COMMITTENZA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1994)

COMMITTENZA

S. Bagci

La figura del committente, detto anche patrocinatore, ovvero promotore dell'esecuzione di un'opera d'arte, va distinta - là ove possibile - da quella del donatore, ossia dal finanziatore dell'opera. Nella grande architettura sacra o profana medievale, accanto a un committente si trovano di norma uno o più donatori: è il caso per es. della costruzione di una cattedrale, che è promossa dal vescovo o dal Capitolo, ma che si avvale del finanziamento di vari offerenti.Il problema tradizionale dell'identificazione del donatore negli ultimi tempi è passato in seconda linea rispetto a questioni quali l'individuazione delle modalità con cui il committente si poneva in evidenza e rivelava il suo ruolo sociale nell'opera d'arte o ancora la distinzione fra aspetti dell'opera riferibili alla c. e aspetti pertinenti all'artista. Non sufficientemente indagati restano ancora i meccanismi della collaborazione certamente esistente, di norma, fra il committente-concepteur e l'artista (Antal, 1947; Baxandall, 1972), determinante in ogni caso per la configurazione dell'opera.La figura del committente attiene di fatto al contesto storico dell'opera d'arte, nel senso che i suoi orientamenti religiosi, politici e ideologici e la sua condizione sociale ed economica si rispecchiano nella forma, nella tematica e nel programma dell'opera da lui promossa e talvolta ne determinano anche, almeno nelle linee generali, lo stile. Per lo più il committente si adeguava alle convenzioni della società in cui viveva, adottando un comportamento conforme alle esigenze del proprio ceto di appartenenza. Tale conformità investiva la c. e la donazione di opere d'arte allo stesso modo in cui investiva la sfera dell'abbigliamento, le usanze matrimoniali, la costruzione e l'arredamento della casa, la sepoltura, riflettendosi in pratica in tutti i momenti e oggetti della vita quotidiana (mobilio, stoviglie, vestiario, tappeti, strumenti di lavoro). La condizione sociale del committente si rispecchiava anche nelle donazioni, d'ambito sia civile (bagni pubblici, biblioteche, statue e ritratti, monumenti) sia religioso (ricoveri per poveri, ospizi, ospedali, alloggi, statue, tombe). Anche i committenti ecclesiastici (vescovi, abati e monaci, canonici) si limitarono spesso a ordinare opere d'arte convenzionali e conformi ai rispettivi ruoli.Da tale genere di committente occorre distinguere tuttavia il committente-concepteur, che, pur essendo anch'egli un esponente del pensiero di una data collettività, tende a modificare tale pensiero o a influenzarlo secondo la propria sensibilità, servendosi dell'arte come strumento di autolegittimazione e come mezzo per manifestare rivendicazioni, desideri e tendenze ideologiche personali. Il committente-concepteur interveniva nella concezione dell'opera d'arte definendone la tematica e soprattutto il programma e talvolta anche lo stile. In alcuni casi, come nelle sculture dei portali e nelle vetrate delle cattedrali, il committente stabiliva il programma in totale autonomia dagli stessi finanziatori dell'opera. La scelta di un determinato programma si attuava nelle relazioni e nelle accentuazioni degli elementi di un ciclo figurativo, nel cui protagonista il committente-concepteur cercava un'identificazione. Espressione di un dato programma era anche la scelta di determinate tipologie di Cristo o della Vergine così come di santi, eroi o di particolari temi. La stessa rappresentazione del committente nell'opera d'arte poteva seguire formule di una certa diffusione o costituire un'elaborazione del tutto individuale, ricca pertanto di significati.

