COMPAGNIA

Enciclopedia Italiana (1931)

COMPAGNIA

Alberto Manzi

Teatro. - Accolta di attori (v.) per rappresentare lavori in prosa e in versi, tragici e comici. Si tratta qui unicamente della compagnia drammatica. (Per la compagnia lirica e la compagnia d'operetta, v. opera; operetta; teatro musicale).

Costituzione e vita della compagnia in Italia. - La compagnia, uscita dalle accolte di saltimbanchi e di improvvisatori, di dilettanti, si afferma e organizza con la commedia dell'arte (v.). Si hanno, allora, i tre tipi di compagnie venute fino ai nostri giorni e comuni ad altri paesi: 1. la compagnia che ha un capo (impresario, più tardi detto capocomico) che la gestisce e corre l'alea della speculazione; 2. la compagnia che ha un gruppo di attori costituiti in società, scrittura le parti necessarie al proprio completamento e non ha un nome proprio; 3. la compagnia sociale nell'intero senso della parola. Le due ultime hanno un capo che si chiama caposocio. Nel primo tipo gli attori sono tutti pagati e hanno assicurato lo spesato o paga: nel secondo i soci corrono l'alea, ma determinano uno spesato che si trattengono sugl'incassi, si dividono in proporzioni stabilite gli eventuali utili dell'esercizio, e scritturano con spesato assicurato gli altri attori: l'ultimo si chiama a carature e il carato viene proporzionato ai meriti e al rendimento d'ogni ruolo. L'attore più importante è designato a condurre la compagnia. Le compagnie sociali e a carature, in generale, erano condotte da un attore, ed erano dirette (direzione artistica) da un altro, quasi sempre il primo attore. Le responsabilità civili e giuridiche rimanevano al capocomico e ai soci. Lo spesato era assicurato sui capitali. Qualche compagnia si poneva alle volte al servizio di un principe e riceveva da lui un sussidio quando recitava nello stato, godeva del privilegio di essere chiamata a corte o nelle ville del principe stesso, ricevendo un ulteriore compenso.

Le compagnie dei comici dell'arte e quelle formate fin verso la fine del Settecento, si componevano di una dozzina di persone dei due sessi che avevano una speciale distinzione di ruoli; nell'Ottocento aumentò il numero dei componenti sino a trenta persone e oltre, e si divisero in compagnie di primo, secondo e terz'ordine. Ultime le cosiddette compagnie di guitti. All'allestimento scenico concorrevano non solo i capìtali (cioè le scene di proprietà o prese a nolo), ma l'opera del trovarobe, il quale riforniva la scena a seconda delle esigenze del lavoro da rappresentare. Vi sono altre due forme di compagnie, ma di carattere sporadico: compagnie per debutti e compagnie per l'estero. Le prime un tempo erano formate da un attore o da un'attrice che godevano fama dì celebrità: avevano un repertorio ristretto e non potevano perciò fermarsi che poche sere per città. Negli ultimi anni si sono formate compagnie per debutti per lo sfruttamento d'un dramma o di una commedia. Anche queste hanno una durata breve. Le compagnie per l'estero oggi - come al tempo della commedia dell'arte - sono quasi sempre compagnie normali, il cui capocomico prevede o ha assunto contratti per l'estero. La clausola contrattuale ha un valore in quanto il viaggio all'estero e soprattutto oltremare scioglie scrittura di attori. Per l'estero si corrisponde un soprassoldo e, prima della partenza, l'impresario deve depositare presso uffici governativi una somma equivalente al viaggio di ritorno della compagnia. Le compagnie trapelate sono compagnie di secondo e anche di terzo ordine, composte di discreti attori, affiatati, ai quali si aggiunge una celebrità (il trapelo) per due o tre recite la settimana e per un determinato periodo. L'attore che emerge e attrae l'attenzione del pubblico si chiama mattatore.

Fino a qualche anno fa le compagnie si formavano, per un anno o per un triennio, con l'inizio dell'anno comico. Questo datava dal 1° giorno di quaresima; ma poiché una volta durante la quaresima (tempo di penitenza) non si davano recite, l'attività teatrale s'iniziava col giorno di Pasqua. Quest'uso cadde con la Rivoluzione francese. Oggi in Italia si fa riposo il solo venerdi santo e l'anno comico (dal 1928) si fa iniziare dal 10 settembre.

I contratti o scritture teatrali che passavano fino a pochi anni fa attraverso gli agenti teatrali, si fanno oggi dall'ufficio dei sindacati fascisti e considerano: il ruolo, lo spesato, gli anticipi eventuali, il giorno di paga, il riposo settimanale, i diritti di cartellone e di camerino, il carico dei costumi (ormai sempre a carico del capocomico, rimanendo all'artista di provvedere solo il basso vestiano), le serate d'onore, e da qualche anno anche il riposo estivo, con relative modalità. Il contratto aveva, normalmente, la durata di un anno; ma già sul finire del sec. XVIII le compagnie si costituirono per un triennio.

