COLONIA

Enciclopedia Italiana (1931)

COLONIA (lat. colonia; fr. colonie; sp. colonia, provincia de ultramar; ted. Kolonie, Schutzgebiet; ingl. colony)

Umberto BORSI
Luigi PICCINATO
Gaetano FRICCHIONE

Colonia ha significato originariamente quel nucleo di popolazione civile stabilitasi in territorio disabitato, o abitato da barbari o semibarbari, per coltivarlo e metterlo in valore e per avviare gl'indigeni a maggiore o nuova civiltà; oggi come colonia non si considera più il solo gruppo dei coloni, bensì il paese dai coloni occupato e coltivato, con la sua popolazione complessiva, compresi gl'indigeni. Così, almeno, quando si abbia riguardo alle colonie di dominio diretto, o politiche, o statali, che differiscono profondamente dalle cosiddette colonie libere o etniche o sociali costituite da gruppi di popolazione spontaneamente e stabilmente immigrati in uno stato diverso da quello d'origine a scopo di lavoro o di commercio.

Dalle colonie vere e proprie si debbono tenere distinte le colonie militari e le colonie penali. Le prime sono basi o stazioni militari o navali costituite in località scelte con criterio strategico a notevole distanza dal nucleo centrale dello stato (Gibilterra, Malta, ecc.). I problemi sociali della colonizzazione non riguardano però tali basi e gli stati che le creano si preoccupano quasi esclusivamente della loro efficienza militare. Analoga considerazione si deve fare riguardo alle colonie penali, la cui qualità essenziale di istituzioni punitive prevale di gran lunga su ogni altra (v. penitenziari, sistemi).

Il fondamentale elemento individuativo della coloriia è politico-giuridico e si basa sul rapporto che passa fra lo stato nel suo insieme e una parte della popolazione e del territorio ad esso pertinente. Tale elemento si adagia su un particolare substrato geografico, etnico ed economico, senza il quale non avrebbe né salda consistenza, né possibilità di durata, ma non va confuso con i singoli fattori di questo. Lo stato colonizzatore, provvedendo all'ordinamento e al governo della colonia, deve tenere conto di questi varî fattori, ma può anche errare circa l'apprezzamento e persino circa il rilievo di alcuno di essi senza che il paese al quale sia stato dato un assetto coloniale perda perciò il carattere di colonia.

La colonia può definirsi come una parte dello stato connessa col nucleo centrale (madrepatria) posteriormente, di solito, alla formazione del medesimo e dotata d'un ordinamento giuridico ispirato alla specialità dei suoi caratteri materiali e all'indole della sua connessione. Tale è il concetto proprio, ma se si vogliano abbracciare tutte le forme d' espansione coloniale occorre ampliarne la configurazione e ammettere accanto alle colonie proprie varie specie di colonie improprie che saranno indicate nell'esporre la classificazione giuridica. La colonia propria non costituisce uno stato; tuttavia, se dotata di un governo reputato libero, può venire considerata soggetto di diritto internazionale. Non può invece dirsi in modo generico se abbia carattere di ente autarchico territoriale, dipendendo ciò dalla particolarità del suo ordinamento giuridico. In proposito è necessario avvertire che la costituzione, nelle colonie più evolute, di enti autarchici con fini varî di pubblica utilità, oggi assai frequente, non è autarchia dell'ente colonia. Quanto alla personalità di diritto privato, neppur essa è da considerare caratteristica costante della colonia.

La personalità giuridica è ora espressamente riconosciuta dall'art. 15 della legge organica 26 giugno 1927, n. 1013 alla Tripolitania e alla Cirenaica ed è da ritenere che sussista anche nelle altre colonie italiane.

Classificazione. - Delle colonie si sono fatte in dottrina molte classificazioni. Lasciando in disparte quelle delineate in base alla qualità degli elementi naturali, come ad esempio in base alla zona geografica e al clima, o in base al tipo della razza indigena, si debbono menzionare la classificazione economica, quella politica e quella giuridica.