Le rappresentazioni dei committenti

In generale nel Medioevo non si costituirono tipi iconografici vincolanti per la rappresentazione dei committenti e dei donatori. Si può dire tuttavia che tra i secc. 6° e 12°-13° di regola i committenti di edifici sono raffigurati in piedi con il relativo modellino, mentre i donatori appaiono devotamente inginocchiati in preghiera; nei secc. 12°-13° i membri delle corporazioni offerenti sono rappresentati nell'esercizio delle loro attività professionali; dal Duecento in poi i donatori nobili sono designati dal loro stemma o si fanno ritrarre a cavallo; nel Tardo Medioevo il donatore assiste per lo più in ginocchio a una scena del Nuovo Testamento. Una particolare importanza ebbero le fondazioni destinate a perpetuare la memoria dei donatori dopo la morte. In ogni caso, dato che le rappresentazioni di committenti e donatori non si articolarono in modo sistematico, se ne offre qui una casistica.Nell'abside di S. Vitale a Ravenna (521-531) il vescovo Ecclesio, committente della chiesa, si fece eternare con il modello di questa tra le mani presso il trono celeste del Cristo, sebbene egli si fosse limitato solamente a conferire l'incarico della costruzione al banchiere Giuliano Argentario. L'iscrizione "Iulianus argentarius servus vester praecibus vestris basilicam a fundamentis perfecit" attesta infatti che l'erezione e la decorazione di S. Vitale si dovettero al solo donatore Giuliano. Deichmann (1976-1989) distingue quindi il committente Ecclesio, mandante episcopo, dal donatore, che non agì per iniziativa propria ma per incarico del presule. Il vescovo poteva, del resto, accordare a privati abbienti e devoti, che ne avessero intenzione, il permesso e l'incarico di ricostruire o restaurare un edificio di culto divenuto insufficiente o fatiscente. Tale uso era senza dubbio già largamente diffuso nella Tarda Antichità; varie leggi (Codex Justinianeus I, 2, 15; Novellae 6, 8; 57; 119, 7 e 9) definiscono la relativa procedura e stabiliscono diritti e doveri dei donatori (Deichmann, 1976-1989, 2, p. 185). Il fatto che sia Ecclesio a essere rappresentato come committente, con il modello dell'edificio tra le mani, si spiega con il diritto del vescovo a essere effigiato nella chiesa (Deichmann, 1976-1989, 3, pp. 315-319); tale diritto invece non spettava al laico Giuliano Argentario, malgrado i suoi meriti di realizzatore di fatto (Deichmann, 1976-1989, 2, pp. 3-29).Non sempre le fonti consentono di distinguere fra committente e donatore. Nel caso della basilica Eufrasiana di Parenzo, per es., è possibile che al vescovo Eufrasio, ivi raffigurato con il modello della chiesa ("fundamenta locans, erexit culmina templi") spetti in realtà solo il merito di aver dato l'incarico della costruzione direttamente a un architetto o al capo di una corporazione edile (Prelog, 1986, tav. 39). Riguardo al papa Onorio I (625-638), raffigurato in S. Agnese f.l.m. con il modello della chiesa (Oakeshott, 1967, tav. XVI), il Lib. Pont. (I, p. 323) riferisce che egli "fecit ecclesiam beatae Agnae martyris via Numentana, miliario ab urbe Roma III, a solo", una formulazione che non chiarisce se sia stato anche il finanziatore dell'opera. Nella chiesa di S. Maria Antiqua a Roma il committente papa Zaccaria (741-752) e il donatore Teodoto, recante il modello dell'edificio, si fecero ritrarre sulla parete dell'altare di una cappella privata, al di sotto di una Crocifissione, in un pannello dedicatorio, al centro del quale si trova l'immagine di Maria Regina in trono (Belting, 1987); va peraltro osservato che i ritratti del papa e del donatore furono eseguiti su uno strato d'intonaco lavorato a parte e fissato con chiodi. Sempre a S. Maria Antiqua lo stesso Teodoto figura come offerente, in piedi presso la Madonna, in un'immagine votiva della sua famiglia, mentre in un'altra immagine votiva è rappresentato in ginocchio ai piedi dei santi dedicatari della cappella, con due ceri accesi in mano. In un oratorio nell'antico S. Pietro papa Giovanni VII (705-707) era raffigurato come committente e donatore in piedi presso Maria Regina orante. A S. Maria in Domnica il committente papa Pasquale I (817-824) appare in ginocchio ai piedi della Madonna, a cui tiene devotamente un piede, mentre lei lo indica con benevolenza (Oakeshott, 1967, tav. XX); dal gesto si potrebbe dedurre che il papa sia stato anche il donatore della chiesa, benché il Lib. Pont. (II, p. 55) si limiti a riferire che Pasquale "ecclesiam denique sanctae Dei genitricis semperque virginis Mariae dominae nostrae quae appellatur Dominica [...] ampliorem melioremque quam ante fuerat a fundamentis aedificans renovavit". Lo stesso papa è raffigurato, in piedi, con il modello della chiesa, nel mosaico absidale di S. Prassede (Oakeshott, 1967, fig. 124). Questo modo di rappresentare il committente, in uso fin dal sec. 6°, si conservò anche sotto Innocenzo II nel mosaico di S. Maria in Trastevere, eseguito nel 1140 ca. (Oakeshott, 1967, tav. XXVI).È agevole distinguere il committente dal donatore quando il promotore di un grande edificio invita più donatori a finanziarne alcune parti. Nel sec. 12° i pilastri del duomo di Piacenza, fondato sicuramente dal vescovo locale, furono offerte dalle sette corporazioni artigiane della città, che si fecero raffigurare non nell'atteggiamento dei donatori, bensì con immagini relative alle loro attività professionali: due mercanti di stoffe tagliano a metà una pezza, un tintore ("Ugo tinctor") immerge un panno in un mastello; lo stesso personaggio è indicato come donatore in un'iscrizione, insieme con la moglie Maria Bove. Le colonne sono contrassegnate da scritte, per es. "Hec est columna fornariorum", "Hec est colona cerdonum"; sopra l'immagine dei calzolai corre l'iscrizione "Hec est colonna cordoanneriorum" (Berti, 1975; Romanini, 1989).Nella ricostruzione della cattedrale di Chartres, a partire dal 1194 il committente fu il Capitolo; le vetrate furono offerte da numerosi donatori, che si fecero rappresentare in vari modi: nell'esercizio delle loro attività professionali, nella cerimonia solenne dell'offerta delle vetrate, in preghiera davanti a un altare, in parata a cavallo o mediante uno stemma. La vetrata di Davide e di Ezechiele, nella parte alta del coro, fu donata dalla Corporazione dei macellai, di cui un membro è rappresentato nell'atto di abbattere un bue. Nello stesso coro la Corporazione dei fornai offrì una vetrata con l'immagine della Vergine, in cui sono visibili due fornai in atto di trasportare con una stanga un cesto pieno di pane. I calzolai (sutores) sono raffigurati due volte nella finestra del Buon Samaritano da loro offerta: intenti al proprio lavoro e nell'atto di presentare la vetrata, nel corso dell'apposita cerimonia (Manhes-Deremble, Deremble, 1988). Robert de Bérou, cancelliere della cattedrale dal 1213 al 1216, è rappresentato in ginocchio dinanzi a un altare, in abito di suddiacono e con in mano il sigillo della cancelleria, simbolo della sua carica. Altri membri del Capitolo, come Henri Noblet (m. nel 1241), si fecero ritrarre inginocchiati in preghiera ai piedi della Madonna in trono di Chartres. I nobili capetingi, donatori di numerose vetrate, sono raffigurati sia oranti sia a cavallo in grande armatura, come Philippe de Boulogne o il duca di Bretagna Pierre Mauclerc. Quest'ultimo, identificato dallo stemma, donò nel 1225 ca. l'intero complesso di vetrate della parete meridionale del transetto, facendosi ritrarre in ginocchio, con la moglie Alix de Thouars e i figli, al di sotto dei quattro profeti maggiori (Lillich, 1991). Le vetrate della parete settentrionale del transetto, sebbene nessun membro della casa reale vi sia rappresentato come donatore, furono offerte, come indicano inequivocabilmente gli stemmi e le circostanze note, da Luigi VIII e da sua moglie Bianca di Castiglia; la collocazione degli stemmi e il programma figurativo vennero curati dal Capitolo, in qualità di committente (Brenk, 1991). La vetrata con le Storie di s. Margherita nel deambulatorio (1220-1227) fu invece donata dalla vicedomina Marguerite de Lèves: fu certamente lei, consigliera laica del vescovo di Chartres e congiunta del vescovo Geoffroy de Lèves, a scegliere come tema la leggenda della sua santa protettrice (Merlet, 1896).Nel monastero già degli Eremitani di S. Agostino a Treviri si trovava in origine un timpano, scolpito intorno al 1147, con Cristo affiancato da s. Pietro e da un vescovo recante il modello di una cerchia di mura turrite (Treviri, Rheinisches Landesmus.): il rilievo celebrava l'erezione delle mura urbiche, voluta da Alberone di Montreuil, arcivescovo della città dal 1131 al 1152, del quale i monaci evidentemente avevano voluto onorare la memoria (Budde, 1979, fig. 45).È possibile distinguere il committente dal donatore nel mosaico absidale di S. Maria Maggiore a Roma (1288-1296), dove il papa Niccolò IV e il cardinale Jacopo Colonna sono raffigurati in ginocchio, con le mani giunte in preghiera, al di sotto della Incoronazione della Vergine: il papa aveva promosso la costruzione della nuova abside decorata a mosaico e del transetto e il cardinale l'aveva finanziata (Karpp, 1966; Gardner, 1973).Dall'età carolingia in poi sono frequenti nei manoscritti miniati le c.d. immagini dedicatorie (Bloch, 1962), in cui spesso gli autori sono rappresentati con i loro libri, dedicati all'abbazia di appartenenza o al suo santo patrono: si tratta però di immagini dedicatorie che contengono i ritratti degli autori e non dei committenti. Si può parlare infatti di c. solo quando ci si riferisce a un abate, un vescovo o un monaco che abbia incaricato espressamente qualcuno di far eseguire un manoscritto. L'abate di Montecassino Desiderio nel lezionario del 1071 da lui ideato (Roma, BAV, Vat. lat. 1202, c. 2r) si fece ritrarre in una scena dedicatoria dinanzi a s. Benedetto in trono. Il verso sottostante ("Cum domibus miros plures pater accipe libros") e i sei volumi deposti al suolo indicano che Desiderio fece eseguire per il monastero cassinese molti manoscritti di lusso (Brenk, 1987b, pp. 27-39). L'arcivescovo di Milano Ariberto è raffigurato in qualità di committente, accanto a Cristo, alla Madonna e a santi milanesi, sulla coperta d'argento di un sontuoso evangeliario (Milano, Tesoro del Duomo). Lo stesso Ariberto è ritratto con il modello dell'edificio nella chiesa di S. Vincenzo a Galliano, che egli fece erigere e ornare di affreschi (1007); poiché questa chiesa si trova a poca distanza da Intimiano, luogo natale di Ariberto, questi potrebbe esserne stato insieme donatore e committente. Un precedente arcivescovo milanese, Angilberto, è raffigurato nell'altare d'oro (ca. 830-840) della chiesa di S. Ambrogio mentre presenta al santo titolare un modello dell'altare stesso ed egli lo ricambia con l'impositio manus, gesto che dovrebbe indicare nell'arcivescovo il donatore. Un ritratto di committente del tutto insolito è quello contenuto nel Codex Egberti (Treviri, Stadtbibl., 24, c. 2r): in esso l'arcivescovo Egberto è raffigurato frontalmente in trono mentre due miniatori della Reichenau, Keraldus e Heribertus Augigenses, gli porgono ciascuno un manoscritto. Nella dedica (c. 1v) Egberto è indicato come destinatario del dono ("Hunc Egberte librum divino dogmate plenum suscipiendo") e la Reichenau come offerente ("Augia fausta tibi quem defert praesul honori"); ma senza dubbio l'arcivescovo fu al tempo stesso committente e donatore del codice, giacché un diverso offerente dell'abbazia non avrebbe mancato di farsi menzionare e ritrarre. Da parte loro Keraldus e Heribertus potrebbero essere stati dei semplici esecutori.Nella cappella degli Scrovegni a Padova, fondata nel 1303 e consacrata due anni dopo, il donatore Enrico Scrovegni si fece effigiare nel Giudizio finale dalla parte dei beati, vicino al modello della cappella eretta a proprie spese. Un monaco in veste bianca regge su una spalla l'edificio, che Enrico sostiene appena con una mano; al di là del modellino si volgono benignamente verso il donatore i tre titolari (da sinistra a destra: s. Giovanni, la Vergine e s. Caterina) che con i loro gesti mostrano di accettare l'offerta, con la quale il donatore si sarebbe assicurato un posto in paradiso. Verso il 1315 un ignoto scultore eseguì una statua di Enrico Scrovegni in preghiera, in piedi sotto un baldacchino, per la sua cappella sepolcrale. Infine intorno al 1360 il veneziano Andriolo de Santi scolpì in una tomba a parete la figura giacente di Enrico, morto nel 1336 (Hirschfeld, 1968, pp. 82-102, figg. 23-25).Nella chiesa di S. Francesco ad Assisi, eretta dall'Ordine francescano, le cappelle della basilica inferiore furono fatte costruire e decorare da vari donatori. Per allestire la propria cappella sepolcrale il vescovo di Assisi Teobaldo (m. nel 1329) prese in prestito dai Francescani seicento fiorini d'oro e ne restituì solo quattrocentocinquanta prima di morire. Egli si fece eternare come donatore in due affreschi nella cappella della Maddalena (1308-1310): in uno Teobaldo, che prima di diventare vescovo nel 1283 era stato frate francescano, appare in tale veste, inginocchiato dinanzi alla Maddalena, alla cui mano destra si aggrappa con un gesto di infantile timore; nell'altro è rappresentato come vescovo, inginocchiato in preghiera davanti al suo predecessore s. Rufino, patrono di Assisi, che gli posa la mano sul capo. Da questa doppia raffigurazione si può dedurre che Teobaldo in quanto francescano venerava la Maddalena e in qualità di vescovo s. Rufino (Previtali, 1969; Hueck, 1986).Una situazione più complessa per quanto concerne la c. presenta, nella stessa basilica inferiore di Assisi, la cappella di S. Nicola, sulla cui parete d'ingresso sono effigiati a fresco, ai due lati del Cristo, s. Francesco che afferra il polso di un cardinale inginocchiato - identificabile grazie all'iscrizione "Napoleo cardinalis" con Napoleone Orsini - e s. Nicola in abito vescovile che tiene per il polso un giovane chierico, anch'egli in ginocchio - con l'iscrizione "Ioh(ann)es Gaetanus" ovvero Giovanni Gaetano Orsini -, e ai due lati altri cardinali inginocchiati. Nella vetrata centrale della cappella appaiono inoltre S. Francesco che presenta al Cristo Giovanni Gaetano in un prezioso abito purpureo con un'iscrizione oggi leggibile solo in parte e, nel registro inferiore, Napoleone Orsini accompagnato dall'iscrizione "Napolio cardinalis fecit fieri hoc opus". Sulla parete di fondo della cappella si trova il sepolcro di Giovanni Gaetano, morto in giovane età. Secondo Hueck (1983) questa cappella fu offerta dal collegio cardinalizio e gli affreschi sono databili al 1296-1305. Tuttavia Napoleone Orsini, creato cardinale nel 1288 e morto nel 1342, ebbe certamente un ruolo determinante nell'elaborazione del programma figurativo e nella scelta del patronato.Una problematica analoga presenta la pala di S. Nicola nella cappella omonima di Soest, eseguita nel 1400 ca. da Corrado di Soest per la Confraternita degli Schleswigfahrer. Ai piedi del santo, in trono al centro del dipinto, è inginocchiato un donatore in abito verde, recante un cartiglio con l'iscrizione "Sancte Nicolae ora pro me"; sulla sinistra è un gruppo di quattro chierici in vesti di colore grigio chiaro, dei quali solo due guardano verso il santo; quello al centro reca un cartiglio con una scritta. I quattro personaggi potrebbero appartenere alla confraternita religiosa collegata con la cappella (Westfälische Malerei, 1964).Un eccezionale complesso di statue di donatori si trova nel coro occidentale della cattedrale di Naumburg. Si tratta di otto uomini in armi e quattro donne in abiti cortesi a grandezza naturale rappresentati sotto baldacchini come santi, ma con tratti individuali ben caratterizzati. Nel 1249 il vescovo Dietrich II e il Capitolo della cattedrale si rivolsero con un breve a tutti i fedeli della diocesi perché contribuissero con generose donazioni a condurre a termine l'edificio. Nella lettera sono menzionati i primi fundatores della cattedrale: il margravio Hermann e sua moglie Reglinde, il margravio Eckehard con la moglie Ute, i conti Syzzo, Konrad e Wilhelm, le contesse Gepa e Berchtha, il conte Dietrich e sua moglie Gerburch. Poiché quando vennero scolpite le statue del coro occidentale questi primi fondatori erano già morti da tempo, è da ritenersi ingannevole la caratterizzazione fisionomica dei ritratti. Si tratta dunque di un'opera alla memoria. Accanto ad alcuni donatori è un'iscrizione, come quella che accompagna Tino di Kistericz, "qui dedit ecclesiae septem villas". Ideatore e committente del complesso era stato probabilmente il vescovo Engelhard, morto nel 1242 (Schubert, 1968).Un modo nuovo di disporre i donatori fu adottato da Claus Sluter nel portale (1386-1401) della chiesa della certosa di Champmol presso Digione. Nella strombatura i committenti e donatori Filippo l'Ardito e Margherita di Fiandra sono raffigurati con i rispettivi santi protettori, Giovanni Battista e Caterina, nell'atto di pregare, in ginocchio, la Vergine con il Bambino, addossata al pilastro centrale. La novità di questa collocazione di profilo con lo sguardo rivolto verso la Vergine al centro sembra ispirata dalla pittura su tavola. Tuttavia rappresentazioni di donatori poste nelle strombature di portali possono essere rintracciate anche in precedenza, per es. nel portale di Petershausen (Karlsruhe, Badisches Landesmus.), dove il vescovo di Costanza s. Gebardo è raffigurato con il modello di una chiesa: si tratta anche qui, come a Naumburg, di un ritratto postumo, giacché Gebardo fu vescovo dal 979 al 995, mentre il portale venne eseguito fra il 1173 e il 1180 (Budde, 1979, figg. 76-77).Nella chiesa di Santa Croce a Firenze la cappella Bardi di Vernio contiene due tombe a parete affiancate, con affreschi al di sopra dei sarcofagi. In quella di sinistra Maso di Banco dipinse prima del 1341 una scena con Cristo in trono che mostra le stimmate e angeli recanti gli strumenti della Passione; altri due angeli annunziano con le trombe la risurrezione della carne prima del Giudizio finale. Il donatore è raffigurato in ginocchio nella valle di Giosafat, mentre implora la misericordia del Giudice celeste. Nella tomba di destra è rappresentata la Deposizione di Cristo in un sarcofago dinanzi al quale è inginocchiata la donatrice (Borsook, 19802, pp. 38-42, figg. 48-49).Le diverse categorie dei committenti.

