Colpa grave e responsabilità del medico

Libro dell'anno del Diritto 2014

Colpa grave e responsabilità del medico

Rocco Blaiotta

Il tema della responsabilità professionale del medico è parte ampia ed importante dei reati colposi di lesione. La materia ha una storia lunga e significativa. Ad un più antico indirizzo della giurisprudenza di legittimità, propenso a valutare l’errore medico con larghezza di vedute ed a configurare quindi la responsabilità solo in caso di colpa grave, ha fatto seguito un orientamento più rigoroso che ha ritenuto applicabili pure in tale ambito solo i principi dell’ordinamento penale e quindi i canoni della colpa scolpiti dall’art. 43 c.p. Da ultimo è intervenuto l’art. 3 della l. 8.11.2012, n. 189. La nuova disciplina prevede che l’esercente una professione sanitaria, che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida ed a pratiche virtuose accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve. Il contributo propone una sintesi dell’esperienza giuridica pregressa, analizza la nuova disciplina e tenta di coglierne le più rilevanti implicazioni nel giudizio sulla responsabilità medica.

La ricognizione

Il tema della responsabilità professionale del medico occupa una parte ampia e peculiare dei reati colposi di lesione1. La colpa può assumere molte sfumature intermedie tra la mera ascrizione ed il rimprovero per una condotta mancata ma umanamente esigibile, che concretizza il principio di colpevolezza. Comprensibilmente, in un giudizio così “normativo”, carico di “dover essere”, agli aspetti più razionali dell’indagine si accompagnano tensioni e suggestioni caratteristiche di ciascun sistema normativo: la sicurezza del lavoro, la circolazione stradale, la responsabilità del sanitario e così via.

1.1 Le difficoltà dell’indagine

Occorre dunque tentare di comprendere preliminarmente i connotati della responsabilità sanitaria. In breve, può affermarsi che a differenza che in altri contesti, qui noi possiamo ragionevolmente guardare all’ideale di un giudizio che giunga ad esprimere il rimprovero personale sulla base di una equilibrata, prudente considerazione di tutti i fattori in gioco: un atteggiamento meno rigorista, una visione meno severa della colpa, che colga con maggiore profondità di quanto accada nel presente le spesso irripetibili sfaccettature della realtà.

Certo, anche qui le difficoltà non mancano. Numerosi fattori conferiscono particolare complessità all’indagine e talvolta la turbano: la compassione per la sofferenza della vittima e dei suoi familiari; la rivendicatività di chi a torto o a ragione ritiene di aver subito un pregiudizio; l’irrealistico affidamento nel ruolo taumaturgico dell’atto medico; l’incertezza delle informazioni scientifiche; la complessità a volte altissima dell’agire, che non di rado coinvolge ambiti di alta specializzazione; le carenze organizzative e le emergenze che frequentemente limitano, condizionano l’atto terapeutico; le relazioni gerarchiche all’interno delle istituzioni sanitarie; la stessa complessità della scienza medica che propone al professionista un itinerario di formazione praticamente senza fine. Pare, però, che il fattore che maggiormente condiziona l’indagine penale sulla colpa sia la sovrapposizione tra gli aspetti risarcitori e quelli sanzionatori.

1.2 La colpa grave in diritto penale. Una lunga storia

Il tema della responsabilità colposa del sanitario ha dato vita all’elaborazione della figura della colpa grave. È una lunga storia, ricca di insegnamenti, essenziale per comprendere lo stato attuale della legislazione.

