettiva di allargate sponsorizzazioni di opere a livello urbano, proprio entro questo contesto. Dunque la politica che governa la commissione di opere d'arte e che ne determina la feticizzazione finisce per incidere sul loro significato e deve farci riflettere proprio sulla storia delle trasformazioni dei modi dell'uso, e della sponsorizzazione e del collezionismo, attraverso la quale potremo comprendere la situazione odierna.

Resta aperto quindi proprio il problema della presenza dell'opera nella nostra cultura; W. Benjamin (1936) aveva indicato nell''aura' la caratteristica che, secondo la riflessione dell'idealismo, differenzia l'arte dalle altre forme di comunicazione e aveva evidenziato nella riproducibilità, come, per es., nel caso della fotografia, la possibilità che fosse eliminata l'aura stessa delle opere. Ebbene, a sessant'anni dalla scomparsa di Benjamin, possiamo dire che la società che la scuola di Francoforte ha battezzato 'del consumo' ha permesso e permette la moltiplicazione delle opere d'arte ma non ha mancato di mantenerne l'identità come un unicum e anzi di mantenere tutte quelle tecniche che permettono all'opera d'arte di essere un prodotto irripetibile. Di fronte a questa situazione di fatto si spiega un aspetto della produzione di opere per la città. Il museo, tradizionalmente inteso come un sistema sacrale chiuso, visitato dalle accademie e considerato luogo dei modelli, adesso diventa il polo di una serie di mitologie legate a singole opere-capolavoro che cancellano il tessuto della cultura e quindi la tradizione storicistica; il museo dunque diviene il luogo che accoglie e identifica opere simboliche, quelle diffuse dai media; il collezionista feticisticamente raccoglie altre simili opere che alla fine donerà alla collettività, se non le disperderanno gli eredi, e quindi per alcune di esse si verificherà lo stesso processo di feticizzazione. Ma sono le opere inserite nel contesto urbano quelle destinate a diventare i segni di un nuovo sistema simbolico, nello stesso modo in cui i grattacieli (Lynch 1960) sono stati intesi come i simboli della struttura urbana, confrontabili con le antiche torri medievali. Ecco dunque che il rapporto con le opere non è più quello didattico dell'antico, o dell'età rinascimentale o del periodo barocco e di quello che dal Settecento giunge al secolo 19°, ma un rapporto diverso e, per molti aspetti, confrontabile con la civiltà medievale. Dunque sponsorizzazione, collezionismo, funzione delle opere, non appaiono oggi come concetti legati all'età dello storicismo né a quella dell'idealismo, e tantomeno al Romanticismo, ma sembrano evocare tempi molto più antichi, riprendere un modo di fruire, di percepire le opere, e quindi di collezionarle e investire in esse somme ingenti perché diventino un sistema simbolico portante della città o della nazione, un modo che somiglia fortemente, a ben riflettere, alla funzione che le opere stesse hanno assunto nel Medioevo.

Le vicende del collezionismo e della committenza nel tempo antico sono state intimamente collegate, hanno mantenuto, comunque, una loro contiguità e spesso una precisa correlazione. Adesso invece la situazione del collezionismo e quella della committenza sembrano essersi completamente trasformate. C'è, nel collezionismo, una storia a parte, quella dei grandi raccoglitori di opere che intendono non più, come un tempo, donare allo Stato, ma semmai organizzare attraverso le proprie raccolte un monumento a se medesimi; e vi sono adesso le industrie che, per ragioni pubblicitarie, si fanno committenti dell'arte contemporanea, o di restauri delle opere d'arte antica, e tutto questo incide sulla definizione stessa di collezionismo che, di fatto, si confonde con la sponsorizzazione, con l'investimento in arte ai fini di un ritorno di immagine. È, quest'ultima, una trasformazione importante, che si verifica in particolare nel secondo dopoguerra e che emerge nettamente, dapprima negli USA, poi anche in Italia e in genere in Europa. Conviene quindi riflettere sulla storia non del collezionismo, ma dei collezionismi, e riflettere sulla storia della committenza e della sponsorizzazione e sul loro mutevole percorso.

Cominciare dal collezionismo, privato o pubblico che sia, vuol dire collegarsi subito a un'idea di modello, o meglio di raccolta come sistema di modelli, e insieme anche all'ipotesi di un confronto e di una comparazione che è implicita nell'ambito semantico stesso della parola. Secondo la tradizione occidentale, quella romana, che è poi struttura delle civiltà romanze, costituire una raccolta di modelli, in genere dell'arte antica, dell'arte greca, vuol dire accogliere la riflessione filosofica prima platonica e poi aristotelica e aderire infine all'idea di arte come mimèsi, come imitazione. Ma l'idea che il museo sia il luogo dei modelli e dunque lo spazio di una precisa didattica rappresenta anche una concezione delle opere d'arte come diverse da ogni altro oggetto, non semplicemente perché modelli da imitare e dunque da conservare, ma perché legate a un'idea di sublime, a una spiritualità, a un assoluto, che le distinguerebbe e le trasformerebbe volta a volta in schemi, in progetti di altre opere. Nella tradizione dell'idea greca e soprattutto nella cultura romana della c. è insita quella di prescrizione, di misura, e insieme anche quella di una possibile committenza che moltiplica e insieme diffonde modelli accettati. Sarebbe fuori luogo delineare qui una vicenda che copre almeno venticinque secoli di storia, ma si deve riflettere sul fatto che, oggi, la considerazione del museo, della committenza pubblica e privata e della sponsorizzazione nasce da una revisione profonda dei modelli precedenti, ed è proprio sul carattere di questa revisione che si intende mettere l'accento; è quindi sul moderno, globale ripensamento dei modelli del passato che si deve riflettere. È infatti nel 20° secolo, dal tempo della grande crisi della cultura Jugend in poi e quindi nell'età delle avanguardie storiche, che le idee di museo, di c., di mecenatismo si sono trasformate completamente. Per comprendere la portata di questa trasformazione è necessario un ripensamento globale del passato, che in un'età quale la nostra, a lungo dipendente da modelli legati allo storicismo, diventa progetto nuovo per il futuro. Mentre per le nuove impostazioni storiografiche sul concetto di collezionismo e di committenza e della loro evoluzione nel corso dei secoli si rimanda alla bibliografia citata (in particolare, Haskell 1963; Ragghianti 1974; Barocchi 1979; Lugli 1983; Quintavalle 1988; De Benedictis 1991), per capire il moderno trasformarsi di questo complesso sistema di rapporti fra arte, collezionismo e pubblico è opportuno valutare proprio il senso del moderno rifiuto dei modelli tradizionali che, attraverso le vicende dalla fine del secolo 19°, è emerso negli ultimi venti o trenta anni: nuovi modi di collezionare o di contribuire alla produzione di opere d'arte, di concepire la funzione delle strutture museali, di intendere la funzione dell'arte in relazione al pubblico.

Rispetto alla tradizione del collezionismo e a quella della organizzazione delle opere esposte, siano esse in raccolta pubblica o in raccolta privata, l'età che oggi chiamiamo 'delle avanguardie' impone uno stacco nettissimo e una rapida trasformazione dei modelli. Il progetto, la struttura del museo vengono contestati direttamente o indirettamente da tutte le avanguardie, dall'età Jugend al periodo fra le due guerre mondiali. Nei suoi accenti più rivoluzionari la contestazione del museo ha finito per essere identificata con due avanguardie soltanto, quella futurista e quella dada; ma, a dire il vero, la questione del museo, e dunque del collezionismo e dei suoi modelli, attraversa tutti i gruppi che si propongono come antagonisti all'accademia. Anche la civiltà Jugend, nelle sue varie configurazioni nazionali, veniva proponendo un modo nuovo di pensare il museo: per es., a Londra come a Vienna il recupero delle antiche arti, degli antichi mestieri medievali, finisce per proporre una visione globale del fare che impone di considerare alcuni oggetti fino ad allora non ritenuti opere d'arte come pezzi di grande interesse e qualità, e impone inoltre di considerare le tecniche, tutte le tecniche, come strumenti per la produzione artistica. Ecco quindi che la rilegatura e il ricamo, i lavori in ferro dalle cancellate alle ringhiere, quelli in legno, come l'intarsio e i mobili, le ceramiche, diventano possibili ambiti dove si manifesta la ricerca artistica, e anzi proprio il recupero delle tecniche medievali, caratteristico della Wiener Werkstätte o delle officine inglesi di Arts and Crafts, e ancora di quelle dei grandi restauratori dell'Ottocento a partire da E. Viollet-le-Duc in Francia, fino alla crescita a Parigi dell'Art nouveau, finisce per proporre un diverso modello di rapporto col passato e, si deve notare, per evocare un nuovo modo di accostarsi e quindi di valutare, anzi rivalutare, la civiltà medievale.

Sarà dunque davvero impensabile ritenere il Medioevo un modello per le avanguardie artistiche del nostro secolo? Se si riflette su quanto pesi a Dresda, e quindi in Germania, sul gruppo Die Brücke (1905) il rapporto con il Medioevo romanico e gotico, si comprenderà che non è certo casuale l'attenzione degli artisti per il periodo che dal tempo ottoniano giunge alle cattedrali duecentesche e trecentesche. L'idea che il collezionista non sia semplicemente un raccoglitore di pezzi ma un inventore di nuovi modelli, e dunque partecipe di un diverso mondo spirituale, e che sia proprio compito dell'artista gettare un ponte fra pubblico e intellettuali, appare trasformare completamente i modi accademici del fare raccolta e anche il senso del collezionare, che diventa impegno intellettuale e insieme civile. Infatti i collezionisti dei pittori e scultori del gruppo espressionista saranno diversi e appassionati, come adepti di una nuova religione, e molte delle opere, plastiche e pittoriche, riflettono non solo i modelli medievali ma anche le sculture centroafricane, secondo una tendenza di ritorno al primitivo. Ritorno al primitivo e attenzione al Medioevo, ma anche all'arte persiana e alle sue miniature, nonché alle lineari delimitazioni e alle tinte piatte degli smalti limosini, caratterizzano anche il gruppo dei Fauves che si uniscono a Parigi a partire dal 1905; e, anche in questo caso, i collezionisti tendono a recuperare i modelli, la religione dell'originario, le antiche mitologie della funzione quasi sacrale dell'immagine.

La contestazione più nota del collezionismo istituzionale, quello dei musei coi loro arcaici modelli, la prima a formalizzare le proprie tesi a livello teorico, è quella futurista: no alla tradizione che si manifesta nel museo inteso come luogo dei modelli, no dunque al collezionismo che muove dalla cultura aulica, ufficiale, delle accademie; distruggere i musei, distruggere l'arte accademica ufficiale suggerisce F.T. Marinetti, predica U. Boccioni, sottolineano tutti i firmatari dei primi manifesti. Respingendo l'arte ufficiale e il suo pubblico si privilegia il rapporto con la committenza privata; solo il secondo Futurismo, dunque dopo la fine della Prima guerra mondiale, proporrà e cercherà un'integrazione con le strutture pubbliche, otterrà committenze istituzionali e si porrà in relazione con il sistema politico costruito dalla dittatura fascista.

