COLORE

Enciclopedia dell' Arte Antica (1959)

Vedi COLORE dell'anno: 1959 - 1994

COLORE

P. Zancani Montuoro*

Fin dai primordi l'uomo è stato impressionato dal colore, ed ha imparato a sfruttare le risorse, che la natura gli offriva, per procurarsi le materie coloranti, ora ricavandole dalle piante ora dalle rocce o dai terreni.

I primi saggi di attività artistica, come le pitture delle grotte dei Pirenei che risalgono all'Età Paleolitica, testimoniano l'abilità di quei cavernicoli nell'utilizzare, impastandoli col grasso, quattro pigmenti coloranti ricavati dai terreni ricchi di ocre. I colori adoperati dagli Egiziani erano in massima parte minerali, e fra essi più d'ogni altro bello e resistente l'azzurro, a tal segno che nemmeno i Greci e i Romani seppero ottenere un preparato migliore, ma adottarono la fritta egizia, il cui uso si può considerare generalizzato in tutta l'antichità: era composta di sabbia, limatura di rame e sottocarbonato di sodio tritati e cotti al forno; altre volte l'azzurro è ottenuto mediante vetro polverizzato tinto con ossido di rame, o infine con lapislazzuli pestati; al contrario meno stabile di tutti era il verde, di cui il principio colorante era egualmente il rame e che oggi appare alterato in olivastro (talvolta era invece malachite polverizzata). Differenti toni di giallo, di rosso e di bruno si ottenevano con le ocre naturali o bruciate; il giallo risulta in altri casi di solfuri d'arsenico o di ossido di ferro misto con calce, mentre per il rosso si adoperò generalmente un miscuglio di ossido di ferro e argilla dalla sottilissima grana e, talvolta, pare, il cinabro, dopo che la conquista della Siria ne facilitò l'importazione. Il nero era ottenuto con ossa animali calcinate, oppure con carbone; il bianco, che ha serbato un nitido candore, era costituito di calce, gesso o smalto polverizzato. Accanto ai colori minerali altri se ne adoperavano di origine organica come l'indaco e lo zafferano, in maniera limitata nell'arte, ma in gran copia, invece, per gli usi industriali (tintura di stoffe, legno, cuoio, ecc.): oltre la porpora, ricavata dal murice (la cui scoperta è dalla tradizione assegnata ai Fenici), furono sfruttati per il rosso il chermes (Coccus ilicis, insetto analogo alla cocciniglia), la cui tinta si ritrova intatta su stoffe da tombe egizie del sec. III a. C.; per il giallo la radice del loto; per il bruno e il nero scorza e radici di alberi, ecc. I colori erano generalmente applicati su un fondo bianco, per aver più splendore, ed erano impastati con acqua mista a una sostanza gommosa, che dava loro più corpo e resistenza.

In tutto l'Oriente mediterraneo troviamo generalmente diffuso il gusto per il colore, ed è del resto intuitivo che la policromia sia condizione essenziale dell'arte in quelle regioni dove la luce è più viva e violenta, il cielo sempre terso e l'aria chiara e translucida: presso gli Assiro-Babilonesi e i Persiani la pittura non era un'arte per sé stante, ma, puramente decorativa, era l'indispensabile complemento di tutte le altre. Basti dire che dominavano nella decorazione le mattonelle smaltate, i cui toni prevalenti erano a Khorsābād il giallo e l'azzurro, mentre a Nimrud si riscontrano il verde, l'azzurro, il giallo, il rosso, il bianco e il nero, e altrettanto ricca è la policromia delle mattonelle babilonesi, dove l'azzurro è di una tonalità più bella e più scura. Per altro è presumibile che fossero sette i colori adoperati dai Babilonesi, e in seguito dai Persiani, giacché questo numero aveva acquistato molto presto un valore simbolico e religioso. D'altra parte è da ritenersi che i popoli della Mesopotamia conoscessero già quei colori così freschi e solidi, che ancor oggi i Curdi e i Turcomanni traggono dalla radice e dallo stelo o dai fiori e dalle bacche delle piante, servendosene per i tappeti; tali tinte erano forse utilizzate per la pittura a tempera.