La più antica giurisprudenza di legittimità affermava che la responsabilità penale può configurarsi solo in caso di macroscopica violazione delle più elementari regole dell’arte. La motivazione di tale indirizzo è presto riassunta: la malattia può manifestarsi talvolta in modo non chiaro, con sintomi equivoci che possono determinare un errore di apprezzamento, e sovente non esistono criteri diagnostici e di cura sicuri. Pertanto, dovendo la colpa del medico essere valutata dal giudice con larghezza di vedute e comprensione, sia perché la scienza medica non determina in ordine allo stesso male un unico criterio tassativo di cure, sia perché nell’arte medica l’errore di apprezzamento è sempre possibile, l’esclusione della colpa professionale trova un limite nella condotta del professionista, incompatibile col minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica. Insomma, l’esclusione della colpa è la regola e l’imputazione colposa è l’eccezione che si configura solo nelle situazioni più plateali ed estreme.

Il supporto normativo di tale orientamento è stato solitamente individuato nell’art. 2236 c.c., che viene inteso come volto a limitare la responsabilità ai soli casi di errore macroscopico. Tale impostazione ha accolto, sia pure in modo molto semplificato ed acritico, l’orientamento proposto in dottrina a proposito dell’intreccio, nell’ambito delle attività professionali, tra la colpa penale e la previsione di cui all’art. 2236 c.c. Il rilievo in ambito penale di tale norma è stato essenzialmente ricondotto ad un’esigenza di coerenza interna dell’ordinamento giuridico e così alla necessità di evitare che comportamenti che non concretizzano neppure un illecito civile assumano rilevanza nel più rigoroso ambito penale. Tale connessione tra le due normative, tuttavia, è stata sottoposta in dottrina ad importanti precisazioni: le prestazioni richieste devono presentare speciali difficoltà tecniche, ed inoltre la limitazione dell’addebito ai soli casi di colpa grave riguarda l’ambito dell’imperizia e non, invece, quelli della prudenza e della diligenza. In tale visione si ritiene che la valutazione della colpa medica debba essere compiuta con speciale cautela nei soli casi in cui si richiedano interventi particolarmente delicati e complessi e che coinvolgano l’aspetto più squisitamente scientifico dell’arte medica.

La questione della compatibilità tra l’indirizzo “benevolo” della giurisprudenza ed il principio d’uguaglianza è stata posta, nell’anno 1973, all’attenzione della Corte costituzionale che ha sostanzialmente recepito le linee della indicata dottrina, affermando che dagli artt. 589, 42 e 43 c.p. e dall’art. 2236 c.c. è ricavabile una particolare disciplina in tema di responsabilità degli esercenti professioni intellettuali, finalizzata a fronteggiare due opposte esigenze: non mortificare l’iniziativa del professionista col timore d’ingiuste rappresaglie in caso d’insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso. Tale particolare regime, che implica esenzione o limitazione di responsabilità, però, si applica ai soli casi in cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e riguarda l’ambito della perizia e non quello della diligenza e della prudenza.

L’analisi della giurisprudenza mostra che l’orientamento indulgente ha finito col coprire anche casi di grave leggerezza, ed ha talvolta determinato una situazione di privilegio per la categoria. Anche per questo l’orientamento è mutato. Fattasi strada una visione del rapporto tra sanitario e paziente, che pone in primo piano il paziente stesso quale soggetto che fa valere il diritto costituzionale alla salute, a partire dagli anni ottanta dello scorso secolo, si è affermata e consolidata una giurisprudenza radicalmente contrapposta, che esclude qualsiasi rilievo, nell’ambito penale, dell’art. 2236 c.c.; ed impone di valutare la colpa professionale sempre e comunque sulla base delle regole generali in tema di colpa contenute nell’art. 43 c.p. Si osserva che la norma civile riguarda il risarcimento del danno, quando la prestazione professionale comporta la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, e non può essere applicata all’ambito penale né in via estensiva, data la completezza e l’omogeneità della disciplina penale della colpa, né in via analogica, vietata per il carattere eccezionale della disposizione rispetto ai princìpi in materia.