L'avanguardia cubista non contesta istituzionalmente il museo, ma fa riferimento, con Picasso, con G. Braque e con altri ancora, alle maschere negre, al Medioevo romanico, all'arte iberica, a quella cicladica, tutte civiltà ritenute dell'originario, del primitivo, del puro, del non contaminato dalla cultura. Anche in questo caso il collezionismo si riduce a pochi illuminati e attenti estimatori che spesso raccolgono una gran parte della produzione e la portano fuori dei confini, come fa G. Stein con Picasso a partire dal primo decennio del secolo, oppure che la capitalizzano, come faranno i Kahnweiler fino al momento in cui le persecuzioni razziali non li costringeranno a svendere un enorme patrimonio. Dunque Picasso fa una scelta di campo, anche se del museo, dopo aver studiato El Greco e D. Velazquez, F. Zurbaran e gli impressionisti, egli sa scoprire le aree molto spesso escluse dall'attenzione della critica.

Ma c'è un'avanguardia che va oltre nella contestazione del museo, quella dada che, a partire dal 1916 a Zurigo e dal 1918 a Parigi, e con grande intensità nel primo dopoguerra, in Germania con K. Schwitters e i suoi Merzbau e a Parigi soprattutto con M. Duchamp, A. Breton, F. Picabia, Man Ray e molti altri ancora, propone un nuovo modo di concepire il rapporto con il mondo. Non si tratta semplicemente del rifiuto del museo, ma della contestazione diretta delle opere che nel museo si trovano esposte. Duchamp propone il prelievo degli oggetti fuori dal contesto originario e l'apposizione della firma dell'artista che vale quindi da sola come creazione dell'opera d'arte; Man Ray distrugge la fotografia come surrogato dell'immagine tradizionale e ritiene solarizzazione e foto senza macchina fotografica strumenti per distruggere le mitologie accademiche. La contestazione dadaista, quindi, finisce per rivelare un nuovo universo di oggetti, e i frammenti, i rifiuti della nostra cultura, diventano opere d'arte, determinando uno stacco sempre più netto dall'idea del museo e dalla sua tradizione. La ricerca dei surrealisti si porrà su questa stessa strada a partire dagli inizi degli anni Venti, finendo poi per introdurre nel sistema dell'arte ufficiale un nuovo dubbio: è vero quello che si rappresenta oppure è vero quello che è sotteso alle immagini e che fa comprendere le intenzioni, magari inconsce, di colui che narra, pittore, scultore, scrittore che sia? Anche in questo caso la contestazione del museo ma anche della cultura stessa del collezionista e della sua funzione appare determinante: il collezionista, per il Surrealismo, somiglia più all'ideologo che all'apprezzatore di belle forme, all'estimatore dei capolavori; i quadri sono infatti racconto, sono schermo e proiezione per un'autoanalisi.

Vi è poi un'altra avanguardia che ha trasformato i modi del pensare il collezionismo e il museo e che ha esteso enormemente gli ambiti dell'arte trasformando i modelli antichi delle officine Jugend in una nuova teoria pronta a rivoluzionare il mondo dell'architettura e degli oggetti: il Bauhaus. Dal 1919 in avanti con W. Gropius a Weimar, quindi a Dessau dal 1925 e a Berlino fino al 1933, si snoda un percorso che è stato più volte analizzato (Argan 1951; Wingler 1962). Basti accennare qui alle linee conduttrici che lo caratterizzano: da una parte quella della progettazione globale della città integrata da quella degli arredi all'interno delle abitazioni, degli uffici e delle fabbriche, percorsa dall'opera di Gropius e di L. Mies van der Rohe; dall'altra, quella di artisti, pure docenti al Bauhaus, diversamente orientati, che rappresentano l'altra anima della scuola, come P. Klee e J. Itten, che puntano sulla teosofia, sull'alchimia, sulla funzione simbolica delle immagini intese come rappresentazione globale del cosmo. Dunque un progetto di un nuovo collezionismo viene avanzato proprio da questa avanguardia Bauhaus e diventa la spina portante per numerose c. private e in parte anche pubbliche in Europa e negli Stati Uniti.

Dunque se il Bauhaus è luogo di produzione di progetti di architettura e design, ma anche scuola di pittura e scultura, di teatro e messa in scena, di tessitura, di lavorazione dei metalli, di ceramica, di fotografia, se il Bauhaus è tutto questo e molto altro ancora, fino alla simbologia globale, cosmica delle opere proposta da Klee, allora il Bauhaus sarà anche per qualche verso evocazione dell'officina medievale, come lo era stato Arts and Crafts e come lo era stata pure la scuola di O. Wagner a Vienna. Il Bauhaus come ritorno all'officina medievale potrebbe apparire un'assurdità, eppure proprio il collezionismo che il movimento favorisce, settoriale, specializzato in apparenza ma globale nella concezione dell'ambiente in cui si vive, fa capire che raccogliere le opere significa ormai considerare la loro funzione entro un sistema, entro un contesto. La costruzione del Bauhaus a Dessau vuol dire anche reinventare abitazioni e modi di vita, comportamenti e gesti che i mobili, gli arredi, da Gropius a Mies van der Rohe, caratterizzeranno come reinvenzione del mondo. Il Bauhaus finirà sotto il regime nazista dopo aver faticosamente portato avanti il proprio discorso fra il 1932 e il 1933 a Berlino, ma la migrazione dei suoi protagonisti finirà per trasferirne i modelli altrove, negli Stati Uniti soprattutto dove, fra gli altri, andrà lo stesso Gropius e L. Moholy-Nagy fonderà a Chicago il New Bauhaus.

Muove dunque dalla cultura Bauhaus il nuovo collezionismo che si qualifica, un poco in tutto l'Occidente e negli Stato Uniti, come antagonista all'arte fascista e nazista, all'arte accademica e didascalica; tutto quello che è rifiuto dei modelli aulici, che risponde alla formula forma-funzione, di lontana radice idealista ma comunque efficacissima in termini di diretta polemica contro l'arte protetta dalle due dittature, tutto questo viene considerato arte nuova e gelosamente raccolto e collezionato. Nascono così in Occidente, negli Stati Uniti e in Europa, raccolte di arte astratta, da Der blaue Reiter a De Stijl, da P. Klee a V. Kandinskij, a P. Mondrian, e poi raccolte di opere di design, a cominciare da quelle prodotte nei laboratori Bauhaus, raccolte di fotografie, da quelle off camera di H. Bayer e di L. Moholy-Nagy al Bauhaus, e poi di film, di disegno d'architettura. E il modello Bauhaus non certo a caso sarà evocato al momento della creazione del Museum of Modern Art di New York che resterà per molto tempo una novità nel panorama della cultura occidentale.

Ma mentre le avanguardie distruggono l'idea stessa del collezionista in senso tradizionale per costruire un altro genere di raccolte, che appaiono nettamente ideologizzate proprio per il confronto durissimo fra reazione e progresso implicito nella contrapposizione fra accademia e astrazione, un nuovo modello di arte e quindi di collezionismo, in questo caso piuttosto pubblico che privato, viene proposto dalla Russia, poi divenuta Unione Sovietica. Gli artisti che aderiscono alla rivoluzione dei Soviet, e che quindi si ribellano all'accademia, inventano un nuovo genere di arte, funzionale alla persuasione: è arte l'immagine della poesia e quindi la sua grafica; è arte il film del quale si scopre la struttura del montaggio; è arte la fotografia e lo è anche il manifesto; sono arte la pittura, la scultura, il teatro, il balletto. Ma tutte le arti così rinnovate diventano funzionali alla creazione di un luogo comune degli spettacoli, e sono quei treni della rivoluzione che saranno punto di riferimento determinante per la cultura in URSS negli anni Venti. A Pietroburgo, poi Leningrado, e a Mosca i formalisti russi da V.B. Šklovskij a Ju. N.V. Tynjanov, e poi gli artisti da J. Majakovskij a N. Gončarova, da V. Tatlin ad A. Rodčenko a G. Klucis trasformano il sistema del comunicare e gli architetti iniziano essi pure una profonda rivoluzione; intanto in provincia un altro futuro protagonista dell'arte del Bauhaus, Kandinskij, progetta e realizza una serie di musei delle arti popolari, quelle stesse che prima del 1910 lo avevano affascinato con le loro simbologie, con la loro narrazione di fiaba, la civiltà della fiaba che V.J. Propp studierà in una serie di testi che fondano l'indagine formalistica strutturale. E quella stessa arte dei primitivi, presente nel sistema delle immagini di Der Blaue Reiter Almanach, torna adesso nel progetto che l'artista riesce a realizzare. Sarà il collezionismo pubblico a raccogliere tutti questi importanti materiali, ma il loro carattere aleatorio finirà per disperderli e la reazione accademica, che prende il sopravvento con Stalin e poi con A. Ždanov imponendo il realismo socialista, distruggerà quasi tutto quanto costruito; adesso, di quel momento, restano le opere conservate presso le famiglie degli artisti o riesumate dai più nascosti depositi dei musei di Stato.

Ecco quindi che il museo, e così il collezionismo, mutano di caratteri e di scopi negli anni, fino a metà del terzo decennio, e le opere d'arte tradizionali, che vengono raccolte nei musei dell'ufficialità, appaiono come poste fra parentesi: i nuovi collezionisti scoprono modelli diversi, nuove ricerche, nuove immagini. Dunque per circa venticinque anni le avanguardie propongono la rivoluzione o meglio il rifiuto del museo, il rifiuto dell'arte istituzionalizzata in pittura e scultura e anche in architettura, con l'accademica imitazione di qualche rinascimento con timpani, frontoni, colonne riprese dal mondo classico. Le avanguardie inventano nuovi collezionisti ma anche nuove tipologie di oggetti da raccogliere, e basta scorrere le illustrazioni di Der Blaue Reiter Almanach per capire: vetrate gotiche e ricami ottocenteschi, statuette popolari e grafica giapponese, incisioni del Quattrocento tedesco e pezzi importati dall'Estremo Oriente.