Sappiamo dalle analisi che l'azzurro delle mattonelle di Nimrud era dato da un ossido di rame misto a piombo (mentre a Khorsābād era lapislazzuli) ridotto in sottilissima polvere; che il giallo era antimoniato di piombo contenente una certa quantità di stagno, di composizione analoga a quella moderna del "giallo di Napoli"; che il bianco era un ossido di stagno (mentre si attribuiva la scoperta di questa formula agli Arabi del sec. IX d. C.); che il rosso era un sottossido di rame a Nimrud, ed a Khorsābād quell'ossido di ferro che si suol chiamare "sanguigna"; che il verde era ottenuto probabilmente mescolando il giallo e l'azzurro, per esempio ocra ed ossido di rame. V. Place scoprì, negli scavi di Khorsābād, due blocchi di colore, uno azzurro d'un chilogrammo, l'altro rosso di venti, solubile, quest'ultimo, in acqua. Nei prodotti vitrei dell'industria fenicia l'analisi ha rivelato unicamente la presenza di ossidi metallici: dal rame erano dati il verde e forse il cobalto, dal manganese i bruni, i neri, i violetti; l'ossido di ferro costituiva il giallo, mentre l'ossido di stagno procurava i tipici toni lattei e madreperlacei. La civiltà cretese-micenea raggiunse un grado così elevato nella conoscenza tanto delle materie coloranti quanto degli effetti della loro associazione da non esser superato nelle età successive: senza seguire l'evoluzione di questa tecnica, dalle analisi risulta che il bianco era calce, il nero probabilmente ossa calcinate, il giallo ocra, il rosso chiaro ocra bruciata e il rosso scuro ematite, mentre l'azzurro era ottenuto col sistema egizio a base di un sale di rame, che fu introdotto in Creta sotto la XI dinastia (scorcio del III millennio a. C.), ma in alcuni casi nella ceramica era dato da una mescolanza di rame, ferro, acido silicico, acido carbonico e talvolta anche mercurio; e infine il verde era generalmente malachite polverizzata oppure un miscuglio di azzurro e ocra gialla.

È interessante poi notare nel mondo preomerico l'interferenza tra le due nozioni di colore e di moto, che risale allo stadio indoeuropeo e che viene anche attestata nella concezione classica. I termini di colore recentemente letti su tavolette micenee rinvenute a Cnosso e Pylos, generalmente infatti non designano vere qualità di colori, ma esprimono piuttosto maggiore o minore intensità della luce, e variabilità di toni in rapporto al movimento; così l'aggettivo àworo (= gr. αἰόλος) è usato nel senso di trascorrente accanto a quello di cangiante; similmente kosouto (gr. ξουϑός indica insieme agile e biondo. Inoltre a Cnosso, nel XV sec. a. C. è attestato l'uso dell'aggettivo cromatico popureja (= purpureo), che fornisce un sicuro elemento per determinare l'inizio della conoscenza della porpora presso i popoli mediterranei; e infine, sempre a Cnosso, è presente in epoca micenea l'aggettivo ponikija (= gr. ϕοινίκεος) ad indicare il colore estratto da una determinata pianta. Presso tutti i popoli primitivi, come conferma l'indagine etnografica, il c. viene posto in relazione con la divinità, dapprima non tanto come un simbolo di essa quanto come una sua diretta emanazione. Solo in uno stadio successivo, di razionalizzazione della società il c. diviene elemento accidentale, intercambiabile, e si fissa con valore simbolico e liturgico.

