Concorrenza. Disciplina pubblicistica

Diritto on line (2015)

Angelo Lalli

Abstract

Si esamina il ruolo che la disciplina della concorrenza ha assunto nelle relazioni di diritto pubblico. In virtù del diritto Unione europea, la concorrenza diviene una matrice normativa di i regole e principi che si applicano , anche alle attività dell’amministrazione Ne derivano conseguenze sul piano dell’organizzazione e dei principi che regolano tutte le attività amministrative. Vera novità, modello di amministrazione c.d. indipendente, è l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, cui è affidato il compito di applicare le regole di concorrenza alle imprese e di segnalare ai pubbici poteri leggi, regolamenti o prassi amministrative che siano distorsivi del buon funzionamento dei mercati. E’ una funzione di carattere «neutrale».. Grazie all’Autorità, alle regole europee in materia di contratti pubblici e di liberalizzazioni , all’istituzione delle autorità nazionali di regolazione dei servizi pubblici, la concorrenza diviene il criterio centrale della c.d. regolazione in capo economico: guida e limite per ogni autorità che voglia disciplinare i fenomeni economici. Si registra un mutamento di fondo dei rapporti tra Stato e mercato. Riflesso di ciò è evidente nella giurisprudenza del giudice amministrativo, della Corte costituzionale e, in fine, troverà riscontro nella revisione della stessa Costituzione . Le crisi della finanzia privata del 2008 ha determinato un ridimensionamento di fatto della concorrenza, almeno nel settore finanziario, a favore di interventi diretti degli Stati per evitare i fallimenti delle istituzioni finanziarie.

Premesse di analisi economica e i diversi profili della disciplina pubblica della concorrenza

La concorrenza indica, secondo l’insegnamento delle scienze economiche (Carlton, D. W.-Perloff, J. M., Organizzazione industriale, Milano, 1997; Musu, I., Il valore della concorrenza nella teoria economica, in Lipari, N.-Musu, I., a cura di, La concorrenza tra economia e diritto, Roma – Bari, 2000, 5-26), quel peculiare assetto dei rapporti tra imprese e tra queste e i consumatori nel quale le prime hanno piena libertà di ingresso e di uscita con riferimento ai diversi mercati (ciascuno caratterizzato da un prodotto o da un servizio che viene scambiato in una data area geografica); c’è una perfetta informazione tra gli operatori sui prodotti e sui servizi scambiati; questi sono tendenzialmente omogenei; i consumatori sono in grado di valutare autonomanente le proprie convenienze. L’incontro tra le autonome decisioni di produzione delle singole imprese e le preferenze di acquisto da parte dei consumatori si realizza attraverso il meccanismo dei prezzi. Questi ultimi, per la loro funzione segnaletica, consentono la sintesi tra le decisioni di produzione (che danno luogo all’offerta) e di acquisto (che generano la domanda), individuando il valore al quale i consumatori sono disposti ad acquisire la desiderata quantità di beni e servizi. Tale assetto consente, in astratto, di realizzare alcuni benefici di rilievo generale. In particolare, si consegue l’efficienza allocativa, con ciò intendendosi l’impiego ottimale di tutti i fattori della produzione; il tendenziale abbassamento dei prezzi, dovuto al contenimento dei costi di produzione e il miglioramento delle produzioni stesse sotto un profilo qualitativo e di ampiezza di gamma.

Nella classica formulazione di Adam Smith (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, London, 1776), il mercato concorrenziale è la struttura che, sfruttando l’innato desiderio di arricchimento egoistico dell’uomo, comporta benefici per la collettività, proprio perché dalla corsa per il profitto delle singole imprese si genera, a livello di sistema, un naturale effetto di disciplina del comportamento delle stesse imprese che saranno portate a produrre meglio, di più e a costi inferiori rispetto ai propri concorrenti, allo scopo di conquistare sempre maggiori quote di mercato. Il sistema è basato sulle libere e autonome decisioni degli operatori e, affinché esso funzioni al meglio, i poteri pubblici non debbono ingerirsi. In questa visione, il ruolo del settore pubblico è confinato nel garantire i diritti di proprietà, la libertà contrattuale e la loro effettività, attraverso la tutela giurisdizionale che si configura come un servizio essenziale. Queste le cc.dd. precondizioni giuridiche del mercato (Irti, N., L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998).