Nel periodo a cavallo fra il secolo 19° e il successivo, il collezionismo europeo, tuttavia, non sembra aver risentito di queste nuove istanze e neppure ha avuto forti incrementi confrontabili con quelli del collezionismo negli Stati Uniti d'America. L'Europa è in profonda crisi economica, la potenza inglese dopo la fine della regina Vittoria si avvia al declino, la Francia si confronta con l'Impero germanico, l'Austria riorganizza le grandi raccolte imperiali, l'Italia con difficoltà riunifica e potenzia le proprie c. pubbliche ma ancora subisce salassi impressionanti di opere d'arte antica e moderna per via della rovina di numerosissime famiglie nobili che svendono il proprio patrimonio d'arte e dunque di storia. Un protagonista di questa incetta delle opere d'arte è un grande storico dell'arte, B. Berenson, di formazione positivista, studioso attento e catalogatore ancora più attento di centinaia di artisti toscani e dell'Italia settentrionale. Berenson prima, e quindi, in seguito, fra le due guerre e ben oltre, R. Longhi, e nel dopoguerra ancora Longhi e più ancora F. Zeri, che sarà stretto collaboratore della direzione e dei trustees del J. Paul Getty Museum a Los Angeles, sono i protagonisti di una stagione di crescita dei grandi musei statunitensi. Le c. Mellon, Kress, Widener, Rosenwald e Dale finiscono per essere donate in tutto o in parte alla National Gallery di Washington, formandone il nucleo maggiore. La raccolta Kress poi, ricchissima di pezzi rinascimentali italiani e fiamminghi, di monete e medaglie, di bronzi e di nielli, insomma di opere d'arte di qualità sempre alta o altissima, si distribuisce nel secondo dopoguerra sia a Washington che in una serie di musei di provincia statunitensi costituendo ovunque un nucleo di grande rilievo.

Il potenziamento dei musei d'arte antica negli Stati Uniti appare, in questo secolo, eccezionale con il concentrarsi di grandi raccolte e di grandi donazioni. La Frick Collection a New York appare un luogo importante anche a livello simbolico perché, come la c. Gardner a Boston, conserva ancora negli spazi originari di un'abitazione le opere d'arte; la c. insomma è la casa un tempo realmente vissuta e che adesso viene offerta al pubblico. Un fatto consueto negli USA se si pensa alla vicenda della grande raccolta soprattutto di manoscritti e disegni della Morgan Library, sempre a New York, dove di nuovo ritroviamo gli spazi della casa antica rimodellata su schemi rinascimentali. Negli Stati Uniti la crescita dei musei d'arte antica è enorme, e basterebbe vedere le donazioni e gli acquisti, tutti o quasi postbellici, della National Gallery di Washington per capire che si compra più in un solo museo statunitense in trent'anni che in tutta Italia nello stesso periodo; e a questo si devono aggiungere in genere, negli USA, le donazioni e dunque le sponsorizzazioni dei singoli privati o dei trustees, cioè di coloro che amministrano il museo stesso. Anche ricostruendo la storia del Metropolitan Museum di New York si coglie il senso e l'importanza delle donazioni: intere sezioni del museo sono state donate negli ultimi anni e si sono anche ricostruite, sempre per donazione o sponsorizzazione, nuove ali e riordinate importanti c., come quella dell'arte egizia. Il Metropolitan è poi il museo più importante degli Stati Uniti per il Medioevo, cui si collegano i Cloisters, sempre a New York: gran parte del suo patrimonio origina da donazioni, insomma da una presenza rilevante del privato che incide profondamente sul rapporto col pubblico, che viene in questo caso educato alla conoscenza della civiltà medievale. Le sezioni di arte antica del Metropolitan sono organizzate come luogo dove si riuniscono importanti documenti di una storia che collega gli Stati Uniti all'Occidente; esse originano quasi sempre da nuclei consistenti di raccolte private, donate al museo allo scopo di ampliarne l'orizzonte culturale, secondo quanto avviene nei grandi modelli museali europei di Parigi, di Londra, di Berlino. Da qui le raccolte che documentano le culture del Medio ed Estremo Oriente, dall'Egitto all'India, dalla Mesopotamia alla Cina. Il modo in cui le opere sono organizzate rientra nella tradizione europea: organizzazione cronologica e per scuole, ma non distinzione fra generi e materiali, fra sculture e pitture, fra arte suntuaria e tessuti. Una trasformazione emerge, però, negli ultimi decenni, con la crescente attenzione alla storia delle civiltà, e quindi si ha la restituzione, per le culture extraeuropee ma anche per l'Occidente, del contesto, dell'ambiente, e dunque degli arredi e di altre tipologie di opere d'arte e non semplice presentazione delle quadrerie o dei capolavori. E questo corrisponde, nella vicenda del collezionismo d'arte antica, all'allargarsi dei suoi orizzonti volti a una ricerca globale della cultura e non a singoli pezzi di alta qualità artistica.

Se dall'arte antica passiamo all'arte contemporanea vediamo che lo sforzo compiuto dagli Stati Uniti in questo ambito è stato enorme, grazie soprattutto ai collezionisti privati che alla fine hanno fatto convergere nei musei una quantità enorme di pezzi di grande interesse. Si calcola che circa il 40% dei dipinti impressionisti sia negli Stati Uniti, e che circa nella stessa proporzione si conservino le opere cubiste in raccolte pubbliche (soprattutto al Museum of Modern Art) o private (c. Rockefeller); i dipinti più importanti dell'avanguardia futurista - comprati, fra l'altro, in Italia nel secondo dopoguerra, visto che non era stato ritenuto interessante l'acquisto, a prezzi bassissimi, da parte dello Stato -, i capolavori di U. Boccioni, C. Carrà, G. Balla sono tutti esposti al Museum of Modern Art di New York.

Ma converrà procedere con ordine, comprendendo nell'analisi il collezionismo e la sua storia: per riferirci ai poli di maggiore interesse, ricordiamo per es. che una raccolta (1922) ormai aperta al pubblico (1995) ma all'origine conservata nella casa ancora privata di A.C. Barnes (1872-1951) a Filadelfia, presenta una serie impressionante di Cézanne, di Renoir, di molti impressionisti e inoltre alcuni Matisse fra cui un grande pezzo realizzato per l'abitazione stessa dall'artista. Le ricche raccolte d'arte antica, e più ancora forse quelle di arte ottocentesca dell'Art Institute di Chicago sono importantissime; il grande museo intende rappresentare tutte le civiltà, tutte le culture, ma certo l'insieme delle opere del periodo impressionista, da C. Monet a P. Cézanne, è uno dei nuclei più importanti che negli Stati Uniti e nel mondo si possano trovare. Ancora e sempre nell'ambito dell'arte contemporanea le c. del Museum of Modern Art a New York rappresentano un indispensabile punto di riferimento per chiunque intenda studiare soprattutto l'arte dal tempo delle avanguardie a oggi, con nuclei imponenti del periodo cubista di Braque e di Picasso, rilevanti pezzi fauves, espressionisti, dada, futuristi, costruttivisti, c. amplissime di artisti del Bauhaus, e quindi dipinti di H. Matisse e di alcuni surrealisti come M. Ernst e soprattutto di J. Miró. Il Museum of Modern Art ha assai presto iniziato a raccogliere fotografie e pitture, sculture e disegni di architettura, film, ed è un luogo dove, fin da prima della guerra ma soprattutto nel dopoguerra, l'attenzione dei direttori si è rivolta alla promozione della cultura moderna negli Stati Uniti e nel mondo. Le raccolte dello stesso museo si estendono ai protagonisti dei movimenti d'avanguardia del dopoguerra con pezzi di qualità sempre assai alta, dall'Espressionismo astratto all'Informale, alla Pop e alla Optical Art. Comunque l'organizzazione del racconto dell'arte contemporanea secondo il modello che contrappone avanguardie a reazione, a conservazione, si deve soprattutto alla politica del museo, alle sue grandi rassegne, ai volumi di cataloghi di mostre e ai saggi che i suoi direttori hanno pubblicato. E per la fotografia è stato J. Szarkovskij, per decenni a capo di quel dipartimento, a ridisegnare il modello del museo ideale di quel tipo di immagine, sottolineando nel passato le maggiori personalità e scegliendo alcune foto-simbolo per le c. permanenti, con la promozione di una serie di mostre che, in diversi casi, hanno girato i grandi musei di tutto l'Occidente proponendo un diverso modo di riflettere sul mondo.

Nell'ambito del contemporaneo negli Stati Uniti abbiamo ancora alcuni importanti luoghi da citare, attraverso i quali passa la politica del mecenatismo, la politica della cultura e la formazione di nuovi modelli. Quando S.R. Guggenheim mette insieme la sua c. e quando P. Guggenheim si collega a una serie di artisti, migrati a New York a causa delle persecuzioni razziali o della dittatura nazista, da Ernst a Mondrian a Kandinskij, è come se il polo della civiltà occidentale si spostasse da Parigi a New York. La raccolta Guggenheim diventa ben presto imponente; centinaia di pezzi di Kandinskij, moltissimi di Ernst, acquisti da Mondrian, che muore a New York nel 1944, e ancora altri acquisti di opere cubiste e surrealiste, fanno delle c., anche prima dell'apertura della splendida 'chiocciola' di F.Ll. Wright, un punto di riferimento per l'intera cultura statunitense. Ma il museo inventato da Wright non è pensato per esposizioni permanenti bensì per snodare, nella spirale della struttura che si percorre dall'alto verso il basso, una Kunsthalle, una sala espositiva che sia una passeggiata agevole lungo un sistema di opere intercambiabili, dunque che si espongono periodicamente. In un'ala vicina, un tempo limitata, adesso assai ampliata, si espongono le c. permanenti che comprendono pure opere impressioniste, anche se quelle esposte sono assai selezionate e molto resta nei depositi. Il Guggenheim, per acquistare opere di artisti che mancavano alla c. permanente, non ha esitato a vendere una parte della sua davvero unica raccolta di Kandinskij; altre opere importanti sono state così disperse. Un museo, dunque, come impresa privata e per questo retto da trustees, da amministratori-azionisti si potrebbe dire, può vendere parte del 'capitale', del patrimonio delle opere - salvo che non sia stato altrimenti vincolato dai donatori - per fare degli acquisti o, nella peggiore delle ipotesi, per sanare parte del suo bilancio. È per questo che il Board of trustees è importantissimo negli USA e la cultura dei suoi membri appare determinante per il futuro di ogni museo.

La struttura del Guggenheim in qualche modo si contrappone a quella del Museum of Modern Art a New York, dove dominano le c. permanenti; al Withney Museum of American Art sempre di New York troviamo, insieme alle periodiche rassegne di arte americana, anche una rilevante raccolta di opere d'arte statunitense, a cominciare da A. Calder. Ma il Guggenheim, in anni recenti, ha programmato una nuova sua funzione di rappresentante, di ambasciatore dell'arte contemporanea e in particolare di quella americana anche fuori dei confini newyorkesi: così a Venezia, con la raccolta P. Guggenheim, integrata da dipinti provenienti dal centro di New York o da depositi a lunga durata come quello recente di parte della c. di G. Mattioli (1903-1977); così a Bilbao, dove un'architettura di qualità assai alta fa da contenitore a un insieme di opere assai tarde di artisti della Pop e della Land Art che non tengono certo il livello dell'invenzione strutturale. Mentre il Museum of Modern Art ha, finora almeno, interrotto la propria politica di espansione e di informazione all'estero condotta per decenni nel secondo dopoguerra con mostre circolanti di disegni e fotografie e anche di dipinti, il Guggenheim prosegue in una politica di espansione che dovrebbe condurlo a essere una specie di trust internazionale dell'arte, non si sa ancora se volto a presentare solo mostre temporanee oppure a esporre prevalentemente c. permanenti.

