COMPORTAMENTI COLLETTIVI

XXI Secolo (2010)

Comportamenti collettivi

Andrea Cavagna
Irene Giardina

L’autorganizzazione nelle scienze naturali ed economico-sociali

Chiunque abbia avuto l’occasione di assistere alle evoluzioni in volo di un gruppo di storni non può che essere rimasto affascinato da tale meraviglioso e paradigmatico esempio di comportamento collettivo animale. Questi uccelli, raggruppati in enormi stormi che possono contare sino a centinaia di migliaia di individui, compiono al tramonto evoluzioni complicatissime, dando prova di una sorprendente coordinazione. Spesso, queste evoluzioni sono causate dal tentativo del gruppo di sfuggire a un predatore in caccia; altre volte sembra che non vi sia un motivo apparente e che il fenomeno sia causato dal puro piacere degli uccelli di danzare nel cielo. La sensazione più forte per un osservatore è quella dello stormo come entità a sé stante, dotata di vita e intelligenza propria; qualcosa di fondamentalmente diverso (e superiore) rispetto alla semplice somma delle sue parti, ovvero gli uccelli. È proprio questa impressione che ci porta a volte a parlare di intelligenza collettiva del gruppo e, nello stesso tempo, a domandarci quale sia l’origine di tale intelligenza.

In realtà, come vedremo, il comportamento collettivo è il risultato di semplici regole, che sono allo stesso tempo strettamente individuali e locali: ogni uccello interagisce solo con gli individui a lui vicini nello spazio, senza avere nessuna cognizione della struttura globale del gruppo. Per es., ogni uccello cerca di allineare la propria direzione del moto a quella dei vicini e questa tendenza locale all’allineamento si propaga da uccello a uccello, generando la coordinazione collettiva che tanto stupisce l’osservatore. È più appropriato, dunque, parlare di comportamento collettivo, piuttosto che di intelligenza collettiva. Quello che di veramente intelligente troviamo in questi fenomeni sono le regole di comportamento dei singoli individui, capaci di generare una tale efficace coordinazione a livello di gruppo. Queste regole sono state plasmate dall’evoluzione e sono dunque ottimizzate per garantire le maggiori probabilità di sopravvivenza e la maggiore adattabilità.

Un secondo aspetto rilevante è che spesso nell’evoluzione di uno stormo di uccelli non c’è alcun controllo centralizzato, quale potrebbe essere quello indotto da un leader. Tutte le decisioni del gruppo (come un cambio di direzione o l’atterraggio) vengono determinate collettivamente attraverso un meccanismo di amplificazione di una fluttuazione locale. Per es., se un certo numero di uccelli, superiore a una determinata massa critica, cambia direzione all’improvviso, attraverso le regole di comunicazione locale questa fluttuazione si diffonde all’interno dello stormo, dando luogo a un cambio di direzione globale. Questo fenomeno di coordinamento decentralizzato, basato sull’applicazione scrupolosa di regole di comportamento locali, è chiamato autorganizzazione (Camazine, Deneubourg, Franks et al. 2001). Quello degli storni, dunque, è un tipico caso di comportamento collettivo autorganizzato.

Il fenomeno dell’autorganizzazione non è certo limitato agli storni, ed è anzi molto diffuso nel regno animale (Animal groups in three dimensions, 1997; Krause, Ruxton 2002). A parte varie specie di uccelli che formano stormi più o meno grandi, è notevole il caso dei pesci che formano enormi banchi con caratteristiche di autorganizzazione simili a quelle degli uccelli, anche se con proprietà morfologiche alquanto differenti. Sardine, aringhe e merluzzi sono tutte specie gregarie che possono formare gruppi coesi dal movimento molto coordinato. Uccelli e pesci danno luogo a evoluzioni straordinarie soprattutto per la loro possibilità di muoversi liberamente in tre dimensioni. Tuttavia, si verificano numerosi casi di comportamento collettivo anche tra gli animali terrestri che si muovo­no in due dimensioni. È questo il caso di molti grandi mammiferi, come zebre e bufali. Spesso in gruppi più ridotti di pesci e uccelli, e con una minore fluidità di manovra dovuta alla presenza di impedimenti terrestri, questi animali hanno una dinamica autorganizzata non troppo dissimile da quella descritta sopra: sotto l’influsso di uno stimolo esterno, tipicamente un predatore, il gruppo si muove in modo coordinato, massimizzando la probabilità di fuga dei suoi membri. Anche in tale caso, la coordinazione discende da regole di comportamento puramente locali seguite dagli individui. Il comportamento collettivo animale, inoltre, non è certo limitato ai Cordati. Esempi straordinari vengono anche dagli sciami di insetti, quali moscerini e locuste, e dalle dinamiche collettive degli insetti sociali, in particolare dalle api e dalle formiche (Camazine, Deneubourg, Franks et al. 2001). L’enorme differenza in termini evolutivi fra Cordati e Artropodi, che hanno una radice evolutiva comune solamente nel fatto di es­sere entrambi Animalia, dimostra quanto il comportamento collettivo abbia origini profonde e generali.

Ampliando la prospettiva, ci rendiamo conto che il comportamento collettivo autorganizzato è diffuso anche nel contesto dei fenomeni sociali ed economici, sebbene in questo caso non sempre la coordinazione raggiunta sia all’altezza di quella osservata negli animali. Esempi notevoli sono i fenomeni di affollamento, in cui imponenti masse di individui devono evacuare una regione confinata (per es., dopo un concerto, o in grandi manifestazioni di piazza); il traffico pedonale e automobilistico; gli applausi alla fine di un concerto e la hola messicana dei tifosi sportivi; ma anche fenomeni collettivi più squisitamente sociali, come la formazione di trend e flussi di opinione, gli effetti di herding (dall’inglese herd «gregge») e la creazione di bolle speculative nei mercati finanziari. In molti di questi esempi, come nel caso dei gruppi animali, ogni individuo agisce sulla base di un’informazione puramente locale e molto limitata, senza avere alcuna nozione del comportamento del gruppo. Ovviamente, gli esseri umani sono entità individuali molto più complesse di un insetto, un uccello o un pesce, e dotate di abilità cognitive superiori. In condizioni di forte sollecitazione e stress esterni, tuttavia, è ragionevole ipotizzare che un essere umano utilizzi delle capacità molto elementari, ma ad alta reattività, rinunciando a un’elaborazione strategica che renderebbe più lenta la propria azione. Sotto tale ipotesi è naturale aspettarsi che le regole di interazione fra gli individui non siano troppo dissimili da quelle usate nei gruppi animali e che, dunque, il comportamento collettivo derivante abbia alcuni aspetti analoghi.