1.3 Le aperture nella giurisprudenza più recente

Tuttavia la giurisprudenza ha da ultimo mostrato rinnovata attenzione al tema della graduazione della colpa. Espunto l’art. 2236 c.c. dal novero delle norme applicabili nell’ordinamento penale, esso vi è rientrato per il criterio di razionalità del giudizio che esprime. Si è così affermato ripetutamente, recentemente, che la norma civilistica può trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico, quando il caso specifico sottoposto al suo esame imponga la soluzione di problemi di specifica difficoltà, non per effetto di diretta applicazione nel campo penale, ma come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l’addebito di imperizia sia quando si versi in una situazione emergenziale, sia quando il caso implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà2.

Questa rivisitazione della normativa civilistica è davvero interessante ed importante, non solo perché recupera le ragioni profonde che stanno alla base del tradizionale criterio normativo di attenuazione dell’imputazione soggettiva, ma perché, le dette pronunzie chiariscono i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione “benevola” del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall’altro le contingenze nelle quali il medico si trovi ad operare in emergenza e quindi in quella situazione intossicata dall’impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili. Quest’ultima notazione, valorizzata come si deve, dunque, apre alla considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa.

1.4 La nuova disciplina

In questo quadro si colloca la nuova disciplina introdotta con l’art. 3 della l. 8.11.2012, n. 189. La normativa prevede che l’esercente una professione sanitaria, che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida ed a pratiche virtuose accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve.

La focalizzazione

L’innovazione ha suscitato difficoltà interpretative a causa di rilevanti imperfezioni, incongruenze, persino contraddizioni. Si è considerato criticamente che non è facile comprendere come possa configurarsi colpa nel caso in cui vi sia stata l’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche terapeutiche; e se ne è desunto che si è in presenza di una novità di modesto rilievo.

Non vi è dubbio che l’intervento normativo, presenti diversi punti critici. Tuttavia, non si può mancare di cogliere il senso dell’importante innovazione.

2.1 Le linee guida ed il sapere scientifico

Già ad una prima lettura risulta chiaro che due sono i tratti di nuova emersione. Da un lato, la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, per la prima volta normativamente introdotta nell’ambito della disciplina penale dell’imputazione soggettiva. Dall’altro, la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche, purché corroborate dal sapere scientifico.

Le linee guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche. Si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le determinazioni; e di sottrarle all’incontrollato soggettivismo del terapeuta. I vantaggi di tale sistematizzata opera di orientamento sono tanto noti quanto evidenti.

Tale strumento appare particolarmente utile nell’ambito dell’attività medica che non è di regola governata da prescrizioni aventi propriamente natura di regole cautelari, ma è fortemente orientata dal sapere scientifico e dalle consolidate strategie tecniche, che svolgono un importante ruolo nel conferire oggettività e determinatezza ai doveri del professionista e possono al contempo orientare le pur difficili valutazioni cui il giudice di merito è chiamato. In breve, attraverso le linee guida il sapere scientifico e quello tecnologico entrano nel giudizio e gli conferiscono oggettività, prevedibilità: promettono di far maturare la colpa sia sul versante della determinatezza che su quello del rimprovero soggettivo.

Del resto la giurisprudenza di legittimità3 ha già in passato avuto modo di porre in luce l’importanza del sapere scientifico ed i pericoli che incombono nel suo uso: la mancanza di cultura scientifica dei giudici, gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le negoziazioni informali oppure occulte tra i membri di una comunità scientifica; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche. Tale situazione rende chiaro che il giudice non può certamente assumere un ruolo passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico, ma deve svolgere un penetrante ruolo critico, divenendo (come è stato suggestivamente affermato) custode del metodo scientifico.