I ruoli hanno la loro origine nei caratteri e nei tipi del passato, riaffermatisi nella commedia dell'arte e fissati nella commedia goldoniana (nel gergo di palcoscenico "ruolo" ha qualche volta, all'uso francese, il suo corrispondente in "parte"). Non sempre, come vedremo, i ruoli hanno una denominazione rigida e costante. Oggi possono essere così determinati: prim'attrice o prima donna assoluta e sola: e cioè la prima attrice che ha diritto alla parte più importante tra quelle femminili - purché sia di donna relativamente giovane: talvolta essa ammette un'altra prim'attrice a vicenda. Possono aspirare a questo titolo i due ruoli di prim'attrice giovane e prim'attrice dopo la scelta di parti... e la seconda donna e prima a vicenda e dopo la scelta ecc. La prima è, in parte, l'antica innamorata, spesso con spunti drammatici: l'altra è un tipo portato dalla commedia moderna, in special modo dalla commedia sociale ed è, quasi sempre, nel lavoro, la rivale della prim'attrice. Il primo attore e il primo attor giovine seguono la vicenda di scrittura del ruolo femminile corrispondente. Ma fra i primi attori v'è anche il primo attor comico, le cui parti possono affidarsi anche al brillante, se questo è castigato, distinto nei modi: ruolo vivace, con spunti di comicità, senza scene drammatiche. L'amorosa (anche prima amorosa) e l'amoroso sono gl'innamorati ancora timidi, che non hanno mai parti importanti e risolutive nella vicenda teatrale: la prima può anche essere l'ingenua; l'altro se diventa comicamente sciocco (e lo è nella commedia goldoniana) si chiama mamo. Questo ruolo oggi è scomparso. La seconda donna di spalla rimane nel carattere di amante, come la seconda donna, e può sostituire questa. Il brillante ha per suoi ascendenti alcune maschere della commedia dell'arte, e alcuni tipi nella commedia derivata dal Goldoni e nelle farse. Al secondo brillante era riservata spesso la farsa: ora ha un suo posto nella pochade. Al generico primario e promiscuo toccano le parti importanti di uomini maturi: talvolta padre nobile, diceva il ruolo; altre volte la parte assume l'importanza di un primo attore, e si dice allora: prim'attore in parrucca. Corrisponde nella parte femminile, a questo ruolo, quello di madre nobile. Il caratterista ha una tendenza al comico, come la caratterista ha sempre una parte comica; promiscuo invece si chiama, se è misto di note comiche e note drammatiche. I generici (con i diminutivi di generichetto, ecc.) non hanno una fisionomia speciale: sostengono le parti modeste, di qualunque genere. Nel gergo comico, i primi ruoli si designavano col nome di prime parti. L'indicazione dei ruoli precedeva o seguiva, sul cartellone, il nome dell'attore; ma da una cinquantina d'anni in qua l'uso è stato abolito. Vi si era sostituita la collocazione del nome e il carattere tipografico: e qui si concretavano i diritti di cartellone. E questi elenchi che raggruppano nella parte superiore le attrici e nella inferiore gli attori, vanno letti da sinistra a destra. Se ai ruoli indicati si aggiungono: amministratore, segretario, suggeritore, trovarobe, si avrà il cartellone o elenco completo.

Dopo Tatiana Pavlova, varie compagnie italiane oggi indicano anche, per le commedie nuove almeno, il nome dell'inscenatore (metteur-en-scène). Il segretario ha tra le sue differenti funzioni anche quella della compilazione del cartellone di preannunzio, che comprende, oltre all'elenco artistico, anche l'elenco delle novità; e il cartellone degli spettacoli serali. L'amministratore corrisponde le paghe o gli spesati in cinquine (e cioè ogni 5 giorni) nelle compagnie di secondo e terz'ordine, per decadi (ogni 10 giorni) nelle compagnie di prim'ordine, facendo, se del caso, le trattenute per anticipi; e in accordo col capocomico o col caposocio e coadiuvato dal segretario, provvede ai teatri e stipula i contratti. Per il periodo di riposo estivo durante il quale la compagnia rimane senza paga o a mezza paga (o spesato), l'amministratore, in accordo con un buon attore che non vuole oppure non ha la possibilità di fruire del riposo, pensa a riordinare i comici che rinunziano forzatamente alla vacanza, per recite straordinarie.

La riunione e il gergo della compagnia. - Per l'andata in scena della eompagnia si sceglie sempre una commedia nella quale nessuna parte prevalga molto sulle altre, alla quale partecipino tutti gli artisti principali: di autore noto e noto simpaticamente. La compagnia entra nella sua vita artistica normale. Alla prova s'inizia la distribuzione delle parti staccate, ruolo per ruolo. Non sempre tutto procede facilmente: si deve conciliare la parte con le esigenze della scrittura e dell'artista. Nessuno vuole le parti antipatiche (al pubblico): nessuno vuole gli schizzettonî o lavativi o sbruffarisi (parti senza risorse); nessuno vuol far da pertichino (poche parole e qualche volta solo comparsa) e mettersi a rischio di farsi beccare (disapprovazione a voce) anche senza meritarlo. Tutti vorrebbero la parte simpatica, la partona per suscitare l'interesse dell'orbetto (pubblico) e strappare il panetto (applauso): per ottenere il quale l'attore si butta (s'immedesima nella parte), batte il sostantivo (accentua mimica e intonazione), ricorre ai soggetti (frasi e periodi non scritti nel copione). Qualcuno prolunga anche troppo, per cercar l'applauso, il soggetto. L'attore ricorre alla recitazione a soggetto anche per salvarsi quando sente che si perde. E si può perdere non sapendo bene la parte e non potendo pescare dal suggeritore, e anche per un'improvvisa mancanza di memoria, per una papera. Per il panetto anche da artisti di nome si sbatte la gelatina, e cioè nei momenti di commozione si strascicano, balbettando e accennando a singhiozzi, parole e frasi e si fanno brillare le lacrime negli occhi. È necessario però che lo sbatter la gelatina non si confonda o non si trasformi in birignao (dizione strascicata, con le lacrime nella gola) che trasforma la recitazione in una specie di mugolio. Il più ambito dagli artisti è l'applauso a scena aperta purché non provocato col pistolotto. Se all'attore tocca una parte né bella né buona per emergere, allora sbrodola (la recitazione), recita col sangue al naso (svogliatissimo). L'attore che ha dello spolvero è quello che colpisce il pubblico per ciò che appare nel momento, e non per lo studio profondo della parte e per la rappresentazione artistica d'un personaggio. Ma il vero artista riempie la scena anche senza ricorrere allo spolvero. Più modestamente l'attore può far scena e cioè "rimediare bene", in modo che nessuno si accorga d' una mancata entrata, d'una scena vuota (attore che non entra nel momento indicato).