Nonostante un comune contesto generale, certi problemi di origine economica e sociale presentano una maggiore complessità di analisi, per due motivi importanti. Innanzi tutto, il concetto di spazio in cui il comportamento collettivo ha luogo è radicalmente diverso. Nel caso animale lo spazio fisico gioca un ruolo fondamentale e la nozione di vicinanza fisica è essenziale nella definizione delle regole di interazione fra individui. Tipicamente, il legame e la tendenza imitativa sono forti tra individui fisicamente vicini, deboli tra individui lontani. Una situazione analoga si ritrova nei fenomeni di panico e, in una certa misura, nel traffico automobilistico e pedonale. In generale però gli esseri umani hanno metodi più sofisticati di comunicare e stringere relazioni, e la rete delle interazioni sociali rilevanti non necessariamente è basata sulla distanza fisica.

Pensiamo, per es., ai mercati finanziari: anche qui la tendenza all’imitazione degli altri individui è molto forte; tuttavia, lo scambio di informazioni che lega fra di loro individui differenti non è limitato dalla vicinanza fisica dei medesimi, anzi le informazioni sono mediate e indirette, solitamente veicolate dall’andamento stesso dei prezzi, dai mass media e da Internet. In secondo luogo, come abbiamo visto, nei gruppi animali le regole di interazione sono abbastanza semplici, eppure in grado di spiegare il comportamento collettivo nel suo complesso. Nel caso sociale-economico, ciò può essere altrettanto vero in alcune circostanze, come, per es., nei fenomeni di affollamento e panico, laddove gli individui reagiscono velocemente (e dunque semplicemente) a una situazione di stress. In generale però, accanto ad atteggiamenti imitativi e a inclinazioni più irrazionali, possono convivere strategie decisionali più ponderate che sfruttano appieno la complessità cognitiva degli esseri umani che le prendono. Inoltre, la stessa scala temporale su cui le scelte avvengono è spesso molto più lunga di quella animale, rendendo possibile l’uso di un’ampia gamma di comportamenti. A seguito di ciò, il comportamento collettivo del sistema è determinato da regole di interazione più complesse e di più difficile modellizzazione. L’imitazione degli altri individui rimane un fattore fondamentale, ma di volta in volta è complicato individuare con precisione che cosa venga imitato e con quale meccanismo. Inoltre, un ruolo fondamentale viene sempre giocato dall’individualità umana che, in ogni momento, può prescindere da un mero meccanismo imitativo per scegliere una strategia personale basata su processi razionali di elaborazione delle informazioni. I mercati finanziari sono un esempio di tale coesistenza di regole comportamentali diverse: meccanismi imitativi si verificano sicuramente e sono all’origine delle tanto temute bolle speculative, durante le quali gli operatori finanziari comprano solo basandosi sul fatto che molti altri lo fanno, spingendo in tal modo il prezzo sempre più in alto. Tuttavia, l’analisi dei fondamentali economici e la presenza di strategie più razionali di copertura dal rischio possono prendere il sopravvento contribuendo a un riequilibrio dell’andamento dei prezzi. Nel caso animale, invece, questo non accade mai: è proprio la strettissima osservanza delle regole di comportamento, e dunque di imitazione dei vicini, che garantisce la coordinazione necessaria a scappare dal predatore. Ciò deriva anche dalla diversa origine del meccanismo imitativo. Nei raggruppamenti animali esso proviene da processi evolutivi per supplire alle carenze cognitive degli individui (che non saprebbero altrimenti coordinarsi) e garantire con la vita di gruppo una migliore attuazione di funzioni biologiche fondamentali (ricerca del cibo, reazione a predatori ecc.). Nei sistemi sociali, invece, esso sopraggiunge quando, per qualche motivo (paura, panico, eccesso di informazioni, fretta), gli individui rinunciano a utilizzare quelle abilità superiori che normalmente caratterizzano la loro condotta. Infatti, la pedissequa imitazione degli altri può avere effetti nefasti, come la creazione di ingorghi, folle e bolle speculative. Questa differenza fra i due casi ci deve mettere in guardia sul pericolo di generalizzare eccessivamente le analogie tra contesti molto differenti fra loro.

Infine, quale ultimo contesto in cui i fenomeni collettivi giocano un ruolo assai importante va ricordata la fisica, e in particolare la fisica dei materiali. L’analisi dei fenomeni collettivi in fisica va ben al di là dello scopo di questo lavoro, tuttavia è importante menzionare tale ambito per almeno due motivi. Innanzi tutto, la fisica è stata la prima disciplina (ben prima di biologia e scienze sociali) a fornire una prova quantitativa di come un comportamento collettivo possa emergere da regole di interazione locali, senza necessità di un coordinamento centralizzato. In sintesi, la fisica ha formulato e descritto quantitativamente i primi fenomeni di autorganizzazione. L’esempio più lampante è quello dei fenomeni magnetici: la tendenza dei singoli spin (i momenti magnetici dei singoli atomi) ad allinearsi nella medesima direzione dei propri vicini dà luogo (a bassa temperatura) a una magnetizzazione globale spontanea, anche in assenza di campo magnetico esterno. Dal disordine può nascere l’ordine, come frutto di semplici meccanismi ‘imitativi’ di entità estremamente elementari (gli spin). In secondo luogo, la fisica ha avuto un ruolo importante perché diversi modelli e teorie del comportamento collettivo, sia animale sia sociale, sono fortemente ispirati a modelli matematici formulati originariamente per descrivere fenomeni fisici. Lo stesso concetto di interazione fra individui, quale, per es., l’attrazione fra uccelli entro uno stormo al fine di mantenere la coesione, è spesso modellato usando il concetto fisico di forza. Oppure, la tendenza ad allineare la propria velocità a quella dei propri vicini è matematicamente descritta da equazioni molto simili a quelle usate nei sistemi magnetici che servono per studiare l’allineamento fra diversi spin.

Comportamento collettivo e autorganizzazione sono dunque fenomeni diffusissimi in natura, presenti a vari livelli disciplinari, dalle scienze fisiche a quelle biologiche e sociali, e per questo il loro studio richiede un metodo fortemente interdisciplinare. Ogni campo ha le sue specifiche competenze e tende a formulare domande diverse a seconda del diverso contesto scientifico. Soltanto un approccio integrato fra le varie discipline permette di avere una visione completa e unitaria del problema.