Si è pure posto in luce che il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall’apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all’indipendenza di giudizio dell’esperto. Tuttavia, ciò può non bastare. Infatti non si tratta tanto di comprendere quale sia il pur qualificato punto di vista del singolo studioso, quanto piuttosto di definire, ben più ampiamente, quale sia lo stato complessivo delle conoscenze accreditate. Pertanto, per valutare l’attendibilità di una tesi occorre esaminare gli studi che la sorreggono; l’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività delle ricerche; il grado di consenso che l’elaborazione teorica raccoglie nella comunità scientifica. Inoltre, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove. Insomma, dopo aver valutato l’affidabilità metodologica e l’integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. Naturalmente, il giudice di merito non dispone delle conoscenze e delle competenze per esperire un’indagine siffatta: le informazioni relative alle differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero, dovranno essere veicolate nel processo dagli esperti. Costoro, come si è accennato, non dovranno essere chiamati ad esprimere (solo) il loro personale seppur qualificato giudizio, quanto piuttosto a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi di giudizio che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni scientifiche del problema, vi sia conoscenza scientifica in grado di guidare affidabilmente l’indagine. Di tale indagine il giudice è infine chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto. Si tratta di indagine afferente alla sfera del fatto e dunque rimessa alla valutazione del giudice di merito; mentre il controllo di legittimità attiene solo alla razionalità ed alla rigorosità dell’apprezzamento compiuto.

Si chiarisce così, nella citata pronunzia, il ruolo di peritus peritorum tradizionalmente conferito al giudice. Il giudice, con l’aiuto degli esperti, individua il sapere accreditato che può orientare la decisione e ne fa uso oculato, metabolizzando la complessità e pervenendo ad una spiegazione degli eventi che risulti comprensibile da chiunque, conforme a ragione ed umanamente plausibile: il più alto ed impegnativo compito conferitogli dalla professione di tecnico del giudizio. Il perito non è più l’arbitro che decide il processo, ma l’esperto che espone al giudice il quadro del sapere scientifico nell’ambito cui il giudizio si interessa, spiegando quale sia lo stato del dibattito nel caso in cui vi sia incertezza sull’affidabilità degli enunciati della scienza o della tecnologia.

Tale ordine di idee chiarisce l’importanza delle linee guida. Esse, tuttavia, non sono in grado di offrire standard legali precostituiti; non divengono, cioè, regole cautelari secondo il classico modello della colpa specifica: da un lato la varietà ed il diverso grado di qualificazione delle linee guida; dall’altro, soprattutto, la loro natura di strumenti di indirizzo ed orientamento, privi della prescrittività propria di una regola cautelare, per quanto elastica.

La Corte Suprema, nella prima pronunzia4 che ha esaminato compiutamente la nuova normativa, ha messo in luce l’eterogeneo universo che dà corpo alla categoria: diverse fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo adeguamento al divenire del sapere scientifico. Alcuni documenti provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti, altri ancora da organismi ed istituzioni pubblici, da organizzazioni sanitarie di vario genere. La diversità dei soggetti e delle metodiche influenza anche l’impostazione delle direttive: alcune hanno un approccio più speculativo, altre sono maggiormente orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità; altre ancora sono espressione di diverse scuole di pensiero che si confrontano e propongono strategie diagnostiche e terapeutiche differenti. Tali diversità rendono chiaro che le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità. Dunque, anche nell’ambito delle linee guida non è per nulla privo di interesse valutare le caratteristiche del soggetto o della comunità che le ha prodotte, la sua veste istituzionale, il grado di indipendenza da interessi economici condizionanti. Rilevano altresì il metodo dal quale la guida è scaturita, nonché l’ampiezza e la qualità del consenso che si è formato attorno alla direttiva. A tale riguardo è sufficiente rammentare sinteticamente che si è con ragione diffuso un orientamento che rapporta la qualità scientifica delle indagini e delle “istruzioni” che se ne traggono alle prove oggettive che le corroborano.

La pronunzia ha aggiunto che il legislatore ha evidentemente inteso la delicatezza del problema e ne ha indicata la soluzione, rapportando le linee guida e le pratiche terapeutiche all’accreditamento presso la comunità scientifica. Il terapeuta, dunque, potrà invocare il nuovo, favorevole parametro di valutazione della sua condotta professionale solo se si sia attenuto a direttive solidamente fondate e come tali riconosciute.