Degli attori alle cui doti fisiche non corrispondono l'intelligenza e gli altri mezzi necessarî a formare un artista, si dice che recitano bello. E, come modo di recitazione, c'è il recitare a ruzzoloni (precipitosamente), il recitare lapidario (freddo, compassato, marcato), il recitare a braccia (senza colore). La provvidenza di chi recita è il suggeritore. Rannicchiato nella sua buca, riparato dalla cuffia o cupolino, dà le entrate, le uscite e gli attacchi. A lui si confessano (e cioè si avvicinano per chiedere la "battuta") e pescano gli attori che non sanno bene la parte. Il suggeritore estrae dal libro o copione le parti da consegnare ai singoli artisti, e fa il soggetto per le entrate in scena. In questo soggetto, che viene attaccato a una quinta, sono indicati: il numero della scena, le ultime parole della battuta sulla quale un attore deve entrare in scena: le prime di chi deve entrare. Il soggetto era consultato dal buttafuori (oggi chiamato impropriamente direttore di scena), incaricato di avvertire gli artisti che sono di scena. Costui dà pure l'avviso di sgombrare la scena, di solito invasa da comici e da visitatori che sbirciano dalla spia se il pubblico è a martelletto o se c'è forno (vuoto) in teatro, e se ci sono gli amici. La spia è un buchetto o un piccolo strappo praticato verso il centro del sipario (v. palcoscenico) e meglio nel comodino - la porticciola scorrevole che è nel mezzo del telone o sipario, che si apre per lasciar passare l'artista che il pubblico, a sipario calato, evoca al palcoscenico per applaudirlo. Fino a Giovanni Emanuel, gli attori portavano baffi e pizzo, come voleva la moda: e se la parte lo esigeva si nascondevano truccandoli con mastici che formavano parte della sciatuglia (la scatola del trucco) indispensabile nelle ceste (valigia con l'occorrente per la recita della sera).

Durante la stagione (permanenza in una città) si effettuavano le serate d'onore, riservate alle "prime parti". Prima si chiamavano serate a beneficio. L'artista al quale la serata è dedicata intasca, normalmente, la metà dell'utile netto conseguito e a lui rimangono i doni. Il controllo dell'incasso è fatto dall'amministratore, il quale concorre alla compilazione del borderò che segna all'attivo l'intero incasso; e indica nel passivo la percentuale per l'affitto del teatro, le quote dei diritti d'autore (se convenuti sul carico comune), la quota dei palchi di proprietà. Le stagioni venivano così divise: quaresima, primavera (sino alla fine di maggio), giugno, luglio, agosto, settembre, autunno e autunnino (spesso, quest'ultimo, equivalente all'Avvento) e carnevale. Ogni stagione si chiude con la serata d'addio.

Storia delle compagnie italiane - Dalla compagine dei Comici dell'arte, la quale conta una dozzina di attori, la compagnia si arricchisce, col tempo, in numero se non sempre in qualità. La compagnia di Gerolamo Medebach risultava, nel 1782, composta di un impresario, di sei attori, cinque attrici, le quattro maschere della Commedia dell'arte e una coppia di ballerini. Al nome degli attori, non segue l'indicazione del ruolo. Invece dei ballerini, in altre compagnie troveremo i cantanti. Vaudevilles e balletti ci sono pure in tutte le compagnie francesi del tempo, compresa quella della Comédie. Giovanni Pindemonte, negli ultimi anni del Settecento, così descrive una compagnia: "quattro maschere, un Truffaldino e un Brighella, che chiamano i due Zanni, un Pantalone che il magnifico appellano o il primo vecchio; e un Dottor bolognese o un Tartaglia napoletano, o qualche altra caricatura inventata a capriccio che il secondo vecchio addimandano; tre o quattro uomini senza maschera, che dicono genericamente amorosi, dei quali uno è il primo, uno il secondo, uno il terzo; tre o quattro donne, che col titolo di prima, di seconda, di terza e l'ultima di servetta distinguono; ecco i dodici o tredici personaggi che tutta costituiscono la compagnia. È da notarsi che ultimamente si è dato il carico a uno dei sopraccennati Amorosi, di sostenere le parti di padre, e chiamasi il Padre nobile, e a un altro di rappresentare i tiranni; ma bene spesso Pantalone è il padre nobile, e il tiranno Brighella". E accusa gli attori di trascurare l'antica improvvisata commedia. E se manca qualcuno per rappresentare altre parti, chiamano l'apparatore o il trovarobe: e se non bastano ancora si ricorre "ai famigli de' comici, che da taglier, da piattelli, dalla scopa, dal lavatoio, sullo scenico palco trapassano a conversar con gli eroi". Come, non è facile dirlo. È doveroso però affermare come quegli attori che si trasformavano da Brighella in Lusignano, da Florindo in Orosmane, da Rosaura in Zaira, a differenza di quelli degli altri paesi che rimanevano fedeli a un tipo o per lo meno a un ruolo (tragico o comico) eccellevano e come maschera, e come tipo, e come eroe tragico. I nostri comici dell'arte erano, spesso, anche autori. E nella modificazione del repertorio e della compagnia parecchi si mantennero autori, e provocarono un nuovo ruolo: quello di poeta comico o quello di poeta addetto alla compagnia; di rado autore originale, più spesso riduttore o imitatore. Si potrebbero ricordare l'Andolfati, il Fiorio, il Federici, il Sografi, ecc.