I sovrani

Per comprendere come erano conferite, formulate, finanziate e poi artisticamente realizzate le ordinazioni, così come per capire la mentalità dei committenti e la loro concezione dell'arte, preziose notizie sono fornite dai contratti stipulati fra committenti e donatori e artisti; ma questi documenti si sono conservati in buon numero solo dal 14°-15° secolo. I fattori che portarono nel Medioevo a commissionare opere di architettura (esigenze pratiche o di rappresentanza, opus Dei, publica utilitas) sono stati esaminati da Warnke (1976); manca invece finora un'analoga ricerca riguardante la scultura, la pittura murale e le arti suntuarie. Fra i contributi più significativi si possono ricordare gli studi di Antal (1947) - che per quanto concerne la c. della pittura fiorentina, indagata dal punto di vista della storia sociale, ha richiamato l'attenzione sull'importanza che ebbero il Comune e le corporazioni di Firenze -, gli atti del convegno di Rennes del 1983 (Artistes, artisans, 1987) e di recente il contributo di Pferschy (1989) sulla politica edilizia dei re ostrogoti, visigoti, merovingi e longobardi.Nel Medioevo, come già nell'età antica, rientrava nelle tradizionali norme di comportamento dei sovrani l'erigere edifici pubblici di carattere sacro e profano (Jouffroy, 1977) e nelle biografie dei regnanti non manca mai in effetti un elenco di tali opere. Un influsso paradigmatico fu esercitato in questo campo da Costantino, quale primo imperatore cristiano; infatti non solo fu largamente imitata la sua attività di donatore, ma anche i singoli edifici da lui fondati - cattedrali come quella Lateranense e quella di Antiochia (Krautheimer, 1983) e chiese sulle tombe dei martiri e nei luoghi santi della Palestina - ebbero funzione di modello. Le fondazioni costantiniane vennero dotate di vaste proprietà terriere (massae, fundi, possessiones, agri) che ne garantissero il mantenimento (Lib. Pont., I, pp. 172-175, 176ss.; Carassai, 1901). Fu questa una premessa indispensabile, come testimoniano sia la proibizione ai vescovi di papa Gelasio I (492-496) di consacrare chiese che non fossero sufficientemente dotate di proprietà fondiarie (Gelasio, Ep., XXXIV, 22; si veda anche Pelagio, Ep., PL, LXIX, coll. 414-415) sia la Novella 67 dell'anno 538 di Giustiniano, che stabilì l'obbligo di assicurare il mantenimento delle chiese di nuova fondazione e del relativo clero (Jones, 1974; Piétri, 1978). Assai cospicui sono gli elenchi degli edifici innalzati dagli imperatori Anastasio I (491-518) e Giustiniano, ma nulla si sa sulle modalità delle c. e dei relativi finanziamenti (Downey, 1938; Capizzi, 1969, pp. 188-232). L'attività edilizia e il suo finanziamento rientravano, nell'opinione comune, fra gli obblighi legati all'esercizio del potere e alle funzioni di rappresentanza di ogni sovrano. Anche il programma edilizio del re Teodorico si inserì nel quadro tradizionale della politica romana: erano compresi in esso edifici termali, anfiteatri, mura urbiche, acquedotti, la sede del Senato a Roma, quattro palazzi a Ravenna, Verona, Pavia e Galeata, il mausoleo del re e la chiesa palatina di S. Apollinare Nuovo a Ravenna (Pferschy, 1989). Nell'opera di Eginardo (Vita Karoli Magni, 18) è ricordato con ammirazione il programma edilizio di Carlo Magno: la Cappella Palatina di Aquisgrana, il ponte sul Reno a Magonza (lungo piedi 500), i palazzi di Ingelheim e di Nimega. Carlo impose ai vescovi e agli abati di tutto l'impero di ricostruire le chiese in rovina, fece controllare dai suoi inviati l'esecuzione di tali ordini ed eresse a proprie spese (proprio sumptu) la Cappella Palatina. Questo incarico ai vescovi rappresenta una novità (Schlosser, 1892, nrr. 35, 52); in seguito anche Ludovico il Pio ordinò il ripristino di chiese (Schlosser, 1892, nr. 668). Una lettera inviata nell'813 o nell'814 dall'arcivescovo di Lione Leidrado a Carlo Magno dimostra che l'appello del sovrano non era rimasto inascoltato; sembra anzi che il vescovo si fosse addossato l'onere dei lavori di restauro intrapresi (Schlosser, 1892, nr. 709). Già nel 787 Carlo Magno aveva inviato i suoi missi a ispezionare i monasteri per accertarne le condizioni di abitabilità. Nell'867 Carlo il Calvo emanò un capitolare con cui ordinava ai "missi [...] per singulos pagos" di verificare lo stato di conservazione delle chiese e dei dipinti in esse contenuti (Schlosser, 1892, nr. 898).Grande edificatore di monasteri fu Ludovico il Pio. Per sua volontà fu innalzato e riccamente dotato con denaro pubblico il Cornelismünster di Inden (Schlosser, 1892, nr. 143) e fu lui a ordinare nell'826 all'abate Adalardo di erigere il monastero di Corvey (Schlosser, 1892, nr. 333). In genere le fonti si limitano a menzionare queste iniziative edilizie senza dare informazioni sul tipo di finanziamento e anche quando ne parlano non sempre chiariscono le modalità di contribuzione seguite dai donatori. Enrico II (1002-1024) fornì del denaro all'abate Riccardo di Verdun ("dedit ei impensas ut caementarios et necessarios artifices ad amplificandum monasterium et coenobium meliorandum munerare largiter possit"); in tal caso però l'imperatore non fu né committente né donatore, ma solo finanziatore di un ampliamento; tuttavia la fonte afferma che il presbiterio della chiesa abbaziale fu costruito "sub nomine eiusdem imperatoris" e "ex eius omnino impensis" e che l'abate, non appena fu in possesso dei fondi, diede inizio, sine mora, ai lavori (Lehmann-Brockhaus, 1938, I, nr. 2053).Tipica della munificenza dei sovrani sembra essere stata l'usanza di rivolgersi ad artisti "regni sui vel etiam de aliis regnis" (Lehmann-Brockhaus, 1938, I, nr. 1366; si veda anche Schlosser, 1892, nrr. 36, 104). La diversa provenienza degli artisti al servizio di un sovrano è particolarmente evidente nelle fondazioni dei re normanni di Sicilia. Ruggero II (1130-1154), che fece erigere suis sumptibus il duomo di Cefalù (Lehmann-Brockhaus, 1938, I, n. 2165), fu il primo a servirsi di maestranze edilizie italomeridionali, di mosaicisti bizantini e di pittori su legno musulmani; mai prima d'allora l'idea della varietà delle espressioni artistiche e delle tecniche era stata affermata in modo così creativo. Che si sia trattato in questo caso di un atteggiamento del sovrano, e forse addirittura di una politica culturale, è dimostrato dalla Cappella Palatina di Palermo e dal duomo di Monreale, in cui si manifesta l'analoga commistione dei tre diversi apporti sopra citati (Brenk, 1990a). In base allo stile dei capitelli del chiostro di Monreale, Salvini (1962) ha cercato di dimostrare la presenza sul posto di scultori della Provenza, dell'Ile-de-France, dell'Emilia e della Puglia; ma è molto probabile che sia stata la concezione di varietas propria del sovrano, più che la diversa provenienza degli artisti, a sollecitare la massima diversità di stili e motivi. Uno solo degli esecutori ha reso nota la sua origine firmandosi "Ego Romanus filius Costantinus marmurarius". A Monreale collaborarono certamente artisti siciliani e forse anche dell'Italia meridionale (Gandolfo, 1989), ma il fattore determinante fu l'intento programmatico del sovrano: non a caso in due capitelli del chiostro il re Guglielmo II è rappresentato come donatore davanti alla Madonna in trono con il Bambino, con l'iscrizione "Rex qui cuncta regis Siculi data suscipe regis" (Gandolfo, 1989, p. 144, fig. 3). Erano in fondo le disponibilità economiche che consentivano al committente di far giungere artisti da vari centri e regioni: a proposito delle vetrate del deambulatorio di Saint-Denis, l'abate Suger poteva ricordare come un fatto straordinario la partecipazione "magistrorum multorum de diversis nationibus" (Panofsky, 1946, pp. 72-74). In questo caso il dispendioso impiego di artisti stranieri per un'abbaziale era giustificato dal fatto che la chiesa ospitava al contempo le tombe dei re di Francia.In generale l'essere in grado di utilizzare artisti di vari paesi dimostrava la potenza economica e la molteplicità d'interessi culturali del committente.È proprio della c. regia l'utilizzo di preziosi materiali di spoglio: per la Cappella Palatina di Aquisgrana, per es., Carlo Magno fece venire colonne di porfido da Ravenna e da Roma. Poiché certamente egli non ignorava il significato di simbolo dell'autorità imperiale attribuito al porfido, all'aspetto puramente utilitario si associava un aspetto ideologico: l'importazione delle colonne (translatio artium) rappresentava per Carlo un'anticipazione della translatio imperii (Esch, 1969; Brenk, 1987a). Anche i re normanni di Sicilia utilizzarono colonne e capitelli di spoglio nel duomo di Cefalù, nella Cappella Palatina di Palermo e nel duomo di Monreale. Tenuto conto dei costi elevati e della difficoltà di reperimento di fusti monolitici e capitelli, l'impiego di questi elementi di spoglio, evocatori di auctoritas e di vetustas, sta a indicare le ambizioni di grandezza dei re normanni, che furono probabilmente gli ultimi sovrani medievali a fare ampio ricorso a tale pratica.Alla c. dei sovrani si collega ancora la costruzione di palazzi e di cappelle palatine. Per quanto riguarda queste ultime, l'esempio altomedievale più illustre è costituito dalla Cappella eretta da Carlo Magno ad Aquisgrana, per la quale fu preso a modello - senza dubbio per volontà dello stesso committente - S. Vitale a Ravenna; del resto, come si è visto, lo stesso Carlo Magno inaugurò l'usanza di importare materiali tratti da costruzioni antiche (Schlosser, 1892, nrr. 100-101). Al re di Sicilia Ruggero II si deve l'ideazione della Cappella Palatina di Palermo (Brenk, 1990b), con le porte di bronzo, i rivestimenti marmorei, il trono sulla parete occidentale e il largo impiego di materiali decorativi. Un caso particolare di questa tipologia architettonica è quello della Sainte-Chapelle di Parigi, destinata, più che a intenti di rappresentanza, a custodire la corona di spine di Cristo, da poco acquisita da Luigi IX (1226-1270). Nell'atto di fondazione sono menzionati come donatori il re e sua madre Bianca di Castiglia; nelle vetrate compaiono quindi solo gli stemmi dei Capetingi e della casa di Castiglia, mentre manca quello della regina Margherita di Provenza. I donatori non si fecero raffigurare nelle vetrate, ma il programma figurativo di queste contiene numerosi riferimenti alla dignità regale, che solo Luigi IX può aver preordinato (Les vitraux de Notre-Dame, 1959).La c. dei sovrani non riguarda soltanto l'architettura, ma tutte le forme d'arte e soprattutto gli oggetti in metalli nobili. Nella Tarda Antichità gli imperatori usavano, in occasione degli anniversari della loro ascesa al trono (vota), donare oro e argento sotto forma di monete, medaglie, verghe e vasellame (largitiones). Nel 324 fu depositato in una località della parte orientale dell'impero un tesoro di piatti e di coppe d'argento, donato probabilmente dall'imperatore Licinio a un suo alto ufficiale (Overbeck, 1973; Wealth of the Roman World, 1977). Di particolare rilievo è il missorium d'argento donato nel 388 da Teodosio I in occasione del decennale della sua incoronazione (Madrid, Real Acad. Historia; Volbach, Hirmer, 1958, pp. 55-56, fig. 53); il diametro del piatto (cm. 74) e il suo peso (50 libbre romane) testimoniano il livello raggiunto dalla munificenza imperiale. Un importante tesoro di argenti rinvenuto a Lambusa (Cipro) fu ordinato dall'imperatore Eraclio (610-641); poiché i marchi consentono di datare i pezzi al periodo 613-630, la lotta tra Davide e Golia rappresentata sul piatto più grande (diametro cm. 49,4; New York, Metropolitan Mus. of Art) potrebbe alludere alla guerra dei Bizantini contro i Persiani, o addirittura riferirsi al duello tra lo stesso Eraclio e il generale persiano Razatis, svoltosi nel 627 (Wander, 1973; 1975).Gregorio di Tours (Hist. Fr., VI, 2) fa menzione del vasellame d'argento da lui visto alla corte del re Chilperico I (561-584) a Nogent: "nobis rex missorium magnum, quod ex auro gemmisque fabricaverat in quinquaginta librarum pondere, ostendit, dicens: Ego haec ad exornandum atque nobilitandum Francorum gentem feci". Chilperico risulta dunque il committente dell'opera (Salin, 1939, pp. 17-19). Anche l'imperatore Gallieno (253-268) si dice che "gemmata vasa fecit eademque aurea" (Hist. Augusta, XVI).Anche per quanto riguarda le suppellettili e gli arredi liturgici, fu Costantino a dare un esempio destinato a rimanere valido per parecchi secoli, con le donazioni alle chiese romane da lui fondate. Alla basilica Lateranense offrì un ciborio (fastidium) d'argento con la raffigurazione di Cristo in trono, sette altari d'argento puro, sette patene d'oro e sedici d'argento, sette calici d'oro e venti d'argento, candelabri e lampadari a olio e altro (Lib. Pont., I, pp. 172-174). Non sorprende quindi che anche i suoi successori abbiano fatto eseguire importanti oggetti d'oro e d'argento per donarli alle chiese o per proprio uso. Tra essi ci si limita a ricordare il paliotto d'altare, la coppa e la patena di Carlo il Calvo (Schramm, Mütherich, 1962, nrr. 48-50), le situle offerte dagli Ottoni (Schramm, Mütherich, 1962, nrr. 76-77, 105), il paliotto d'oro donato da Enrico II alla cattedrale di Basilea (Schramm, Mütherich, 1962, nr. 138) e il lampadario a ruota di Federico I (Schramm, Mütherich, 1962, nr. 177).Il problema della continuità delle donazioni imperiali di arredi per il culto non è stato finora sufficientemente studiato. Rispetto all'età paleocristiana, al Medioevo pieno e al Tardo Medioevo, l'età carolingia e quella ottoniana presentano testimonianze molto più numerose. L'esempio più tipico di c. imperiale di oggetti liturgici d'oro e d'argento è costituito dall'ornatus palatii (Schramm, Mütherich, 1962, nr. 60, fig. 60) donato nell'893 da Arnolfo di Carinzia al monastero di St. Emmeram a Ratisbona. L'ornatus era formato dal c.d. ciborio di Arnolfo di Carinzia (v.), dal relativo supporto a forma di tavolo, dal Codex Aureus di Carlo il Calvo, da vari palli e da altri oggetti. Si sono conservati solo il ciborio (Monaco, Schatzkammer der Residenz) e il codice (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 14000; Schramm, Mütherich, 1962, nrr. 52, 61), ma un'immagine dell'insieme è restituita dalla miniatura con S. Erardo nel c.d. Evangelistario della badessa Uta da Ratisbona, del 1002-1020 (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 13601, c. 4r; Schramm, Mütherich, 1962, nr. 60).Altrettanto tipiche di una c. regia sono le opere d'arte in pietre preziose, delle quali i sovrani figurano non solo come committenti, ma anche come collezionisti e mecenati (Westermann-Angerhausen, 1991). L'imperatore Carlo IV (1355-1378) fece decorare le pareti della cappella di S. Venceslao nella cattedrale di Praga e quelle della cappella della Santa Croce a Karlštejn con pietre dure levigate, come corniole, ametiste, calcedoni, diaspri, crisoprasi, che insieme con le reliquie, quasi in simbiosi con esse, dovevano secondo il pensiero del sovrano evocare la città celeste dell'Apocalisse (Legner, 1978).Fin dall'età paleocristiana, ma soprattutto in quella carolingia e ottoniana, la c. regia ebbe come oggetto anche la produzione di manoscritti liturgici di lusso. In questo caso fu ancora Costantino a stabilire un modello destinato a durare a lungo: il vescovo Eusebio (Vita Const., IV, 36) narra che l'imperatore lo incaricò di far eseguire dai copisti più abili cinquanta manoscritti dei vangeli. Il suo successore Costanzo si procurò dei libri sacri per mezzo di s. Atanasio (Apologia ad Constantium, IV). Carlo Magno e sua moglie Ildegarda incaricarono Godescalco di miniare un evangeliario (Parigi, BN, nouv. acq. lat. 1203; Schramm, Mütherich, 1962, nr. 8; Mütherich, 1965) e lo stesso Carlo fece realizzare, poco prima del 795, un salterio da offrire in dono al papa Adriano I (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 1861; Schramm, Mütherich, 1962, nr. 11). Nella tarda età carolingia vari imperatori commissionarono splendidi manoscritti miniati, come per es. l'Evangeliario di Lotario (Parigi, BN, lat. 266), il Salterio di Lotario (Londra, BL, Add. Ms 37768), il Salterio di Ludovico (Berlino, Staatsbibl., Theol. lat. fol.58), la Bibbia di Viviano (Parigi, BN, lat. 1), il Libro di preghiere di Carlo il Calvo (Monaco, Schatzkammer der Residenz; la coperta è a Zurigo, Schweizerisches Landesmus.), il Salterio di Carlo il Calvo (Parigi, BN, lat. 1152) e il Codex Aureus di St. Emmeram (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 14000; Schramm, Mütherich, 1962, nrr. 25, 27, 35, 42-44, 52). Carlo il Calvo in particolare si fece rappresentare più volte come donatore, per es. inginocchiato dinanzi al Crocifisso nel suo libro di preghiere, o nel Codex Aureus (c. 5v) in trono sotto un baldacchino fra i suoi cortigiani.La tradizione di donare manoscritti proseguì con gli imperatori ottoniani. Nell'Evangeliario di Ottone III il sovrano è raffigurato in trono attorniato dalla sua corte mentre le province soggette (Sclavinia, Germania, Gallia) e Roma gli recano doni (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 4453, c. 23v-24r). Nel 1007 o nel 1012 Enrico II offrì al duomo di Bamberga da lui fondato il Libro delle Pericopi: nell'immagine dedicatoria Enrico e sua moglie Cunegonda appaiono incoronati da Cristo (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 4452, c. 2r); l'immagine dedicatoria del Sacramentario di Enrico II (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 4456, c. 11r) è invece esemplata su quella di Carlo il Calvo del Codex Aureus di St. Emmeram.Bisogna giungere al sec. 13° per trovare di nuovo importanti donazioni di manoscritti da parte di sovrani, questa volta i Capetingi: si possono ricordare il Salterio della regina Ingeborga (Chantilly, Mus. Condé, 9, già 1695), che fu miniato nel 1195 ca. (Deuchler, 1967), quello per Bianca di Castiglia (Parigi, Ars., 1186) e il Salterio di s. Luigi (Parigi, BN, lat. 10525; Thomas, 1985). Tra i manoscritti preziosi che vennero donati dai Plantageneti vanno ricordati il Salterio di Westminster (Londra, BL, Royal 2.A.XXII; Age of Chivalry, 1987, nr. 9), il rotolo con la genealogia dei re d'Inghilterra (Oxford, Bodl. Lib., Rolls 3; Age of Chivalry, 1987, nr. 10) e l'Apocalisse eseguita nel 1255 ca. (Cambridge, Trinity College, R.16.2; Age of Chivalry, 1987, nr. 349).Nel Tardo Medioevo i principi fecero eseguire libri d'ore splendidamente decorati. Poco prima del 1395 Gian Galeazzo Visconti (1351-1402) ordinò il libro d'ore che porta il suo nome (Firenze, Bibl. Naz., B.R. 397 e Landau Finaly 22); il duca Jean de Berry incaricò poco dopo il 1384 André Beauneveu di miniare il salterio che prese il nome del committente (Parigi, BN, fr. 13091) e ordinò a Jacquemart de Hesdin l'esecuzione di un altro salterio, le Très belles heures de Notre Dame (Parigi, BN, nouv.acq.lat. 3093); nel 1408-1409 Paul, Jean e Herman de Limbourg ultimarono le Belles heures de Jean de Berry (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters, 54.I.I). Va infine ricordato Renato d'Angiò, donatore di splendidi manoscritti con testi composti in parte da lui stesso (Robin, 1985).