Si è così ritenuto di poter desumere una prima, importante enunciazione normativa. La legge propone un modello di terapeuta attento al sapere scientifico, rispettoso delle direttive formatesi alla stregua di solide prove di affidabilità diagnostica e di efficacia terapeutica, immune da tentazioni personalistiche. Tale responsabile, qualificato approccio alla difficile professione giustifica, nella valutazione del legislatore, l’attribuzione di rilievo penale alle sole condotte connotate da colpa non lieve. Naturalmente, quelle stesse accreditate direttive costituiranno, al contempo, la guida per il giudizio sulla colpa.

2.2 L’apparente contraddittorietà della nuova disciplina

Come si è accennato, una prima lettura della norma induce a cogliervi una contraddizione: un terapeuta che rispetta le linee guida e che è al contempo in colpa. La contraddizione è in realtà solo apparente. Anche a tale riguardo, la richiamata pronunzia Cantore ha proposto pertinenti considerazioni. Si è osservato che per risolvere l’apparente incongruenza occorre tener conto che le linee guida, a differenza dei protocolli e delle cheek list, non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti. Esse, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico. Potrà ben accadere, dunque, che il professionista debba modellare le direttive, adattandole alle contingenze che momento per momento gli si prospettano nel corso dello sviluppo della patologia e che, in alcuni casi, si trovi a dovervi addirittura derogare radicalmente. Il legislatore ha evidentemente tenuto conto di tale situazione, disciplinando l’evenienza di un terapeuta rispettoso delle “istruzioni per l’uso” e tuttavia in colpa.

Secondo la Corte Suprema, la considerazione delle caratteristiche delle linee guida aiuta a comprendere la portata della nuova normativa ed risolverne l’apparente contraddittorietà. Potrà ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l’errore sia non lieve.

Si è pure aggiunto che, sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determina strategia, le già evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura di discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d’azione ordinaria. Una tale eventualità può essere agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria. Anche in tale ambito trova applicazione la nuova normativa.

Nella logica della novella il professionista che inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali con riguardo ad una patologia e che, tuttavia, non persegua correttamente l’adeguamento delle direttive allo specifico contesto, o non scorga la necessità di disattendere del tutto le istruzioni usuali per perseguire una diversa strategia che governi efficacemente i rischi connessi al quadro d’insieme, sarà censurabile, in ambito penale, solo quando l’acritica applicazione della strategia ordinaria riveli un errore non lieve.

Evidentemente il legislatore ha divisato di avere speciale riguardo per la complessità e difficoltà dell’ars medica che, non di rado, si trova di fronte a casi peculiari e complessi nei quali interagiscono sottilmente e magari imponderabilmente diversi rischi o, comunque, specifiche rilevanti contingenze. In tali casi la valutazione ex ante della condotta terapeutica, tipica del giudizio sulla colpa, dovrà essere rapportata alla difficoltà delle valutazioni richieste al professionista: il terapeuta complessivamente avveduto ed informato, attento alle linee guida, non sarà rimproverabile quando l’errore sia lieve, ma solo quando esso si appalesi rimarchevole.

In conclusione, alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l’esercente le professioni sanitarie; e la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti. Tale disciplina, naturalmente, trova il suo terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia.

La protezione offerta non è però illimitata. Si vuol dire che, alla stregua della logica della norma, la regola d’imputazione soggettiva della sola colpa non lieve non interviene in tutte le situazioni in cui, nel corso del trattamento, vi sia stata, in qualche frangente, l’attuazione di una direttiva corroborata. Al contrario, occorre individuare la causa dell’evento, il rischio che in esso si è concretizzato. Si richiede altresì di comprendere se la gestione di quello specifico rischio sia governata da linee guida qualificate, se il professionista si sia ad esse attenuto, se infine, nonostante tale complessivo ossequio ai suggerimenti accreditati, vi sia stato alcun errore e, nell’affermativa, se esso sia rimarchevole o meno. Naturalmente, si tratterà pure di valutare se una condotta terapeutica appropriata avrebbe avuto qualche qualificata probabilità di evitare l’evento, ma in ciò non vi è nulla di nuovo rispetto agli ordinari criteri di accertamento della colpa.