Il numero degli autori-attori basta a provare che, come levatura intellettuale, il nostro comico non era certo inferiore ad altri di altre nazioni straniere. Si lasciavano sedurre dall'arte uomini della nobiltà come il Carli, laureati come l'Andolfati, figli di distinte famiglie come Antonio Goldoni e anche persone provenienti da mestieri grossolani, però già modificati nelle filodrammatiche (che davano buon alimento alle compagnie regolari). I figli d'arte avevano più scarsa cultura generale, ma erano già avviati a un'educazione artistica. L'elemento femminile non destava più grandi preoccupazioni per il suo costume. I mutamenti di piazza si erano accresciuti e aumentate le città nelle quali dare un corso di rappresentazioni. Ferma rimaneva, per le compagnie più quotate, la stagione di Venezia che andava da ottobre a tutto carnevale. E Venezia accoglieva di solito tre, e spesso quattro compagnie.

Dinnanzi al teatro e in due o tre punti più importanti della città penzolava un cartellone sul quale era annunciata la prima fatica. La mattina del giorno della prima recita la prim'attrice (e talvolta anche un'altra delle comiche già conosciute) facevano il giro delle case dei più noti cittadini per invitarli allo spettacolo: e lasciavauo un piccolo manifestino scritto a mano. La compagnia si presentava al pubblico con un Prologo o Complimento detto dalla prim'attrice, col quale si salutavano la città e i cittadini e si prometteva di servire il pubblico nel modo migliore. Ai primi del sec. XIX (forse qualche anno prima) la Compagnia di Onofrio Paganini sostituì al prologo una scena alla quale partecipavano tutti gli artisti; nella scena, dialogizzata, il capocomico presentava tutti gli artisti enumerandone le qualità; ma l'innovazione non si generalizzò. Per le serate d'onore il seratante durante il giorno faceva e lasciava gl'inviti; e alla sera, vestito col costume del personaggio che doveva rappresentare, stava alla porta, dinanzi al bacile, nel quale gli ammiratori davano prova della loro generosità in denari o in doni. Gli ammiratori, specialmente quelli delle belle attrici, non limitavano l'omaggio all'offerta, ma lo espandevano in poesie elegantemente stampate su carta grossa traforata e decorata, su fazzoletti di seta, e, al momento della presentazione delle corone al seratante, col volo di un "nuvolo di colombi". La poesia delle beneficiate è tipica e ha avuto tra gli autori Giuseppe Parini. Al termine del corso di recite la compagnia si congedava dal pubblico con un Addio in versi, recitato dalla prima attrice, e scritto dal Poeta comico o da un autore noto - se si trattava d'una attrice di grido -: ne abbiamo del Goldoni, del Gozzi, ecc.

Negli stati pontifici le compagnie dovevano attribuire ad uomini le parti di donna e per questo gruppo negli elenchi si metteva l'indicazione: Da donna; i repubblicani francesi portarono le donne sulle scene di Roma nel 1797-98.

Con la modificazione, che si accentuò sempre più, del repertorio, si modificò l'organizzazione della compagnia: o, meglio, se ne elevò il tono, eliminando dal repertorio gli avanzi delle commedie dell'arte. Nei contratti, i proprietarî dei teatri riducevano queste commedie a una o due volte per settimana. Solo durante il carnevale si accordava un maggior numero di serate per accontentare il popolo. Negli elenchi e nei contratti compariva il nuovo ruolo: prima per le parti studiate e per quelle all'improvviso e l'altro (vero sdoppiamento del ruolo invecchiato: prima attrice) prima per le parti all'improvviso o anche: prima a soggetto. Qualche attrice di fama, la Fiorilli-Pellandi ad esempio imponeva nel contratto di non recitare nelle commedie all'improvviso e con maschere.

La compagnia così impostata durò alcuni anni, con nessuna modificazione negli usi e nelle costumanze, con lievi modificazioni nei ruoli e nella denominazione di essi. Il dramma preromantico, la tragedia di carattere storico, la commedia sentimentale e lagrimosa, hanno i loro tipici rappresentanti. Si modificano un poco le maschere le quali non si restringono più all'antica commedia all'improvviso, ma entrano per lo meno negli spettacoli; ma a parte pressoché scritta. La recitazione all'impronto è sull'orlo della fossa.