Per comprendere la complessità e la ricchezza dell'organizzazione statunitense di donazioni pubbliche e la loro rilevanza a livello internazionale ricordiamo, a Washington, una grande struttura che appare essere una replica dell'invenzione di Wright per il Guggenheim ma, al confronto, di dimensioni molto superiori, e ospita una raccolta di grande importanza: si tratta della c. Hirshhorn, rivolta prevalentemente all'arte statunitense, e soprattutto al periodo dell'espressionismo astratto, anche se non mancano pezzi impressionisti e dell'École de Paris. Una grande c. donata al paese che fa capire come la rappresentazione della propria arte come storia della nazione, ammesso che questo termine oggi abbia ancora un senso, finisca poi per ritornare al pubblico, che si trova ad avere nei diversi Stati un vero e proprio sistema di musei di grande peso culturale e con precise funzioni educative. Ricordiamo, a Boston, il Museum of Fine Arts, del quale si cita soltanto l'importante raccolta di opere di J.-F. Millet; e ancora un altro museo nato da una serie di importanti donazioni è la Albright-Knox Art Gallery di Buffalo dove, assieme a pezzi impressionisti e postimpressionisti importanti, troviamo opere dell'espressionismo astratto, di J. Pollock e M. Tobey e poi di molti altri fino alla Pop Art e alle ricerche più recenti.

Si deve dire che quasi in ogni grande e media città statunitense vi è un museo di arte antica e uno di arte contemporanea, dove troviamo quasi sempre anche sezioni di fotografia; dunque l'educazione del pubblico è capillare quanto il sistema delle donazioni, come provano i cartellini apposti sotto le opere, donate o prestate a lungo termine da collezionisti privati al museo della propria città. Questo stretto rapporto fra collezionisti privati, banche, imprese, galleristi e pubblico non ha confrontabili riscontri in Europa e tantomeno in Italia.

Ma il panorama non sarebbe completo senza considerare le sponsorizzazioni delle grandi imprese e le opere che negli Stati Uniti sono davvero struttura del paesaggio urbano: si va da D. Smith a B. Hepworth, da L. Nevelson ad A. Calder, da H. Moore alle sculture degli esponenti della Pop Art, che finalmente possono realizzare monumenti al di fuori dello spazio delle gallerie; e a volte entrano in questo sistema anche altri artisti stranieri, come A. Pomodoro e pochi altri. Dunque, alla base dei grattacieli oppure dentro, al piano terreno aperto al pubblico, serra-vetrina di questi colossi di metallo e vetro, le grandi imprese collocano le sculture: nuovi feticci ben più rilevanti delle pitture che negli USA usavano essere realizzate per i pubblici edifici ai tempi del New Deal rooseveltiano. A New York come a Chicago, a Denver come a Houston, a Los Angeles come a San Francisco, a Berkeley come a Harvard le architetture dei maggiori progettisti, ma soprattutto le sculture, diventano immagini-feticcio, proposte alla pubblica ammirazione: la cultura della città legge queste opere come nodali, importanti, irripetibili. Ancora una volta, come nel saggio di M. Weber, il capitalismo investe nell'opera d'arte come su un proprio simbolo, e sono adesso le banche, al pari dei mercanti borghesi, le principali sponsorizzatrici di queste imprese, insieme ai trustees delle maggiori società internazionali. Si potrebbe pensare che una notevole parte del rispetto, della considerazione e dell'attenzione che ricevono queste opere dipenda soprattutto dai loro finanziatori, di cui esse diventano in qualche modo segno; mentre un tempo era l'arte che rappresentava la qualità del mecenate e la sua tensione intellettuale, adesso sono le grandi imprese che danno significato e dignità, caricandola del proprio significato, all'opera d'arte. Il simbolo del denaro che esse rappresentano le rende, se possibile, feticci ancora più accattivanti ed efficaci, ma tutto questo dissolve la loro storia, la ricerca che gli artisti qui avevano inteso concentrare.

La storia del collezionismo in Europa è per molti versi distante da quella degli Stati Uniti, e quella dell'Italia poi appare essere come un 'a parte' entro questo complesso sistema. Si deve riflettere comunque sulle differenti nazioni europee perché sarà il confronto fra di esse a far comprendere le peculiarità delle loro vicende. Un carattere accomuna la Francia e l'Inghilterra, la precisa volontà di organizzare grandi strutture nazionali, grandi strutture centralizzate entro le quali far convergere le c.; in Francia, però, è assai più diffuso un altro modello, quello che prevede la creazione di fondazioni singole, tutelate o addirittura per intero finanziate dallo Stato, fondazioni che presentano, nel luogo stesso dove è vissuto, l'intero patrimonio di un artista, di uno scrittore, di un musicista.

In genere in Inghilterra si tende a far convergere le donazioni singole nelle maggiori strutture museali, mentre in Francia si segue una politica diversa che esalta i protagonisti, le loro abitazioni, le opere che hanno raccolto, gli spazi che hanno amato. A Parigi le memorie di molti poeti, narratori e musicisti si conservano gelosamente, e la casa di H. de Balzac, per es., è anche un luogo dove si presentano immagini, pezzi grafici legati alla sua storia e a quella dell'illustrazione e della fotografia, da H. Daumier a F. Nadar. Per restare al collezionismo, sempre a Parigi, il museo Monet conserva centinaia di pezzi dell'artista, come la casa-museo G. Moreau; un'altra operazione, diversa dalle precedenti, è il trasferimento dell'atelier di C. Brancusi al Beaubourg e quindi la conservazione dell'ambiente ma anche il suo spostamento dalla sede primitiva al grande museo, uno smontaggio e rimontaggio finalizzato a offrire a un pubblico più vasto la messa in scena del luogo vero, ma in realtà falsificato, dove aveva operato l'artista. Tutte queste c. sono donazioni di privati o anche acquisti da privati, confluite in spazi pubblici o rimaste nelle antiche strutture.

Sempre a Parigi un altro modo di collegare pubblico e privato emerge con la dation Picasso, con la quale gli eredi hanno ceduto allo Stato, per pagare i diritti di successione, un gruppo di opere di Picasso e la c. dell'artista stesso comprendente, tra l'altro, opere del Doganiere Rousseau, di Cézanne e di Miró prima del periodo surrealista, che costituiranno il nucleo del Musée Picasso. Insomma anche da questo schematico elenco emerge tutta una serie di tipologie differenti che, anche se non rendono conto adeguatamente della varietà delle soluzioni trovate in Francia per rendere fruibili al pubblico le donazioni dei privati, pure danno un'idea del complesso e fecondo rapporto fra collezionisti e amministrazioni delle città o della nazione.

Se da Parigi cerchiamo nella provincia altri modelli, non abbiamo che l'imbarazzo della scelta: come esempio si può citare ad Albi il Musée Toulouse-Lautrec, ricco di opere dell'artista, dipinti, disegni, manifesti, esempio di donazione finita nel luogo di nascita dell'artista. Diverso ancora il caso della Fondation Maeght a Saint-Paul-de-Vence dove un'importante c. di opere che vanno dai bronzi con le figure di donna addossate alla parete del primo Matisse alla Capra di Picasso, dalle opere di A. Tápies alle sculture di A. Giacometti a tanti altri, si colloca in uno spazio verde illustrato da una sequenza importante di sculture e di ceramiche colorate di Miró; in questo caso la creazione di una fondazione ha permesso di gestire il patrimonio e insieme di mantenerlo attraverso esposizioni temporanee che richiamano, insieme con le raccolte permanenti, un folto pubblico.

Ma la Francia, come si è detto, punta prevalentemente sulla creazione di grandi strutture centralizzate: gli ultimi decenni hanno visto una crescita imponente in questo ambito. Le iniziative principali appaiono essere tre e tutte di grande interesse. Cominciamo da quella di dimensioni più piccole ma non per questo meno importante, la creazione del Musée Picasso (aperto nel 1985 nell'Hôtel Salé) con un insieme di opere eccezionale che va dagli inizi fino alla fine del percorso di Picasso, che permette a Parigi, con Barcellona per il periodo giovanile, di vantare la massima c. pubblica esistente dell'artista. Il Musée Picasso nasce da acquisti e da donazioni, molte delle quali, per es. quella degli importantissimi carnet dell'artista, oppure quella delle ceramiche, vengono dall'impressionante eredità che questi ha lasciato ai propri familiari. Le altre due strutture che sono state create a Parigi sono il Beaubourg e il Musée d'Orsay: esse concentrano e si dividono le raccolte d'arte, scultura e architettura, del 19° e del 20° secolo. Sarebbe complesso analizzare la storia della formazione dei singoli musei; comunque possiamo dire che i musei d'arte contemporanea in Europa per la grandissima parte originano da donazioni oppure da lasciti. Così il collezionismo privato integra le raccolte pubbliche, così accade al Beaubourg, le cui rilevanti raccolte permanenti si concentrano sull'École de Paris anche se conservano nuclei significativi di arte tedesca e in genere europea piuttosto che statunitense. Sempre a Parigi la Caisse nationale des monuments historiques et des sites, nell'Hôtel de Sully, conserva un ingente patrimonio fotografico, formato attraverso acquisti e donazioni, che comprende anche i fondi Nadar, padre e figlio, altissimo civile documento dell'età del realismo. E si potrebbe continuare con il Musée de la mode et du textile, al Louvre, dove, ancora una volta, donazioni di molti atelier permettono di delineare una storia dell'abito che va da S. Delaunay a Chr. Dior, senza parlare poi del patrimonio storico degli abiti, soprattutto sei, sette e ottocenteschi, entrati nelle raccolte molte volte per acquisto.

Di fronte al patrimonio enorme delle grandi c. parigine che confermano la volontà centralizzatrice delle istituzioni, quella di fare di Parigi sempre e comunque il centro della nazione per la cultura, si stanno imponendo anche i musei di provincia e le loro c. d'arte; per l'arte contemporanea si possono anche ricordare quelli di Grenoble, Strasburgo, Nizza.