La committenza ecclesiastica

Nel Medioevo spesso anche i committenti ecclesiastici di rango elevato innalzarono grandi edifici, assumendosi gli stessi compiti dei sovrani e adottando i medesimi mezzi di rappresentazione; soggetti però a maggiori vincoli nell'uso delle risorse finanziarie, dovettero ricorrere in misura maggiore a finanziatori esterni.Caratteristica della Roma dei secc. 4° e 5° fu la fondazione dei c.d. tituli, per la quale un membro abbiente della comunità, spesso un presbitero, donava un lotto di terreno privato per la costruzione di una chiesa di cui committente o fondatore era il papa. Nel caso del titulus Equitii, sul terreno donato da Equitius fu eretta una chiesa alla quale papa Silvestro I (314-335) fornì in dotazione alcune proprietà terriere che fruttavano annualmente quattrocentotredici solidi (Lib. Pont., I, p. 170); tali proprietà, che Costantino aveva ceduto alla Chiesa, erano amministrate direttamente da questa. Il trasferimento alla proprietà ecclesiastica di lotti di terreno e di altri beni immobili privati fu un fatto d'importanza decisiva, perché in tal modo il papato venne a disporre di uno strumento di potere capace d'impedire che i luoghi di culto fossero, dal punto di vista amministrativo, in mano a persone estranee all'ambito ecclesiale. In Occidente le chiese furono praticamente in possesso dei vescovi, mentre nell'Oriente bizantino questi non ebbero alcun potere sulle fondazioni private.Sisto III (432-440) è il primo papa a figurare come committente di una grande chiesa, S. Maria Maggiore; le modalità con cui fu finanziata la costruzione non sono peraltro deducibili dalla formula "hic fecit basilicam santae Mariae" usata nel Lib. Pont. (I, p. 232). Le donazioni fatte dal papa a S. Maria Maggiore - comprendenti fra l'altro un altare d'argento puro del peso di trecento libbre (kg. 100 ca.), tre patene e cinque calici d'argento, due calici ministeriali d'oro e due d'argento e trentaquattro lampadari d'argento, nonché varie proprietà terriere - corrispondono fin nei particolari a quelle di Costantino; il papa indusse inoltre l'imperatore Valentiniano III a donare alla Chiesa arredi liturgici, per es. un ciborio d'argento per la basilica Lateranense ("fecit autem Valentinianus Augustus ex rogatu Xysti episcopi fastidium argenteum in basilica Constantiniana"; Lib. Pont., I, p. 233). Nel sec. 6° un vescovo Eutichiano donò per una chiesa di Sion nell'Asia Minore meridionale alcuni candelabri tra i più fastosi e grandi (diametro cm. 65) conservati (Handbook of the Byzantine Collection, 1967, nrr. 63-70). Sempre nel sec. 6° un arcivescovo Anfilochio donò una delle patene più grandi e pesanti che si conoscano (Mundell Mango, 1986, nr. 6). Nel sec. 9° l'arcivescovo di Milano Angilberto II offrì alla chiesa di S. Ambrogio un altare rivestito di lamina d'oro lavorata a sbalzo (Elbern, 1952). Grandi donazioni di arredi liturgici d'oro e d'argento, impensabili senza l'esempio costantiniano, divennero abituali fin dal sec. 6° da parte di vescovi e arcivescovi; lo stesso può dirsi delle offerte di manoscritti liturgici. Il papa Onorio I (625-638), a quanto pare, finanziò egli stesso, probabilmente con i beni della Chiesa, la ricostruzione dalle fondamenta (a solo) della basilica romana di S. Agnese f.l.m. e la sua decorazione (Lib. Pont., I, p. 323).Nell'abside della cappella annessa al palazzo episcopale di Germigny-des-Prés, eretta dal vescovo Teodulfo di Orléans, si trova un'iscrizione in cui il vescovo invita il visitatore a ricordarlo nelle sue preghiere e ciò fa presumere che Teodulfo sia stato committente e donatore dell'edificio (Bloch, 1965). Di norma la residenza vescovile e la relativa cappella sono imitazioni di quelle imperiali (Hacker-Sück, 1962); la cappella di Germigny, consacrata nell'806, è detta infatti "instar videlicet eius quae Aquis est constituta". Per il vescovo Teodulfo il modello imperiale di Aquisgrana deve aver rappresentato una direttiva e al tempo stesso un limite alle proprie ambizioni.Di rado le notizie riguardanti la storia edilizia di questi edifici consentono di stabilire se un vescovo o un alto ecclesiastico siano stati semplici committenti o anche donatori: per indicare questi ultimi si usano espressioni come de propriis sumptibus, ex integro propriis impensis, suis propriis rebus, suis impendiis.Mentre nell'età tardoromana e nella prima età bizantina la costruzione di opere di pubblica utilità rientrava fra i compiti dello Stato e il comes formarum, che curava la manutenzione degli acquedotti, delle terme e delle strade, fungeva anche da soprintendente all'edilizia ecclesiastica dato che i vescovi non disponevano ancora di risorse cospicue (Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, XXII, 11), a cominciare dalla fine del sec. 4° o dall'inizio del 5° il vuoto di potere lasciato dall'amministrazione statale venne occupato dai vescovi. Indicativa è l'affermazione di Teodoreto di Cirro: "Publicas porticus ex reditibus ecclesiasticis erexi, pontes duos maximos exstruxi, balneorum publicorum curam gessi; cum ex alluente flumine aquas non haurientem civitatem nactus essem, aquaeductum condidi, et carentem aquis civitatem aquis replevi" (Ep., LXXXI; PG, LXXXIII, coll. 1261-1262). Dal sec. 5°-6° in poi le opere pubbliche vennero eseguite sempre più spesso a cura dei vescovi (Ward-Perkins, 1984; Lizzi, 1987; 1989; Liebeschütz, 1990). Questa tradizione si mantenne ancora viva nel Medioevo maturo: nella Vita Bennonis II episcopi Osnabrugensis (1068-1088), Norberto di Iburg narra che Bennone fece fortificare contro i nemici una zona elevata, costruendovi una rocca ("castrum [...] propter imminentia bella aedificare disposuit"; Lehmann-Brockhaus, 1938, I, nr. 649). Nella prima metà del sec. 11° il vescovo di Liegi Reginardo fece costruire un ponte sulla Mosa ("pontem super Mosam magno sumptu extruxit"; Lehmann-Brockhaus, 1938, I, nr. 1835). Verso il 1200 il vescovo di Münster Ermanno II fece cingere la città di mura ("permisit restaurare civitatem Monasteriensem muris et portis"; Lehmann-Brockhaus, 1938, I, nr. 962). Costruttore di un ponte poteva essere talvolta anche un abate, come dimostra l'esempio di Enrico di Lorsch, che tra il 1153 e il 1167 "pontem lapideum super flumen Wisgoz [Wechnitz] multa impensa tam sua quam Christi fidelium fabricavit" (Lehmann-Brockhaus, 1938, I, nr. 795). Tra le iniziative edilizie a carattere non religioso promosse dai vescovi può essere annoverata la costruzione di ospedali: il precetto cristiano dell'amore per il prossimo e dell'assistenza ai poveri fu il motore che spinse l'autorità ecclesiastica a provvedere a tali esigenze; xenodochia vennero allestiti spesso anche all'interno delle mura di un monastero (Imbert, 1966; Miller, 1985; Wetter, 1986; Lindgren, 1991; Sternberg, 1991).