Letterati, e soprattutto autori, brontolano sulla decadenza del teatro. Il Verri, Ippolito Pindemonte e altri non vedono la salvezza che in un teatro posto sotto la protezione del governo. Poi ad essi si unisce Vincenzo Monti con la Supplica a Melpomene e Talia. E quando Napoleone nel 1806 creò due compagnie francesi dirette dalla Raucourt, per recitare nel Regno italico e nelle provincie italiane dell'Impero francese, il capocomico Salvatore Fabbrichesi presentò formale domanda al viceré Eugenio perché stendesse la mano "a rialzare il Teatro italiano" accompagnando la sua domanda con un progetto concreto di compagnia drammatica. Domanda e progetto, quest'ultimo con lievi modificazioni, furono approvati con decreto vicereale del 12 agosto 1807 e il primo di quaresima del 1808 la Compagnia commedianti italiani ordinari di S. M. I. R. iniziava le sue rappresentazioni.

A questa compagnia il governo accordava un sussidio annuo di 20 mila lire, che, in seguito, elevava a 50 mila, e accordava protezione e privilegi sulle altre; tra gli altri quello che gli attori, dopo dieci anni di lodevole servizio, potevano chiedere una pensione. Venivano soppresse tutte le "convenienze teatrali" e anche la "serata di beneficio" o d'onore, corrispondendo in luogo di essa un'indennità all'artista. Il repertorio doveva essere approvato dal governo per mezzo di apposita commissione (che fu presieduta dal Monti). Nel repertorio della Compagnia I. e R. vennero largamente comprese le opere di "classici autori", soprattutto italiani. Si dovevano rappresentare almeno quattro lavori nuovi di autori italiani e quattro tradotti dal francese e scelti tra quelli che avevano riportato maggiore successo nella Compagnia dei commedianti francesi ordinarî di S. M. I. R. I lavori popolari (p. es. Le covacenere) erano permessi solo negli ultimi giorni del carnevale. Dovevano essere messe al bando le opere indegne artisticamente o per la lingua. Le traduzioni subivano la revisione e tra i revisori era il Foscolo. Nell'elenco prese posto un "traduttore". Le paghe corrisposte agli artisti erano assai elevate: Anna Pellandi aveva 1060 zecchini (equivalenti a L. 12.603,40), il primo attore Blanes 500. Il Fabbrichesi, insieme con la moglie, ne aveva 600. Tra i ruoli compare il caratterista. Il contratto tra il governo e il Fabbrichesi aveva la durata di un triennio. Alla fine dei tre anni venne rinnovato e nella nuova convenzione era contemplata la stabilità in Milano della compagnia che doveva recitare al teatro alla Scala, quando non vi era spettacolo d'opera, o alla Cannobiana. Dalla compagnia uscivano intanto la Fiorilli-Pellandi e il Blanes, sostituiti dalla Cavalletti e dal De Marini. Tra i cambiamenti effettuati vi fu l'entrata in compagnia di Giacomo Modena e, in seguito, si tentò di avere Carlotta Marchionni. Questa compagnia recitò l'Aiace del Foscolo e affermò Nota e Niccolini. Tutte le speranze di compagnia stabile naufragarono, naturalmente, nel 1814. Il Fabbrichesi tentò di salvare l'istituzione chiamandola "compagnia nazionale" e chiedendo la protezione del Governo provvisorio. Dopo un tentativo fatto anche col governo austriaco, si recò a Napoli per costituire colà la Compagnia reale di Napoli.

La Compagnia del commedianti italiani ordinarî di S. M. I. R. esercitò una notevole influenza sulle formazioni comicali. Alcune, come aveva fatto la Reale, soppressero negli elenchi le maschere, e nel repertorio le commedie all'improvviso e gli spettacoli. La riforma del costume fece notevoli progressi. Se non scomparvero le cosiddette "convenienze" in parte si attenuarono.

Con la Reale di Milano s'imzia il periodo delle nuove compagnie che mirano a "rialzare le sorti del teatro italiano". Nel 1812 il governo del principe Borghese chiedeva a quello di Eugenio Beauharnais tutto quanto riguardava l'organizzazione e il funzionamento della compagnia dei commedianti italiani ordinarî di S. M. I. R intendendo formare una compagnia eguale per farla agire nei teatri delle principali città delle provincie italiane dell'Impero francese. La catastrofe napoleonica troncò sul nascere l'intenzione, la quale fu ripresa nel 1820 da una società che si proponeva di istituire in Torino una compagnia stabile. Il progetto fu da Vittorio Emanuele I, con decreto del 28 giugno 1820, in massima approvato; ma l'istituzione della compagnia avocata allo stato.