La classificazione economica, che è indubbiamente la più diffusa, non è da tutti formulata in ugual modo. Più largamente accolta è la formulazione di essa che divide le colonie in colonie di popolamento, colonie di sfruttamento (dette anche di valorizzazione, o di piantagione, o di dissodamento) e colonie commerciali. La classificazione politica, anche essa molto diffusa, riguarda il regime di governo al quale la colonia è sottoposta, distinto in regime di soggezione (o, come più spesso si dice, di assoggettamento), di assimilazione e di autonomia, e, secondo taluno, anche di associazione, mentre, secondo altri, l'associazione, cioè l'ammissione degl'indigeni alla collaborazione politico-amministrativa in colonia, non costituisce che un metodo di avviamento all'assimilazione. Il regime oggi prevalente è quello dell'assimilazione e dell'associazione. Della classificazione giuridica si può dire che non esista un tipo comunemente accolto. Prescindendo anche dal tentativo di basarla sulla diversità dei modi d' acquisto (conquista, occupazione e trattato), è facile comprendere come la sua delineazione si colleghi con la soluzione di questioni in parte assai gravi, come quelle della natura del protettorato coloniale, del mandato internazionale, della zona d'influenza, ecc. In una considerazione sintetica dell'argomento conviene distinguere fra colonie proprie (naturalmente sotto l'aspetto giuridico) e colonie improprie. Le proprie si possono suddistinguere in colonie a governo diretto, colonie a governo concessionario e colonie autonome: le prime rette da organi istituiti dalle autorità centrali dello stato, ancorché in parte con personale indigeno, le seconde amministrate dalle cosiddette compagnie coloniali (società commercialì investite dallo stato dei poteri necessarî, mediante atto di concessione o carta, donde il nome inglese di "chartered companies"), le ultime dotate di autolegislazione, sia pure con qualche limitazione di fronte al potere metropolitano, e di autarchia amministrativa e collegate con la madrepatria, soprattutto, con vincoli morali, politici ed economici. Secondo l'opinione comune, alle colonie autonome dovrebbero ascriversi i Dominions britannici, ma dopo la loro sottrazione alla dipendenza dal Colonial office, dopo la definizione datane dalla Conferenza imperiale del 1926 e il loro nuovo statuto, si può seriamente dubitare se non si debba ritenere ormai del tutto cessata la loro qualità di colonie. Fra le colonie improprie, contrariamente all'avviso di taluno, non si debbono comprendere le zone d'influenza e tanto meno le cosiddette zone d'interesse, o zone d'influenza economica potenziale in territorî soggetti all'altrui sovranità. La categoria delle colonie improprie risulta di specie assai diverse fra loro, il cui accomunamento nella classificazione non significa davvero assimilazione: fra esse, si possono ricordare alcuni territorî concessi in amministrazione (ad es., Cipro turca sotto amministrazione inglese dal 1878 al 1914), altri concessi in affitto (ad es., la zona italiana di Tien-tsin in Cina), i protettorati internazionali (ad es, la Tunisia sotto il protettorato francese) e specialmente i protettorati coloniali e la maggior parte dei paesi soggetti a mandato internazionale.

La natura giuridica del protettorato coloniale è stata vivamente discussa, ora avvicinandola a quella del protettorato internazionale, ora contrapponendola ad essa: l'opinione prevalente tiene nettamente separate le due specie di protettorato, ma, fondandosi sugli articoli 34 e 35 dell'atto finale della Conferenza di Berlino del 26 febbraio 1885, distingue altresi il protettorato coloniale dalla colonia propria, che presuppone l'occupazione del suo territorio da parte dello stato colonizzatore con adempimento di condizioni che non sono stabilite per l'acquisto del semplice protettorato. L'importanza pratica della questione si è ridotta in questi ultimi tempi per la diminuzione del numero dei protettorati: invece grande è oggi l'interesse alla definizione, oltre che dal punto di vista del diritto internazionale, da quello del diritto coloniale, dei mandati internazionali, contemplati nell'art. 22 del patto della Società delle nazioni e riguardanti il governo di territorî facenti parte, prima della guerra, dell'Impero ottomano e delle colonie tedesche. Non è semplice decidere quali fra questi territorî si debbano considerare colonie improprie e nei riguardi di quale soggetto si delinei il rapporto coloniale, ricollegandosi la questione al punto così vivamente discusso circa la pertinenza della sovranità sui territorî medesimi (v. mandato: Mandati internazionali).

Le colonie italiane. - Sono oggi la Tripolitania e la Cirenaica nell'Africa settentrionale; l'Eritrea e la Somalia (che comprende l'antico Benadir, gli ex-protettorati di Obbia e dei Migiurtini, il territorio di Nogal e l'Oltregiuba) nell'Africa orientale, le Isole dell'Egeo e la concessione di Tien-tsin in Asia. Evidentemente in quest'ultima non può raffigurarsi che una colonia impropria, mentre le Isole dell'Egeo, malgrado serî dubbî espressi circa il loro carattere coloniale (per il grado elevato di civiltà della popolazione, per la dipendenza della loro amministrazione da un ministero diverso da quello delle colonie, per la distinzione fra esse e le colonie fatta da alcune disposizioni del nostro diritto interno, ecc.), sembra a molti che possano essere ascritte fino dall'entrata iu vigore del trattato di Losanna (1924) fra le colonie proprie.

A capo di ciascuna delle colonie africane, nonché delle isole egee, è posto un governatore nominato con decreto reale su proposta del ministro delle Colonie (del ministro degli Esteri per le isole dell'Egeo), sentito il Consiglio dei ministri: esso ha alla propria dipendenza il personale civile e le forze militari. La Tripolitania e la Cirenaica hanno attualmente un governatore unico coadiuvato da un vicegovernatore. Il più alto funzionario civile è il segretario generale, che fra i suoi compiti ha quello di sostituire il governatore o il vicegovernatore assente o impedito; alle forze militari è preposto il comandante delle truppe che è il consulente del governatore nelle questioni militari, dispone delle forze terrestri e coordina l'impiego di esse e di quelle marittime e aeree. In ogni colonia esistono un ufficio di governo distinto in varie direzioni e uno o più organi consultivi. Il territorio delle colonie africane è diviso in circoscrizioni, la più importante delle quali è la regione, cui è preposto un commissario regionale: tanto in esse, quanto nelle isole egee si hanno anche enti municipali dotati d'una limitata autonomia. Di carattere municipale è poi l'amministrazione della concessione di Tien-tsin alla quale presiede un console italiano.