La committenza dei comuni e della borghesia

A cominciare al più tardi dal sec. 13° la c. degli edifici pubblici venne assunta dai comuni. Già nel sec. 12° le corporazioni cominciarono a figurare in qualità di finanziatrici nella costruzione e nell'arredo delle cattedrali. Come si è visto a Piacenza, esse donarono alcune colonne del duomo e nella cattedrale di Chartres furono installate a spese delle locali corporazioni degli artigiani e dei mercanti ben quarantadue vetrate. Durante la costruzione della cattedrale la giurisdizione sulla fabbrica e sulle persone addette apparteneva esclusivamente al Capitolo (Jusselin, 1915-1922, p. 247; Amiet, 1922, p. 217); da quest'ultimo trasse origine nelle varie nazioni europee quell'istituto che, noto in Germania con il termine di Dombauhütte, fu in Italia l'Opera del duomo. Nella costruzione della cattedrale di Amiens le decisioni erano prese non solo dal vescovo e dal Capitolo, ma anche dai cittadini: in un documento del 1236 si afferma che l'opera fu intrapresa "consensu Ambianensis cleri et populi" (Kimpel, Suckale, 1985, p. 29). Non sorprende quindi che per la maggior parte le vetrate siano state offerte dalla cittadinanza e solo quattro di esse dai sindaci; tuttavia non si può ancora parlare di c. comunale, ma tutt'al più di una partecipazione di cittadini donatori. Ben diverse appaiono le circostanze in cui fu riedificato nel 1294 il duomo di Firenze. Giovanni Villani (Cronica, VIII, 9) narra che i cittadini "s'accordarono di rinnovare la chiesa maggiore di Firenze" e furono chiamati a contribuire al finanziamento dell'opera. Certamente anche il vescovo prese parte all'impresa in qualità di autorità rappresentativa, ma il Comune sembra aver assunto un ruolo molto più importante rispetto a quello avuto ad Amiens. La direzione dei lavori spettava all'Opera del duomo (Grote, 1958): nel 1295 il vescovo nominò quattro soprintendenti (operarii), dei quali due chierici e due laici; alle dipendenze dell'Opera fu posto Arnolfo di Cambio: "Magister Arnolphus est capudmagister laborerii et operis ecclesiae Beate Reparate maioris ecclesie Florentine" (Santa Maria del Fiore, 1887, nr. 24). Anche nella costruzione del duomo di Siena, a cominciare dal 1259, le decisioni non furono prese solo dal vescovo e dal Capitolo, perché alla progettazione collaborò una commissione di nove boni homines scelti dal Consiglio comunale (Pietramellara, 1980, p. 54).Per l'ambiziosa borghesia del sec. 13° l'iniziativa edilizia più importante era costituita dalla costruzione di un palazzo pubblico: il palazzo del Capitano del popolo, dei Priori o del Podestà (Paul, 1963; Tabarelli, 1978). A Firenze fu innalzata tra il 1376 e il 1392 la loggia dei Lanzi, un edificio di rappresentanza della Signoria, che già nel 1336 aveva commissionato un altro edificio importante, Orsanmichele, destinato a mercato del grano; al piano superiore, costruito in seguito per contenere la riserva granaria comunale, aveva anche sede la Confraternita dei Laudesi, alla quale era affidato il culto di un'immagine della Madonna venerata al piano terreno (Antal, 1947, p. 128). Di particolare interesse sono le opere d'arte eseguite per ornamento dei palazzi comunali. Una delle più antiche è l'altorilievo del palazzo della Ragione a Milano, (1233) con il podestà Oldrado da Tresseno, committente dell'edificio, raffigurato a cavallo. Verso il 1338 Ambrogio Lorenzetti eseguì nella sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena una serie di affreschi ordinati dal governo dei Nove, di cui facevano parte, oltre a mercanti, banchieri e grandi proprietari fondiari, anche orafi e tessitori di lana. Il programma iconografico degli affreschi comprende le allegorie del Buono e Cattivo Governo, con la rappresentazione dei relativi effetti in città e in campagna. Il re che simboleggia il Buon Governo è attorniato dalle quattro Virtù cardinali, dalla Magnanimità e dalla Pace, secondo uno schema abituale nei 'manuali per il sovrano': nel programma così annunciato il bene della comunità è posto al di sopra degli interessi particolari e la Giustizia è in posizione dominante, quale virtù morale più elevata (Rubinstein, 1958). Dai Nove furono scelti tre "buoni et experti et savi huomini" incaricati di provvedere, oltre che alla manutenzione delle strade, all'acquisizione di un "porto al mare ne le parti di Maremma, con alcuna fortezza per honore et buono stato del commune et del popolo di Siena" (Seidel, 1982). Per assicurarsi il dominio del territorio circostante, la città doveva infatti procurarsi dei castelli: il concetto ispiratore di questa politica era illustrato nella sala del Mappamondo da alcune rappresentazioni di castelli eseguite prima del 1315. Nella stessa sala Simone Martini dipinse tra il 1328 e il 1330 l'affresco raffigurante Guidoriccio da Fogliano - a cui nel 1327 i Nove avevano affidato per la prima volta la carica, dalla durata semestrale, di capitano della guerra -, ritratto a cavallo come alcuni dei signori committenti dell'epoca (Feldges-Henning, 1980). A Perugia il consilium communis et populi decise nel 1273 di erigere un nuovo palazzo pubblico: in esso la sala dei Notari, direttamente accessibile dalla piazza Grande (od. piazza IV Novembre), fu riccamente decorata da un artista della cerchia di Pietro Cavallini, secondo un programma figurativo formulato dai rappresentanti del Comune. Il programma comprende Storie di Mosè e di Gedeone, scene della Genesi con Adamo, Eva, Caino e Abele, scene tratte dalle favole di Esopo, S. Giorgio e undici raffigurazioni astrologiche. Mosè venne scelto in quanto immagine del buon sovrano, Gedeone come esempio di capo eletto dal popolo d'Israele per la propria liberazione. I due personaggi sono figure del Vecchio Testamento tradizionalmente usate in senso allegorico come legittimazione del potere regio; particolarmente interessante è in questo caso la ricezione di una simile iconografia a giustificazione del potere comunale.

Bibl.:

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Area Bizantina

La nozione di c. in area bizantina oscilla tra il patrocinium, proprio dell'età antica, che implicava la protezione e il sostegno economico di persone di rango inferiore - artisti e letterati compresi -, e il rapporto, tipico del Rinascimento e dell'età moderna, per cui gli artisti venivano impegnati per un certo periodo in una determinata opera da committenti che dovevano loro solo il rimborso delle spese sostenute per il materiale e il pagamento del lavoro svolto per l'adempimento dell'incarico assegnato.Nel mondo bizantino non esisteva un equivalente del termine committente; quello più prossimo era ktétor, che indicava colui o colei che promuoveva la fondazione (ktetóreia) di un complesso monastico, sostenendone le spese e in genere sovvenzionandolo anche in seguito, acquisendo così su di esso prerogative giuridiche o morali. Il fondatore di tali istituzioni tuttavia non coincideva necessariamente con colui che le aveva effettivamente istituite, come nel caso del monastero della Grande Lavra sul monte Athos, fondato da s. Atanasio con l'approvazione e il sostegno finanziario del futuro imperatore Niceforo II Foca (963-969).È ragionevole supporre che il committente avesse voce in capitolo nel determinare, nelle linee generali, la forma e il contenuto del progetto e della decorazione; tuttavia - soprattutto quando si trattava di oggetti mobili - è raro poter dimostrare che le sue preferenze personali avessero influenzato lo stile in cui un'opera era stata eseguita. Il modo di costruire o di dipingere era infatti considerato prerogativa dell'artista; inoltre erano le norme culturali che determinavano le forme delle creazioni bizantine, piuttosto che il gusto individuale. I casi in cui è dato percepire i segni di un intervento particolare del committente costituiscono in realtà delle eccezioni. Da questo punto di vista il carattere omogeneo delle opere d'arte bizantine - dagli edifici più ambiziosi agli oggetti di carattere personale, quali gioielli o fibbie di cintura - testimonia in modo più chiaro di quanto non avvenga per altre società come la c. costituisse solo una parte del più ampio quadro del consumo, che dipendeva - sia nel caso del finanziamento di un edificio ecclesiastico sia in quello dell'acquisto di oggetti già pronti sul mercato - da norme di comportamento che avevano la loro origine nella natura della cultura bizantina propria di un determinato periodo e che pertanto ne erano espressione.Un'analisi secondo diverse fasi cronologiche di tipo diacronico costituisce pertanto un approccio migliore di quanto non sia l'individuazione di caratteri sincronici che si attribuiscono a tutta la civiltà bizantina considerata quale entità indifferenziata. Nonostante il perdurare di determinati schemi, come il patrocinio imperiale, atti di commissione e di acquisto di opere d'arte possono rappresentare e rivelare i mutamenti storici della cultura bizantina.

Da Giustiniano alla fine dell'iconoclastia

Tra le opere espressamente commissionate nel sec. 6°, l'esempio più chiaro della volontà di considerare Costantinopoli quale erede dell'antica tradizione romana è forse quello offerto dai dittici consolari, pannelli d'avorio uniti a coppie, che di norma segnavano l'entrata in carica del console, ma che - come nel caso dei dittici di Giustiniano, realizzati prima della sua ascesa al trono - potevano recare un messaggio per il senato, oppure raffigurare i giochi circensi finanziati, al tempo dell'ascesa al consolato, 'per il bene pubblico'. Tuttavia gli stessi dittici, comparsi a Roma nel sec. 5° e successivamente prodotti a Bisanzio, mostrano come le creazioni della 'nuova Roma' fossero diverse da quelle dell'antica capitale repubblicana e imperiale. Nessun console dei tempi antichi aveva commissionato dittici e poche opere a carattere ufficiale presentano nella decorazione quei motivi fitomorfi orientali, spesso definiti sasanidi, che compaiono negli avori di Areobindo, console nel 506 (Zurigo, Schweizerisches Landesmus.).Una decorazione di questo tipo si ritrova anche nei frammenti di sculture provenienti dalla distrutta chiesa costantinopolitana di S. Polieucto (524-527), fondazione di Anicia Giuliana, principessa imperiale e moglie dello stesso Areobindo. Questo enorme edificio, le cui proporzioni erano probabilmente esemplate su quelle del tempio di Salomone, non rappresentava che una delle numerose chiese fondate o ricostruite dalla principessa: se anche queste devono supporsi ornate come S. Polieucto, il loro splendore doveva porle in netto contrasto con la relativa austerità delle chiese paleocristiane di Costantinopoli. Tale supposizione appare del resto confermata anche dalle sculture e dai mosaici, ricchissimi sebbene aniconici, della Santa Sofia giustinianea, nonché dai mosaici a carattere figurativo del presbiterio della chiesa di S. Vitale a Ravenna, costruita dal banchiere Giuliano Argentario per la somma di ventiseimila solidi, un decimo della spesa sostenuta nel 532 per Santa Sofia. Di fatto le creazioni di Anicia Giuliana dovettero suscitare uno spirito di emulazione anche da parte dello stesso Giustiniano, la cui Santa Sofia sembra essere stata edificata per rivaleggiare proprio con il S. Polieucto.Nella Costantinopoli del sec. 6° si individuano anche altri esempi di committenza. Uno di questi è testimoniato dalla copia riccamente illustrata del De materia medica di Dioscoride (Vienna, Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1), che si ritiene commissionata ancora da Anicia Giuliana - una miniatura del manoscritto la mostra attorniata dalle personificazioni della Magnanimità, della Saggezza e dell''Amore di Fondazione' (c. 6r) -, ma che in base all'iscrizione dedicatoria sembra essere stata donata alla principessa piuttosto che da lei stessa ordinata.Mentre i citati edifici costantinopolitani e gli altri coevi rappresentavano imprese eccezionali da parte di chi deteneva il potere, altrove nell'impero il costo della costruzione e della decorazione di chiese costituiva un onere a carico della collettività. I mosaici pavimentali delle chiese della Giordania, della Turchia e di altre regioni rappresentano una testimonianza di c. da parte di membri della comunità consociatisi per abbellire la casa del Signore e che sovente espressero tramite le epigrafi la speranza di salvezza implicita nella loro offerta. Associazioni rurali di tipo analogo finanziavano l'acquisto di oggetti liturgici in argento per le loro chiese, ma in alcuni casi questo genere di suppellettile, specialmente le lampade, reca i nomi o i monogrammi di singoli individui. Talvolta il bordo di un mosaico pavimentale attesta l'ammontare dell'offerta del donatore, mentre per quanto concerne gli oggetti in argento il loro valore può essere calcolato soltanto in base al peso.Tali offerte, dichiarate o meno, rappresentavano in un certo senso atti dovuti dal credente. Contemporaneamente al riconoscimento, nelle leggi di Giustiniano (Novella 67), che la menzione, e dunque la trasmissione, del nome di colui che finanziava un'opera costituiva il maggior incentivo alla c., il vescovo Severo di Antiochia dichiarava che anche i membri più poveri di una comunità dovevano dare in offerta almeno una libbra d'argento (Hom. Cathedrales, C; PO, XXII, p. 247). Dunque la registrazione delle offerte attraverso le iscrizioni che istituivano un legame tra opere particolari e persone particolari era uno degli elementi primari che motivavano l'atto del donatore nonché, in ultima analisi, il modo in cui veniva percepito sul piano sociale il dono stesso. Con il venir meno della tradizionale consuetudine epigrafica - che costituisce la principale fonte di informazioni in merito ai donatori - nei secc. 7° e 8° diminuì il numero di monumenti e degli oggetti artistici accompagnati da un'attestazione d'origine.Se tale uso si mantenne per gli edifici di carattere pubblico, per es. nei rifacimenti o nella costruzione parziale delle mura di una città a opera di imperatori o funzionari dello Stato, ciò non avvenne invece in ambito privato: le immagini commissionate da singoli individui come ex voto nella chiesa di S. Demetrio a Salonicco presentano iscrizioni che spiegano il motivo per cui esse sono state realizzate, ma non riportano alcun nome. L'iscrizione che corre al di sotto della famosa immagine di S. Demetrio che abbraccia il vescovo e l'eparca della città proclama come, grazie al santo, fossero state allontanate le flotte barbare, ma non rivela l'identità delle autorità ecclesiastiche e civili che presumibilmente presero parte all'organizzazione di questa fase decorativa della chiesa.Per la conoscenza dei nomi di coloro che promossero la realizzazione di opere di carattere sia religioso sia profano, è necessario fare riferimento esclusivamente alle fonti scritte, nelle quali, d'altro canto, si riscontra con frequenza crescente la consuetudine di attribuire a forze soprannaturali la decisione di costruire o abbellire una chiesa. È soprattutto nei testi relativi a monumenti e decorazioni del periodo dell'iconoclastia (726-780, 814-842) che viene dato spazio all'intervento umano piuttosto che a quello divino, ma va tenuto conto del fatto che in questi casi si tratta di testimonianze di parte; la c. di tali opere è infatti descritta dai cronisti e dagli agiografi iconoduli di epoca successiva come opera di tiranni che, distruggendo gli antichi monumenti e le immagini sacre, le sostituirono con immagini rappresentanti alberi, fiori, ogni genere di uccelli e altri animali, tralci d'edera brulicanti di gru, corvi e pavoni (Stefano Diacono, Vita sancti Stephani iunioris; PG, C, col. 1120c). Si stenta a riconoscere in questa descrizione dei mosaici della chiesa delle Blacherne a Costantinopoli, voluti da Costantino V (741-775) in sostituzione delle precedenti scene della Vita di Cristo, il segno di quello che deve essere stato un periodo di grande fioritura artistica.Per quanto riguarda la c. di personaggi legati alla corte ma di rango inferiore a quello imperiale, le testimonianze mancano quasi del tutto.