La scienza economica, tuttavia, ha anche messo in evidenza (Samuelson, P.A.-Nordhaus, W.D, Economia, 1996, Milano, 285-290; Stiglitz, J.E., Economia del settore pubblico, Milano, 1989, 101 ss.) che questa visione ottimistica nei benenfici del mercato concorrenziale deve essere ridimensionata in presenza dei cc.dd. “fallimenti del mercato”, che sono quelle situazioni nelle quali il meccanismo dello scambio si inceppa e non è in grado di generare i benefici attesi. Ciò può accaddere per una serie di ragioni: alcuni comportamenti delle imprese che, ad esempio, anziché farsi concorrenza, si accordano per limitarla a scapito dei consumatori; oppure, il comportamento di singole imprese che, avendo raggiunto una posizione di potere sul mercato (una posizione dominante secondo la terminologia dei Trattati europei), ne abusano a danno dei concorrenti e dei consumatori; vi sono poi situazioni nelle quali i consumatori non sono in grado di valutare a pieno la propria convenienza a causa di deficit informativi (asimmetrie informative; si pensi al settore dei farmaci o dei prodotti finanziari); ancora, si danno circostanze in cui gli effetti negativi di una data attività non si esprimono in costi di impresa, pertanto la stessa non è indotta a limitarli (sono le esternalità negative, il cui esempio classico è l’inquinamento); vi sono beni che il mercato non è in grado di produrre perché non è conveniente per nessuno produrli (i beni pubblici in senso economico) e poi vi sono beni che, pur prodotti dal mercato, non lo sono a livelli e a condizioni ritenute socialmente accettabili; vi sono, infine, situazioni nelle quali la struttura dei costi di impresa, è caratterizzata da economie di scala, per cui nel mercato tende ad affermarsi una sola impresa la cui attività non è più disciplinata dalla presenza attuale o potenziale delle altre (è il monopolio naturale). In tutte queste evenienze, la scienza economica ritiene legittimo un intervento correttivo da parte dei poteri pubblici, secondo modalità che siano però attente a individuare se effettivamente si è in presenza di un fallimento del mercato e, nel caso affermativo, che siano sagomate in modo da essere idonee a risolvere il problema individuato, incidendo il meno possibile su quello che è il libero funzionamento dei mercati, nel rispetto del principio di proporzionalità.

Queste acquisizioni della scienza economica, lette alla luce della tradizione ordoliberale (Lehmbruch, G., Consociational Democracy, Class Conflict, and the New Corporatism, 1974, University of Tubingen) hanno trovato una traduzione in termini giuridici nei Trattati istitutivi delle Comunità europee e, oggi, sono riconfermati nell’attuale quadro dei Trattati dell’Unione europea. I capisaldi del sistema poggiano sull’affermazione delle fondamentali libertà (libertà di circolazione delle merci, dei capitali, libertà di stabilimento in altri Paesi membri diversi da quello di origine per esercitarvi attività economiche e di prestazione dei servizi in tutta l’U.E., libertà di circolazione dei lavoratori, senza discriminazioni basate sulla nazionalità) che sono alla base di un’economia di mercato e che attengono alla mobilità dei fattori della produzione e alle scelte organizzative della propria attività economica delle imprese e di lavoro delle persone. Queste scelte non devono essere condizionate dalle decisioni politiche dei poteri pubblici, ma devono essere esclusivamente il frutto di valutazioni autonome di convenienza degli attori del mercato. Gli Stati membri possono limitare queste libertà solo per ragioni specifiche di interesse generale tipizzate nei Trattati o dalla giurisprudenza delle Corti comunitarie (a esempio, ordine pubblico, sanità, esigenze fiscali ecc.) che costituiscono pertanto eccezioni alle regole di libertà e, come tali, devono essere interpretate restrittivamente; sono poi stabilite le regole di concorrenza rivolte alle imprese con i classici divieti di intese anticoncorrenziali, di abuso di posizione dominante (art. 101 e 102 TFUE) e di realizzazione di operazioni di concentrazioni che «ostacolino in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione dominante» (Regolamento CE n. 139/2004 del Consiglio del 20.1.2004) e, infine, sono prescritte le regole in materia di aiuto di Stato alle imprese basate sul principio del divieto, che può essere solo eccezionalmente derogato, sotto lo stretto controllo della Commissione dell’Unione europea (artt. da 107 a 109 TFUE). L’insieme di queste regole e principi assume il mercato concorrenziale come la struttura fondamentale per la produzione di beni e servizi, anche pubblici. In quest’ultimo caso, sono ammesse limitate deroghe alle regole di concorrenza, che devono sempre essere giustificate e circoscritte, nel caso in cui si dimostri che la missione di interesse generale non può essere realizzata nel rispetto di quelle regole (art. 106 del TFUE; si v., inoltre, sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, C-41/90, del 23.4.1991, Höfner, in Raccolta 1991 I-01979 e C - 320/91, 19 maggio 1993, Corbeau, in Raccolta 1993 I-02533).