Il diritto coloniale. - Il diritto coloniale si distingue in diritto interno e diritto internazionale, ma, quando si parla di diritto coloniale senz'altro, si intende riferirsi al primo. Il diritto coloniale internazionale, che regola rapporti fra stati circa la loro attività coloniale attuale o futura, è uno dei rami del diritto internazionale relativo non soltanto a colonie vere e proprie, ma a qualunque specie di espansione coloniale che implichi esercizio di potere: così, ad esempio, l'atto finale della Conferenza di Berlino del 1885, che è una delle principali fonti di tale diritto, contempla anche il protettorato e l'art. 22 del patto della Società delle nazioni contempla i mandati internazionali, la maggior parte dei quali sono altresì mandati coloniali. Il diritto coloniale interno è l'insieme delle norme giuridiche riguardanti una colonia, poste dallo stato al quale questa appartiene, tanto se emanate dallo stato stesso, quanto se dal medesimo riconosciute. Il diritto indigeno riconosciuto è principalmente diritto privato, perché nei rapporti da questo regolati i mutamenti di regime si riflettono in modo meno diretto e non del tutto necessario.

Il diritto vigente nella madrepatria, se esteso alle colonie, non diviene coloniale, ma cessa d'essere metropolitano, non essendovi più ragione di distinguere secondo che si applichi nell'una o nell'altra parte dello stato; di diritto coloniale sono però tanto la norma estensiva, quanto le norme di adattamento che eventualmente l'accompagnino. Il diritto coloniale interno si distingue in pubblico e privato ed il primo, a sua volta, in amministrativo, penale e processuale; il secondo, a sua volta, si divide in civile e commerciale. A torto il diritto coloniale s'è detto da taluno diritto anomalo ed eccezionale: l'unità politica dello stato non esige e non produce necessariamente l'unità giuridica, onde è naturale che il diritto relativo alle colonie si plasmi secondo le particolari condizioni di ambiente, così come accade d'ogni altro diritto territoriale.

Le fonti del diritto coloniale internazionale sono le convenzioni e, in misura assai limitata, le consuetudini internazionali; le fonti del diritto coloniale interno sono gli atti normativi delle autorità centrali e delle autorità coloniali, le leggi indigene lasciate anche soltanto tacitamente in vigore, le consuetudini e, in alcune colonie, la giurisprudenza di certi tribunali.

La specialità dell'ambiente e della vita coloniale e la difficoltà della sua comprensione a distanza costituiscono una delle cause dell'ampiezza del potere normativo che, di solito, anche nei paesi nei quali è più larga l'attività del parlamento, spetta al governo, ma la causa principale non è d'ordine tecnico, sibbene d'ordine storico e politico e risiede nella considerazione d'inferiorità in passato avutasi per le colonie e nella esiguità del numero dei cittadini ivi residenti. Parrebbero fare eccezione i Dominions britannici dotati di parlamenti proprî, ma ormai può ritenersi che essi abbiano raggiunto tale grado d'indipendenza da non potersi più annoverare tra le colonie. La consuetudine è, di solito, nelle colonie fonte giuridica assai importante. Il campo nel quale maggiormente si afferma è quello del diritto privato, poiché lo stato colonizzatore spesso non ha ragione ed in ogni caso non ha convenienza di mutare radicalmente l'organizzazione locale della famiglia e della proprietà. Invece l'importanza che la consuetudine ha nel campo del diritto penale presso i popoli primitivi si attenua molto o cessa del tutto quando i paesi da questi abitati ricevono un ordinamento coloniale. La giurisprudenza spiega una funzione costitutiva di diritto coloniale e particolarmente di diritto indigeno soprattutto in due modi e cioè: con l'adattamento di tradizionali principî osservati come norme di vita sociale dalla popolazione locale a nuovi rapporti suscitati dall'azione colonizzatrice; e con la determinazione delle regole necessarie per assicurare la tutela dell'ordine pubblico, secondo la concezione metropolitana, nello svolgersi di costumi indigeni la cui modificazione non può essere che lenta e graduale. Del primo modo si ha esempio nella cosiddetta islamizzazione del diritto, cioè nell'adattamento di norme di diritto islamico a rapporti che, sebbene da questo non contemplati, si fanno apparire compresi entro la cerchia della sua disciplina, e del secondo modo si ha esempio nelle decisioni dei giudici dell'indigenato chiamati a reprimere fatti compiuti da indigeni, che nuocciono all'ordine politico o sociale della colonia, ma che o traggono origine da costumi tradizionali della razza, o per effetto dei medesimi lasciano temere maggiori sovvertimenti. Inoltre la giurisprudenza può essere fonte di diritto quando sia stabilito che il giudice debba con le sue decisioni fissare la norma che meglio disciplini i rapporti controversi apportando alle leggi quelle modificazioni che, se fosse stato legislatore, avrebbe adottato per regolare gli stessi rapporti di diritto.

