COLONNA, Giacomo, detto Sciarra

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLONNA, Giacomo, detto Sciarra

Daniel Waley

Figlio di Giovanni di Oddone, del ramo di Palestrina della famiglia, e di una Orsini, nacque probabilmente poco prima del 1270.

Il passo del Chronicon Parmense (in Rerum Italic. Script., 2. ed., IX, 9, a cura di G. Bonazzi, p. 60), che ricorda un Giacomo - Colonna come "dominus" di Roma nel 1290 è sicuramente un errore: dovrebbe trattarsi del padre del C., Giovanni. La prima notizia sicura che riguarda il C., ormaigiunto ad età adulta, è dell'agosto 1293 quando egli, insieme con i fratelli Agapito e Stefano, concluse un patto di mutua assistenza con Manfredo e Pietro dei Prefetti di Vico. L'anno successivo, nel mese di marzo, il C., insieme con i due fratelli Agapito e Stefano, fu investito di alcuni feudi nel Regno da Carlo II d'Angiò: il re aveva compiuto tale atto nella speranza di assicurarsi l'alleanza dei cardinali di casa Colonna, durante il suo soggiorno a Perugia, dove era riunito il conclave.

Probabilmente il C. fu podestà di Narni nel 1297. È quasi certo che non prese parte alla rapina del tesoro pontificio compiuta dal fratello Stefano durante il trasporto dello stesso tra Roma ed Anagni (3 maggio 1297), rapina che portò alla condanna della famiglia Colonna da parte di Bonifacio VIII: l'unica testimonianza che ricorda il C. tra gli assalitori è infatti quella di Giovanni Villani, ma è noto che questo cronista non è una fonte sicuramente attendibile per gli avvenimenti accaduti a Roma e dintorni. Con gli altri membri della famiglia, tuttavia, il C. subì la privazione delle proprietà e dei diritti disposta dalla bolla di Bonifacio VIII del 23 maggio di quello stesso anno. Nel corso delle operazioni militari che seguirono a tale provvedimento il C. difese Nepi dall'attacco delle forze pontificie (agosto 1297); la guarnigione della città fu tuttavia costretta ad arrendersi per fame. Il 15 ottobre dell'anno successivo il C. fu tra i Colonna che, vestiti di sacco e con il capo coperto di cenere, si presentarono a Rieti da Bonifacio VIII per chiedergli il perdono.

Dopo la sottomissione, il C. risiedette a Marino, probabilmente presso il cardinale Napoleone Orsini (un suo parente, forse uno zio), ma in un secondo tempo fuggi. Secondo un rapporto aragonese del novembre 1299 si recò a Genova insieme con il fratello Agapito e i due avevano l'intenzione di imbarcarsi, diretti con ogni probabilità in Sicilia. A detta del Petrarca (Familiares, II,3), il C. fu catturato dai pirati e costretto a lavorare per quattro anni sulle galee prima di essere riscattato a Marsiglia, grazie al denaro fornito da Filippo IV di Francia; ma tale racconto appare fortemente esagerato, se non addirittura privo di fondamento. A certo comunque che il C. era in contatto con il consigliere del monarca francese, Nogaret, nei prirni mesi del 1303, quando si discuteva, probabilmente in Francia e forse anche in Toscana, della possibilità di portare il pontefice Bonifacio VIII davanti ad un concilio generale. E la prima importante azione del C. fu quella svolta nell'oltraggio di Anagni del settembre 1303. I pochi cavalieri comandati dal C. si unirono a quelli del Nogaret e di Rinaldo da Supino a Ferentino il 6 settembre. Il giorno dopo entrarono tutti insieme ad Anagni e occuparono il palazzo pontificio.

È chiaro che il C. svolse il ruolo principale negli avvenimenti relativi alla prigionia del papa durata per tre giorni; meno facileè stabilire se egli intendesse ucciderlo, come pure riferiscono alcuni contemporanei ben informati. Nell'insieme non sembra, però, che il C. abbia avuto mai un'idea del genere. È molto probabile invece che egli abbia proposto a Bonifacio, divenuto suo prigioniero, un accordo che prevedeva la liberazione del pontefice a tre condizioni: la consegna del tesoro della Chiesa a due o tre cardinali anziani; la reintegrazione "ad temporalia et spiritualia" dei membri della famiglia Colonna, compresi i due cardinali; la rinuncia di Bonifacio VIII al pontificato e l'accettazione da parte sua di rimanere personalmente "ad voluntatem dicti Schiare".Il terzo giorno della prigionia del papa, il popolo di Anagni si sollevò in difesa di Bonifacio e lo liberò. Il C. fuggì a Ferentino e di lì si rifugiò nell'abbazia di Subiaco, che controllò per un certo tempo. La notizia secondo la quale egli avrebbe progettato di attaccare di nuovo il papa durante il suo viaggio da Anagni a Roma non appare convincente.