Il sistema impone, quindi, una riconfigurazione dell’intervento pubblico in economia. L’impresa pubblica non è di per sè vietata, ma, poichè si afferma il principio della parità di trattamento normativo tra imprese pubbliche e private, vengono meno le ragioni per la sua istituzione (che risiedono proprio nell’avvertita necessità di utilizzare un organismo che operi non seguendo le logiche del mercato, ma avvalendosi di finanziamenti pubblici e perseguendo fini ulteriori al mero lucro).

Il nuovo ruolo dei pubblici poteri in economia è, dunque, confinato al controllo sui mercati di carattere puntuale e proporzionato, con conseguente drastico ridimensionamento dell’intervento diretto.

In tal modo, la concorrenza da disciplina che in origine atteneva, specie nella nostra tradizione giuridica, agli studi commercialistici (Ascarelli, T., Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Istituzioni di diritto industriale, t. 1, Milano, 1960), in quanto poneva regole solo alle imprese e nel loro interesse, assume ora una valenza ben più generale, come strumento per la realizzazione dell’unificazione europea; assetto fondamentale dei sistemi produttivi e criterio di orientamento all’agire dei pubblici poteri sul mercato. Da ciò derivano alcune rilevanti conseguenze sul piano dell’organizzazione amministrativa e della disciplina pubblica dei mercati: nascono apposite istituzioni pubbliche deputate all’applicazione delle regole di concorrenza alle imprese e alla vigilanza sulla qualità della disciplina dell’economia posta dai poteri pubblici; sono istituite le autorità di regolazione dei servizi pubblici, con il duplice scopo di disciplinare l’apertura dei mercati già sottoposti a riserva e presidiati da monopolisti pubblici e di garantire, in questo contesto, la prestazione dei servizi pubblici (Merusi, F., La regolazione dei servizi d’interesse economico generale nei mercati (parzialmente) liberalizzati: una introduzione in Bruti Liberati, E.-Donati, F., a cura di, La regolazione dei servizi di interesse economico generale, Torino, 2010, 1 ss.).

Il processo culmina con l’affermazione esplicita della tutela della concorrenza nella Costituzione come materia di competenza esclusiva dello Stato, considerata quindi limite alla potestà legislativa delle Regioni (C. cost., 13.1.2004, n. 14; 14.3.2008, n. 63; 12.2.2010, n. 45; 17.11.2010, n. 325). Oltre a ciò, l’esplicito riconoscimento di un’essenziale funzione di tutela dell’assetto concorrenziale attribuita allo Stato segnala l’esistenza di un precisio vincolo di scopo imposto al legislatore anche statale e ai pubblici poteri in genere che hanno competenze di regolazione del sistema economico. La concorrenza esprime, pertanto, oggi un insieme di istituti, principi, regole che hanno indotto profonde innovazioni nel diritto pubblico e amministrativo in particolare (Lalli, A., Disciplina della concorrenza e diritto amministrativo, Napoli, 2008).

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato e le autorità di regolazione dei servizi pubblici