Veniva costituita una direzione teatrale che sovraintendesse alle rappresentazioni e scegliesse il repertorio. Alla compagnia era riservato il diritto di essere sola a recitare quando si trovava a Torino. Si accordava una sovvenzione di 50 mila lire all'anno. I conti Piossasco e Benedetto ebbero l'incarico di tradurre in atto il decreto reale, ed essi chiamarono a comporre la compagnia Giacomo Modena; ma non essendo riuscito questo primo tentativo perché gli artisti erano ormai impegnati, rilevarono l'ottima compagnia di Gaetano Bazzi, intelligente e colto direttore, riservandosi di migliorare sempre, in seguito, il complesso artistico. Nell'elenco per il primo anno comico (1821-22) non figura alcuna delle celebrità del momento, tranne F. A. Bon, già vecchio; ma un complesso buono, omogeneo. Il repertorio fu scelto con cura: vi predominarono gli autori italiani, e, tra i primi, Goldoni e Alfieri. A mano a mano sfilarono nella Reale sarda: Carlotta Marchionni, Antonietta Robotti, Amalia Bettini, Luigi Taddei e Luigi Vestri, Gottardi, i Dondini, Francesco Righetti (il Righettone), Ernesto Rossi, Adelaide Ristori, ecc. La vita della Reale fu, per varî anni, gloriosa. Gli autori italiani furono accolti (erano contemplati otto lavori nuovi all'anno) e recitati con amore. Ad essi per i "decimi" d'autore, era assicurato un fondo di L. 6000. A Torino e fuori la Reale sarda era oggetto di sincera ammirazione. L'assegno di 50.000 lire venne presto ridotto alla metà; nel 1850 decadevano i privilegi della Reale e il Governo non accennava a rinnovare l'impegno sessennale, pur avendo di nuovo ridotto l'assegno. Nel 1853, il parlamento respinse l'approvazione della convenzione con la Reale. Con la quaresima del 1854 rimaneva la compagnia con lo stesso titolo onorifico, con l'uso del teatro Carignano, ma senza sussidio. I comici tentarono di far fronte alla situazione e vollero e seppero finire gloriosamente (come compagine comica) recandosi a recitare a Parigi, dove Ernesto Rossi riportò un enorme successo e Adelaide Ristori superò la Rachel.

Una bella pagina ha nella storia del nostro teatro la compagnia reale di Napoli, dove Salvatore Fabbrichesi portò la reale di Milano; più modesta, ma con sprazzi luminosi, quella ducale di Parma del Mascherpa, con la Maddalena Pelzet; la ducale di Modena di F. A. Bon, ecc. Tutte scomparvero con lo scomparire delle varie signorie.

Aspirarono a dar vita e gloria al teatro italiano parecchie compagnie, come quelle di Giacinto Battaglia e del grande artista Alamanno Morelli, e la compagnia (anzi le tre compagnie) Bellotti-Bon. Ebbe la concessione gratuita del teatro Gerbino a Torino Cesare Rossi per la sua compagnia "Città di Torino", nella quale si rivelò, sostituendo la Pezzana, Eleonora Duse. A Roma si costituì la Società per il Teatro Drammatico Nazionale con capitale di varî milioni. La compagnia riunì: Virginia Marini, Ermete Novelli, Pierina Giagnoni, Luigi Biagi, Angelo Vestri, Claudio Leigheb, Enrico Reinach, ecc., artisti tra i migliori del momento: fu affidata la direzione a Paolo Ferrari. Acquistò e commise un centinaio di lavori agli autori più noti. Iniziò in Roma la costruzione del teatro nel quale doveva prendere stabile dimora la compagnia. Fu questo, certo, il tentativo più serio. Si ebbero esecuzioni magnifiche, con messe in scena straordinarie, per il tempo. Dopo cinque anni e alcune vicissitudini la Compagnia si sciolse. E il Teatro Drammatico Nazionale (ora demolito) s'inaugurò con una compagnia di operette. Meritano ancora di essere ricordate: la "Casa di Goldoni" creata a Roma da Ermete Novelli; la compagnia del Teatro d'arte di Torino, diretta dal critico drammatico Domenico Lanza, la Compagnia della città di Milano, diretta da Marco Praga, tutte compagnie stabili, di questo principio di secolo.

Il municipio di Roma e la reggia sussidiarono, al principio del nostro secolo (1905) la Compagnia stabile romana del teatro Argentina, diretta da Edoardo Boutet e poi da Ferruccio Garavaglia, che per la prima rappresentò, con magnifica messa in scena, La nave di Gabriele d'Annunzio.

Delle compagnie girovaghe più famose del nostro secolo, ricorderemo le varie dirette successivamente da Virgilio Talli, fra cui la celebre Talli-Gramatica-Calabresi (di cui, oltre i tre soci, fecero parte il Ruggeri, la Franchini, il Giovannini, Lyda Borelli, Giannina Chiantoni, il De Antoni, il Sabbatini, la Cassini-Rizzotto, ecc.) e quella diretta da Dario Niccodemi (1920-1930).

Durante la guerra mondiale, le compagnie drammatiche italiane, fo mate già o improvvisate, portarono sulla fronte di battaglia un'ora di svago, un momento di sollievo e di distrazione ai soldati che qualche ora dopo movevano all'assalto.

Le compagnie drammatiche assumono ora un nuovo orientamento artistico e un'organizzazione "a gruppi" non nuova nella storia dei tentativi per il risorgimento del teatro nazionale. L'organizzazione e l'esercizio delle compagnie sono ora disciplinate dai sindacati fascisti della Corporazione dello spettacolo.