L’analisi empirica

Il dato empirico deve sempre essere al centro dello sviluppo dell’analisi scientifica, e il campo del comportamento collettivo non fa eccezione. L’osservazione empirica quantitativa è essenziale per definire accuratamente il fenomeno studiato, per stimolare teorie atte a spiegare tale fenomenologia e, infine, per fare da test di consistenza delle teorie stesse. Nessuno schema teorico, né modello numerico, per quanto affascinante e verosimile, può dirsi corretto fintanto che non è stato validato da un robusto paragone con i dati empirici e sperimentali. È dunque sorprendente che lo studio del comportamento collettivo animale sia ancora molto carente dal punto di vista empirico, soprattutto per ciò che riguarda i gruppi animali che si muovono in tre dimensioni (uccelli, pesci, insetti volanti). Rovesciando in maniera per certi versi inaccettabile il paradigma scientifico, questo campo ha assistito a una proliferazione di teorie, e soprattutto di modelli numerici, in quasi completa assenza di dati empirici con cui confrontare il risultato di tali teorie e modelli. In queste condizioni, non era possibile selezionare il modello più appropriato alla descrizione di un certo sistema: a parte alcune proprietà molto generali, che potevano essere validate da semplici osservazioni qualitative, la gran parte delle predizioni quantitative dei modelli non poteva essere in alcun modo verificata. Così il giudizio sulla correttezza di un dato modello per il volo degli stormi di uccelli si basava prevalentemente sulla capacità dello stesso di riprodurre gruppi qualitativamente simili a quelli osservati e registrati, per es., da un filmato video. Anche se è evidente che la riproduzione di un moto coeso è condizione necessaria per definire un buon modello di moto collettivo e autorganizzato, è altrettanto evidente che questa non è affatto una condizione sufficiente per poter affermare che il modello in questione è quello appropriato. Esistono, infatti, numerosissime quantità che possono essere calcolate e per cui modelli differenti fanno predizioni differenti. Soltanto il paragone con le medesime quantità misurate sui dati empirici può dire l’ultima parola sulla validità di un modello teorico.

Per quale motivo, dunque, l’analisi empirica è stata così a lungo trascurata? Vi sono due motivi principali, strettamente interconnessi. Il primo è di origine sostanzialmente tecnica. Per comprenderlo occorre riflettere innanzi tutto su quali siano le grandezze fondamentali con cui realizzare un’accurata analisi empirica del comportamento di un gruppo. Interessano sicuramente le proprietà globali del gruppo, come la sua forma, la sua velocità e le caratteristiche del suo moto. Ma anche la sua struttura, ossia come i vari individui sono organizzati al suo interno e come si muovono l’uno rispetto all’altro. Per potere quantificare tali proprietà occorre conoscere, istante per istante, la posizione e la velocità di ciascun individuo. Tuttavia, ricostruire la posizione spaziale di ogni singolo individuo all’interno di un enorme gruppo di animali molto coeso è tecnicamente assai difficile. Quando poi si ha a che fare con grandi gruppi di animali in tre dimensioni (3D), il compito è stato a lungo considerato impossibile. Per tale motivo, la maggior parte delle osservazioni empiriche (effettuate sugli uccelli in volo) e degli esperimenti di laboratorio (su banchi di pesci in acquari) era limitata a gruppi di pochi individui, qualche decina al massimo (Animal groups in three dimensions, 1997).

Il fatto di avere a disposizione dati soltanto su gruppi molto piccoli rappresenta il secondo grosso limite di gran parte dell’analisi empirica realizzata finora. Innanzi tutto, infatti, non è detto che i meccanismi di coordinazione presenti in gruppi così piccoli siano gli stessi delle aggregazioni ben più grandi presenti in natura. Inoltre, l’analisi dei dati operata su sistemi piccoli soffre di seri problemi legati alla bassa statistica. In un gruppo di pochi elementi, la maggior parte degli individui è localizzata sul bordo del gruppo e non all’interno. Ma gli individui sul bordo hanno proprietà statistiche alterate, proprio perché non sono completamente circondati da altri individui; tali proprietà, inoltre, dipendono dalla forma del bordo, una quantità variabile da gruppo a gruppo e nel tempo. Gli individui sul bordo alterano, dunque, la misura di molte osservazioni aggiungendo un condizionamento fittizio dovuto alla forma, e devono essere esclusi da una seria analisi statistica. Per piccoli gruppi questo significa avere pochi individui ‘interni’ al bordo su cui operare le misure, che risultano pertanto estremamente imprecise e fluttuanti (Cavagna, Giardina, Orlandi et al. 2008b).

L’incapacità nel produrre dati in 3D su larga scala ha dunque limitato lo sviluppo dello studio del comportamento collettivo degli animali per più di quarant’anni. Per capire meglio l’origine del problema, e come è stato finalmente risolto, è necessario fare una breve panoramica delle tecniche sperimentali impiegate. Il mezzo tecnico di indagine più ampiamente usato nello studio dei gruppi di animali è naturalmente la fotografia, prima su pellicola e oggi digitale. Il problema dell’analisi fotografica, tuttavia, è che riduce una scena tridimensionale a una proiezione bidimensionale (2D), con conseguente perdita di informazio­ne. Per fortuna, sono note svariate tecniche per ricostruire le caratteristiche in 3D di una scena a partire da singole proiezioni 2D.

I primi tentativi furono fatti nel caso dei pesci usando la tecnica delle ombre: una luce posta sopra la vasca in laboratorio faceva in modo che ogni individuo proiettasse un’ombra sul fondo della vasca. Dalla distanza fra pesce e ombra misurata sulla fotografia, era possibile ricostruire la posizione 3D dell’individuo. Anche se il metodo delle ombre è piuttosto funzionale, la tecnica di gran lunga più utilizzata ed efficace è la stereoscopia: la scena viene fotografata contemporaneamente da diverse posizioni. Misurando la distanza relativa del soggetto sulle singole immagini, è possibile ricavare la sua posizione 3D (Hartley, Zisserman 20032). La stereometria è una tecnica nota, utilizzata in numerosi campi, dalle rilevazioni topografiche alle ricostruzioni di oggetti d’arte. Dunque perché la sua applicazione al comportamento collettivo in biologia crea dei problemi? Al fine di ricavare la posizione 3D di un individuo, è necessario rintracciare prima la sua posizione su tutte le immagini stereografiche, nel caso più semplice due, foto destra e foto sinistra. È essenziale dunque trovare la corrispondenza fra le due immagini dello stesso individuo nelle due foto. Se immaginiamo ora di avere due individui, A e B, è fondamentale non associare all’immagine dell’individuo A sulla foto sinistra l’immagine dell’individuo B sulla foto destra, altrimenti la ricostruzione 3D fallisce completamente. Questa confusione è facilmente evitabile quando gli individui nella foto sono pochi e chiaramente distinguibili l’uno dall’altro. Sfortunatamente questo è esattamente l’opposto del caso tipico riscontrato in biologia, in cui si hanno enormi gruppi (diverse migliaia) di individui del tutto simili l’uno all’altro. In questo caso risolvere il problema della corrispondenza con mezzi convenzionali diventa proibitivo. I pochi studi esistenti affrontavano il problema della corrispondenza semplicemente usando l’occhio umano. È dunque evidente come non fosse possibile ricostruire la posizione di gruppi più numerosi di poche decine di animali. Inoltre, considerato che la corrispondenza andava fatta per diverse centinaia di fotografie scattate nel tempo, il procedimento era di fatto proibitivo. Tecniche diverse dalla stereoscopia non erano esenti da questo limite: anche il metodo delle ombre (così come metodi simili) ha il problema di far corrispondere un individuo alla sua ombra, e ciò è egualmente molto difficile in gruppi densi di animali.