Bibl.: Vastissima letteratura straniera, specialmente francese ed inglese. Opere italiane più notevoli: S. Romano, Corso di diritto coloniale, Roma 1918; G. Mondaini, Manuale di storia e legislazione coloniale del regno d'Italia, Roma 1924-27; A. Malvezzi, Elementi di diritto coloniale, padova 1928; E. Cucinotta, istituzione di dir. col. ital., Roma 1930; U. Borsi, Studi di diritto coloniale, I a V, in Studi senesi, 1917 e 1918; A. Mori, Il concetto giuridico di colonia e le sue recenti formulazioni nella dottrina giuridica italiana, Roma 1919; id., L'espansione coloniale moderna dal punto di vista giuridico, Roma 1918; I. Santangelo Spoto, s. v. Colonia, in Digesto italiano; E. Vita, s. v. Colonia, in Enciclopedia giuridica italiana; G. Mondaini, Le colonie ele popolazioni indigene, in Rivista italiana di sociologia, 1906; G. Schanzer, L'acquisto delle colonie e il diritto pubblico italiano, Roma 1912; G. Colonna di Cesarò, Le colonie, Roma 1915; P. Revelli, Manuale coloniale, Milano 1914; C. Cesari, Colonie e possedimenti coloniali, 4ª ed., Roma 1927; U. Borsi, I mandati internazionali in relazione alla classificazione giuridica delle colonie, in Studi di diritto pubblico e corporativo, 1928; id., La personalità giuridica delle colonie italiane, in Rendiconti della R. Acc. delle scienze di Bologna, 1930; E. Gianturco, Appunti di diritto pubblico coloniale, Napoli 1918; O. Fragola, Il diritto amministrativo coloniale, Napoli 1913; F. Arcoleo, Il problema coloniale nel diritto pubblico, Napoli 1914; A. Mori, Il presupposto e il concetto fondamentale del diritto coloniale, in Rivista coloniale, 1916; id., Manuale di legislazione della Colonia Eritrea, Roma 1914; C. Rossetti, Manuale di legislazione della Somalia italiana, Roma 1914: C. Conti Rossini, Principi di diritto consuetudiario dell'Eritrea, Roma 1916; E. Cerulli, Il diritto consuetudinario nella Somalia italiana settentrionale, Napoli 1919; M. Colucci, Principi di diritto consuetudinario della Somalia italiana meridionale, Firenze 1924; G. Mondaini, Il carattere di eccezionalità della storia e del diritto coloniale, in Rivista coloniale, 1907; M. D'Amelio, L'ordinamento giuridico della Colonia Eritrea con particolare riferimento alla materia penale, in Rivista penale, 1914; W. Caffarel, La legislazione dell'Eritrea, Novara 1913; G. Ciamarra, Conferenza di diritto coloniale, Roma 1909; id., La giustizia nella Somalia, Napoli 1914.

L'edilizia coloniale.

Il problema dell'edilizia coloniale è, oltre che architettonico, anche problema politico e psicologico: sono due civiltà, quella del colonizzatore e quella del colonizzato, che, venendo a contatto, sovrapponendosi e compenetrandosi, pongono in contrasto tutti i valori spirituali e pratici e quindi anche quelli dell'edilizia la quale, come sempre accade, riflette immediatamente l'intero conflitto.

Il primo esempio di edilizia coloniale, intesa come risultante delle diverse esigenze, si ha dalla colonizzazione spagnola e portoghese in America e va sotto il nome di mission style.

La grande epoca delle conquiste coloniali, cioè la seconda metà del secolo scorso, coincise invece con l'universale crisi artistico-architettonica del mondo occidentale; e l'eclettismo, che non aveva saputo creare delle architetture nazionali moderne, tanto meno fu capace di far sorgere un'edilizia coloniale. Fu anzi proprio l'espansione coloniale che contribuì efficacemente alla formazione di quell'ibridismo architettonico nel quale non mancano manifestazioni d'inverosimile esotismo.

Solamente oggi, con la tendenza ad una politica coloniale moderna e razionale che tenga in giusto conto anche i fattori spirituali oltre che quelli pratici, si cerca d'affrontare il problema dell'architettura nelle colonie da due diversi punti di vista, secondo che sia destinata a regioni abitate da popolazioni viventi allo stato semiselvaggio o del tutto primitivo ovvero debba svolgersi in paesi che possiedono o hanno posseduto una civiltà e una cultura spirituale notevoli anche se esse siano state e siano totalmente diverse da quelle del nostro mondo occidentale.