Quanto alla civiltà classica, Greci e Romani ebbero larga familiarità con i pigmenti coloranti, sì che le risorse dei pittori greci e romani dal secolo IV a. C. in poi possono considerarsi pari a quelle di cui disponevano le arti e le industrie del sec. XVI dell'èra nostra. Da varî passi, di Vitruvio (De archit., vii), Plinio (Nat. hist., xxxv), Dioscoride (Materia medica, v) e Teofrasto (De lapidibus) e da altri ancora otteniamo molti dati interessanti sulla natura e la fabbricazione dei colori; ma le notizie e le classificazioni tramandateci dagli scrittori classici attestano d'altronde così il carattere empirico delle loro osservazioni come la loro incompetenza circa la composizione delle sostanze impiegate. Inoltre nel designare i singoli colori gli autori antichi sono spesso in disaccordo, e molte delle loro denominazioni sono oggi intraducibili. Oggetto di controversie è stata la notizia di Plinio (Nat. hist., xxxv, 50) che i pittori greci fino ad Apelle incluso, cioè a tutto il sec. IV, avessero adoperato soltanto quattro colori: il bianco di Milo, il giallo attico, il rosso di Sinope e il nero detto atramentum, notizia del resto confermata da Cicerone (Brutus, xviii, 70) ma che è parsa in disaccordo con altri passi dello stesso Plinio e con la vivace policromia, che ci è attestata dai resti architettonici e dai monumenti delle arti minori (in particolare si vedano i pìnakes di Xilokastro [Corinto]). Da questa tradizione, come dal simplex color delle antiche pitture vantato da Quintiliano (Inst. orat., xii, 10), si deve concludere che nella pittura d'arte i Greci limitarono fino ad una certa epoca l'uso dei colori, ma non per questo si può ritenere limitata la loro conoscenza delle materie coloranti, le quali, anzi, avevano larga applicazione nell'arte decorativa e nelle industrie. Appunto gli scrittori greci e latini distinguono la droga o tinta (ϕάρμακον, medicamentum, pigmentum) dal colore (ἄνϑη, color), ed oltre questi Polluce (Onom., vii, 128) nomina in terzo luogo gli ἄνϑη, cioè quei colori di particolar pregio, detti χρώματα ἀνϑηρά da altri autori greci, e colores floridi dai Romani, in contrapposto ai colores austeri (Plin., Nat. hist., xxxv, 30 e 44). Infine gli antichi distinguono i colori naturali da quelli ottenuti con procedimenti artificiali o miscugli; e d'altronde l'identificazione dei colori fondamentali, e la loro unione per la produzione dei complementari, fu oggetto di osservazioni e speculazioni teoretiche da parte dei filosofi presocratici.

Diamo l'elenco dei principali colori usati nell'antichità classica, a noi noti dalle fonti e dalle analisi eseguite sui monumenti.

1. Bianco (λευκόν, albus color): si otteneva con calce spenta diluita in acqua, ma a questo prodotto di poco corpo si preferivano le terre di Milo e di Samo, la creta argentaria, il paraetonium (così detto dal luogo di provenienza in Egitto, ma che si traeva anche da Cirene e da Creta); molto grasso e levigato, era contraffatto a Roma con la creta cimolia (proveniente dall'Umbria), la creta selinusia e la cerussa (ψιμύϑιον) o biacca di piombo: particolarmente rinomata era quella di Rodi, che si preparava disponendo in fondo ai dolî alcuni sarmenti, sui quali si versava aceto, e poi si posavano i pezzi di piombo; si chiudevano accuratamente i dolî e dopo un certo tempo si trovava il piombo mutato in cerussa.

2. Giallo (ὠχρόν, ξανϑόν, flavus o luteus color): la sostanza più usata fin dall'età più antica fu l'ocra (silis ochra o sil), che è perossido di ferro idrato, ed ha molte varietà di colore; si adoperavano ocre delle più diverse provenienze, ma di tutte era considerata migliore l'attica, che, secondo Plinio (Nat. hist., xxxiii, 160), Polignoto e Mikon adoperarono per primi in pittura, e che era imitata con creta colorata mediante succo di zafferano o decozione di fiori gialli analoghi (violacciocca, erba guada, che davano tinture molto diffuse). Un altro giallo era dato dall'orpimento (ἀρσενικόν, auripigmentum), che è sesquisolfuro d'arsenico e si trovava in natura nelle miniere d'oro e d'argento dell'Asia Minore; specie della Siria; un altro ancora da una varietà di chrysocolla.