La soluzione del problema è stata individuata solo di recente (Ballerini, Cabibbo, Candelier et al. 2008; Cavagna, Giardina, Orlandi et al. 2008a) e ha determinato una svolta nello studio quantitativo del comportamento collettivo. Nonostante gli algoritmi di ricostruzione 3D siano molto complessi e sfruttino tecniche non banali di meccanica statistica, ottimizzazione e computer vision, l’idea fondamentale che vi sta dietro è invece molto semplice: mentre è complicato far corrispondere singoli individui, che sono praticamente identici sulle diverse immagini stereoscopiche, è molto più semplice trovare la corrispondenza fra i pattern, o arrangiamenti di punti, disegnati da piccoli gruppi di individui. Una volta che la corrispondenza fra i pattern è stabilita, è banale far corrispondere fra loro i vertici dei pattern, ovvero gli individui. Questa tecnica è stata sviluppata e usata con successo per la prima volta nel caso degli stormi di uccelli e ha permesso di ricostruire le posizioni di singoli individui all’interno di gruppi formati da diverse migliaia di uccelli. Paragonato al risultato dei precedenti studi, questo è un progresso di due ordini di grandezza. Nei prossimi anni il medesimo metodo verrà applicato probabilmente ai pesci e agli insetti, consentendo migliori test dei modelli teorici e portando lo studio dei fenomeni collettivi 3D a una piena maturità scientifica.

Un discorso a parte riguarda invece i numerosissimi esperimenti effettuati negli ultimi vent’anni su gruppi di insetti sociali, e in particolare su api e formiche (Camazine, Deneubourg, Franks et al. 2001). In questo caso le colonie hanno strutture sociali piuttosto complesse, con una sofisticata organizzazione e ripartizione del lavoro, in cui ogni singolo individuo può svolgere diversi ruoli nel corso della propria vita. Vi sono però alcune circostanze in cui il comportamento collettivo manifestato è frutto di meccanismi semplici che possono essere descritti con modelli elementari e verificati in maniera chiara con appropriati esperimenti. L’esempio delle formiche è uno tra i più paradigmatici. Quando le formiche scout (esploratrici) in cerca di cibo finalmente trovano qualcosa, sulla via di ritorno al formicaio rilasciano un segnale chimico, il feromone, per segnalare la strada verso la sorgente di cibo. Le altre formiche, quando trovano il segnale, cominciano anch’esse a seguire il percorso, rilasciando a loro volta feromone e rafforzando ulteriormente il tracciato. Anche questo processo di rinforzo, come la dinamica imitativa negli uccelli, è strettamente locale nello spazio: la probabilità che una formica confluisca in una traccia feromonica in un determinato punto è stabilita dalla quantità di feromone presente in quel punto e, dunque, dalle formiche che da quel punto sono passate. Anche in questo caso l’effetto che ne risulta è globale, vale a dire l’instaurazione di un tracciato che conduce tutte le formiche dal formicaio al cibo. Rispetto agli uccelli notiamo che l’interazione tra gli individui del gruppo è in questo caso indiretta, poiché una formica ‘comunica’ alle altre l’informazione rilevante (la strada da seguire) non direttamente ma attraverso il segnale chimico. Il volo degli uccelli è, invece, un esempio di comunicazione diretta, poiché ogni individuo guarda direttamente i propri vicini per decidere la direzione in cui volare.

Per verificare i vari aspetti del meccanismo di arruolamento delle formiche attraverso il feromone i ricercatori hanno realizzato svariati esperimenti in laboratorio. In questo caso, infatti, considerate le piccole dimensioni degli animali, è possibile tenere intere colonie sotto controllo e nelle condizioni desiderate. Uno dei setup sperimentali più praticati è quello del doppio percorso: vi sono due diversi percorsi che conducono da una piazzola, dove viene posizionato il formicaio all’inizio dell’esperimento, a una stessa placca di cibo. Le prime formiche che escono dal formicaio scelgono ognuno dei due percorsi con eguale probabilità e, dopo avere raggiunto e scoperto il cibo, cominciano e rilasciare feromone lungo la via del ritorno. In seguito però entra in gioco il meccanismo di attrazione feromonica e le altre formiche sceglieranno con maggiore probabilità il percorso con maggiore segnale chimico. Se i due percorsi sono di eguale lunghezza, la quantità di feromone su ciascuno di essi dipende da quante tra le prime formiche, per puro caso, hanno scelto l’uno piuttosto che l’altro: se inizialmente qualche formica in più è andata a destra, vi sarà un leggero sbilanciamento a favore del percorso di destra. Tale sbilanciamento è però sufficiente per catalizzare l’instaurarsi di un tracciato stabile: le nuove formiche che escono dal formicaio, infatti, andranno anch’esse a destra, rilasciando nuovo feromone e rafforzando il segnale già esistente.

Questo processo, in cui una fluttuazione iniziale (in questo caso nella quantità di feromone) è amplificata da un meccanismo imitativo, è un aspetto classico dell’autorganizzazione. Quando i due percorsi sono uguali ciascuno dei due ha la stessa probabilità di ospitare il tracciato seguito dalle formiche. E difatti, se si eseguono molti esperimenti, in media la metà delle volte esse scelgono il percorso di destra, l’altra metà quello di sinistra. Altrettanto istruttivo è l’esperimento in cui i percorsi hanno lunghezza diversa. A causa della maggiore distanza da percorrere, l’accumulo di feromone sul braccio più lungo è inizialmente minore e ciò è sufficiente a catalizzare il flusso di formiche sul percorso più breve: in questo caso, se l’esperimento viene ripetuto più volte, il tracciato si instaura sistematicamente nello stesso percorso.

Questo esempio mostra un aspetto estremamente interessante dei processi collettivi autorganizzati. Grazie a un meccanismo locale e decentralizzato, dunque economico in termini di gestione e trasferimento dell’informazione, il gruppo riesce a coordinarsi compiendo scelte ottimali per l’intera colonia, come la selezione della strada più breve per raggiungere l’obiettivo. Vi sono molti altri contesti in cui, con dinamiche analoghe, un insieme di individui riesce a compiere compiti complessi (Camazine, Deneubourg, Franks et al. 2001). Un altro esempio è dato dalla peculiare struttura spaziale dei cimiteri di formiche, in cui i corpi delle formiche morte, inizialmente distribuiti su regioni piuttosto vaste, vengono efficacemente concentrati in un numero ridotto e omogeneamente disposto di cumuli. Dopo alcune osservazioni, i ricercatori hanno capito che le formiche che si occupano della raccolta dei corpi tendono a depositarli in punti con una già alta concentrazione di cadaveri. Da qui è nata l’ipotesi che la probabilità di depositare un cadavere in un certo punto è tanto maggiore quanto più alta è in quel punto la concentrazione di corpi. Per testare questa ipotesi, sono stati realizzati alcuni esperimenti in cui i cadaveri sono stati inizialmente distribuiti a caso in un’arena circolare cui hanno poi avuto accesso le formiche ‘becchino’. Come ci si aspettava, la disposizione e la grandezza finale dei cumuli rispecchiavano la dinamica sopra descritta. Anche in questo caso è in gioco un meccanismo di amplificazione delle fluttuazioni: i cumuli si creano, infatti, in quei punti dove per caso vi è una maggiore concentrazione iniziale di corpi rispetto ai dintorni. Altri esempi si hanno nelle api (le famose ‘danze’ con cui le api segnalano e arruolano compagne verso regioni ricche di polline) e negli scarafaggi (il modo in cui si ripartiscono in un numero finito di rifugi ombreggiati).