Il successore di Bonifacio, Benedetto XI, annullò nel dicembre 1303 il bando contro la famiglia Colonna. Tuttavia i cardinali Caetani e Orsini (i quali temevano di perdere le terre acquisite nel precedente pontificato) fecero in modo di impedire'che il C. rientrasse nelle grazie del papa, sottolineando il fatto che egli era il violatore sacrilego della persona del pontefice. La bolla Flagitiosum scelus del 7 giugno 1304 indicava nel C. uno dei responsabili del crimine di Anagni, lo scomunicava e lo rinviava al'giudizio della corte pontificia. Un decreto della città di Roma, del 22 marzo 1305, stabilì per il C. e per due suoi parenti il risarcimento di 100.000 fiorini da parte della famiglia Caetani; ma tale decreto non sembra sia mai stato applicato. Tuttavia, nel febbraio 1306 Clemente V annullò tutte le sentenze contro i Colonna, comprendendo esplicitamente anche il C. tra gli altri. Il perdono prevedeva anche il diritto di ricostruire Palestrina: nello stesso anno il C. chiese, ma inutilmente, al Comune di Siena di contribuire alla ricostruzione con la somma di 500 fiorini.

Nell'aprile del 1308 il C. dovette essere senatore o prosenatore di Roma. Le udienze, tenute nel 1310-1311 in merito agli avvenimenti del pontificato di Bonifacio VIII si conclusero con la decisione di condizionare l'assoluzione del C. per i misfatti del' 1303 a varie penitenze e ad un pellegrinaggio in Terrasanta. Per quanto ne sappiamo, però, il C. non adempì a tali condizioni. Durante la discesa in Italia di Enrico VII, il C. tornò alla ribalta come principale esponente del partito filoimperiale in Roma. Dopo aver raggiunto le forze imperiali a Genova, egli con il fratello Stefano fece di tutto per persuadere Enrico VII a marciare rapidamente su Roma, dato che la città era parzialmente occupata da forze angioine. Aiutò poi l'imperatore ad entrare nella città (7 maggio 1312) e prese parte ai combattimentì che seguirono. Durante l'estate ottenne considerevoli somme come retribuzione per il servizio prestato da lui e da 500 uomini: da allora fino al marzo successivo fu senatore di Roma (probabilmente per due trimestri), sebbene risiedesse per qualche tempo a Tivoli con l'imperatore. In questo periodo la maggioranza dei Colonna aveva già abbandonato la causa imperiale; il C., che invece rimase fedele a Enrico VII, fu perciò in seguito esiliato dalla città.

È difficile ricostruire, data la frammentarietà delle notizie in nostro possesso, la biografia e l'attività del C. negli anni compresi fra la morte di Enrico VII e la spedizione romana di Ludovico il Bavaro. Sappiamo tuttavia che nel 1313 Clemente V deliberò di assegnare, come feudo della Chiesa, al C. la città di Nepi, oggetto di contesa fra i Colonna, il Comune di Roma e gli Orsini; che il C. patrocinò nel 1314 la conclusione di una tregua fra Rieti, Terni, Narni e Stroncone; e che qualche anno dopo, intorno al 1316, fu podestà di Viterbo.

Ludovico il Bavaro, consapevole della tradizione ghibellina della famiglia Colonna, concesse al C. nel 1315 numerosi privilegi: il diritto di battere moneta, di legittimare e di nominare notai. Intorno al 1323 il C. prese parte alla lotta contro la lega angioina cui aveva aderito anche suo fratello Stefano. Nel 1326 si impose come capo del partito ghibellino di Roma e l'anno successivo divenne senatore e capitano del Popolo. Dopo aver difeso la città contro un esercito angioino nel settembre del 1327. fu costretto a giurare di non far entrare in Roma Ludovico il Bavaro. Non rispettò tuttavia il giuramento, e si mantenne in contatto col sovrano nel periodo che precedette l'ingresso di questo nella città (7 genn. 1328). Il C. Svolse un ruolo importante nelle cerimonie dell'incoronazione imperiale (17 gennaio), e nel febbraio fu nominato ancora una volta senatore. Sua figlia Alasia era allora promessa sposa ad un figlio di uno dei maggiori capi del ghibellinismo italiano, Castruccio Castracani. Il 4 agosto, tuttavia, Ludovico abbandonò Roma, e poco dopo il C. fu costretto ad andare in esilio. Morì in località ignota qualche settimana più tardi, con ogni probabilità prima del 10 sett. 1328.

Uomo turbolento ed energico, ultimo esponente della tradizione ghibellina della famiglia, morì - è stato tramandato - lamentando la sua miserevole fine ("lamentabatur graviter, quod tam turpiter et miserabiliter in lecto moriturus erat").

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