Dal trionfo dell'ortodossia all'età macedone

Dopo la restaurazione del culto delle immagini sacre e per varie generazioni la c. appare segnata da un'intenzione di rinnovamento e di recupero di un passato glorioso occultato dall'insania dell'iconoclastia. Questa visione è per certi versi giustificata, dal momento che numerosi ktétores ricostruirono e restaurarono i monumenti danneggiati. La chiesa della Dormizione a Nicea (distrutta nel 1922, ma nota grazie a un'ampia documentazione fotografica) rappresenta un caso eccezionale, poiché si sono conservati i nomi sia del primo sia del secondo committente della chiesa. Il primo è un non altrimenti noto Hiakinthos, il cui monogramma, presente nell'abside, era ripetuto sulla muratura di tutto l'edificio. Il secondo, che restaurò la chiesa dopo le distruzioni iconoclaste, è il Naukratios che viene indicato come ktétor in un'iscrizione tra due delle potenze angeliche del bema. Quest'ultimo fu in realtà colui che una consuetudine poi diffusa definiva come 'secondo fondatore'.Altri committenti favorirono la realizzazione di opere completamente nuove tra cui, non ultimo per importanza, deve essere ricordato il grandioso programma edilizio promosso da Basilio I (867-886) nel palazzo imperiale. L'immagine dell'imperatore, insieme a quella della famiglia, appare all'inizio di una copia illustrata delle Omelie di Gregorio Nazianzieno conservata a Parigi (BN, gr. 510, c. Cr e v). È tuttavia poco credibile che un'opera così splendida e ricca di sottigliezze teologiche sia stata commissionata da un provinciale salito al trono e quindi, come più probabile committente, è stato proposto il colto patriarca Fozio. A lui, o a qualche altro patriarca degli inizi dell'era post-iconoclasta, è stata ascritta anche la c. dei c.d. salteri a figurazioni marginali, opere dal carattere polemico in cui le miniature degli eventi dell'Antico e del Nuovo Testamento sono unite a una sorta di commentario dipinto o scritto, che allude a un loro significato in parallelo agli episodi della lotta contro gli iconoclasti, gli ebrei e i musulmani. Alla c. di Fozio si deve sicuramente il mosaico absidale con la Vergine e il Bambino in Santa Sofia a Costantinopoli: questa straordinaria opera è circondata da un'iscrizione in cui si condannano gli atti sacrileghi degli imperatori iconoclasti, dei quali tuttavia viene taciuto il nome.Con la scomparsa della minaccia iconoclasta e con il rifiorire dell'economia numerose furono le realizzazioni di altissima qualità, per le quali però non è possibile istituire una relazione con personaggi noti. Un'eccezione è l'imponente chiesa della Dormizione a Skripu in Beozia, edificata nell'873-874 da un Leone protospathários (alto dignitario di corte, probabilmente comandante militare).Circa settant'anni dopo un altro Leone, sakellários (economo di corte), è rappresentato nella c.d. Bibbia della regina Cristina di Svezia (Roma, BAV, Reg. gr. 1, c. 2v) mentre offre il codice alla Vergine. L'immagine a piena pagina è circondata, come le altre miniature del libro, da epigrammi composti dal committente o forse creati per lui; rimane tuttavia incerto quanto Leone sia stato determinante per la scelta delle immagini e dei loro contenuti.Non sono noti neppure i nomi di coloro che nel sec. 10° commissionarono manoscritti quali il Salterio di Parigi (BN, gr. 139) e il rotulo di Giosuè (Roma, BAV, Pal. gr. 431); è possibile tutt'al più supporre che le due opere siano state commissionate dall'ambiente di corte, se non dall'imperatore stesso. Maggiori informazioni si hanno soltanto nell'ambito dei reliquiari, come quello della Vera Croce in S. Francesco a Cortona, costituito da una placchetta in avorio commissionata dal tesoriere di Santa Sofia e poi entrata in possesso di Niceforo II Foca, oppure la stauroteca dorata e smaltata conservata a Limburg a.d.L. (Staurothek Domschatz und Diözesanmus.), che reca il nome di Basilio Nothos. È possibile che la devozione personale implicita nel possesso e nell'abbellimento delle reliquie stimolasse il desiderio di considerare proprietà privata gli splendidi contenitori preparati per le reliquie stesse. Il nome di Basilio, generale al servizio di numerosi imperatori, è però legato anche a una serie di manoscritti di autori cristiani e di scrittori antichi di tattica militare. È possibile pertanto considerare questo potente personaggio il miglior esempio di 'conoscitore' che il periodo mediobizantino possa offrire.Tra gli imperatori di quest'epoca il più noto per l'interesse nei confronti dell'arte è Costantino VII Porfirogenito (913-959). Cronisti come l'anonimo continuatore di Teofane gli attribuiscono la rinascita di quanto era andato perduto nel corso del tempo e la raccolta di rituali di corte antichi e recenti redatta da Costantino stesso, giunta sotto il nome di De caerimoniis aulae Byzantinae, conferma questa impressione. La stessa fonte accredita la sua attività di pittore e di 'correttore' degli artisti nei più diversi ambiti. È difficile stabilire in quale misura gli interessi di questo imperatore inducessero all'emulazione; tuttavia - si debbano o meno alla sua c. - durante il suo regno furono prodotte opere splendide, tra cui un gruppo di avori collegati al Trittico conservato a Roma nel Mus. del Palazzo di Venezia. Prima e dopo il regno di Costantino VII si ritrovano a Costantinopoli e nelle province architetture e complessi decorativi promossi da uomini strettamente legati alla corte, spesso con incarichi di tipo militare; anche i committenti di sesso femminile sono però tutt'altro che assenti fino all'epoca comnena.Il monastero costantinopolitano di Lips (Fenari Isa Cami) è generalmente considerato una rifondazione di Costantino Lips, hetaireiárches sotto Leone VI (907 ca.), ed è possibile che la c.d. Grande piccionaia, la chiesa scavata nella roccia a Çavuçsin in Cappadocia (seconda metà sec. 10°), sia stata realizzata e decorata agli ordini di Melias mághistros, un generale armeno al servizio di Niceforo II Foca; non è invece sicuro che i ritratti dell'imperatore e della sua famiglia, all'estremità orientale della chiesa, si riferiscano alla partecipazione del sovrano a questa impresa.Risulta chiaro comunque che durante i secc. 10° e 11° diversi imperatori promossero, con vari gradi di coinvolgimento personale, fondazioni e opere destinate a proclamare la loro fede ortodossa; per es. Niceforo II sovvenzionò il monastero già ricordato di S. Atanasio al monte Athos, al quale donò numerose opere d'arte tra le quali, conservate ancora in loco, una grande croce d'argento e una coperta di codice ornata di gemme.Esempi preziosi legati al nome di Basilio II (976-1025) sono il menologio (Roma, BAV, Vat. gr. 1613) e il salterio (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, gr. 17), che presentano il ritratto dell'imperatore; i due manoscritti furono probabilmente realizzati per compiacere il sovrano, più che per sua specifica richiesta, anche se il menologio ha inizio con un poema che attribuisce a Basilio la creazione di un libro 'proprio come un altro paradiso'.Spesso allo ktétor o semplicemente a una figura gerarchicamente superiore è assegnata la paternità di un'opera. Tali attribuzioni, che di fatto hanno complicato agli studiosi il già difficile compito di identificare il committente, testimoniano come la nozione di responsabilità individuale sia sostanzialmente estranea al mondo bizantino: indipendentemente dalla provenienza dei finanziamenti, la produzione artistica a Bisanzio rappresentava soprattutto l'affermazione dei mezzi di espressione di se stessa scelti dalla cultura bizantina.