Le compagnie estere. - Francia. - La prima formazione della troupe in Francia non differisce da quella d'Italia e di Spagna. Il primo nocciolo si costituisce con una riunione di dilettanti nel 1402: i Confrères de la Passion, che recitano i misteri e le vite dei santi. Verso il 1548, con la proibizione dei temi religiosi, si chiude il periodo dei Confrères e si afferma l'inizio del teatro moderno. L'arrivo a Parigi dei comici italiani della commedia dell'arte porta nuovi elementi. Nel 1658 la compagnia di Molière si ferma a Parigi e prende il nome di Troupe de Monsieur, frère unique du Roi, con una modesta sovvenzione. I comici dell'Hôtel de Bourgogne (La troupe royale) ha un repertorio di tragedie e riscuote un assegno di 12.000 franchi l'anno. Quando nel 1680 avvenne la fusione delle due compagnie, di Molière e della via di Guenegaud, la troupe rimase composta di 15 attori e di 12 attrici: il sussidio reale del 1682 era fissato in lire 12.000. Sull'introito gravava il diritto dei poveri: spesso si aggiungevano le richieste di sussidî delle congregazioni religiose, sebbene la sepoltura in terra consacrata fosse vietata ai comici che prima di morire non abiuravano la professione. Anche i diritti civili erano limitati. Solo la Rivoluzione pareggiò i commedianti agli altri cittadini.

La loro organizzazione rimane sempre fondata sulle stesse basi: gli attori sono stipendiati a paga fissa, se la compagnia ha l'impresario; partecipano agli utili per parti, se la compagnia è di carattere sociale. Nel 1780 alla Comédie le parti rendevano da 18 a 20 mila lire l'anno, e negli ultimi anni della monarchia arrivavano a 30.000. I ruoli non corrispondono sempre a quelli delle compagnie italiane: vi sono gli amoureux, la coquette, la grande coquette, ecc.; nella tragedia les Rois e les Reines; formano nome di ruolo quelli simpatici del teatro classico: le Agnès, le Marton, i Frontin; e spesso quelli di una grande interprete, le Dugazon, ecc. Verso la fine del Settecento le compagnie francesi passano le Alpi e recitano nei teatri di Torino, Milano, Bologna, Venezia, e si spingono fino a Napoli. Nel 1806 Napoleone fondò due compagnie francesi per le provincie italiane dell'Impero francese e per il regno d'Italia: durarono a stento e senza il favore del pubblico fino al 1814.

Odiernamente a Parigi la Comédie è costituita su basi sociali e sov- venzionata, come l'Odéon; le altre compagnie sono dirette da un attore di nome o da un comitato direttivo o da un metteur-en-scène (che può essere anche un attore).

Spagna. - Prima ancora della comparsa di Gil Vicente e di Lope de Rueda, si formano degli embrioni di compagnie per la rappresentazione dei misteri e degli autos, ma sempre con carattere provvisorio. Soltanto con il sec. XVI compare il tipo dell'attore girovago (v. attori) che tende a costituire una compagnia più stabile; e via via che il teatro nazionale spagnolo si arricchisce di opere e sì avvia alla grande arte, anche la professione del comico si organizza su basi più salde. Il primo attore dà il nome alla compagnia ed egli stesso ne è come l'impresario, chiamato autor perché oltre alla direzione fornisce spesso ai compagni anche il repertorio. La costituzione interna delle compagnie è sempre rudimentale; ma la fortuna che raggiunge l'arte drammatica presso la Corte e nelle varie città ne migliora le condizioni economiche e ne rinsalda la compagine: per lo più una compagnia è composta di 20 attori con altrettanti familiari, e può inscenare circa 50 lavori drammatici. Avversata per ragioni religiose da Filippo II, la professione del comico che mai era stata ostacolata, anzi era sempre stata favorita dalla Chiesa, perché i comici erano buoni cristiani, si riprende a metà del '600, regolata da speciali leggi e disciplinata e difesa dalle confraternite. Nel 1647 percorrono la Spagna oltre mille artisti in circa 40 compagnie. A mano a mano si organizzano secondo il tipo della compagnia europea, massimamente italiana: molto influì la nostra compagnia dì Ganasa, diventata celebre in Spagna. Nell'epoca moderna le compagnie spagnole portano la loro arte nell'America del Sud, in gara spesso con quelle italiane; e in Italia fu molto ammirata quella di Maria Guerrero.