2.3 Colpa lieve e colpa grave

Come si è visto la nuova normativa ruota sulla distinzione tra colpa lieve e colpa grave. Si è discusso se l’esonero da responsabilità dia luogo ad una esimente o ad una ridefinizione della categoria della colpa.

La richiamata giurisprudenza ha preferito la seconda soluzione. Si è ritenuto che il legislatore abbia voluto utilizzare lo strumento costituito dal modellamento della colpa che si rinviene nella tradizione penalistica italiana proprio in tema di responsabilità medica; e che si riscontra pure in molti ordinamenti stranieri. Si è quindi scelto di distinguere colpa lieve e colpa grave.

La nuova normativa non ha definito le due figure, né ha tratteggiato la linea di confine tra esse; e d’altra parte non vi sono elementi per ritenere che si sia voluto far riferimento a categorie estranee alla tradizione penalistica nazionale, quale si esprime nella già evocata giurisprudenza.

Al riguardo, la pronunzia già evocata ha proposto alcune considerazioni. Si osserva che, poiché la colpa costituisce la violazione di un dovere obiettivo di diligenza, un primo parametro attinente al profilo oggettivo della diligenza riguarda la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere. Occorrerà cioè considerare di quanto ci si è discostati da tale regola. Così, ad esempio, occorrerà analizzare di quanto si è superato il limite di velocità consentito; o in che misura si è disattesa una regola generica di prudenza. Occorrerà altresì considerare quanto fosse prevedibile in concreto la realizzazione dell’evento, quanto fosse in concreto evitabile la sua realizzazione.

Vi è poi nel grado della colpa un profilo soggettivo che riguarda l’agente in concreto. Si tratta cioè di determinare la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente. Quanto più adeguato il soggetto all’osservanza della regola e quanto maggiore e fondato l’affidamento dei terzi, tanto maggiore il grado della colpa. Il quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari costituisce fattore importante per la graduazione della colpa. Ad esempio, per restare al campo medico, l’inosservanza di un norma terapeutica ha un maggiore disvalore per un insigne specialista che per comune medico generico. Per contro il rimprovero sarà meno forte quando l’agente si sia trovato in una situazione di particolare difficoltà per ragioni quali, ad esempio, un leggero malessere, uno shock emotivo o un’improvvisa stanchezza.

Altro elemento di rilievo sul piano soggettivo è quello della motivazione della condotta. Un trattamento terapeutico sbrigativo e non appropriato è meno grave se compiuto per una ragione d’urgenza. Infine, un profilo soggettivo è costituito dalla consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa e, quindi, dalla previsione dell’evento. Si tratta della colpa cosciente, che rappresenta la forma più prossima al dolo. Peraltro, non sempre ed anzi di rado la valutazione della colpa è fondata su un unico indicatore. Ben spesso coesistono fattori differenti e di segno contrario. In tale caso si ritiene che il giudice debba procedere alla ponderazione comparativa di tali fattori, secondo un criterio di equivalenza o prevalenza non dissimile da quello che viene compiuto in tema di concorso di circostanze. L’analisi comparativa diviene ancora più complessa quando si presenti il concorso di colpa di più agenti o della stessa vittima.

La citata pronunzia considera altresì che la distinzione in questione assume ora un rilievo particolare, giacché segna l’essere o il non essere del reato. Dunque, non si tratta più di graduare, ma di tentare di definire con qualche precisione il cruciale confine che determina l’estensione dell’illecito.