3. Azzurro (κυανοῦν, caeruleus color): se ne distinguevano per la provenienza tre specie, l'egizio, lo scitico e il cipriota: del secondo si ottenevano, a dire di Plinio (Nat. hist., xxxiii, 161), quattro varietà, mentre il primo, che era la solita fritta egiziana sempre preferita, si chiamò vestorianum o puteolanum caeruleum, perché un tal Vestorius fondò a Pozzuoli una fabbrica sul sistema di Alessandria; ad Efeso e a Pompei si sono trovati blocchi di questo colore, che sono stati sottoposti all'analisi. Si tratta di un composto cristallino contenente silice, ossido di calcio e ossido di rame ottenuto con quarzo fuso e carbonati di rame e di calcio, oltre a carbonato di sodio e potassio usato come fondente. (Il nome "fritta" deriva dall'averlo ritenuto un vetro calciosodico contenente ossidi, ipotesi dimostrata falsa sin dalle analisi del Fouquet, 1889). Se ne usavano inoltre qualità meno raffinate e pregevoli, che avevano denominazioni diverse (lomentum, tritum). Lo si trova in Egitto a partire dalla IV dinastia, poi nella civiltà cretese, babilonese, assira, in Grecia e in età romana fino almeno al tempo di Costantino. Il più bell'azzurro di oltremare si otteneva mediante lapislazzuli (κύανος, saphirus), ed è questo probabilmente lo scitico, mentre nel cobalto pare debba identificarsi il sil caeruleum di Plinio, che si trovava nelle miniere di oro e d'argento, ma di cui non si è riconosciuta traccia nelle analisi di materie coloranti antiche. Oltremare era probabilmente anche l'azzurro d'Armenia (ἀρμένιον, armenium), menzionato fra i colores floridi. Ma tutti questi colori costosi erano sempre imitati e falsificati mediante sabbia di Spagna polverizzata e creta bianca di Selinunte tinte con glastum o vitrum (guado). I Romani conobbero anche l'indaco, ma l'usarono limitatamente per il suo costo.

4. Verde (χλωρόν, πράσινον, viridis color): s'adoperava più che altro la varietà verde di chrysocolla comprendente la malachite e lo spato verde, che è carbonato e idrocarbonato di rame, e si trovava allo stato di natura in Armenia, in Macedonia ed a Cipro. Si sfruttavano inoltre argille tinte in natura da ossidi di rame: l'appianum o creta viridis, verde di Verona, l'armenium, verde mare, ecc.; una varietà era detta ϑεοδότιον dal nome dello smirniota nel cui podere si rinveniva. L'aerugo o aeruca (ἰος) verderame, di uso comune, si otteneva sia traendolo dalla cottura dei minerali (scolex aeris), sia mettendo pezzi di rame nell'aceto, e aggiungendovi a volte sale e soda (subacetati e cloruri di rame).

5. Rosso (ϕοινικοῦν, ἐρυϑρόν, ruber): in ogni epoca si ebbero molte gradazioni diverse dal rosso chiaro al bruno; spesso per altro gli autori discordano nelle denominazioni così da determinare equivoci nell'identificazione delle singole materie: il cinabro o vermiglione brillante (κιννάβαρις, cinnabaris), che è un solfuro doppio di mercurio e si trova nativo nelle miniere, è chiamato minium da Vitruvio e Plinio, mentre questi e Dioscoride chiamano cinnabaris indica le resine ricavate da speciali piante, cioè il sangue di dragone, ch'era fra i colores floridi per il suo costo, e sulla cui origine dal sangue misto di elefante e dragone gli antichi ricamarono fantastiche fiabe. Le ematiti fornivano molte gradazioni: perossido di ferro rosso scuro proveniente dall'Etiopia, idrossido di ferro bruno dall'Arabia, ossido di ferro detto elatite da Sinope del Ponto, che corrisponde alla sanguigna e si otteneva anche artificialmente esponendo al fuoco l'ocra gialla (silis ochra usta); da questa non era sempre ben distinta la rubrica (μίλτος) terra di ocra rossa nativa, della quale si avevano numerose varietà, fra cui migliore appunto quella di Sinope (σινωπίς, sinopica), fino alla terra d'ombra, tutte molto sfruttate dall'età più antica. Il minio fu scoperto casualmente, ci dice Plinio, e usato primieramente da Nikias intorno al 330 a. C.: era chiamato cerussa usta o sandaraca, mentre, mescolandolo in parti eguali con la rubrica si otteneva il sandyx, di color cremisi. Negli affreschi i rossi son terre d'ocra naturalmente tinte da diversi ossidi di ferro, mentre il finissimo colore dei vasi aretini è dato da un ossido di ferro misto ad un silicato alcalino e, secondo recenti ricerche, ad acido borico (Nasini, in Rend. Acc. Lincei, cl. scienze fisiche, 1930, p. 361); infine il rosso purpureo dei vetri era dato da un ossido di manganese. Molti erano i rossi di origine organica: vegetali come il sandyx (radice di garanza), l'hysginum, l'indica già menzionata, ecc. o animali come la porpora del murice ed il puniceum del coccum ilicis: queste tinture, che servivano in tutte le industrie, erano in parte utilizzate dai pittori impastate con creta bianca.