Dall'età macedone alla riconquista di Costantinopoli

L'origine collettiva piuttosto che individuale di molte creazioni bizantine è esemplificata dalla serie di ritratti imperiali in Santa Sofia a Costantinopoli, che inizia nel tardo sec. 9° per continuare, con testimonianze sporadiche, fino al ritratto di Giovanni V Paleologo (1341-1391), recentemente riscoperto sull'arco orientale della chiesa. Non è possibile identificare i committenti di questi mosaici, anche se la loro realizzazione deve aver in qualche modo riscosso l'approvazione imperiale, come per es. nel caso dell'immagine con l'imperatrice Zoe e il marito Romano III ai lati di Cristo, che fu rielaborata per inserire il ritratto di Costantino IX in occasione delle sue nozze con Zoe nel 1042. L'adattamento di una copia sontuosamente decorata delle Omelie di Giovanni Crisostomo (Parigi, BN, Coislin 79) permette invece una diversa interpretazione: l'immagine dell'imperatore, realizzata nel 1078 ca. per Michele Ducas, fu trasformata nel ritratto di Niceforo Botaniate (1078-1081) sovrapponendo il nome di quest'ultimo a quello originario. I testi encomiastici rimasero invece invariati, decisione questa che sottolinea la valenza ideologica assunta da commissioni di tale genere, al di là di qualsiasi specifico atteggiamento personale; infatti le virtù elencate sono proprie dell'imperatore bizantino in assoluto e non di un individuo particolare.Valori comuni e relativi caratteri iconografici perdurano persino negli oggetti d'ornamento personale, come testimoniano gli anelli dei secc. 11° e 12° conservati a Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.). L'anello d'oro di Michele Attaliate, noto per aver fondato un monastero privato alla fine degli anni settanta del sec. 11°, presenta un busto della Vergine in smalto e incisa nel cerchio una preghiera che invoca l'aiuto mariano. La stessa invocazione ricorre nel castone dell'anello di Michele Stryphnos, databile ca. cento anni dopo, che presenta, sebbene rozzamente eseguito, anche il busto della Vergine.Mentre di oggetti preziosi portatili se ne è conservato un buon numero, è andata perduta la maggior parte degli splendidi complessi decorativi realizzati in quest'epoca, come per es. quello del monastero costantinopolitano del Pantokrator (Zeyrek Kilise Cami). La fondazione, generalmente attribuita a Giovanni II Comneno (1118-1143), che ne scrisse il typikón (atto istitutivo e regola), rivela da parte del sovrano un interesse non solo di carattere dinastico, ma anche personale. Giovanni, la sua sposa, il figlio Manuele I (1143-1180) e la nuora furono tutti sepolti nella chiesa del monastero, dedicato a s. Michele, pensata proprio come ultima dimora della dinastia comnena; tale carattere dinastico si poneva in forte contrasto con i mausolei eretti nella chiesa dei Ss. Apostoli a Costantinopoli nel sec. 4° e ricostruiti da Giustiniano I, i quali fino al 1028 accolsero le salme di numerosi imperatori, senza distinzione della famiglia di provenienza.Questo modello di fondazione riservata divenne via via prevalente anche nelle province dell'impero: a Castoria in Grecia una serie di chiese fu costruita nel corso dei secc. 12° e 13° da membri delle famiglie dei Lemniotai e dei Kasnitzoi. Nella chiesa di S. Nicola i ritratti di Niceforo Kasnitzes e della sua famiglia contraddistinguono l'edificio come fondazione familiare privata, contrariamente alle miniature di Basilio I, della sua sposa e dei suoi figli nel manoscritto delle Omelie di Gregorio Nazianzieno, che avevano una più limitata funzione dedicatoria. L'ultima fase di questo processo di personalizzazione di un monumento bizantino deve essere individuata presso Pafo, a Cipro, dove intorno al 1183 un santo locale, Neofito, con l'appoggio finanziario del suo vescovo, trasformò in chiesa (Enkleistra di Aghios Neophitos), ingrandendola, la cella in cui viveva e la decorò con scene canoniche come la Déesis, l'Ascensione e l'Anastasi. Quest'ultima scena si trovava in corrispondenza del luogo stabilito per la sepoltura di Neofito e alludeva al fatto che anch'egli sarebbe stato salvato insieme ad Adamo ed Eva. Le sue aspettative erano preannunciate nell'affresco della Déesis, un appello per immagini all'intervento di Maria e di s. Giovanni Battista, in cui Neofito è rappresentato come supplice presso i due intercessori. Nella volta infine egli era raffigurato mentre ascendeva al cielo tra gli arcangeli Michele e Gabriele.L'adozione del patrimonio figurativo ortodosso di cui si appropriarono i re normanni di Sicilia, che nel sec. 12° probabilmente utilizzarono mosaicisti bizantini per decorare la loro Cappella Palatina a Palermo e altri monumenti dell'isola, fu una decisione strategica volta a fini politici più che una scelta di carattere personale. Non soltanto in S. Maria dell'Ammiraglio (Martorana) a Palermo Ruggero II appare benedetto da Cristo in modo analogo a quanto avviene per Costantino VII su una placchetta d'avorio conservata a Mosca (Gosudarstvennyj Muz. A.S. Puškina), ma anche nel duomo di Monreale di Guglielmo II l'immagine della Madonna in trono nell'abside è qualificata come Panáchrantos, secondo la dedicazione di una famosa icona costantinopolitana.Dopo l'instaurarsi del dominio latino nella capitale dell'impero, i conquistatori imitarono l'uso bizantino del 'secondo fondatore' arricchendo di ulteriori elementi chiese già esistenti, come nel caso della nuova cappella che i Francescani aggiunsero all'edificio attualmente noto come Kalenderhane Cami, che conserva frammenti ad affresco con la vita del santo. Le testimonianze di questa occupazione straniera sono tuttavia note soltanto a livello archeologico, giacché la riconquista paleologa di Costantinopoli nel 1261 comportò la distruzione della maggior parte dei monumenti latini, in modo analogo a quanto era avvenuto per la storia dei secc. 8° e 9°, riscritta dagli iconoduli dopo il loro trionfo.

L'età paleologa

Esempio emblematico del rifiuto dell'interregno latino da parte dei Bizantini è il mosaico della Déesis realizzato nella galleria sud di Santa Sofia dopo l'incoronazione di Michele VIII Paleologo (1259-1282): lo stile che caratterizza le figure della Vergine e di Cristo ha fatto ritenere per lungo tempo il mosaico una creazione del 12° secolo. Anche in questo caso tuttavia l'opera non può essere attribuita a un intervento diretto del nuovo imperatore. Caratteristica di quest'epoca è sicuramente la c. di burocrati e di aristocratici piuttosto che quella imperiale. Tra le opere conservate l'esempio migliore di questo tipo di c. è rappresentato dagli ampliamenti e dalla decorazione della chiesa costantinopolitana di Chora (Kariye Cami) promossi da Teodoro Metochite, un alto funzionario della corte di Andronico II (1282-1328). L'edificio era al centro di un antico monastero fatto ricostruire da Metochite per potervisi ritirare; in effetti vi entrò come monaco nel 1330, anche se tra gli elaborati monumenti funebri del parekklésion, la cappella laterale che egli fece ornare di affreschi, non vi è traccia della sua tomba. Tra i mosaici della chiesa principale non compaiono ritratti dell'imperatore, mentre al di sopra della porta del nartece interno si trova un'immagine del committente che si inginocchia davanti a Cristo e gli offre la sua fondazione. Nello stesso ambiente è visibile la Déesis con la raffigurazione di Isacco Comneno, secondo fondatore del monastero nel sec. 12°, e di una monaca di nome Melania: si tratta di una sorta di visione retrospettiva dei primi benefattori, insolita nella pittura bizantina.Coerentemente con la 'privatizzazione' delle istituzioni religiose compaiono sempre più spesso immagini della famiglia del personaggio che aveva fondato o restaurato il monastero. È quanto avviene nel typikón di Teodora Synadene (Oxford, Lincoln College Lib., gr. 35), il libro delle norme del monastero femminile della Sicura Speranza (Bebaias Elpidos), da lei fondato negli anni venti o trenta del 14° secolo. Il manoscritto presenta dieci doppi ritratti della sua famiglia, coppie di sposi con vesti di corte o monastiche. Una pagina mostra l'assemblea delle monache e un'altra la ktetoríssa e sua figlia che presentano l'immagine della loro chiesa alla Vergine, rappresentata sulla pagina a fronte. Tali miniature, una galleria dell'aristocrazia degli inizi del sec. 14° unica nel suo genere, sono riecheggiate da una copia delle opere dello pseudo-Dionigi l'Aeropagita (Parigi, Louvre, Dép. des Objets d'Art, MR 416), il cui frontespizio mostra l'imperatore Manuele II Paleologo, la sposa Elena e tre dei loro figli benedetti dalla Vergine e dal Bambino. Donata dall'imperatore al monastero di Saint-Denis nel 1408, l'opera, che è molto più tarda del typicón del Lincoln College, costituisce una testimonianza del perdurare di analoghe norme compositive tra libri di genere diverso e di diversa epoca.È probabile che anche opere realizzate con altri mezzi artistici venissero utilizzate come doni a carattere diplomatico. Può per es. essere vero che il mandýlion (immagine impressa dal volto di Cristo su un velo) attualmente in S. Bartolomeo degli Armeni a Genova sia stato donato da Giovanni V Paleologo (1341-1391) al suo capitano genovese Leonardo Montaldo. La cornice d'argento dorato che lo circonda presenta scene relative alle sue vicende. L'opera nel suo insieme vale di fatto a esemplificare quella tendenza a racchiudere le reliquie entro tavole che raggiunse il suo culmine nel 13° e nel 14° secolo. Mentre nei primi secoli di Bisanzio i donatori si limitavano a offrire le reliquie facendole racchiudere entro scrigni, in età paleologa esse vennero inserite in opere di carattere pittorico nelle quali il donatore è visto spesso in stretto rapporto con un personaggio sacro. Un pannello con la Vergine circondata da santi entro medaglioni, con ricettacoli destinati ad accoglierne le presunte reliquie, fu commissionato prima del 1384 da Maria Angelina Ducaina Paleologina per il monastero della Trasfigurazione alle Meteore (Tessaglia), una fondazione retta a quell'epoca dal fratello.Un altro modo per associare il donatore alla divinità prevedeva il suo inserimento all'interno di scene bibliche. Un'icona dell'Incredulità di Tommaso nello stesso monastero rappresenta Maria Angelina tra gli apostoli come testimone dell'evento. Anche in questo caso lo schema della rappresentazione è indicativo di una crescente tendenza dell'arte paleologa a porre il committente in una posizione centrale, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, quando questo o questa occupava soltanto i margini di un'immagine o manteneva comunque un posto chiaramente subordinato anche se vicino a Cristo o alla Vergine. Questo passaggio del committente a uno status più elevato non fu un tentativo di autoaffermazione limitato a uno o due personaggi ambiziosi, ma un fenomeno osservabile su ampia scala nella cultura tardobizantina. Né si tratta semplicemente della manifestazione del desiderio di salvezza del committente. Codici di carattere scientifico, come il manoscritto con le opere di Ippocrate (Parigi, BN, gr. 2144), commissionato intorno al 1338 da Alessio Apocauco, il megas dux (ammiraglio) di Andronico III (1328-1341), rappresentano nella pagina a fronte il committente nelle stesse dimensioni dell'autore dell'opera e a esso giustapposto. Tali modelli di esaltazione del committente trovano confronti nella produzione italiana del Tardo Medioevo e del Rinascimento, ma è problematico stabilire se si tratti di relazioni causali o di un semplice parallelismo.In età paleologa possono essere individuati alcuni esempi di c. artistica e architettonica che costituiscono scelte di carattere personale e persino capricci. Tuttavia più che singolari atteggiamenti di questo genere è da evidenziare la generale assenza di testimonianze visive che pongano in relazione le c. con individui noti. Mentre per il periodo più antico tale assenza può spiegarsi come una prosecuzione della tradizione della c. pro bono publico, il silenzio relativo alla c. più tarda può essere chiarito con il sentimento cristiano di modestia e più probabilmente con il fatto che tale patronato veniva a essere progressivamente visto come atto d'interesse personale o tutt'al più familiare, piuttosto che come affermazione pubblica. Dunque la c., come pure altri aspetti del comportamento, osservava le leggi non scritte della società bizantina. Fu soltanto dal sec. 12°, quando il mondo bizantino era ormai una miriade di stati più che l'erede dell'Impero romano, che espressioni di deliberato individualismo si diffusero largamente nell'orizzonte culturale.A rendere complicati i tentativi degli studiosi di isolare le imprese artistiche fu l'incapacità da parte dei Bizantini di considerare la costruzione di edifici e la loro ornamentazione come processi distinti dalla normale attività politica e sociale di quegli individui che, sufficientemente ricchi, potevano porre mano a tali imprese.Gli oggetti d'arte prodotti su commissione differivano per materiale e qualità da quelli a disposizione sul mercato, ma per iconografia e funzione difficilmente si possono operare distinzioni. Come avviene nel caso in cui si voglia individuare lo stile dei singoli artisti, i tentativi fatti dagli storici di identificare i committenti valgono a indicare più gli interessi propri della loro epoca che non quelli del mondo bizantino.

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Islam

La scarsità di dati attendibili rende difficile una definizione del fenomeno della c. nel mondo islamico. Rarissime infatti sono le fonti scritte che nel corso della realizzazione di un'opera architettonica, di un manufatto o di un manoscritto attestino un rapporto diretto tra committente e artefice; tale rapporto si può evincere solo o soprattutto dall'analisi delle opere d'arte.Una delle motivazioni più importanti che promossero la c. architettonica fu certamente la necessità di esaltare la grandezza dell'Islam; a essa può bene ricollegarsi la produzione di opere d'arte quali offerte ai luoghi santi, inviate, in modo particolare, alla Mecca per la Ka῾ba e a Medina per la tomba di Maometto.Insieme a tale aspetto emerse presto anche la volontà, da parte del committente, di consegnare ai posteri il proprio nome. Tale esigenza appare in maniera esplicita durante il regno dello hamdanide Abū Taghlīb ibn Nāṣir al-Dawla (969-981), il quale fece copiare il Kitāb al-aghānī (Libro dei canti) "affinché il proprio nome potesse rimanere perpetuato attraverso di esso" (Rice, 1953, p. 133). In altri casi la c. traspare dalle fonti, come indica l'episodio verificatosi durante la costruzione, nel 1067, della madrasa del ministro selgiuqide Niẓām al-Mulk (1018-1092): costui preferì sorvolare sul furto di una consistente somma di denaro destinata ai lavori, piuttosto che rischiare che il proprio nome venisse cancellato dall'iscrizione (Pope, Minovi, 1937-1938). Analogo intento animava del resto anche i committenti di manufatti e manoscritti, preoccupati non solamente di ampliare le loro biblioteche o di accumulare tesori, ma anche di garantire al proprio nome l'immortalità.