La situazione in Inghilterra è forse ancora più accentuatamente centralizzata rispetto a quella francese. Per quello che concerne l'arte contemporanea, la Tate Gallery appare punto di incrocio irrinunciabile del collezionismo pubblico, da Turner a F. Bacon, da G. Sutherland a P. Blake e agli altri artisti Pop; una parte di queste opere giunge per donazione allo Stato secondo una tradizione che vede raccolto, per es. alla Wallace Collection, un imponente blocco di pezzi impressionisti, tutti di grande interesse. Nei musei di provincia le donazioni appaiono interessanti, ma non sembra che l'Inghilterra abbia puntato qui su significative nuove strutture, tantomeno rivolte al contemporaneo. Resta importante a Londra l'ampliamento (1991) della National Gallery, la risistemazione (dal 1997) del British Museum, dopo il trasferimento della biblioteca, l'apertura della Photography Gallery (1998) nel Victoria and Albert Museum, dove è sistemata la prestigiosa c. fotografica del museo.

Diverso il caso della Germania, l'altro grande paese, con gli Stati Uniti, ad avere rivoluzionato completamente il sistema delle c. d'arte contemporanea sia con nuove strutture, sia con l'imponente incremento delle raccolte soprattutto grazie a donazioni ma anche ad acquisti significativi. La rivoluzione nell'ambito del contemporaneo che la Germania propone dagli anni del dopoguerra, ma con particolare tensione negli ultimi due o tre decenni, nasce da una crisi profonda determinatasi negli anni Trenta. La dittatura hitleriana costringe i maggiori artisti, gli intellettuali di maggior fama, a rifugiarsi all'estero, e 'purifica' i musei dalla entartete Kunst, l'arte degenerata: migliaia di opere esposte nei musei o conservate nei depositi sono state distrutte, o messe all'asta, o restituite se erano in prestito o deposito, e così sono scomparsi trent'anni di arte contemporanea europea e naturalmente, e a maggior ragione, di arte tedesca, dal gruppo Die Brücke a O. Dix, M. Beckmann, G. Grosz, e l'arte austriaca con E. Schiele, e Mondrian e gli altri olandesi del gruppo De Stijl, e gli artisti del Bauhaus da Klee a Kandinskij, Itten, Moholy-Nagy, O. Schlemmer. Anche per questo la politica della Germania di Bonn, dunque ben prima della riunificazione, è stata quella di sanare questa grave frattura fra il 19° e il 20° secolo, questo vuoto di due generazioni, dagli inizi del secolo al secondo dopoguerra, di protagonisti dell'arte moderna.

La Germania, dunque, programma un nuovo collezionismo, quello pubblico, statale o dei Länder non importa, stimolando donazioni e integrandole con acquisti; si tratta di un'impresa imponente confrontabile solo con il riordino parigino dei grandi musei ma estesa a tutto il territorio nazionale. Ecco quindi che in pochi decenni abbiamo la rapida ricostruzione o creazione di una serie di musei, in genere collocati, salvo quello di Francoforte, sul Reno o nelle sue immediate vicinanze, musei che hanno finito per spostare l'asse culturale della nazione a Sud oppure a Nord-Ovest, mentre adesso si viene realizzando un'operazione opposta, rivitalizzando la ex zona orientale del paese e in particolare Berlino.

Il museo di Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, si costituisce dal 1961 intorno a un importantissimo nucleo di opere di Klee, acquisito dal governo regionale l'anno precedente, la massima c. europea di Klee dopo quella del Kunstmuseum di Berna e dopo la raccolta privata appartenuta a F. Klee, il figlio dell'artista. Attorno a questo nucleo si forma un museo (dal 1986 nella sede appositamente costruita) che documenta l'arte dei movimenti d'avanguardia europei con pezzi a volte di alta e anche altissima qualità, una parte dei quali donati (come quelli lasciati da J. Bissier alla sua morte), altri acquistati. Ma lo sforzo maggiore, in Germania, dopo la riapertura al pubblico a Monaco di Baviera delle c. d'arte antica e di quelle di arte contemporanea alla Stadtische Galerie im Lenbachhaus con l'intero gruppo del Blauer Reiter, appare essere quello del museo di Mönchengladbach, finito di edificare nel 1982 dall'architetto austriaco H. Hollein e progettato anche per accogliere le opere di land art o di arte concettuale della c. Panza di Biumo, poi non pervenuta al museo, così che quegli spazi appositamente pensati per quel tipo di arte sono stati riadattati per altre raccolte.

A Bonn il Kunstmuseum (1989) pone un importante problema, quello del museo posto a confronto con la Kunsthalle (1993) che gli sta proprio accanto; le strutture sono state pensate per una città, Bonn, che è stata a lungo capitale, e quindi di fatto sono sovradimensionate rispetto alla dimensione reale della città; inoltre il museo non ha c. di tale impatto da richiamare, di per sé, un folto pubblico, e anche l'intensa attività espositiva della Kunsthalle potrà entrare in crisi una volta che Berlino tornerà ad assumere la funzione di capitale.

Diversa è la storia del Museum Ludwig, aperto a Colonia nel 1986, che nasce da un'importantissima donazione di opere europee e americane dal secondo dopoguerra del collezionista P. Ludwig ma che ha accolto l'arte del secolo 20° prima conservata presso il Wallraf-Richartz-Museum. Altra vicenda ancora è quella del Museum für moderne Kunst di Francoforte, progettato da Hollein, museo dall'articolazione complessa, dove si confrontano spazi per l'esposizione di opere tradizionali e nuovi spazi concepiti per Land Art, Arte povera e per le più recenti avanguardie, e ancora spazi per la fotografia e il design. Insomma la grande città propone un altro modello di museo come servizio pubblico integrando lo spazio espositivo, attraverso il parco, al sistema urbano.

Ma è a Berlino che la Germania intende adesso fare riferimento progettando di fatto una nuova capitale: R. Piano e, con lui, numerosi architetti, stanno ridisegnando la città, ma è il sistema dei musei che merita la maggiore attenzione. Dal tempo dell'edificazione della Neue Nationalgalerie, grande struttura in metallo e vetro di Mies van der Rohe (1968) allora sita a Berlino Ovest, non si sono realizzate in città nuove grandi strutture museali. La galleria, ideata anche come una Kunsthalle, possiede una raccolta interessante di neo-espressionisti tedeschi e di pittori americani, dall'Espressionismo astratto all'Optical Art, alla Pop Art; ma adesso c'è molto di più, il progetto in atto in parte realizzato (1998) di riunificare le raccolte d'arte antica e moderna già divise fra Est e Ovest ripensando anche il sistema che, a Est, si concentrava nell'Isola dei Musei.

La Germania con i suoi musei, quelli indicati e molti altri ancora, ha cercato, dunque, un rapido aggiornamento per restituire al pubblico l'arte contemporanea; per fare questo, non potendo trovare sul mercato grossi nuclei di opere della École de Paris e tantomeno delle avanguardie, ha scelto di raccogliere, per donazione o acquisto, una tradizione diversa, collegando Espressionismo astratto e Pop Art americana a J. Beuys, al neo-espressionismo tedesco, proponendo così una storia diversa della modernità, la stessa che i collezionisti privati tedeschi hanno percorso in questi anni.

Sia pure brevemente converrà ricordare la vicenda della Svizzera che, da Berna a Zurigo a Ginevra, concentra una serie di c. d'a. contemporanea importantissime e frutto, nella gran parte dei casi, di generose donazioni. Il paese, durante il secondo conflitto mondiale, è stato in molti casi rifugio di artisti e, comunque, ha svolto la funzione di spazio libero, di luogo dove era possibile operare senza costrizioni rispetto a Parigi e alla gran parte dell'Europa occupate. Erano le condizioni ideali per sviluppare un ricco collezionismo rivoltosi dapprima agli impressionisti e postimpressionisti e alle avanguardie parigine dai Fauves ai cubisti e oltre, quindi alle avanguardie tedesche compresa la cosiddetta arte degenerata, e all'avanguardia olandese a partire dalla cultura Jugend e poi fino a De Stijl; minore è stata l'attenzione per il Costruttivismo sovietico, per il Futurismo, per la Metafisica. Invece, da Klee, Kandinskij, Giacometti, i maggiori protagonisti dell'arte moderna sono stati gelosamente raccolti, acquisiti quasi sempre per donazione, ed esposti in sedi museali dignitose, creando quasi una continuità con gli spazi privati da dove molte opere provenivano. È in Svizzera, quindi, che si trova quel tessuto storico che la Germania ha perduto.

La storia della Spagna sotto Franco e dell'Italia sotto Mussolini presenta qualche simmetria con quella della Germania. In Spagna l'arte contemporanea non ha casa salvo che per la fronda rappresentata da un gruppo di importanti artisti che un tempo si raccoglievano attorno alla galleria Juana Mordó, da M. Millares a R. Canogar a tutti gli altri; la grande arte di Tàpies resta emarginata a lungo mentre la pittura di S. Dalí appare trionfante grazie proprio alla sua ambiguità ideologica chiara anche nel suo castello-museo di Púbol.

In Spagna comunque, morto Franco, ci troviamo davanti a una rapida trasformazione. Il Museum of Modern Art di New York restituisce nel 1985 alla Spagna, come Picasso aveva stabilito quando la dittatura fosse finita nel paese, Guernica (1937; dal 1992 al Reina Sofía di Madrid), il grande quadro, simbolo dell'arte moderna che si ribella alla dittatura e alla sua violenza, che l'artista dona alla nazione. Il Museu Picasso a Barcellona, frutto di importanti donazioni a partire dal 1963, documenta in modo unico le origini dell'artista, i rapporti con la cultura Jugend, con gli impressionisti, con i postimpressionisti fino a G. Seurat, H. de Toulouse-Lautrec e P. Cézanne. Ma è la creazione del Centro de Arte Reina Sofía, aperto nel 1992, il segno rilevante, a Madrid, di un rinnovamento della cultura di grande significato. Anche in questo caso il museo si forma, per la gran parte, grazie alla donazione di importanti gruppi di opere da parte di singoli artisti viventi o dei loro eredi. Il museo, infatti, salvo che degli spagnoli, non ha nuclei storici di alto significato, ma la sua c. è rilevante proprio per capire l'importanza della ricerca pittorica e plastica in Spagna dagli anni Trenta in poi, quella emarginata da Franco, e per capire naturalmente le correnti d'arte più recenti.

Il trasferimento da Lugano a Madrid (1991) di gran parte della c. Thyssen-Bornemisza, la massima c. privata ancora esistente d'arte antica e moderna, messa insieme nel corso di decenni acquistando opere in tutto il mondo, accresce le attrattive della capitale e completa le imponenti raccolte d'arte del Prado. Certo è che, per l'arte contemporanea, la dittatura franchista ha lasciato il segno, creando un enorme vuoto storico, ostacolando lo sviluppo e l'interesse collezionistico per le ricerche dei movimenti e gruppi d'avanguardia in favore di un'arte pubblica consona al regime.