L’istituzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con l’entrata in vigore della l. 10.8.1990, n.287, costituisce una svolta nella tradizione nazionale delle politiche di intervento pubblico in economia. È vero che le norme in materia di libertà economiche fondamentali, di concorrenza e di aiuti di Stato poste dai Trattati comunitari erano già vigenti da più di trent’anni. Tuttavia, è solo con la legge indicata – che traspone nei mercati nazionali i medesimi divieti di intesa e di abuso di posizione dominante stabiliti dai Trattati per le pratiche che incidano nel commercio tra Stati membri che il nostro Paese dimostra la raggiunta consapevolezza che le politiche pubbliche in economia devono radicalmente cambiare, rispetto alla lunga tradizione dell’intervento diretto che aveva trovato il contrassegno organizzativo tipico nel sistema della gestione amministrativa delle partecipazioni nelle imprese pubbliche. Nello stesso periodo si avviano i processi di privatizzazione e di liberalizzazione, cioè di apertura dei mercati all’accesso di nuove imprese non più solo pubbliche. L’istituzione della peculiare autorità di controllo ha dato vita a un dibattito nuovo per i culturi del diritto pubblico. La logica dell’intervento amministrativo, fatta propria dalla l. n. 287/1990, sulla scorta delle acquisizioni della scienza economica ricordate, abbandona la prospettiva del cd. diritto pubblico dell’economia per accedere al concetto di controllo condizionale sul rispetto delle regole del gioco (Cassese, S.-Franchini, C.,a cura di, I garanti delle regole, Bologna, 1996). Il mercato, purché concorrenziale, è destinato a raggiungere autonomamente esiti benefici per la collettività. L’amministrazione, quindi, deve essere indifferente agli equilibri mutevoli che si raggiungono in esso in modo spontaneo. Spetta, invece, ai poteri pubblici il compito di esercitare un controllo dall’esterno affinché le condizioni di concorrenza non vengano pregiudicate dal comportamento delle stesse imprese. Il controllo va esercitato in posizione di equidistanza dagli interessi in gioco delle imprese e dei consumatori e di sostanziale indifferenza rispetto agli indirizzi politici. La nuova amministrazione applica obiettivamente la legge. I suoi compiti sono l’accertamento degli illeciti delineati dagli artt. 2 e 3 della l. n. 287/1990 e dagli artt. 101 e 102 del TFUE, cioè il divieto di intese anticoncorrenziali e di abuso di posizione dominante; l’eventuale conseguente irrogazione della sanzione pecuniaria e della diffida a interrompere e non ripetere per il futuro il comportamento accertato come illecito; nei casi di urgenza dovuta al rischio di un danno grave e irreparabile per la concorrenza, l’adozione, ove si constati ad un sommario esame la sussistenza di un'infrazione, di misure cautelari (art.14 bis, l. n. 287/1990); l’eventuale accettazione degli impegni proposti dalle parti, quando siano tali da far venire meno i profili anticoncorrenziali oggetto dell'istruttoria, con la conseguente chiusura dell’indagine (art. 14 ter, l. n. 287/1990). Si aggiunge, inoltre, il controllo ex ante sulle operazioni di concentrazione tra imprese che, al superamento di determinate soglie di fatturato prodotto dai soggetti interessati, devono essere comunicate preventivamente all’Autorità; questa deve valutare se l’operazione possa costituire o rafforzare una posizione dominante sul mercato nazionale «in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza» (art. 6, l. n. 287/1990); nel caso in cui l’Autorità ritenga dimostrata una delle due evenienze potrà o vietare l’operazione o autorizzarla, prescrivendo le misure necessarie ad evitare quelle conseguenze (art. 6, l. n. 287/1990); in caso di accertamento negativo, l’autorizzerà tout court.

Questo genere di controllo postula la più ampia libertà degli operatori sul mercato di agire secondo le proprie convenienze economiche, senza interferenze del decisore pubblico e si giustifica solo in presenza e nei limiti in cui si accerti uno degli illeciti indicati o la costituzione o il raffforzamento di posizioni dominanti lesive della concorrenza a seguito di operazioni di concentrazione. É per sua natura un controllo occasionale e circosrcritto al singolo episodio rilevato: per il resto, il mercato deve essere libero di agire, senza che nessuna amministrazione possa introdurre elementi di distorsione.

Oltre ai poteri volti a reprimere il comportamento illecito delle imprese e gli abusi del potere di mercato, fin dall’inizio l’Autorità garante della concorrenza è stata dotata di competenze di segnalazione nei confronti dei soggetti pubblici che hanno il compito di stabilire le regole, allo scopo di evidenziarne eventuali effetti di ostacolo al corretto funzionamento dei mercati.

Come aveva lucidamente segnalato Luigi Einaudi, i nemici dei mercati concorrenziali, specie nella nostra tradizione di acceso interventismo pubblico, non sono solo i monopolisti o le imprese che colludono, ma gli stessi poteri pubblici che creano, per atto del principe, esclusive, riserve, o altri ostacoli al buon funzionamento dei mercati (ad esempio, imponendo la previa autorizzazione per accedere ai vari mercati; prescrivendo determinati modelli di organizzazione imprenditoriale o ponendo limiti alla libertà dell’imprenditore di organizzare i fattori della produzione), quando non vi è alcuna ragione di interesse generale che possa giustificare simili provvedimenti. In molti casi, infatti, queste discipline, pur mosse dall’intento di proteggere alcuni interessi pubblici, si risolvono in concreto in forme dissimulate di tutela corporativa e, comunque, in impedimenti all’efficiente funzionamento dei mercati.