La committenza architettonica

In un primo periodo della storia dell'Islam (ca. 622-1050) un gran numero di edifici pubblici e privati fu commissionato dai califfi delle dinastie degli Omayyadi (v.), Abbasidi (v.) e Fatimidi (v.). Durante questi secoli una manifestazione monumentale della c. califfale è rappresentata dalla fondazione di nuove città. Malgrado la scarsità di fonti, sin dal sec. 7°, quando appare la dinastia omayyade, gli edifici mostrano una connotazione originale loro propria in grado di qualificarli come prodotto di una c. specifica, quella appunto islamica.Nella Cupola della Roccia (691) a Gerusalemme, per es., sia la pianta sia l'impianto decorativo esprimono, pur in un gusto eclettico, un intento ideologico ben preciso, teso a dimostrare la fede religiosa del califfo omayyade 'Abd al-Malik. Sempre per quanto concerne l'attività dei califfi omayyadi, un altro aspetto importante è costituito dalla particolare cura riservata alla scelta delle maestranze attive alla decorazione architettonica; a tale proposito devono essere menzionati i maestri mosaicisti operanti nella Cupola della Roccia, nella Grande moschea di Medina (705-710) e in quella di Damasco (706), i quali, provenienti probabilmente da ambito bizantino, furono chiamati per la loro particolare abilità tecnica, ma anche per il fatto che il loro lavoro rifletteva una moda ben precisa, apprezzata e diffusa tra i musulmani. La creazione di vere e proprie botteghe di corte, formate molto spesso da artisti di ambito non musulmano, riflette certamente la necessità, da parte dei sovrani, di patrocinare e dirigere anche concettualmente le tendenze estetiche di un'arte palatina: tale fenomeno è attestato soprattutto in epoca abbaside, come indica il significativo esempio della fondazione della città rotonda di Baghdad (la Madīnat al-Salām) da parte del califfo al-Manṣūr (762-765), per la quale furono impiegati artisti chiamati a raccolta da tutte le aree del mondo islamico sotto il patrocinio diretto del sovrano. Nell'836 il califfo al-Mu'taṣim, con la fondazione della città di Samarra, mostrò di volersi adeguare a un'analoga sorta di c. imperiale; anche in questo caso infatti vennero reclutati artigiani provenienti da regioni diverse, destinati in seguito a risiedere in aree specifiche dei mercati. La loro attività si svolgeva sotto il controllo regio e può essere considerata all'origine delle forme di c. in cui la realizzazione delle opere e l'organizzazione stessa della produzione artistica erano appannaggio dell'aristocrazia.Già nel periodo abbaside, con il grande sviluppo di diversi centri urbani, si rafforzò una nuova componente sociale, a essi strettamente legata e portatrice di nuove forme di committenza. In maggioranza costituita da commercianti, essa includeva anche funzionari statali, medici e uomini di scienza. Principalmente rivolta alla produzione di oggetti, questa élite urbana operò, sia pure in forma minore, anche in campo architettonico. È noto che i califfi abbasidi dipesero economicamente da questa ricca classe mercantile, che già nel sec. 9° poteva rivestire ruoli di responsabilità anche in ambito palatino. Tra i secc. 10° e 11° l'ascesa conobbe un ulteriore incremento, che, in modo particolare nell'ambito fatimide e ayyubide, consentì alle classi medie il raggiungimento di un tenore di vita considerevolmente alto. Lo testimoniano, fra l'altro, i documenti della Geniza del Cairo che informano dell'esistenza, tra i secc. 11° e 12°, di diversi grandi commercianti musulmani e della loro fortuna economica (Goitein, 1966). La volontà di adeguarsi alle tendenze antiche della classe aristocratica, assumendone nel gusto alcuni tratti peculiari, fece sì che, come attestano le fonti, questa componente sociale si proponesse anche in qualità di committente, con l'apertura dei propri interessi alle diverse forme artistiche, delle quali di conseguenza fu incentivata la produzione.In Anatolia (v.), in particolare durante la dominazione selgiuqide, le classi medie promossero la costruzione di madrase e caravanserragli, come per es. l'Ağızkara han (1242-1243), caravanserraglio eretto nell'Anatolia centrale sulla strada tra Akşehir e Nevşehir, su c., come riporta un'iscrizione, del mercante Mas'ūd bin 'Abdullāh; la moschea a chiosco che vi è costruita all'interno riflette sia nelle dimensioni sia nel progetto quelle dei contemporanei caravanserragli sultaniali. Significative sono anche la costruzione dello Hekim han, un caravanserraglio sulla strada da Malatya a Sivas, eretto nel 1219 sotto il patrocinio di un arcidiacono cristiano siriaco, al-Shammās al-Ḥakīm, e, sempre in Anatolia, la madrasa Buruciye, costruita a Sivas nel 1272, opera del commerciante persiano Muẓaffar al-Dīn Barujirdī.Nell'Islam medievale non può essere dimenticata un'altra c. architettonica, di tipo non palatino, costituita dal sistema del waqf (pl. awqāf, 'fondazione pia'). Questa istituzione assolveva molteplici funzioni, come la costruzione di nuovi edifici o il restauro di complessi preesistenti, ma anche, a livello amministrativo, la redazione di bilanci preventivi di spesa, fino alla scelta delle manovalanze più idonee alla realizzazione delle opere. Tra le attività controllate dal waqf devono essere anche considerate quelle relative alla produzione libraria, un controllo che si estendeva non solo agli insegnanti e ai recitatori del Corano, ma anche ai calligrafi, ai legatori e ai decoratori che lavoravano alla realizzazione dei volumi nelle officine librarie.Nel periodo 'classico' dell'Islam, la c. palatina acquisì nuove forme espressive, derivate anche dall'emergenza delle classi mercantili con cui gli artigiani, posti sotto il diretto controllo dei sovrani, dovevano inevitabilmente confrontarsi. Nel corso dei secc. 13° e 14° si assistette spesso a una partecipazione diretta da parte dei sovrani a opere architettoniche. Il geografo Ibn Bībī (sec. 13°) riferisce che nella costruzione delle mura di Konya il sultano 'Alā' al-Dīn Kayqubād (1219-1237) svolse personalmente un ruolo di progettista di una parte dell'edificio; analogamente, lo scrittore Aqsarayī (1323) riporta che il ministro selgiuqide Jalāl al-Dīn Qaratay (1215/1216-1254) si recava spesso di persona a controllare gli edifici che faceva costruire in diversi centri dell'Anatolia e in particolare a Konya. Tuttavia l'assenza di caratteri comuni a tutte queste costruzioni, pure promosse da uno stesso committente, parla a sfavore di un ruolo attivo di questi all'ideazione. È noto che il ministro selgiuqide Niẓām al-Mulk affidò per intero a un sufi di Nīshāpūr il compito di sovrintendere alla costruzione della sua madrasa a Baghdad, limitandosi a versargli la somma necessaria e lasciando interamente a lui la cura della realizzazione dell'opera.In epoca mongola la produzione architettonica almeno in un caso arriva a riflettere precisi messaggi ideologici: nel mausoleo del sultano ilkhanide Üljaytü a Sulṭāniyya (Persia), costruito come sua sepoltura nel corso dei primi venti anni del sec. 14°, si ha un esempio di come, al mutare delle concezioni religiose e politiche del committente, si provvedesse prontamente a modificare il programma decorativo dell'edificio (Blair, 1987).

La committenza di manufatti

Per quanto concerne le arti suntuarie, oggetti di lusso apparivano nell'uso quotidiano nell'ambito di contesti aristocratici. In particolare essi venivano esposti in occasione di cerimonie ufficiali; infatti le fonti riportano notizie dettagliate degli oggetti di lusso che si trovavano nei tesori fatimidi. Tale ostentazione di ricchezza rifletteva usi già presenti prima dell'Islam. Il particolare valore attribuito alla produzione di oggetti metallici sembra attestato da numerose miniature nelle quali essi vengono esibiti ai lati dei sovrani quali simboli di ricchezza, secondo un uso peculiare degli oggetti di lusso descritto in una fonte tarda, l'Arḍnāme (1476), che doveva riflettere certamente precedenti tradizioni (Minorsky, 1939).Accanto agli oggetti metallici si diffuse ampiamente la ceramica. Specialmente in epoca abbaside tale aumento di produzione coincise con una maggior diversificazione delle tipologie degli oggetti; in modo particolare si diffuse tra la ricca aristocrazia il gusto per una ceramica che, sulla scia dell'importazione di esemplari estremo-orientali in porcellana, ne riproduceva i modelli, dando avvio a una vera e propria moda.Dalla metà del sec. 12° anche la classe media e in particolare i commercianti, grazie soprattutto al potere economico raggiunto, si fecero patrocinatori di opere nell'ambito delle arti suntuarie. Sugli oggetti in bronzo decorati con la tecnica dell'agemina possono comparire iscrizioni nelle quali sono menzionati questi nuovi committenti; in modo particolare si assiste alla c. di manufatti intesi come vere e proprie opere d'arte dal Khorasan, dall'Iraq e dal resto dell'Iran. In genere le iscrizioni non riportano titoli che permettano di individuare la classe sociale del committente; opere senza dediche possono in ogni caso riferire di una fattura non palatina. Il c.d. secchiello Bobrinski (San Pietroburgo, Ermitage) è l'opera più antica nota (1163) che offra, nella sua iscrizione, l'indicazione di un committente appartenente alla classe mercantile. Decorato ad agemina in argento e ottone, l'oggetto fu eseguito per un committente che portava il titolo di khwāja ('ricco mercante'); la fattura attesta l'opera di un artefice abilissimo, a dimostrazione di come la c. di opere d'arte da parte delle classi mercantili segnasse ormai il ruolo sociale e il potere economico raggiunto, ma anche quanto tale ascesa coincidesse con un'elevazione del gusto a un grado di raffinatezza pari a quello corrente tra le classi dominanti.Con l'incremento del consumo e del commercio delle opere d'arte, gli artisti furono in grado di elaborare uno stile originale per la produzione destinata a un mercato medio. Dal 1220, per es., è attestata su vasta scala e in diverse aree del mondo islamico l'attività di artefici il cui nome è accompagnato dall'appellativo di mawṣilī, ovvero 'legato alle officine metallistiche di Mossul'; un esempio analogo è costituito, sempre nel sec. 13°, dai miḥrāb ceramici nelle moschee di Dāmghān, Mashhad, Varāmīn, Qumm e Baku, eseguiti con una tecnica a lustro stilisticamente dipendente dai modelli di Kashan.La fortuna di classi sociali intermedie che fiorirono soprattutto in ambito iranico condizionò presto da un punto di vista artistico anche altri ambiti geografici, come quello egiziano e quello siriaco durante la dominazione prima ayyubide (1169-1260) e poi mamelucca (1250-1517). Nel mondo islamico occidentale e in Africa settentrionale si deve constatare che la c. rimase invece assai più legata all'aristocrazia di governo.

La committenza di manoscritti miniati

Generalmente essendo una delle più costose forme d'arte, la produzione di manoscritti fu appannaggio della c. reale o comunque di ambiente palatino. È noto che molti ministri furono appassionati bibliofili: le fonti per es. informano del fatto che il vizir hamdanide al-Ṣāḥib Ibn 'Abbād (sec. 10°) aveva nella sua biblioteca privata duecentoseimila codici (Rice, 1953, p. 128). Un ruolo rilevante nella produzione di libri assunsero presto anche esponenti della classe media urbana. Ne sono testimonianza le Maqāmāt (Assise) di al-Ḥarīrī, composte nel sec. 12° e riprodotte nel corso del 13° in codici miniati, dove, in forma di piccole satire, si rappresentano tipici soggetti urbani: i protagonisti non sono né sovrani né figure leggendarie, ma personaggi appartenenti appunto al nuovo contesto; vi compaiono le città, con il loro traffico intenso di carovane, abitate da una borghesia composta da burocrati, 'ulemā' ('rappresentanti del clero') e istitutori di madrase.Anche in questo caso non è dato sapere in maniera precisa quali rapporti intercorressero tra artigiano e committente, gli interessi del quale, tuttavia, traspaiono dalla richiesta di testi di argomento specifico o dalla scelta di quelli di cui si commissionava la copia. Il sovrano buyide 'Aḍūd al-Dawla (sec. 10°), che aveva curiosità nel campo dell'astrologia, incaricò il suo maestro al-Ṣūfī di scrivere un'opera su quest'argomento, il Kitāb ṣuwar al-kawākib al-thābita (Libro delle stelle fisse), che costituì un modello in gran voga, tanto che ne sono attestate copie nell'Africa settentrionale ancora nel 1220. Analogamente, l'emiro artuqide Naṣr al-Dīn Maḥmūd (1200-1222), interessato a studi di meccanica, richiese all'ingegnere di palazzo al-Jazarī un'opera dal titolo Kitāb fī ma'rīfat al-ḥiyal al-handasiyya (Libro della conoscenza delle apparecchiature ingegneristiche), della quale venne conclusa una copia presumibilmente nel 1206 a Diayarbakır (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., A. III 3472).A chi spettasse la scelta delle scene da inserire in un manoscritto miniato non è semplice da stabilire, ma probabilmente esse erano frutto dell'accordo tra artista e committente. In alcuni esempi è possibile individuare alla base delle scelte l'adesione a linee ideologiche precise. Nel 1330 ca. Ghiyāth al-Dīn, figlio del vizir ilkhanide Rashīd al-Dīn, seguì un programma iconografico legato a determinate scelte politiche quando si trattò di decidere i soggetti delle miniature del c.d. Shāhnāme Demotte (Grabar, Blair, 1980).

Bibl.:

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