Alcuni meccanismi studiati negli insetti sono presenti anche in animali superiori (i percorsi segnati dalle grosse mandrie di mammiferi) e riguardano pure comportamenti umani (si pensi alla struttura dei sentieri nei parchi urbani o alla distribuzione dei flussi di traffico nella rete stradale). Lo studio empirico dei fenomeni collettivi in ambito sociale presenta anche aspetti diversi. Le dinamiche di folla e panico sono più simili alle dinamiche imitative di gruppo presenti nei vertebrati. Esse si svolgono però in due dimensioni, e per questo motivo normali tecniche video-fotografiche sono sufficienti per uno studio quantitativo completo. Non sussiste dunque il grandissimo problema tecnologico che ha afflitto l’analisi in tre dimensioni e di cui abbiamo parlato in precedenza. A tale proposito vale la pena di ricordare il caso, ampiamente studiato, dell’enorme flusso di fedeli islamici in pellegrinaggio verso La Mecca, viaggio che si svolge ogni anno e che purtroppo dà spesso luogo a terribili incidenti. Lo studio quantitativo delle immagini catturate dalle telecamere a circuito chiuso della sorveglianza ha permesso ai ricercatori di validare modelli numerici, i quali a loro volta hanno permesso di identificare strategie tese alla minimizzazione del rischio di incidenti. Anche le dinamiche di applauso, simili per certi aspetti a fenomeni di sincronizzazione presenti anche negli insetti (si pensi alle lucciole), possono essere studiate con registrazioni ai concerti e un’appropriata analisi del segnale audio.

In fenomeni sociali più complessi, come nella formazione di flussi di opinione e nei mercati economici e finanziari, le dinamiche imitative non avvengono nello spazio fisico, bensì in uno spazio astratto determinato dal tipo di decisione operata dagli individui del gruppo sociale in esame. Per es., nel caso di un mercato finanziario, gli agenti possono vendere e/o comprare titoli finanziari e la dinamica rilevante è quella dei prezzi e delle transazioni finanziarie. In tale contesto, i problemi maggiori non riguardano soltanto la raccolta dei dati in sé, ma anche la loro qualità e accessibilità. Per molto tempo, per es., le transazioni finanziarie non sono state disponibili al pubblico o lo sono state solo in parte e ad alto costo. In generale, comunque, da quando i dati finanziari hanno cominciato a essere registrati con sistematicità e resi disponibili, a pagamento o addirittura gratuitamente, si è assistito a una vera e propria rivoluzione nel campo dell’analisi empirica e nell’approccio anche teorico al funzionamento dei mercati. Tali analisi sono state a lungo praticate esclusivamente nell’ambito delle banche d’affari, dunque con ben determinate finalità e in un contesto improntato a una tradizione metodologica ben precisa. L’approccio multidisciplinare che ha, invece, caratterizzato le analisi più recenti, in cui agli economisti e ai matematici si sono affiancati in modo preponderante anche i fisici statistici, ha rivelato nuovi aspetti prima trascurati (Voit 20053). Per es., una delle assunzioni fondamentali di molte analisi teoriche riguarda l’andamento nel tempo della variabile prezzo. Gli incrementi del prezzo in un dato intervallo di tempo sono spesso modellizzati come variabili gaussiane: la probabilità P che il prezzo cresca nell’intervallo δt di una quantità δX è data da P(δX)=exp(−aδX2), dove a è una costante legata alla volatilità del mercato su scala δt. Tale ipotesi garantisce condizioni matematiche relativamente semplici e permette di elaborare teorie di matematica finanziaria piuttosto complesse. Soltanto negli ultimi anni un’analisi empirica sistematica dell’andamento dei prezzi ad alta frequenza ha rivelato che, su scale temporali non grandi, l’ipotesi gaussiana è tutt’altro che valida. In particolare, la probabilità di avere grandi incrementi di prezzo è notevolmente sottostimata dal modello gaussiano, con serie conseguenze per una corretta valutazione dei rischi di investimento.

In generale, un notevole sforzo è stato dedicato a caratterizzare empiricamente le proprietà statistiche del prezzo (di un’azione, obbligazione, indice o qualsiasi altro titolo finanziario), ossia quelli che vengono chiamati in gergo fatti stilizzati dei mercati finanziari: come sono distribuiti gli incrementi del prezzo; come l’incremento a un dato istante sia correlato all’andamento del mercato in un altro istante; come i prezzi di titoli diversi (o settori diversi del mercato) siano tra loro correlati; come certe sorgenti di informazione possano influenzare il comportamento del mercato (Mantegna, Stanley 2000).

Vi è poi un’altra circostanza, relativamente recente, che ha definito l’orizzonte futuro della ricerca empirica in questo campo. Molti mercati finanziari (anche se non tutti) hanno ormai adottato un funzionamento quasi esclusivamente elettronico: ciò significa che l’accoppiamento tra offerta e domanda e la conseguente realizzazione di transazioni finanziarie non sono effettuate da un’apposita figura professionale (il market maker dei mercati finanziari tradizionali), bensì da un programma informatico. Questo garantisce una più accurata registrazione delle transazioni (e dunque una più efficace analisi empirica dei prezzi). Soprattutto, sono ormai disponibili all’analisi anche i libri degli ordini (order books) piazzati dagli investitori (anche quelli che non vengono poi realizzati dando origine a transazioni): ciò rappresenta un’informazione molto importante sulla dinamica delle opinioni e ha permesso di indagare in maniera più approfondita il meccanismo di formazione dei prezzi.

Modelli teorici

Dopo questa breve panoramica sulle tecniche di analisi empirica, vorremmo adesso soffermarci sui modelli teorici che sono stati sviluppati per descrivere i fenomeni collettivi e per comprendere il meccanismo di autorganizzazione del gruppo.