Lasciando da parte i pur importanti casi del Belgio e dell'Olanda - con le donazioni ma anche gli acquisti che hanno condotto alla formazione delle raccolte di Mondrian e di van Gogh, e l'attenzione per l'arte contemporanea con lo sviluppo, soprattutto nel secondo dopoguerra, di istituzioni come i musei Boymans-van Beuningen di Rotterdam e Kröller-Müller di Otterlo - nell'affrontare il problema dell'Italia la questione del collezionismo privato e del suo rapporto con i musei appare un problema di grande portata. E anche in questo caso, come per la Germania, converrà ripercorrere la nostra storia dal primo dopoguerra perché essa condiziona, ancora oggi, la consistenza delle c. private e le prospettive di sviluppo di quelle pubbliche.

La scarsa diffusione della cultura Jugend nel nostro paese è un segnale grave e fa da riscontro al peso crescente della cultura umbertina e dunque di un accademismo che mescola stili e tradizioni diverse; questo carattere della nostra esperienza, che non è attenta, salvo rari casi, alla ricerca impressionista e postimpressionista, condiziona a lungo il modello del museo e anche il peso che la Biennale di Venezia ha sugli orientamenti della cultura. Il collezionismo non sembra orientarsi, come del resto molti degli artisti, solo in direzione dell'École de Paris ma piuttosto verso la Vienna di G. Klimt o di E. Schiele oppure verso la Monaco di F. von Stuck. La diffusione del collezionismo degli impressionisti è fatto isolato, ma d'altra parte le notizie sul cubismo e sui suoi protagonisti incidono quasi subito sulla nostra situazione anche grazie alla grande apertura europea del movimento futurista (Futurismo 1986). D'altro canto proprio i futuristi negano il museo in quanto struttura, e quindi neppure loro vengono accolti nelle poche pubbliche raccolte allora esistenti. Su questa situazione, che viene in sostanza guidata dall'attenzione critica di pochi privati e di alcuni galleristi, si inserisce la dittatura fascista, che progressivamente si viene impadronendo di tutti i poli della cultura.

Quando nel 1922 Mussolini prende il potere, il primo Futurismo è tramontato; ma neppure la Metafisica, come del resto il primo G. de Chirico delle Piazze d'Italia, paiono interessare la gerarchia che viene costruendosi una propria immagine attraverso un movimento, il Novecento, e la sua teorica, M. Sarfatti. La linea ufficiale dell'arte fascista sarà quella del ritorno a uno stile 'all'antica', evocativo del mondo romano ma anche della pittura rinascimentale, anche se una parte dei pittori che al Novecento si collegano ricerca più indietro le proprie matrici, nella pittura tre e quattrocentesca, come C. Carrà o M. Sironi, e anche nell'arte egizia e assira, come M. Campigli. E la committenza pubblica fascista, accogliendo questi modelli, impiega gli artisti, pittori, scultori, architetti, in grandi imprese, dall'università di Padova al Palazzo di Giustizia di Milano, dall'università di Roma fino all'E42 (oggi EUR) che è l'ultima opera lasciata incompiuta dal regime, dove comunque gli artisti narrano secondo stili legati a un immediato senso del racconto, a un'evidente leggibilità dei sistemi simbolici e alla chiara funzione politica delle immagini. Anche le mostre, come la Quadriennale di Roma, premiano queste opere, che vengono acquistate da raccolte pubbliche e musei; poco tuttavia ne è rimasto, perché la gran parte è stata distrutta dopo la fine della dittatura. Di contro a questa linea e a questo sistema esiste in Italia, in epoca fascista, una cultura diversa, che si collega più strettamente all'insegnamento idealista, alla "religione della libertà" di cui scrive B. Croce, e che suggerisce all'arte di essere pura, quindi non dipendente dal mondo dell'economia o da quello dell'etica, e dunque non legata alla prassi ma alla teoresi. Protagonisti di questa ricerca saranno molti artisti che in parte si sono anche collegati alla prima fase di Novecento e che vivranno poi isolati, come G. Morandi, e altri ancora che, giovani, sentiranno la necessità di una profonda trasformazione. Il sistema fascista cerca di recuperare questi giovani e offre loro degli spazi, come quelli del Premio Bergamo promosso dal ministro G. Bottai e aperto appunto alle nuove ricerche; mentre d'altra parte il Premio Cremona, tutelato da R. Farinacci, rappresenta la tradizione più gretta dell'ufficialità e impone ai partecipanti di tradurre in immagine i temi prefigurati dal regime. A Bergamo invece si premia la Crocefissione (1941) di R. Guttuso, che si pone in relazione con l'arte di Cranach e Dix, Picasso e Schiele, considerata dai nazi-fascisti arte degenerata.

In Italia quindi il peso e l'informazione del nuovo non sono mediati dalla cultura ufficiale ma dal privato: collezionisti come A. Della Ragione a Genova, R. Gualino a Torino, R. Jucker, E. Jesi, G. Mattioli a Milano reggono, assieme a pochi altri, la situazione dell'arte. E gli artisti, molti pittori ma anche scultori, si collegano nel movimento di Corrente (1938-40) mentre a Milano la galleria Il Milione, dal 1930, si occupa di tenere vivo l'interesse per la pittura astratta, e in primo luogo per gli artisti del Bauhaus, facendo conoscere la cultura europea ai massimi livelli e creando un collezionismo emarginato dall'ufficialità ma importantissimo. Diverso il caso dell'architettura perché gli innovatori in questo ambito, da G. Terragni a I. Gardella, da L. Figini a G. Pollini al BBPR (Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers), avranno modo di informarsi sul nuovo senza troppe difficoltà e di costruire per il regime fascista opere di grande rilievo. Dunque la pressione del regime influisce sulla gran parte delle giovani forze dell'arte o le emargina: l'isolamento di G. Morandi, di F. De Pisis e altri, e inoltre dei giovani artisti come E. Morlotti, R. Guttuso, R. Birolli, G. Migneco, E. Vedova, G. Manzù, determina l'esclusione anche della nostra arte più alta dal contesto europeo. Per tutte queste ragioni il collezionismo fra le due guerre è impresa difficile, anzi pericolosa proprio perché si contrappone alla cultura ufficiale. Dopo la caduta del regime fascista, la distruzione delle opere del regime, anche quelle di Sironi, di Campigli o di Carrà che non avrebbero meritato questa sorte, determina un ulteriore impoverimento delle testimonianze artistiche del periodo.

E così nel dopoguerra il paese, semidistrutto, si trova di fatto senza gallerie d'arte moderna, salvo pochi casi: quella di Roma, che di moderno, oltre alle opere fasciste, non ha che il nome, visto che i suoi nuclei maggiori chiudono a fine Ottocento o poco oltre, con nomi come quello di G. Chini; Ca' Pesaro, con il suo dialogo non sempre felice con la Biennale di Venezia, visto che si lascia sfuggire le più ghiotte occasioni di acquisto; alcuni nuclei delle c. civiche milanesi, con in particolare il gruppo del divisionismo lombardo; le raccolte civiche torinesi, ricche soprattutto di pittura ottocentesca.

Una programmazione culturale corretta su scala nazionale avrebbe dovuto portare il paese quantomeno a recuperare, come in parte accade in Germania, lo spazio culturale perduto: viceversa, si lasciano migrare negli USA i capolavori del movimento futurista, da Boccioni a Carrà a Balla, e non solo i quadri ma anche centinaia di disegni, e poi le fotografie per es. di A.G. Bragaglia, e questo perché si identifica il primo Futurismo - che finisce con la scomparsa di Boccioni (1916) e dunque ben prima del fascismo con cui nulla ha a che spartire - con il secondo Futurismo strettamente legato al regime. Nonostante la grande apertura verso il nuovo delle Biennali di Venezia del dopoguerra, i nostri musei non acquistano le opere importanti della École de Paris che pure sono esposte; insomma poco giunge a integrare il patrimonio delle nostre c. e neppure i privati mostrano di volere o potere fare acquisti rilevanti. Tuttavia si inizia a percepire un nuovo atteggiamento da parte delle istituzioni, come a Torino dove, con l'apertura della nuova sede (1959) della Galleria civica d'arte moderna, oltre alla pittura ottocentesca, grazie a donazioni, si espongono importanti opere del 20° secolo. Soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta inizia una politica di incremento delle c. attraverso donazioni e acquisti, che vede crescere notevolmente la Galleria nazionale d'arte moderna di Roma dove si espongono opere dei maggiori pittori della generazione di M. Mafai e di quella dei più giovani, grazie all'impegno di P. Bucarelli, direttrice della galleria dal 1945 al 1975, e di studiosi come G.C. Argan. Si acquistano pezzi importanti, si dà maggiore spazio agli italiani, secondo una politica che viene proseguita anche dai successivi soprintendenti (I. Faldi, G. De Marchis, D. Durbé, E. Gaudioso, A. Monferini, S. Pinto), con le importanti donazioni Guttuso, Balla e De Chirico e quella più recente di A. Schwarz (1997) con una serie di significative opere dada; chiude il ciclo degli incrementi della pinacoteca romana ancora la Bucarelli che lascia erede (1998) il 'suo' museo di numerosi quadri di sua proprietà, tutti importantissimi, fra cui notevoli dipinti di J. Fautrier.

La storia delle donazioni, e dunque del collezionismo, a Milano è davvero amara; mentre alle civiche raccolte d'arte giunge (1973-74) un dono imponente, la raccolta A. Boschi, ricca di opere futuriste e di importanti quadri del Novecento, le c. private che hanno più pesato fra le due guerre - le raccolte G. Mattioli, R. e M. Jucker ed E. Jesi - restano senza una pubblica destinazione; il patrimonio che in esse si concentra è enorme, centinaia di dipinti di qualità altissima che fanno la storia dell'arte contemporanea nel nostro paese e in Europa: quadri del primo Morandi e di Carrà futurista, di Boccioni e di Balla, di De Pisis, di Sironi, di Campigli, ma anche di A. Modigliani e di A. Soffici, senza contare una serie di capolavori impressionisti e postimpressionisti, e ancora opere delle avanguardie tedesche, russe, francesi. Le c. Jucker, Jesi, Mattioli, che parevano assicurate allo Stato grazie soprattutto all'impegno di F. Russoli, direttore della Pinacoteca di Brera, causa le difficoltà burocratiche e di realizzazione dell'ampliamento della Pinacoteca di Brera a Palazzo Citterio, e certo per la morte prematura dello studioso (1977), non vengono donate all'istituzione; o meglio arriva solo la c. Jesi (1976), mentre la raccolta Mattioli - ma solo una sua ridotta sezione, poche decine di pezzi splendidi - viene depositata (1997) a Venezia presso la raccolta Guggenheim.

La geografia delle c. private si riorganizza, e per es. giunge a Firenze (1970), in uno spazio appositamente allestito a piazza della Signoria, la c. Della Ragione, con opere di rilievo del periodo fra le due guerre e soprattutto del gruppo di Corrente.