Ben semplice dovrebbe apparire nel primo dei due casi citati la soluzione del problema. Infatti in un ambiente assolutamente privo di tradizione e di carattere architettonico locale solo i dati tecnici del clima, del materiale costruttivo, della situazione geografica e metereologica possono consigliare e guidare l'edile nella trasformazione e nell'adattamento dell'architettura nazionale importata. In fondo ciò è avvenuto molto spontaneamente, per es., in molte colonie dell'Africa equatoriale e dell'Africa inglese nei riguardi dell'edilizia minore e della casa di abitazione. Il nessun costo dei terreni edificatorî, la necessità della massima semplicità costruttiva, l'opportunità di evitare per quanto possibile le servitù sociali delle abitazioni collettive ad appartamenti, hanno consigliato l'adozione dei cosiddetti bungalows. I quali sono abitazioni separate che dispongono tutti gli ambienti al solo piano terreno, costruite con materiale leggero e aperte verso l'esterno con logge, verande e portici. I primi bungalows venivano costruiti con legname o con pareti intelaiate e sovente si ricoprivano con semplice tetto di canne o di paglia. Oggidì si adoperano sovente per la loro costruzione materiali speciali, che servono a proteggere l'interno sia dal caldo sia dall'improvviso abbassamento della temperatura che si verifica nelle ore notturne.

Il tipo di abitazione a bungalow è in fondo il tipo di casa adottato quasi in tutte le zone avanzate di penetrazione coloniale. Lo troviamo, oltre che in Africa, anche nelle zone interne dell'India inglese e nelle grandi isole di Giava, Borneo, Sumatra, dove queste costruzioni semplici, senza grande pretesa ma sane, con il tetto a padiglione (necessario per difendersi dalla pioggia torrenziale e continua per parecchi mesi dell'anno), non turbano il paesaggio e concordano quasi con la linea delle capanne indigene con le quali dividono in fondo materiali e criterî costruttivi (figg. 1 e 2).

Nell'architettura maggiore invece, dove alla semplice funzione pratica si è voluto aggiungere un'espressione estetica, l'incertezza dell'eclettismo architettonico occidentale si rivela in pieno con tutti i suoi funesti effetti. Gl'Inglesi però in alcuni casi, come ad es. in qualche edificio di Città del Capo, seppero dar vita a un loro stile coloniale (colonial style) che, già diffuso nell'America del Nord e segnatamente nel Canada, colà aveva ricevuto durante le guerre coloniali del principio dello scorso secolo il suo nome di battesimo: trae esso le sue forme da una elaborazione del neoclassico nordico, reso ancor più semplice.

Ma all'opposto, in molti casi, come ad esempio in qualche colonia francese o italiana dell'Africa equatoriale, il colonizzatore importò delle forme architettoniche che non facevano affatto parte del suo patrimonio culturale ma erano derivate da altri popoli. Così lo stile arabo, trasformato secondo la banalità dell'architettura dello scorso secolo e dei primi decennî di questo, fu trapiantato in regioni alle quali esso era estraneo: ed elementi decorativi presi a prestito alla Persia, alla Turchia, all'India figurarono indifferentemente nello Zanzibar, nella Somalia, nell'Eritrea. Invece di adattare alla nuova funzione l'architettura del colonizzatore, fu creata una architettura ibrida e volgare, estranea tanto al colonizzatore quanto al colonizzato.

Molto più complesso e diverso è il problema d'una edilizia coloniale in quei paesi nei quali esistono già una cultura, una tradizione, un'architettura, e quindi valori artistici o paesistici o edilizî che devono essere tutelati e conservati all'economia universale rappresentando essi appunto delle universali ricchezze. Il primo quesito da affrontare è quello urbanistico: se cioè i nuovi quartieri metropolitani debbano essere installati nella città indigena o se non debbano piuttosto crearsi ex novo fuori di questa. Questa seconda soluzione, molto migliore in fondo, si è adottata spesso spontaneamente per quella specie di ripugnanza da parte dei metropolitani a mescolarsi con gl'indigeni.

Tuttavia molto spesso è avvenuto che gli edifici principali del governo si siano installati nella vecchia città o che si sia ritenuta opportuna la trasformazione, mediante demolizioni o sventramenti, di vecchi quartieri, donde il problema architettonico risultante dall'accostamento di due tipi edilizî. Nell'India inglese, ad es., il contrasto delle due civiltà, evidente e profondo, ha portato gravi conseguenze. In generale, fino a qualche decennio fa, le antiche città indiane erano ben distinte dai quartieri europei: molte volte erano ancora protette dall'antico giro di mura, mentre le città europee, quasi sempre costituite da quartieri di bungalows circondati da ampî giardini, si svolgevano a parte intorno al club e alla stazione ferroviaria con piano regolatore moderno del tutto diverso dalle reti stradali della vecchia città indigena. Fu appunto in seguito ai grandi sventramenti consigliati dalle epidemie, che cominciò lo sviluppo edilizio delle città indiane; e disgraziatamente molte di queste opere di risanamento igienico riuscirono unicamente e inutilmente distruttive.