Il caso dei gruppi animali è quello in cui il processo imitativo è senza dubbio il meccanismo preponderante ed è sufficiente, da solo, a spiegare il comportamento di gruppo. I modelli teorici (spesso chiamati modelli ad agenti, o agent based models) specificano il comportamento di ciascun individuo, assumendo per esso regole dinamiche basate sulle osservazioni e su ipotesi comportamentali ragionevoli. Formalmente, ciò significa che per ogni membro del gruppo viene scritta un’equazione matematica che descrive come l’individuo si muove nello spazio, date le interazioni che esso ha con i suoi compagni. Per es., nel caso di pesci e uccelli, ogni individuo si muove seguendo tre regole base: non avvicinarsi troppo ai vicini per evitare collisioni; non allontanarsi troppo dai vicini, per non perdere coesione; muoversi nella direzione media in cui si muovono i vicini, per coordinarsi con essi. Queste tre regole sono codificate da altrettanti diversi contributi nell’equazione che descrive come la direzione del moto di un dato animale cambi tra un istante e quello successivo. Il primo contributo è modellizzato come una forza repulsiva a corto raggio, che sposta l’individuo in direzione opposta agli individui a esso troppo vicini. Il secondo contributo corrisponde, invece, a una forza attrattiva che agisce su scale più grandi e tende a riavvicinare l’individuo ai suoi vicini se esso si allontana troppo. Infine, il terzo è un contributo di allineamento che orienta la velocità dell’individuo lungo la direzione di moto media dei suoi vicini. Questi tre elementi, repulsione a corto raggio, attrazione e allineamento, sono gli ingredienti fondamentali per tutti i modelli di moto aggregato in uccelli, pesci, insetti e mammiferi. Come già sottolineato nell’introduzione, queste regole sono locali nello spazio, in quanto ogni animale subisce l’influenza solo di alcuni vicini e non di tutti gli individui del gruppo. Ogni modello differisce però nel modo specifico in cui le regole vengono implementate, perché modelli diversi si riferiscono a sistemi diversi (per es., uccelli piuttosto che pesci), ma soprattutto perché il ricercatore può avere opinioni differenti sul comportamento esatto degli animali cui il modello si riferisce.

A tale proposito, una variabile molto importante consiste nel modo in cui vengono selezionati i vicini con i quali un dato individuo interagisce. Molti modelli adottano ‘zone’ di interazione, ossia regioni spaziali attorno all’individuo focale: questo considera soltanto i vicini che si trovano all’interno di tali zone per decidere il proprio spostamento successivo. Alcuni modelli, invece, ipotizzano che ogni vicino eserciti una forza (di repulsione, attrazione o allineamento) dipendente dalla distanza fra individui e che decade su una ben definita scala spaziale, scala che gioca in tal caso lo stesso ruolo dell’estensione della zona di interazione presente negli altri modelli. Comunque, la maggior parte dei modelli assume un concetto di interazione tra individui che dipende dalla distanza nello spazio (o attraverso una dipendenza funzionale o con zone discrete). Tale ipotesi è senz’altro ragionevole (si pensi, per es., che questo è quanto succede per tutte le interazioni tra corpi e particelle in fisica). Come vedremo, però, essa non è corretta nel contesto del comportamento collettivo animale.

In un modello ad agenti si ha dunque un’equazione dinamica per ogni singolo individuo; tale equazione ne specifica il movimento nello spazio e nel tempo. L’insieme globale di equazioni che ne deriva è troppo complesso per una risoluzione matematica esatta. Tali modelli vengono dunque studiati attraverso simulazioni numeriche, ossia ogni equazione viene codificata in un algoritmo, implementato poi da un computer, il quale simula in tal modo una popolazione artificiale di individui che obbediscono alle regole di moto date. Lo studio numerico dei modelli ha fornito risultati importanti. Essi hanno provato che a partire da regole locali di interazione fra gli individui è possibile ottenere un comportamento collettivo non banale, fornendo dunque una dimostrazione qualitativa, ma solida, di uno dei concetti portanti della teoria dell’autorganizzazione. Per quel che riguarda predizioni più quantitative, esse ovviamente dipendono dai dettagli del modello, dal modo specifico in cui le varie regole sono implementate e dal valore dei vari parametri in gioco (per es., la grandezza della zona di interazione, quanto pesano i vicini in base alla loro distanza, quanto conta la forza di attrazione rispetto a quella di allineamento ecc.). La maggior parte degli studi teorici è stata infatti dedicata a esplorare le varie possibilità, provando a cambiare leggermente le regole e i parametri, per vedere quali diverse tipologie di moto aggregato si potevano ottenere, in termini di forma, dinamica di gruppo e struttura interna (Couzin, Krause 2003). Purtroppo, data la mancanza di dati empirici, tali analisi teoriche, seppur interessanti a livello speculativo, sono rimaste a lungo puro esercizio teorico. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, solo recentemente sono stati realizzati alcuni studi empirici su gruppi molto grandi. Ciò ha consentito una più concreta valutazione dei modelli esistenti, almeno per quei gruppi di animali su cui sono state effettuate le osservazioni empiriche. L’analisi quantitativa dei dati di osservazione ha permesso, infatti, di misurare un enorme numero di grandezze di tipo sia morfologico (forma, volume, densità del gruppo), sia strutturale (posizioni relative degli individui; distanza minimale fra individui e zona di repulsione; presenza di eventuali anisotropie angolari nella distribuzione degli individui). Moltissime di queste misurazioni non trovano riscontro nei risultati dei modelli teorici attuali, il che mostra chiaramente come l’analisi teorica, svincolata dal supporto empirico, si sia sviluppata in modo eccessivamente autoreferenziale. La sfida che i modelli teorici di moto collettivo di gruppi di animali dovranno affrontare in futuro sarà ridefinire le regole di interazione fra individui al fine di riprodurre correttamente i risultati empirici.

Nel caso degli insetti sociali, d’altro canto, come abbiamo visto si hanno numerosi risultati sperimentali, ed è possibile dunque costruire modelli semplificati adattati al contesto sperimentale utilizzato. Per es., laddove interessi conoscere la ripartizione di formiche su due diversi possibili percorsi, è possibile scrivere un’equazione molto semplice per il flusso di formiche su ogni percorso. Tale equazione formalizza il meccanismo di arruolamento già descritto, assumendo che la probabilità che il traffico su un dato percorso aumenti, cresce al crescere della concentrazione feromonica. In questo esempio, come in molti altri contesti sperimentali, il modello è sufficientemente semplice da poter essere risolto matematicamente, e il numero di parametri molto limitato. Dunque modello e risultati sperimentali sono stati paragonati, fornendo spiegazioni teoriche quantitative e convincenti dei fenomeni osservati. Per es., i ricercatori hanno ipotizzato nel modello una ben precisa legge di aumento della concentrazione del feromone all’aumentare del flusso di formiche, e poi hanno verificato tale legge e misurato i suoi parametri attraverso misure empiriche.