Il bilancio delle donazioni e del collezionismo nel periodo postbellico potrebbe anche chiudere qui perché in Italia si viene sviluppando, fra 1945 e 1948, una singolare politicizzazione dell'arte e della critica, un confronto che impone ai singoli comuni, alle singole amministrazioni, interventi legati alle diverse ideologie che si contrappongono. La politica delle Kunsthallen che abbiamo visto svilupparsi in Germania e in Austria, con particolare impegno volto alla produzione di grandi rassegne di valore internazionale, si banalizza spesso nell'organizzazione di mostre locali poco significative, mentre sono lasciati al caso la gestione e l'incremento delle poche strutture museali volte a documentare il contemporaneo. In Italia, dopo lunga chiusura (1981-92), ha riaperto con la nuova denominazione la Galleria civica d'arte moderna e contemporanea di Torino; Palazzo Reale a Milano è (1998) parzialmente chiuso e non espone se non una minima parte delle c. pur rilevanti; Brera ha esposto le opere Jucker ma sembra non avere possibilità di recuperare le grandi raccolte milanesi migrate altrove; Ca' Pesaro a Venezia non incrementa da tempo in modo significativo le proprie raccolte che pure, con la Biennale, avrebbero potuto essere documento importante di un secolo di arte contemporanea; la Galleria Civica di Bologna è in fase di ristrutturazione: dopo aver subito il furto di importanti pezzi di Wols e Pollock fatti acquistare da F. Arcangeli alle Biennali di Venezia, solo ora riprende a incrementare le c., pur avendo avuto diverse donazioni di artisti, tra cui spiccano quelle delle sorelle Morandi destinate a costituire il Museo Morandi a Palazzo d'Accursio (1993); il museo di Capodimonte a Napoli possiede un grande Cretto di A. Burri e poche altre opere di Arte povera.

Anche le istituzioni private, come la Fondazione Burri a Città di Castello, con il palazzo Albizzini che espone le opere dell'artista e gli ex seccatoi del tabacco per i suoi cicli maggiori, o come le fondazioni L. Fontana e A. Pomodoro a Milano, devono affrontare notevoli difficoltà per mantenere il proprio sistema senza intaccarne il capitale, costituito dalle stesse opere d'arte.

Le c. di un nuovo museo, quello di Prato, attento alle varie espressioni dell'arte concettuale e ai neo-espressionisti, sono ancora limitate, mentre il Castello di Rivoli sembra per adesso riprendere il tipo delle Kunsthallen piuttosto che promuovere lo sviluppo della propria collezione.

Un'istituzione privata che ha fatto di Venezia un polo della cultura a livello internazionale è la Fondazione di Palazzo Grassi, con le sue mostre d'arte antica e contemporanea. Nell'edificio sul Canal Grande, reso funzionale dall'efficace intervento di G. Aulenti, la Fondazione, sotto la direzione colta e di grande capacità manageriale di P. Viti, ha subito imposto un nuovo modello: mostre pensate appositamente da uno staff organizzativo stabile e con la consulenza di specialisti italiani e stranieri; una programmazione pluriennale e allestimenti e apparati efficaci e particolarmente curati; prestiti di opere ai massimi livelli qualitativi. A questo impegno ha risposto il pubblico con una partecipazione eccezionale. Il modello è comunque ineguagliato anche da strutture di forte richiamo come il Palazzo Te di Mantova, diretto da R. Zorzi.

Si deve inoltre dire che in Italia la specializzazione delle raccolte caratterizza il collezionismo, per cui chi raccoglie dipinti e sculture esclude dai propri interessi design, fotografia, progetto architettonico. Attenzione alla fotografia hanno avuto O. Ferrari al Gabinetto fotografico nazionale e M. Miraglia alla Calcografia nazionale, sebbene l'incremento delle raccolte, con donazioni o acquisti, per es. delle fotografie del conte Primoli e di altri importanti nuclei di immagini, non abbia portato a una struttura museale a carattere nazionale specializzata in storia della fotografia. L'acquisto da parte di un gruppo privato delle lastre Alinari, Brogi, Anderson a Firenze e di alcuni altri nuclei, ha suggerito di trasformare l'impresa originaria, nata per rivendere riproduzioni di opere d'arte conservate nei musei italiani e stranieri, in un museo di storia della fotografia dove si raccolgono materiali storici; peraltro, lo scopo dell'impresa resta commerciale.

Nell'ambito dell'architettura, il trasferimento dei progetti per l'E42 presso l'Archivio centrale dello Stato a Roma ha creato, in un'istituzione pubblica, un fondo di disegni d'architettura di grande importanza. Altri disegni di architettura sono conservati in maniera frammentaria, così come le fotografie, presso biblioteche civiche, oppure presso le facoltà di Architettura di Torino, di Venezia, di Firenze; si tratta spesso di qualche migliaio di pezzi, tutti pervenuti per donazione, e che senza strutture adeguate presentano spesso problemi di conservazione, di salvaguardia e di tutela.

Il modello tradizionale della separatezza dei generi è stato negato, nel sistema museale italiano, dal CSAC dell'università di Parma che raccoglie, in sezioni diverse ma collegate (arte, media, progetto, fotografia, spettacolo), le maggiori c. italiane di fotografia, disegno di architettura e design e grafica, disegno di moda, disegno di illustrazione, satira politica, manifesto, oltre a numerosissimi disegni, quadri e sculture dagli anni Trenta a oggi. L'idea delle raccolte è di riunire e di proporre quindi al pubblico l'insieme dei documenti storici della comunicazione nella società contemporanea. A parte l'acquisto di alcuni archivi fotografici, tutte le opere sono state raccolte grazie alle donazioni di progettisti, fotografi, artisti e stilisti di moda.

L'organizzazione di un sistema di c. pubbliche che siano volte a documentare la storia dei diversi media è stata frenata, in Italia, soprattutto a causa di un diffuso atteggiamento culturale che ha sempre privilegiato la pittura e la scultura considerate come oggetti di collezionismo; d'altra parte la raccolta di mezzi espressivi diversi, dal progetto architettonico al design, dalla fotografia all'illustrazione, dal fumetto al manifesto, è ormai compromessa in quanto la gran parte dei materiali è andata dispersa fra privati e all'estero, oppure distrutta per incuria.

Il problema del collezionismo in Italia non sarebbe correttamente analizzato se non si prendesse in considerazione il nesso fra due sistemi, le gallerie private e le case d'asta. Le gallerie private rivolte alla tradizione dell'arte europea avevano, in epoca fascista, una vita assai difficile, al contrario di quelle collegate all'arte ufficiale. Nel dopoguerra le gallerie italiane si sono dovute confrontare prima di tutto col mercato internazionale e con l'École de Paris, che ha monopolizzato le vendite ad alto livello fino agli inizi degli anni Sessanta, quando la Pop Art americana molto più dell'Espressionismo astratto ha invaso l'Europa e ha cominciato a essere accolta nei musei, soprattutto tedeschi. Da noi la pittura francese, inglese, tedesca, statunitense, austriaca, non è stata collezionata nei musei se non a livello puramente simbolico con opere marginali, ma alcuni collezionisti hanno portato avanti in questo senso la loro appassionata ricerca. Ecco dunque che, attraverso alcune gallerie, ma anche grazie a una serie di mostre organizzate da istituzioni pubbliche, come quelle promosse da F. Russoli a Milano o da L. Carluccio a Torino, è cresciuto un collezionismo rivolto all'arte inglese, di Moore, Bacon e Sutherland; si acquistano R. Guttuso, E. Morlotti, R. Birolli, Afro, E. Vedova sopra tutti, con collezionisti nettamente divisi fra pittori del realismo e pittori non legati a quella ideologia. Anche gli scultori, da P. Consagra a G. Manzù ad A. Pomodoro, trovano raccoglitori appassionati. Fra gli artisti italiani però pochi trovano consenso a livello internazionale, Vedova e A. Pomodoro più di altri. È con l'Arte povera che l'Italia vede alcuni suoi artisti imporsi fuori dei confini per la prima volta dal tempo dei futuristi e del De Chirico metafisico. La ragione sta soprattutto nello stretto rapporto fra gallerie italiane, gallerie statunitensi e musei europei. Lo stesso tipo di operazione collegata a livello internazionale agli stessi attori, salvo qualche cambio fra i critici di riferimento, viene condotta per la Transavanguardia.

Si evidenzia a questo punto un problema, che riguarda le gallerie con il loro patrimonio di opere, le case d'asta e il valore del capitale accumulato, e che nasce da una flessione dei prezzi di vendita delle opere non solo in genere di tutta l'arte contemporanea di ricerca ma, molto più accentuatamente, di gran parte degli artisti dell'Arte povera e di quelli della Transavanguardia: quotazioni altissime rispetto alla prima comparsa di tali opere sul mercato e quasi di colpo, nel passaggio fra anni Ottanta e Novanta, abbassate. Tra i collezionisti così come nelle istituzioni si diffonde il dubbio che un sistema di mercato pilotato non sia sempre affidabile; si ritorna ai pittori dell'École de Paris, alla pittura più tradizionale, ai maestri, all'arte delle prime avanguardie. I galleristi che avevano puntato sull'arte giovane, come Liverani e quindi Sargentini a Roma, Ghiringhelli, Lorenzelli e Marconi a Milano e pochi altri, hanno conservato solo in parte i propri magazzini, e dunque le opere di M. Schifano e F. Angeli, T. Festa e M. Ceroli sono state spesso disperse; e ancora quelle di R. Canogar e M. Millares per non parlare di C. Permeke e di J. Fautrier; come tante dei primi astrattisti che sono andate svendute a cominciare da A. Soldati, L. Veronesi e F. Melotti fino a L. Fontana e a O. Licini; come quelle della Pop Art inglese che non ha avuto la stessa fortuna di quella statunitense, o quelle di E. Tadini, L. Del Pezzo, G. Pardi. Eppure molto ancora si potrebbe fare, chiedendo ai galleristi di vendere agli enti pubblici le opere degli artisti da loro in passato o ancora oggi tutelati.