6. Nero (μέλαν, ater o niger color, atramentum): era generalmente carbonaceo, e cioè ottenuto dai prodotti della combustione di sostanze diverse; i neri hanno quindi nomi diversi (tryginon, elephantinon), e sono talvolta impastati con gomma o glutine per acquistar corpo. Inoltre la fabbricazione dell'indicum (inchiostro di Cina) dava come prodotto sussidiario un nerofumo adoperato in pittura; infine sono da menzionare i neri di origine organica, usati nella tintura industriale e che potevano essere adoperati anche in arte.

Riguardo alla tecnica, di preferenza vediamo usati (oltre la tecnica a secco, che è il modo di dipingere più semplice e perciò attestato per primo) l'a fresco (udo tectorio) e l'encausto. L'a fresco si riscontra generalmente adottato nelle tombe etrusche, specialmente nei dipinti parietali delle tombe di Tarquinia; i colori vengono sovrapposti all'intonaco ancora umido o su un esilissimo strato di calce o di creta. È escluso l'impiego di colle, sia animali che vegetali (v. affresco).

Le pitture parietali di Pompei invece vedono impiegata una tecnica che potremmo definire uno speciale processo a tempera il cui veicolo è costituito dalla calce saponificata, con funzione di glutine (= medium). Consistono infatti essenzialmente di due o tre strati al massimo di intonaco (= tectorium) formato di calce e sabbia. Quando questo era perfettamente asciugato, veniva steso il glutine, cioè uno strato di soluzione saponosa formata di calce sciolta in acqua addizionata con cera (probabilmente da identificarsi col medium aquosum di Plutarco, Amatorius, 759 c.). Sulla parete così preparata si dipingeva, ed è interessante notare la presenza di cera sia in superficie, sia compenetrata nei colori, mentre non si riscontra la cera passata sopra ai colori, a caldo.

La pittura romana invece preferisce l'uso della tecnica ad encausto, tecnica per altro in uso già nel V sec. a. C. Ad esempio, dall'esame particolareggiato dei dipinti della casa romana della Farnesina, si è potuto stabilire il processo pittorico; sul consueto strato di intonaco è stato posto un color nero con l'ufficio di attutire la porosità del tectorium; si dipingeva su questo strato nero ancora umido (tecnica a fresco), indi veniva passato uno strato di cera (tecnica ad encausticatura) che insieme proteggeva i colori tra cui non compenetra, e li esaltava procurando una maggior intensità e lucentezza dei toni (v. vol. i, tav. a colori a pag. 101).

Bibl.: . Fol, Color, in Dict. Ant., Parigi, I, 2, s. v.; W. Smith, Dictionary of Greek and Roman Antiquities, I, Londra 1890, 3a ediz., s. v. Colores; P. Girard, La Peinture Antique, Parigi 1892, p. 52 ss.; II, Parigi 1884, p. 287 ss., 703 ss.; H. Blümner, Technologie u. Terminologie der Gewerbe u. Künste, IV, Lipsia 1886, p. 464 ss.; A. Neuburger, Die Technik des Altertums, Lipsia 1919. Per la questione della pittura con 4 colori, v. K. Jex Blake - E. Sellers, The Elder Pliny's Chapters on the History of Art, Londra 1896, p. 96 ss.; G. M. A. Richter, in Metr. Museum Bull., 1944, p. 237; M. Cagiano de Azevedo, in Boll. Ist. Centr. Restauro, 1950, p. 13; S. Augusti, in Pompeiana; raccolta di studi per il II centenario degli scavi di Pompei, Napoli 1950, p. 313; E. Aletti, La tecnica della pittura, Roma 1951; M. Cagiano de Azevedo, in Boll. Ist. Centr. Restauro (Contributi), 1952, p. 198; id., in Aevum, XXVIII, 1954, p. 151 ss.; C. Gallavotti, in La Parola del Passato, LII, 1957, p. 5 ss.; G. Schipa, G. Torraca, in Boll. Ist. Centr. d. Restauro, 31-32, 1957, p. 97 ss.; colori ed elemento divino: C. H. Ratschow - E. Hertzsch, in Religion in Geschichte u. Gegenwart (R. G. G.), Tubinga 19583, c. 874 ss., s. v. Farbe.