Altrettanto in fondo si può dire dell'urbanistica delle citta coloniali africane del bacino del Mediterraneo, fra le quali tipico è il caso del Cairo, ove inutili nuove arterie larghe più di 30 metri attraversano tutta l'antica città musulmana, isolando moschee e bazar, e distruggendo in parte il carattere ambientale della città.

Più fortunata si può considerare la città di Bengasi in Cirenaica, per la quale fu recentemente studiato un piano regolatore atto a distinguere la città europea dalla araba, dando alla prima uno sviluppo del tutto moderno, limitando invece nella seconda i tagli e le opere di risanamento allo stretto necessario, lasciando anzi alle popolazioni indigene lo sviluppo della loro caratteristica edilizia secondo le consuetudini ed i gusti locali.

Altrettanto ed in scala ben maggiore e con ricchezza di mezzi fu fatto dai Francesi a Casablanca nel Marocco dove anzi la città europea fu progettata con gusto e con arte tali da valorizzare, se non creare, l'interesse turistico dell'intera regione.

Passando a toccare la questione architettonica vera e propria, della penetrazione d'una nuova architettura in un ambiente ad essa del tutto estraneo, si può osservare che anche in questo campo come in quello dell'urbanesimo il tema non è molto dissimile da quello che scaturisce dall'accostamento di una moderna costruzione ad un ambiente architettonico del passato. Purtroppo l'architettura coloniale, anche recente, si è valsa di imitazioni dello stile locale per creare delle goffe mascherature che, prodotte da uomini ben lontani dalla cultura e dallo spirito nei quali lo stile era sorto, sproporzionate rispetto alla mole, insufficienti alla nuova destinazione, totalmente differenti nei loro materiali da quelli originarî, non sono che l'esempio della povertà spirituale del colonizzatore.

Tutte le città dell'Africa settentrionale, della Persia e dell'India sono piene di imitazioni stilistiche dell'arte locale, spesso anche male intesa, come ad es. nelle due colonie libiche, ove si è creduto di fare dello stile locale costruendo in uno stile arabo che sul posto non era mai esistito o del quale solo qualche debole elemento si era sviluppato. Infatti tutta l'edilizia locale delle coste africane nel suo carattere non è tanto araba quanto mediterranea, e se ne trovano manifestazioni analoghe lungo le coste dell'Italia meridionale, nella Sicilia, nell'Egeo, nella Spagna: architettura di massa, bianca e luminosa, semplice, chiusa all'esterno, ricca di volumi e povera di decorazioni.

Gli stessi architetti indigeni o turchi, prima dell'occupazione europea, già avevano diffuso lo stile maltese, che contiene molti elementi di derivazione italiana (figg. 3 e 4) e che non è discordante con l'ambiente dei vecchi quartieri quanto invece sono estranee alla comprensione e all'anima delle popolazioni locali le moderne architetture pseudo-arabe. Che invece sia possibile un'architettura coloniale moderna senza limitazioni di stile, lo dimostrano alcuni esempî recenti quali quelli di qualche edificio di Rodi ispirato semplicemente all'architettura generale mediterranea e più ancora molti dei nuovi edifici costruiti recentemente a Casablanca nel Marocco. Del resto la semplicità e il colore dell'architettura mediterranea, i valori volumetrici della composizione di massa dell'edilizia africana, ad esempio di Ghadames o dei Tuareg, concordano e non ripugnano affatto a un'architettura del tutto moderna.

Bibl.: J. Armand, Civilisation et colonisation, Parigi; M. Rava, Dobbiamo rispettare il carattere dell'edilizia tripolina, in Oltremare, 1929; H. V. Lanchester, Replanning old and historic towns in India, in Atti del XIII Congresso internaz. abitazione e piani regolatori, Roma 1929; Relazione sul piano regolatore della città di Bengasi, Milano 1930.

Le truppe coloniali. - Quasi tutti gli stati che possiedono colonie hanno truppe speciali, istruite, allenate ed equipaggiate in modo rispondente alle diverse condizioni climatiche ed ambientali d'ogni singola colonia. Tali truppe sono tratte dall'esercito metropolitano, o costituite da volontarî o da elementi indigeni con i quali vengono formati reparti detti di colore, di alto rendimento rispetto al costo. La Francia e la Spagna hanno istituito anche una legione straniera, in cui possono arruolarsi uomini di qualunque nazionalità. M. Bo.

Le truppe coloniali italiane. - Colonia Eritrea. - Il 10 luglio 1887, con le truppe che avevano preso possesso dell'Eritrea venne costituito il Corpo speciale d'Africa, modificato poi nella costituzione con successivi decreti del 29 giugno 1889 e 28 agosto 1890. A questo corpo e alle truppe indigene, l'11 giugno 1891, venne data la denominazione di Regie truppe d'Africa, e poi, il 30 marzo 1902, di Regio corpo di truppe coloniali.