Per quanto riguarda le case d'asta si devono in primo luogo distinguere i diversi tipi. Quelle legate a trustees internazionali che hanno sedi pure in Italia, come Sotheby's o Christie's, che puntano sulla vendita soprattutto in Italia d'arte antica e che di fatto, pur con ribassi e rallentamenti delle vendite negli anni Novanta, non hanno mai visto gravi crisi di mercato, e tantomeno crisi dei prezzi per le opere di qualità; le case d'asta che invece puntano sull'arte contemporanea, fra cui la Finarte, dipendono dal mercato internazionale per la valutazione delle opere straniere, anche se quelle importanti di norma non si battono da noi, e per il mercato italiano gestiscono un sistema minore che, fuori dei confini, non trova valutazioni corrispondenti a quelle italiane. Dunque è sempre indispensabile per gran parte dell'arte italiana un preciso sostegno dei prezzi, che sono al ribasso in questa fase di disinvestimento di molti collezionisti istituzionali, banche per es., o imprese assicurative, come capita del resto anche in Inghilterra. Quando si passa dalle aste di ditte consolidate alle aste di provincia, o a quelle nei luoghi di villeggiatura, si rischia di trovarsi davanti a vere e proprie ipervalutazioni, se non a opere non garantite e persino false. In questa situazione il collezionismo che muove anche dalle aste, quello che potrebbe alimentare l'interesse di un pubblico più vasto, non si diffonde, anche se ormai vanno in asta oggetti di ogni tipo, mobili, arredi, manifesti, dal periodo Jugend in poi, ma prevalentemente di pittura e scultura dato che il disegno, salvo che per i grandissimi artisti, non ha mercato.

Quanto ai grandi collezionisti, che sono in Italia solo alcune decine, essi acquistano prevalentemente all'estero, dagli artisti stessi o dalle grandi gallerie internazionali, e chiudono le opere spesso nelle proprie case fuori dei nostri confini, al riparo da problemi di importazione o esportazione e da tasse sul capitale. La vendita o la donazione delle nostre raccolte d'arte contemporanea è un fatto consueto, favorito anche dalla vigente legge sull'esportazione, che non tutela le opere degli ultimi cinquant'anni: della c. Panza di Biumo è rimasta in Italia solo una minima parte (nella villa di Biumo presso Varese, donata al Fondo per l'ambiente italiano nel 1996), mentre le opere di maggior valore - gli espressionisti astratti, la Pop Art, e tanti altri pezzi di grande interesse - sono da tempo negli USA (Museum of Contemporary Art di Los Angeles, 1983 e 1993; Solomon R. Guggenheim Museum di New York, 1990-92) e in Svizzera (Museo cantonale d'arte di Lugano, 1994-95); incerta è la sorte di molte altre c., come la già citata raccolta Mattioli, o dei bellissimi Bacon e Morlotti della raccolta Ponti-Loren.

Ma non serve elencare le mancate occasioni, e tantomeno le esportazioni di intere raccolte, semmai sarà indispensabile trarre un bilancio dall'analisi che, sull'Italia, è stata di necessità alquanto più ampia. L'Italia, con la Spagna, si trova in una situazione enormemente più difficile rispetto alle altre nazioni europee come la Francia, l'Inghilterra, la Germania, anche perché solo un investimento imponente da parte dello Stato, volto per es. ad acquistare le c. private di dipinti ancora esistenti e ad acquisire opere presso i maggiori galleristi che ancora le conservano, potrà servire a documentare la storia della pittura dagli inizi del 20° secolo a oggi nel nostro paese, creando una rete di musei nuovi.

La riflessione sul periodo più recente del collezionismo ha imposto alcune conclusioni: non esiste collezionismo se non in relazione al museo, sia perché tutti i musei nascono da singole c. e da successive donazioni o acquisti di singole raccolte, sia perché il sistema del privato non può certo essere distinto dal collezionismo pubblico, e tantomeno la sponsorizzazione può essere distinta dall'insieme degli interessi delle gallerie private o, più ancora, da quelli delle banche che capitalizzano nell'arte moderna.

Ma il periodico emergere di gruppi di artisti che poi rapidamente tramontano, va riconsiderato. È agevole l'analisi delle operazioni commerciali condotte entro questo sistema, che strettamente collega artisti, critici, galleristi, musei pubblici, collezionisti e finanziatori: dopo l'Espressionismo astratto, che non ha avuto un solo polo di gallerie, di critici e di musei e un solo sistema portante, esce sul mercato dell'arte la Pop Art, che viene abilmente imposta in Europa e negli USA da un raffinato mercante triestino con galleria a New York, L. Castelli, alla quale seguiranno, si è detto, Arte povera e Transavanguardia; i critici che hanno appoggiato queste correnti sono diversi, spesso diversi anche da paese a paese pur in presenza delle stesse opere e della stessa fase di ricerca del gruppo. Il meccanismo è il medesimo: imporre un fenomeno, un nuovo gruppo di artisti legato a un preciso trust, presentando gli artisti stessi dalla prima fase, di scoperta - in USA oppure in Italia o in Germania non importa -, alle manifestazioni in grandi gallerie, poi in musei di solito tedeschi, poi americani, fino a imporli a livello internazionale. Il collezionismo delle gallerie appare sempre determinante perché, da New York all'Europa, esse tendono ad acquistare in esclusiva la produzione di un artista per monopolizzarne il prezzo. Le grandi gallerie, come Marlborough, Maeght, Castelli, Pierre Matisse, e altre ancora, traversano in genere le varie capitali dell'arte e impongono modelli ai collezionisti ma soprattutto alle imprese o alle banche che acquistano le opere come investimento. Le aste, considerate quasi sempre come luoghi di riferimento per i prezzi, sono anch'esse controllate, e solo se la maggior parte della produzione di un artista è gestita da un trust, si potrà dimostrare ai clienti una costante crescita dei valori e avere la fiducia degli investitori privati, che diversamente dal collezionista del passato sono degli investitori in beni. Tutto questo comporta non il libero mercato ma una situazione di continuo controllo delle opere e degli artisti, che devono avere una produzione stabile e riconoscibile. Dunque la rarità delle opere d'arte costruisce il collezionismo e gli investimenti determinano il livello del collezionismo stesso. Ebbene, questa situazione, già chiara in tutto il mondo negli anni fra le due guerre e soprattutto nel dopoguerra, determina anche un giudizio diverso sulle funzioni delle altre strutture legate alla diffusione dell'arte contemporanea.

Il museo, luogo simbolico della cultura, luogo di formazione degli artisti al tempo delle diverse accademie, ha perso oggi questa funzione. Visitato velocemente da torme di turisti che ricercano opere-simbolo per rivolgersi poi ad altri luoghi, ad altri oggetti-feticcio, il museo non è più lo spazio della riflessione, lo spazio della meditazione sulla storia e sulla cultura. L'accostarsi alle opere d'arte ha ormai un sapore diverso: sono da apprezzare perché conservate nel museo.

Il collezionista era un tempo un dialogante, un attore con un suo preciso ruolo nella storia degli artisti; si pensi ai mercanti degli impressionisti, ad A. Vollard (1867-1939), alle vicende delle gallerie che hanno promosso le avanguardie, dal Futurismo al Blauer Reiter al Cubismo. Tutti i mercanti delle passate generazioni sono stati protagonisti nel rapporto con gli artisti da una parte e con i collezionisti dall'altra, ma adesso la situazione è cambiata. I galleristi sono collegati a trustees, a banche, poiché per dominare il mercato servono enormi capitali; non dialogano con i collezionisti, e così artisti e collezionisti ormai quasi non si conoscono, e le opere troppe volte sono acquistate dalle banche o finiscono nei caveaux prima che qualche museo, di solito in ritardo, ne acquisti qualcuna a prezzi sempre troppo alti.

Il critico era un'altra figura determinante nel panorama della cultura, dal quale poteva dipendere il successo o il rifiuto, nei Salons francesi, delle novità degli artisti rivoluzionari. Il critico ha avuto ancora, in tempo fascista in Italia, una funzione essenziale, ha aperto nuove strade ai giovani, ha portato avanti una protesta soprattutto civile, ha sposato la religione crociana della libertà prima di aderire alle ideologie contrapposte del dopoguerra. Ma il critico legato al moderno sistema dell'arte è spesso un esecutore ben pagato: inventa le formule che vengono pubblicizzate ma deve mantenere fede nel tempo a una linea che è quella di enormi investimenti, che deve per sua parte proteggere; alla fine quel critico rischia di essere un retore, nella migliore delle ipotesi in buona fede, che ripete nel tempo lo stesso concetto, vincolato allo schema interpretativo iniziale da lui fornito come lo sono gli artisti.

Da tale esame è evidente una profonda crisi del nostro sistema; il museo, che appare come una struttura vitale, è sede invece di un processo di fruizione che dal contemporaneo proietta i propri distorti modelli sull'antico. Si tratta di una frattura totale con la cultura che, già dal Duecento, imponeva la funzione didattica dell'arte, oggi apparentemente perduta: l'arte è isolata dal contesto, separata da architettura, design, pubblicità, manifesto, da ogni forma di comunicazione se non quella elitaria ben chiusa nei luoghi deputati. L'arte, sia quella del passato che quella a noi contemporanea, non deve raccontare ma deve essere ammirata, adorata, accettata, ricordata; è sempre, dunque, un'immagine-feticcio. Lo dimostra l'uso che se ne fa, il suo essere scambiata come merce, la distanza degli artisti dai compratori e dei critici dagli artisti stessi, e lo dimostra più di tutto la sua intercambiabilità.

Il collezionista che dovesse donare al museo o a una fondazione gli oggetti che ha raccolto e gelosamente conservato lo farà per far durare nel tempo la propria memoria. Ma il collezionismo antico, e fino al secolo 19°, era racconto di una passione e di una cultura, era racconto di lunghe battaglie vinte contro altri modelli di esperienza del mondo, era la lotta della consapevolezza, della coscienza contro altre ideologie, egualmente consapevoli, ma antagoniste. Oggi l'arte non è più politica, non è più ideologia, è investimento e, in quanto tale, deve essere conservata. Lo stravolgimento totale dei modelli antichi del collezionare e del fruire l'arte, e quindi anche del valutare la funzione dell'artista, finisce per annullare proprio l'artista: ciò che conta sono le opere, l'identificazione nelle opere, non la storia dell'artista che alle formule deve rimanere fedele per essere subito identificabile. Chi cambia modelli non solo mette in crisi il mercato perché perde l'identificabilità feticistica attraverso le opere, ma viola la possibile venerazione della sua opera da parte del pubblico che non la riconosce. E in questo contesto l'artista perde la propria funzione e la propria personalità. Dunque l'arte oggi è feticcio e reliquia che, come nelle cattedrali e nelle abbazie medievali, viene proposta per essere riconosciuta, identificata, non certo capita. I collezionisti sono coloro che a volte venerano queste reliquie, ma altre volte ne fanno mercato, come i banchieri, i finanziatori dell'arte, oltre ai galleristi.

La crisi del museo nasce dall'assenza di una meditazione e di una comprensione reale delle opere, da un approccio frettoloso e superficiale incentivato dal turismo di massa. La crisi dell'arte contemporanea nasce dall'idea che l'arte sia un segno immediatamente comprensibile a tutti, e la crisi del collezionismo nasce anche da questo; tramontano insomma gli amateurs dell'arte e trionfano i trustees per investimenti.

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