Di certo la colpa grave non si configura solo in caso di macroscopica violazione delle regole più elementari dell’ ars medica. Si assiste al proliferare di complesse strategie diagnostiche e terapeutiche, governate da “istruzioni” articolate, spesso tipiche di ambiti specialistici o superspecialistici. In tali contesti sarebbe riduttivo discutere di gravità della colpa con riguardo alle sole regole basilari. Al contrario, l’entità della violazione delle prescrizioni va rapportata proprio agli standard di perizia richiesti dalle linee guida, dalle virtuose pratiche mediche o, in mancanza, da corroborate informazioni scientifiche di base. Quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione.

La novella, infatti, come si è visto, si riferisce ad un terapeuta che si sia mantenuto entro l’area astrattamente, genericamente segnata dalle accreditate istruzioni scientifiche ed applicative e tuttavia, nel corso del trattamento, abbia in qualche guisa errato nell’adeguare le prescrizioni alle specificità del caso trattato. Si può ragionevolmente affermare che, in tale situazione, la colpa assumerà connotati di grave entità solo quando l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente.

Discorso non dissimile può esser fatto nel caso in cui il terapeuta si attenga allo standard generalmente appropriato per un’affezione, trascurando i concomitanti fattori di rischio o le contingenze che giustifichino la necessità di discostarsi radicalmente dalla routine. In tale situazione potrà parlarsi di colpa grave solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente.

Gli strumenti concettuali per muoversi su tale terreno sono quelli della tradizione. Invero non si potrà mancare di individuare le caratteristiche dell’atto medico, la sua complessità; e di definire la figura di professionista, l’agente modello cioè, adeguatamente qualificato per gestire lo specifico rischio terapeutico; e di comprendere se l’agente concreto si sia altamente discostato dallo standard di qualità dell’agire terapeutico che il professionista archetipico esprime regolarmente. Si tratta del classico modello dell’ homo eiusdem professionis et condicionis, di un professionista, cioè, che opera al livello di qualificazione dell’agente concreto e che esprime un modo di operare appropriato, tipico. In breve, ci si sposta sul terreno della colpa propriamente generica e si utilizza lo strumento di analisi dell’agente modello, accreditato sia in dottrina che nella prassi. A tale riguardo occorre chiarire che la Corte Suprema non ha ritenuto di dover prendere parte alla disputa teorica tra quanti preferiscono accreditare un modello di valutazione della condotta basato sulle regole e procedure scientifiche qualificate, nel segno delle oggettività e della determinatezza e quanti, invece, preferiscono concepire un giudizio basato sul raffronto con la figura archetipica e quindi inteso a valorizzazione le componenti più soggettive della colpa. L’enorme compito che grava sul giudice lo induce senza riserve o incertezze ad un approccio eclettico: si usano gli strumenti di analisi appropriati alla concreta situazione probatoria del processo.

A tali generali indicazioni di metodo si devono aggiungere altre più specifiche e forse anche più decisive. Per articolare un giudizio sulla colpa ispirato al canone del rimprovero personale si dovrà porre speciale attenzione alle peculiarità del caso concreto; ci si dovrà dedicare a considerare i tratti della specifica vicenda, in linea con le istanze che si sono espresse nella recente giurisprudenza di legittimità e che sono state prima sintetizzate. Allora, non si potrà mancare di valutare la complessità, l’oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data. Neppure si potrà trascurare la situazione nella quale il terapeuta si trovi ad operare: l’urgenza e l’assenza di presidi adeguati, come si è esposto, rendono difficile anche ciò che astrattamente non è fuori dagli standard. E quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del terapeuta che, pur uniformandosi ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e determini la negativa evoluzione della patologia.