L'ordinamento del 1° febbraio 1922, tuttora in vigore, prevede: un comando del Regio corpo (Asmara), comprendente uno Stato maggiore, un ufficio d'amministraziom e contabilità, un ufficio di veterinaria e un ufficio d'istruzione del tribunale militare; un comando dell'artiglieria (Asmara), con un ufficio del materiale e un drappello treno; un comando del genio (Asmara) con un ufficio del materiale; 5 battaglioni indigeni eritrei; 1 compagnia costiera; 1 squadrone indigeni; 3 batterie da montagna; 2 compagnie cannonieri indigeni; 1 batteria autoportata indigeni; 1 compagnia del genio; 1 sezione automobilisti; 1 drappello servizî presidiarî; 1 deposito di reclutamento per la Libia, che recluta i complementi necessarî ai battaglioni eritrei dislocati in Tripolitania.

Le anzidette unità sono costituite con truppe iialiane in servizio permanente (ufficiali e militari di truppa tratti dall'esercito, preferibilmente volontarî) ed in congedo (ufficiali e truppa in congedo illimitato residenti in colonia) e con truppe indigene, reclutate per arruolamento volontario, ma che possono contrarre una o più ferme, scadute le quali passano a far parte della riserva, ove rimangono finché siano atte alle armi. Oltre alle forze suaccennate, esiste una riserva generale coloniale di alcuni battaglioni e una batteria da montagna, i quali possono essere inviati anche nelle altre colonie. Oltre alle forze regolari vi sono 8 bande armate per il servizio di polizia, che in caso di guerra costituiscono i nuclei attorno ai quali si formano le bande di guerra.

Somalia italiana. - Quando gli scali del Benadir dipendevano dal sultano di Zanzibar, le forze militari erano costituite da circa 300 ascari irregolari arabi. La società Filonardi ne crebbe di poco il numero; la società del Benadir li portò ad 800. Sul finire del 1902 l'intero corpo di ascari raggiunse la forza di 1100 uomini. Un'opera di vera organizzazione fu iniziata soltanto nel 1903, prendendo a modello il corpo delle truppe coloniali dell'Eritrea.

Ne risultò un corpo regolare di ascari detto Guardie del Benadir, costituito inizialmente (15 aprile 1904) di un comando e di 6 compagnie di 114 uomini ciascuna, portate poi, nell'ottobre, a 12 compagnie di 100 uomini. A sussidio eventuale di questo corpo stava una milizia ausiliaria formata con arruolamenti volontarî di ascari congedati. Quando il governo della Colonia passò definitivamente allo stato, il Corpo delle guardie del Benadir fu soppresso e con le 12 compagnie vennero costituite 3 compagnie di fanteria (ognuna di 446 indigeni e cinque ufficiali italiani) ed 1 compagnia di cannonieri (90 indigeni e 1 ufficiale italiano), che presero il nome di Regio corpo di truppe indigene. Con decreto governatoriale del 20 giugno 1907, le truppe coloniali del Benadir vennero ripartite in 6 compagnie: 5 di fanteria e 1 d'artiglieria. Nell'aprile 1908, per l'effettiva occupazione dell'Uebi Scebeli e per la definitiva sottomissione dei Bimal, quel regio corpo fu portato a 3500 uomini, compresi 15 ufficiali italiani e circa 1000 ascari.

Nel 1926, gran parte del personale fu reclutato nello Yemen, e le compagnie furono portate a 10, con 16 sezioni di mitragliatrici.

Nel 1920 furono costituiti i gruppi aviatorî e nel 1923 vennero formati tre battaglioni a tipo eritreo, distinti con fasce di color cremisi, verde e scozzese.

Dopo l'occupazione dell'Oltregiuba fu costituito un Regio corpo provvisorio d'occupazione, così formato: comando delle truppe; i corpo di zaptiè, 6 compagnie di ascari, 6 sezioni mitragliatrici, i compagnia cannonieri, 1 reparto deposito, servizio d'artiglieria con magazzino e laboratorî, 1 autodrappello, 1 sezione R. T. del R. E., i squadra M. V. S. N., con una forza complessiva di 43 ufficiali, 41 sottufficiali, 23 militari di truppa bianchi, 1956 ascari, 266 quadrupedi, 10 cannoni, 30 mitragliatrici, 7 autocarri e 1 ambulanza.

Il 30 giugno 1926 il R. corpo truppe coloniali della Somalia comprendeva 80 ufficiali, 26 sottufficiali, 13 militari di truppa bianchi, 3988 ascari, 317 cavalli e muletti, 69 cammelli. Con tali elementi vennero costituiti un Comando delle truppe, 3 battaglioni, 4 compagnie autonome, 1 compagnia presidiaria, 1 centuria autonoma, 3 sezioni d'artiglieria cammellata, più una in formazione, e 9 sezioni di artiglieria da posizione. Il 1° luglio 1926, dopo l'unione dell'Oltregiuba alla Somalia italiana, il corpo d'occupazione dell'Oltregiuba veniva sciolto e con le sue truppe vennero formati: un quarto battaglione, una compagnia, una sezione d'artiglieria cammellata, 3 sezioni d'artiglieria da posizione, portando così la forza delle truppe della Somalia a 104 ufficiali, 48 sottufficiali, 26 militari di truppa bianchi, 5139 ascari, 443 cavalli e muletti e 91 cmmmelli.