Inghilterra. - Fin dalla prima metà del sec. XV è accertata l'esistenza di compagnie teatrali in Inghilterra: per lo più girovaghe, sorte dalla graduale trasformazione in attori degli antichi minstrels, cantastorie e musicisti, ora aggregate a qualche corporazione, ora invece, e dal tempo di Enrico VIII in poi con sempre maggiore frequenza, poste sotto il patronato di qualche nobile signore. Gli editti emanati da Elisabetta nel 1559 e nel 1572 resero infine tale patronato obbligatorio. Accanto a compagnie di diverso carattere come quelle studentesche, grandi compagnie "privilegiate" si vennero così costituendo. La prima in ordine di tempo fu quella organizzata nel 1574 dal conte di Leicester: nel 1594 quando passò alle dipendenze del lord chamberlain Henry Carey, assunse il nome di Chamberlain's Company; ed è documentato che nel i595 ne faceva parte Shakespeare, insieme con Richard Burbage, il quale fu quasi certamente il primo Amleto, il primo Otello, il primo re Lear. Intanto, nel 1583, sotto il protettorato della stessa regina, era sorta la Queen's Company. E con l'una e con l'altra rivaleggiava la Admiral's Company di lord Howard, con Alleyn come leading actor. Il numero degli attori della 1ª compagnia fu di 5 con l'aggiunta varia di qualche avventizio; poi andò crescendo e spesso gli attori passavano dall'una all'altra delle compagnie come dall'uno all'altro dei sei teatri che in quel tempo vennero costruiti. La proprietà delle compagnie era per azioni distribuite agli attori secondo la loro importanza: e anche i manoscritti delle opere, pagate agli autori una volta tanto, facevano parte di tale proprietà; la ricchezza accumulata da un Alleyn, e la stessa agiatezza di cui è documento il testamento di Shakespeare, attestano la floridezza anche economica a cui il teatro assurse. Naturalmente le compagnie si moltiplicaro1io, e di più di cinquanta compagnie, fra maggiori e minori, si ha traccia in Inghilterra nella sola seconda metà del sec. XVI. Questo spiega l'accanimento mostrato contro il teatro - in parte per misure igieniche, per paura della peste che in quegli anni infieriva, in parte per ragioni di morale, in parte per ragioni di prestigio - dai puritani e dalle autorità municipali. Nemmeno la disposizione che metteva tutta la vita teatrale sotto la diretta soprintendenza del Master of revels (1774), valse a placare i contrasti fra la corte e il Mayor, fra il Privy Council della regina e il Common Councìl della città. Ostacoli d'ogni genere venivano sempre nuovamente posti alle compagnie che chiedevano la licenza di recitare nella città; e soltanto la tenace volontà della regina poté far sì che il teatro mantenesse libertà di respiro. Tuttavia l!a lotta violenta e accanita non cessò; finché l'ordinanza del 2 gennaio 1642 soppresse definitivamente le rappresentazioni. Soltanto con Carlo II esse poterono esser riprese, con la concessione, fra l'altro, delle patenti alla Duke's Company diretta dal Davenant e ai King's Servants diretti dal Killigrew. Col sec. XIX, la forma di compagnía dominante divien sempre più quella del teatro stabile.

Germania. - Certamente le difficoltà create in Inghilterra alle compagnie - solo per Natale e per carnevale le licenze venivano accordate in larga misura - contribuirono a far sì che queste lasciassero la città per la provincia e per l'estero: già nel 1585 difatti gli Englische Komö dianten compaiono in Danimarca e in Germanis, E particolarmente in Germania la loro fortuna, dal 1592 in poi, per uitre un mezzo secolo, fu grande.

Erano compagnie composte d'un numero vario di attori, da 10 a 18; e ìl Prinzipal faceva generalmente la parte del clown: qualche volta li accompagnava anche una piccola schiera di musicisti. Passavano di città in città, rimanendovi per lo più una quindicina di giornì, con un prolungamento qualche volta di una o due settimane; e ponendosi sotto la protezione di qualche signore. Sull'esempio loro - l'ordinamento interno della compagnia era quello in uso in Inghilterra - e più tardi sull'esempio delle compagnie italiane dei comici dell'arte si modellarono le compagnie tedesche, che vennero sorgendo sempre pìù numerose. Ma nelle misere condizioni materiali e culturali, in cui la Germania si trovò dopo la guerra dei Trent'anni, la loro sorte precipitò rapidamente: solo la compagnia di Johannes Velthen raggiunse, con un personale ben selezionato, una sua interna organicità; le altre compagnie, con la loro recitazione improvvisa e con le loro Haupt- und Staatsaktionen, decaddero a occasionali agglomeramenti di istrioni, da piazza, disordinati nella loro arte come nella loro vita, tenuti insieme soltanto da una certa rigida esteriore gerarchia dei ruoli. A Vienna la genialità di Stranitzky, di Prehauser, di Kurg riusci a risolvere l'influenza italiana in una vera e propria creazione d'un teatro popolare locale, ai cui scopi la formazione delle compagnie si subordinò; ma in Germania la Wìlhelm Meisters theatralische Sendung di Goethe documenta quale fosse la loro situazione ancora nella seconda metà del sec. XVIII.

La compagnia della Neuber, al tempo di Gottsched, fu il primo tentativo serio di una ripresa: a questo seguirono presto altri tentativi, ad opera principalmente del Schönemann, dell'Ekhof, del Koch, ecc. Tuttavia la stessa impresa teatrale di Amburgo, coraggiosamente iniziata dall'Ackermann con l'assistenza del Lessing, fallì: giungendo soltanto a un risultato morale, per il risollevato prestigio sociale dell'arte, dell'attore e per lo sforzo tentato di un razionale rinnovamento. Un passo innanzi si compì invece dopo il 1870 ad opera dello Schröder. Per opera di lui, del Dalberg, dell'Iffland si venne rapidamente sostituendo; verso la fine del secolo XIX, all'incertezza di situazione delle compagnie girovaghe, la sistemazione degli attori in compagnie stabili di città o di corte: unica sistemazione, in verità, che nelle mutazioni continue dei gusti e delle condizioni generali della vita, realmente assicuri al teatro le condizioni necessarie perché esso possa pienamente rispondere alle sue esigenze d'arte e alla sua elevata funzíone sociale.

Altri Paesi. - In Russia gli attori (v.) non si aggrupparono normalmente in compagnie di tipo paragonabile a quelle dell'Europa Occidentale. La fondazione, nelle grandi città, dei teatri imperiali, e poi dei varî teatri d'arte, favorì sempre più l'attaccamento al teatro stabile. Altrettanto si dica della maggior parte degli altri paesi moderni, in cui gli artisti migliori agiscono in teatri stabili, e le compagnie girovaghe sono di solito quelle d'infimo ordine.

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