In campo sociale si hanno moltissimi modelli, anche di tipo molto diverso, a seconda del fenomeno considerato. Abbiamo già accennato al caso del traffico, per cui sono usati modelli molto simili, anche se in generale più complessi, a quelli usati per gli insetti sociali. In linea di massima tuttavia possiamo affermare che anche per sistemi sociali ed economici le novità teoriche più interessanti riguardano lo sviluppo di modelli ad agenti (Helbing 2001; Voit 20053). Gran parte della comprensione dei fenomeni di affollamento, per es., è stata ottenuta creando modelli ad agenti con opportune regole comportamentali per gli individui e simulando la dinamica collettiva su computer (Helbing, Farkas, Vicsek 2000). L’approccio è molto simile a quello operato nei gruppi animali ma, ovviamente, le regole sono di tipo diverso e rispecchiano i fattori che sono in questo caso rilevanti, come, per es., l’esistenza di una direzione privilegiata di fuga (un varco, un’uscita, una strada laterale), la presenza di forze di frizione dovute agli altri individui, la presenza di ostacoli. L’analisi numerica di questi sistemi artificiali ha permesso di individuare quali siano i meccanismi di rallentamento e occlusione spesso in atto quando ci sono grossi affollamenti. Un esempio paradigmatico è l’effetto ‘più veloce è più lento’ (faster is slower) che subentra nei fenomeni di panico da fuga, a causa dell’impazienza crescente di uscire da un luogo confinato. I ricercatori hanno mostrato quantitativamente che quando gli individui cercano di raggiungere grandi velocità di fuga gli effetti di frizione dovuti agli scontri e l’intasamento aumentano, rallentando di fatto la dinamica collettiva. Ciò aumenta i tempi di attesa e dunque l’ansia di fuga degli individui, i quali a quel punto cercano di scappare ancora più velocemente, rallentando ulteriormente la dinamica in un pericoloso circolo vizioso.

Il caso dei mercati finanziari è forse uno dei più complessi e dei più interessanti. L’approccio dei modelli ad agenti non è affatto nuovo in economia; l’attenzione per le scelte individuali e per come esse determinino a livello collettivo l’andamento di un mercato o di una collettività è anzi uno degli aspetti principali della microeconomia e della teoria dei giochi. Tuttavia, l’economia tradizionale ha operato in passato assunzioni ben precise sul comportamento umano: l’agente classico della teoria dei giochi è un individuo perfettamente razionale e dalle illimitate capacità di calcolo, in grado di valutare correttamente le conseguenze delle proprie azioni e di quelle altrui. Inoltre, tutti gli individui sono equivalenti e dotati di eguali abilità, condizione che permette spesso di considerare un solo agente ‘rappresentativo’ e di risolvere matematicamente il problema in esame. Tale paradigma dell’‘agente razionale’ è ovviamente inadeguato a descrivere situazioni complesse come, per es., i mercati finanziari, in cui gli agenti sono spesso irrazionali, hanno pochissimo controllo sull’immensa mole di informazioni e variabili in gioco e, soprattutto, seguono strategie di investimento ben differenziate. Recentemente, dunque, è cresciuto l’interesse teorico verso modelli di agenti in cui questi elementi, prima trascurati, fossero opportunamente modellizzati (Voit 20053). Tali modelli adottano una prospettiva quasi opposta rispetto alla teoria dei giochi. Gli agenti non sono perfettamente razionali e le scelte casuali sono ampiamente contemplate; non usano strategie deduttive, ma operano adattativamente, adeguando nel tempo la propria condotta all’evolversi della situazione complessiva; essi sono infine eterogenei e seguono strategie diverse l’uno dall’altro. Tali modelli, data la loro complessità, sono prevalentemente studiati attraverso simulazioni numeriche, anche se in alcuni casi è possibile scrivere equazioni efficaci trattabili matematicamente.

In generale, le regole seguite da ogni agente prevedono strategie di investimento che dipendono dall’andamento del prezzo, da variabili individuali (ricchezza, propensione al rischio ecc.) e da variabili stocastiche (irrazionalità). Il prezzo è a sua volta determinato dalle azioni di tutti gli individui e dalla percentuale relativa di venditori e compratori. Ogni giocatore è influenzato indirettamente dagli altri (e dunque interagisce con essi) attraverso il prezzo, anche se possono sussistere ulteriori reti dirette di comunicazione. I modelli possono essere più o meno complicati. Modelli minimali in cui gli agenti operano semplici scelte tra un numero limitato di azioni sono utili per comprendere il processo di formazione dell’azione aggregata a partire da quelle individuali. Nei modelli più complessi, invece, ulteriori equazioni specificano come l’azione aggregata determini il prezzo e il meccanismo di bilanciamento tra offerta e domanda. In questo contesto è possibile, per es., studiare il meccanismo di formazione delle bolle speculative e che cosa ne influenza crescita ed esaurimento. Variando le regole individuali e i valori dei parametri, si possono affrontare domande importanti e cercare di capire quali siano i fattori microscopici che determinano le proprietà statistiche dei prezzi rilevate dalle analisi empiriche.

Origine della coesione

Per gli animali, vivere e muoversi in gruppo presenta notevoli vantaggi di sopravvivenza, e non è possibile comprendere in maniera esaustiva tali fenomeni prescindendo dalla loro funzione biologica. Il vantaggio più evidente del far parte di un gruppo è legato alla migliore capacità di affrontare attacchi predatori. Ciò avviene per svariate ragioni: innanzi tutto ogni individuo si trova circondato da numerosi suoi simili, diminuendo in tal modo la probabilità di essere catturato. Si ha, dunque, un effetto di diluizione del rischio. Inoltre, un gruppo coeso, e che si muove rapidamente, cambiando forma, densità e direzione, confonde il predatore, il quale non riesce a focalizzare l’attenzione su un individuo specifico, e per questo è molto meno efficace nell’attacco. Infine, la dinamica imitativa permette di trasferire velocemente l’informazione riguardante la presenza del predatore, garantendo all’intero gruppo una prontezza di reazione maggiore di quella che potrebbe avere un individuo isolato.

È evidente che la capacità del gruppo di mantenere la coesione ha forti conseguenze sulle probabilità di sopravvivenza dei singoli e, dunque, deve essere stata modellata da un profondo meccanismo evolutivo. Inoltre, date le condizioni altamente perturbate in cui di norma il gruppo si muove (presenza di predatori, fenomeni meteorologici, ostacoli fisici ecc.), è lecito domandarsi quale sia il meccanismo alla base di una tanto robusta coesione. In altre parole: in che modo l’evoluzione ha plasmato le regole di comportamento al fine di garantire la massima coesione e dunque la sopravvivenza del gruppo? L’analisi dei modelli teorici esistenti, purtroppo, non aiuta a rispondere a questa domanda. Infatti, la resistenza del gruppo a una perturbazione esterna è proprio fra quei risultati che gli attuali modelli non sono in grado di riprodurre. Non c’è da sorprendersi, dunque, se la risposta a tale domanda (qual è l’origine della coesione) sia venuta dalle più recenti e avanzate analisi empiriche, piuttosto che dai modelli teorici.