Il 31 agosto 1926, a causa delle necessità imposte dalle operazioni per l'occupazione della Somalia settentrionale, vennero costituiti altri 2 battaglioni (il 50 ed il 60), ed oggi il R. corpo truppe della Somalia comprende: 1 comando (con l'ufficio di Stato maggiore); i comando d'artiglieria; 6 battaglioni di fanteria; 2 squadriglie autoblindomitragliatrici; 1 compagnia presidiaria; 1 reparto deposito; 7 sezioni d'artiglieria cammellata; 1 compagnia di cannonieri; 10 sezioni d'artiglieria da posizione; 1 magazzino viveri, vestiario ed equipaggiamento; 1 reparto di zaptiè.

Libia. - Nel 1912, il comando del corpo d'occupazione previde la necessità di un corpo di truppe coloniali e costituì tre bande dette del Garian, del Sahel e di Tarhuna, complessivamente forti di circa 600 uomini, incaricate soprattutto del servizio di polizia ed eventualmetite utilizzabili a fianco dei reparti eritrei e metropolitani. Avendo queste bande dato ottimi risultati, venne deciso di costituirne altre (a Zanzur, a Misurata, e a Homs).

Con le bande di Tripoli venne poi costituito il 1° battaglione libico, su 4 compagnie, con ufficiali e sottufficiali italiani, e poi la batteria libica. Nel dicembre 1912 venne decisa la costituzione di altri 5 battaglioni e due squadroni d'indigeni.

Nel 1914 venne costituito il R. corpo truppe coloniali per la Tripolitania e la Cirenaica, informando la costituzione al criterio, che, pur essendo l'ordinamento generale tecnico e amministrativo unico per tutta la Libia, ciascuno dei due governi coloniali (della Tripolitania e della Cirenaica) avesse a sua disposizione forze proprie e da esso esclusivamente dipendenti. In base poi all'ordinamento dello stesso gennaio 1914, modificato in seguito per adattatlo alle mutate esigenze delle due colonie, i due comandi militari della Tripolitania e della Cirenaica vennero resi indipendenti l'uno dall'altro e dipendenti, invece, dal governatore della Libia, per quanto riguarda l'impiego delle rispettive forze.

Così, mentre nell'estate del 1913 si avevano 6 battaglioni (10 De Marchi, 2° Brighenti, 3° Versace, 4° Rivieri, 5° Nigra e il 6° in formazione), in seguito si organizzano anche 3 squadroni di Savari e 1 di meharisti, 1 batteria da montagna, 3 sezioni cammellate, 8 bande di forza variabile, e il corpo degli zaptiè.

Regio corpo di truppe coloniali della Tripolitania. - Comandi: comando del Regio corpo, dal quale dipendono: un comando truppe sud-tripolitano e un comando zona orientale; comando divisione CC. RR.; comando cavalleria; comando artiglieria; comando genio. - Truppe: 1ª divisione CC. RR. e zaptiè; 2 battaglioni cacciatori (volontarî); 6 battaglioni indigeni libici; 6 battaglioni eritrei misti; 1 legione libica M. V. S. N. (su 2 coorti); 1 squadriglia autoblindomitragliatrici; 1 gruppo sahariano irregolare; 1 reparto deposito coloniale; 7 squadroni Savari; 4 gruppi sahariani; 1 squadrone spahis; 3 batterie libiche someggiate; 4 compagnie cannonieri; 5 compagnie genio; 1 sezione radiotelegrafisti; 1 autogruppo; i compagnia treno; 2 squadriglie d'aviazione; 1 gruppo irregolare di polizia a cavallo; 2 gruppi ausiliarî irregolari. - Servizi: Sanitario (ospedale coloniale), di commissariato, d'artiglieria, del genio, dei trasporti, di tappa e veterinario; tribunale militare coloniale.

Regio corpo di truppe coloniali della Cirenaica. - Comandi: comando delle truppe della Cirenaica; comando divisione CC. RR. e zaptiè; comando di cavalleria; comando di artiglieria; comando del genio. - Truppe: 1 divisione CC. RR. e zaptiè con una scuola allievi zaptiè e uno squadrone di manovra; 3 battaglioni cacciatori (volontarî); 1 battaglione indigeno libico; 5 battaglioni eritrei misti; 1 legione libica M. V. S. N. (2 coorti); 1 squadriglia autoblindomitragliatrici e automezzi armati; 1 squadrone meharisti; 1 reparto deposito coloniale; 3 squadroni Savari; 3 compagnie cannonieri (fisse); 1 batteria libica someggiata; i batteria eritrea someggiata; 2 compagnie genio (zapp.-minatori e telegrafisti); 1 sezione radiotelegrafisti; 1 autogruppo; 2 squadriglie d'aviazione; 5 bande irregolari a cavallo. - Servizi: sanitario, di commissariato, veterinario, dei trasporti, di tappa; tribunale militare coloniale.

V. tavv. CLXI-CLXIII.

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