2.4 Gli effetti della nuova disciplina sui casi pregressi

La Corte Suprema ha risolto il problema di diritto intertemporale affermando che la riforma ha determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie. La restrizione della portata dell’incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi: l’individuazione di un’area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l’attribuzione di rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione in concreto delle direttive scientifiche. Insomma, nell’indicata sfera fattuale, la regola d’imputazione soggettiva è ora quella della (sola) colpa grave; mentre la colpa lieve è penalmente irrilevante

Tale struttura della riforma dà corpo ad un tipico caso di abolitio criminis parziale. Si è infatti in presenza di norma incriminatrice speciale che sopravviene e che restringe l’area applicativa della norma anteriormente vigente. Si avvicendano nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due incriminazioni di cui quella successiva restringe l’area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore, ritagliando implicitamente due sottofattispecie, quella che conserva rilievo penale e quella che, invece, diviene penalmente irrilevante. Tale ultima sottofattispecie è propriamente oggetto di abrogazione. La valutazione non muta se, per controprova, si guardano le cose sul piano dei valori: il legislatore ha ritenuto di non considerare soggettivamente rimproverabili e quindi penalmente rilevanti comportamenti che, per le ragioni ormai più volte ripetute, presentano tenue disvalore. Il parziale effetto abrogativo, naturalmente, chiama in causa la disciplina dell’art. 2, comma 2, c.p. e quindi l’efficacia retroattiva dell’innovazione. Tale ordine di idee trova conforto nella giurisprudenza delle Sezioni unite della Suprema Corte: si è infatti condivisibilmente affermato che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorché tra due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie (Cass. pen., S.U., 27.9.2007, Magera, Rv. 238197; Cass. pen., S.U., 26.3.2003, Giordano, Rv. 224607).

I profili problematici

L’esposizione della nuova disciplina ne individua gli aspetti problematici con i quali la prassi sarà chiamata a confrontarsi.

Da un lato si tratterà di comprendere se la risoluzione del caso concreto implichi la soluzione di problemi che richiedano l’utilizzo delle informazioni espresse dalla linee guida e dalle prassi terapeutiche. In tal caso si tratterà di valutare se ci si trovi di fronte a strumenti affidabili, ampiamente anche se non proprio generalmente accolti, aderenti a prassi virtuose ed a condivise, qualificate ponderazioni elaborate dalla comunità scientifica.

In tal caso andrà valutata la condotta del terapeuta, onde chiarire se ci si trovi di fronte ad una colpa lieve o grave: un apprezzamento quasi inevitabilmente connotato da una certa elasticità.

Infine l’interrogativo più rilevante è quello di politica del diritto. Riuscirà la nuova rassicurante normativa a mitigare le pratiche ricorrenti di medicina difensiva?

La prassi è chiamata a dare risposte.

Note

1 Tra i contributi più recenti, Roiati, A., Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo, in Dir. pen. e proc., 2013, 216 ss.; Id., Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale, Milano, 2012; Di Landro, A., Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa penale nel settore sanitario. Misura oggettiva e soggettiva della malpractice, Torino, 2012; Caputo, M., Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 875; Cupelli, C., I limiti di una codificazione terapeutica, in www.penalecontemporaneo.it, 2013; Pulitanò, D., Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in www.penalecontemporaneo.it, 2013; Brusco, C., Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modifiche introdotte dal cosiddetto Decreto Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it, 2013; Valbonesi, C., Linee guida e protocolli per una nuova disciplina dell’illecito colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 250 ss; Blaiotta, R., La responsabilità medica: nuove prospettive per la colpa, in Reato colposo e modelli di responsabilità, Bologna, 2013; Id., La colpa nella responsabilità medica, in Scritti in onore di M. Romano, Napoli, 2011, 765; Piras, P., In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it, 2013.

2 Cass. pen., sez. IV, 21.6.2007, n. 39592, Buggè, Rv. 237875; Cass. pen., sez. IV, 22.11.2011, n. 4391/12, Di Lella, Rv. 251941; Cass. pen., sez. IV, 5.4.2011, n. 16328, Montalto, Rv. 251941.

3 Cass. pen., sez. IV, 17.9.2010, n. 43786, Cozzini, Rv. 248943.

4 Cass. pen., sez. IV, 29.1.2013, n. 26237, Cantore, Rv. 255105

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