Analizzando le proprietà strutturali di grandi gruppi di storni in volo, si è scoperto che ogni uccello interagisce in media con un numero fisso di vicini (7), a prescindere dalla loro distanza (Ballerini, Cabibbo, Candelier et al. 2008). Questo risultato è in contraddizione con l’ipotesi adottata dalla stragrande maggioranza dei modelli, secondo cui ogni individuo interagisce solo con gli animali entro una certa distanza fisica da esso: se questo fosse vero, il numero di individui interagenti con un determinato animale sarebbe grande in un gruppo ad alta densità, e piccolo in un gruppo a bassa densità. L’analisi empirica, invece, mostra il contrario: il numero di individui con cui ogni animale interagisce è sempre lo stesso, indipendentemente dalla densità. Questo tipo di misura della distanza, basata sul numero piuttosto che sulla distanza in metri, è anomala nel contesto della fisica (le interazioni fondamentali sono tutte basate sulla distanza metrica), ma è comune in altri contesti. Possiamo pensare, come esempio tipico, al modo in cui valutiamo le distanze quando usiamo la metropolitana: non è in base alla distanza in metri fra il punto di partenza e quello di arrivo che calcoliamo la lunghezza di un percorso, ma in base al numero di fermate intercorrenti. Oppure, in una rete informatica, è il numero di nodi fra due computer che conta, non la distanza in metri. Tuttavia, anche se ci sono casi in cui è naturale adottare una distanza basata sul numero, non è a priori chiaro perché questa debba essere la scelta giusta per uno stormo di uccelli in volo. Quello che si è scoperto è che proprio una tale interazione basata sul numero è la chiave per garantire la coesione del gruppo.

Le perturbazioni esterne, come l’attacco di un predatore, causano non solo dei cambiamenti di forma del gruppo, ma soprattutto delle forti variazioni di densità, e dunque della distanza tipica fra gli individui: uno stormo si espande e si contrae di continuo al fine di sfuggire all’attacco di un falco. In queste condizioni un’interazione fra individui basata sulla normale distanza fisica non sarebbe adeguata a mantenere la coesione. Infatti, non appena la distanza fra un individuo e i suoi vicini diventasse maggiore del raggio fisico di interazione, quell’individuo ‘evaporerebbe’ dal gruppo e la coesione sarebbe persa, a scapito della sicurezza degli individui. Al contrario, con una interazione basata sul numero, questo problema non sussiste: la forza del legame fra individui diversi è la medesima, indipendentemente dalla loro distanza, e dunque anche dall’intensità della perturbazione esterna. In questo modo la coesione è garantita. Recentissime simulazioni numeriche supportano in pieno questa conclusione: quando un modello standard, che utilizza l’interazione basata sulla distanza fisica, viene modificato in modo che utilizzi un’interazione basata sul numero, si osserva che la coesione del gruppo diventa enormemente più solida e stabile. Questo è un caso tipico di come la sinergia fra dato empirico e modello teorico porti a risultati molto soddisfacenti.

Come abbiamo visto, la chiave della coesione del gruppo è un’interazione basata sul numero, piuttosto che sulla distanza. In particolare, per gli storni, questo numero è pari a 7: ogni individuo interagisce solo con i suoi primi 7 vicini. L’interpretazione più probabile di questo fenomeno è che si tratti di un limite cognitivo degli uccelli, ovvero che 7 sia il numero più grande di individui con cui uno storno può interagire senza confondersi. Questa interpretazione è confermata dal fatto che i piccioni possono distinguere insiemi di diversa numerosità soltanto fino a un certo numero di oggetti. Tale soglia, sopra la quale le capacità di distinzione numerica decadono, è proprio 7. In altre parole, mentre è possibile per l’uccello distinguere 3 da 4, oppure 5 da 6, diventa impossibile distinguere 8 da 9 o 10 da 11. La linea di confine sta proprio nel numero 7. Alla luce di questa interpretazione cognitiva, la capacità degli animali di mantenere una forte coesione del gruppo sarebbe profondamente radicata nelle funzioni cognitive degli animali stessi. Questo dimostra come le modellizzazioni teoriche che riducono gli animali a semplici entità fisiche, prive di caratterizzazioni complesse, debbano sempre essere valutate con la massima cautela.

La necessità di un approccio interdisciplinare

Desideriamo terminare questa panoramica mettendo di nuovo in luce l’importanza di un approccio interdisciplinare allo studio dei fenomeni collettivi. Nel 20° sec. le varie discipline interessate all’autorganizzazione e al comportamento collettivo hanno proceduto in ordine sparso, con priorità e metodi completamente differenti. Biologi, etologi, fisici, ingegneri ed economisti per più di mezzo secolo hanno considerato i fenomeni collettivi come specifici del loro particolare campo di indagine. A causa di questo, molti degli studi condotti in passato sono stati nel migliore dei casi parziali, nel peggiore decisamente inconcludenti. I problemi insorti in passato a causa di questa carenza di integrazione fra diverse discipline sono numerosi: l’approccio eccessivamente qualitativo dell’analisi etologica, quasi mai supportata da una serie di adeguati strumenti quantitativi, che invece discipline quali la fisica e la matematica avrebbero potuto offrire; la quasi totale assenza di dati empirici, dovuta al fatto che tecnologie essenziali all’analisi sperimentale erano da ricercarsi al di fuori dei confini della biologia; la formulazione da parte della fisica di domande a volte del tutto irrilevanti dal punto di vista etologico e biologico; l’incapacità dell’ingegneria (per es., come nel caso della robotica) di ispirarsi a paradigmi biologici altamente funzionali; una certa tendenza delle scienze esatte (matematica e fisica) a descrivere il problema in maniera eccessivamente riduzionista, procedendo per semplificazioni esagerate, spesso ingiustificate; il ritardo delle discipline economico-sociali nel rendersi conto dell’importanza delle eterogeneità e dei fenomeni casuali, così ovvi invece in fisica. L’elenco potrebbe continuare a lungo, tanti sono i limiti delle singole discipline quando si tratta di studiare un problema intrinsecamente multidisciplinare.

Con l’avvento del nuovo secolo questa situazione si è completamente modificata. Biologi, fisici, matematici ed economisti hanno iniziato a occuparsi ognuno di fenomeni collettivi presenti nel campo dell’altro, e questo sta arricchendo in maniera formidabile questo argomento. In particolare, l’integrazione fra discipline quali la fisica e l’ingegneria da un lato (essenziali per l’analisi empirica e per la messa a punto di strumenti di indagine quantitativa) e la biologia e l’economia dall’altro (fondamentali per sintetizzare e stigmatizzare le domande e gli aspetti più rilevanti dei fenomeni collettivi) ha già portato a nuovi, fecondi risultati. Questa tendenza alla interdisciplinarietà incontra ovviamente anche alcune riluttanze: è naturale che all’interno di ogni campo ci siano delle sacche di resistenza che tendono a sfruttare rendite di posizione, piuttosto che a spendere energie e risorse per aprirsi a metodi di indagine nuovi. Inoltre, non è sempre facile trovare scienziati che siano egualmente esperti di molti settori differenti, i quali possano giudicare in modo limpido la qualità di una ricerca interdisciplinare. A causa di questo può diventare a volte difficile distinguere ricerche di valore da semplici accumulazioni di tematiche sconnesse, senza vera ragione d’essere. Tuttavia, il processo di integrazione è ormai inarrestabile, ed è facile prevedere che in futuro, anche nel campo dei fenomeni collettivi e dell’autorganizzazione, la differenza, per es., fra un fisico e un biologo si sfumerà sempre di più, fino a diventare sostanzialmente inesistente.

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