In questi casi, l'Autorità «individua i casi di particolare rilevanza nei quali norme di legge o di regolamento o provvedimenti amministrativi di carattere generale determinano distorsioni della concorrenza o del corretto funzionamento del mercato che non siano giustificate da esigenze di interesse generale»; l’Autorità segnala le situazioni distorsive derivanti da provvedimenti legislativi al Parlamento e al Presidente del Consiglio dei Ministri e, negli altri casi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri competenti e agli enti locali e territoriali interessati; ove ne ravvisi l'opportunità, esprime parere circa le iniziative necessarie per rimuovere o prevenire le distorsioni e può pubblicare le segnalazioni ed i pareri nei modi più congrui in relazione alla natura e all'importanza delle situazioni distorsive (art. 21, l. n. 287/1990). Recentemente, sempre nel quadro di questa funzione, è stata attribuita all’Autorità «la legittimazione ad  agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato» (art. 21 bis, l. n. 287/1990). Si tratta di una legittimazione straordinaria che consente all’Autorità, tramite l’azione innanzi al giudice amministrativo, di rimuovere gli atti distorsivi della concorrenza ottenendone l’annullamento.

Infine, sono stati attribuiti poteri in materia di protezione diretta dei consumatori, nella consapevolezza che spesso il controllo ab externo sulle dinamiche concorrenziali non è sufficiente per garantire i loro diritti (si v. le direttive europee n. 29/2005/CE contro le pratiche commerciali scorrette delle imprese nei confronti dei consumatori e n. 83/2011/UE sui diritti dei consumatori ). Successivamente, in virtù della posizione di elevata indipendenza dimostrata, l’Autorità ha acquisito anche la competenza ad applicare la l. 20.7.2004, n. 215 sui conflitti di interesse dei titolari di carica di governo.

Per realizzare i suddetti compiti di controllo dei mercati, è stata istituita un’amministrazione dai tratti atipici e inconsueti per la nostra tradizione. Essa è svincolata dagli organi titolari dell’indirizzo politico (governo e parlamento). È costituita da un’organizzazione snella caratterizzata da elevata expertise tecnica che ha il compito di istruire le questioni e svolgere le indagini sul mercato e nei confronti delle imprese, esercitando anche poteri coercitivi (ispezioni; richieste di informazioni; accertamenti e consulenze tecniche). Al vertice dell’organizzazione è posto un collegio, cui spettano i pieni poteri decisionali, composto da persone dotate di elevata professionalità e indipendenza. Il collegio opera «in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione» ed è costituito dal Presidente e da due membri nominati con determinazione adottata d'intesa dai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Il Presidente è scelto tra persone di «notoria indipendenza che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di grande responsabilità e rilievo». I membri sono scelti tra persone di «notoria indipendenza da individuarsi tra magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti o della Corte di cassazione, professori universitari ordinari di materie economiche o giuridiche, e personalità provenienti da settori economici dotate di alta e riconosciuta professionalità». Presidente e membri dell'Autorità sono nominati per sette anni e non possono essere confermati. A garanzia della loro indipendenza, essi non possono esercitare, a pena di decadenza, alcuna attività professionale o di consulenza, né possono essere amministratori o dipendenti di enti pubblici o privati, né ricoprire altri uffici pubblici di qualsiasi natura. I dipendenti statali sono collocati fuori ruolo per l'intera durata del mandato (art. 10, l. n. 287/1990).

L’insolito schema organizzativo sottrae l’Autorità a qualsivolglia controllo governativo; essa è soggetta solo al controllo ispettivo del Parlamento, che generalmente si esplica nei confronti di ogni amministrazione pubblica, ma da cui non può derivare alcun diretto esito pregiudizievole o di indirizzo sui titolari dell’organo finché sono in carica. L’Autorità presenta annualmente in Parlamento una relazione sull’attività svolta che però non è discussa, né votata. Da parte di alcuni è stato sollevato il dubbio che una simile struttura, del tutto svincolata dal circuito dell’indirizzo politico ed espressione di un «potere neutrale» (così la sentenza del Cons. St., VI, 1.10.2002, n. 5156 annotata da A. Lalli in Foro amm. – Cons. St., 2003, 230-246), sia assimilabile per posizione istituzionale e funzioni più a un giudice, che ad un organo amministrativo. In realtà, si è fatto notare come sul piano della qualifica non ci siano dubbi in merito alla sua natura di amministrazione pubblica non esiste nel nostro ordinamento il tertium genus della “paragiurisdizionalità” – sebbene caratterizzata da elevata indipedenza e dalla conseguente sottoponibiltà dei suoi atti esclusivamente al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo (Cintioli, F., Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e «giurisdizionalizzazione», Milano, 2005), in sede di giurisdizione esclusiva (art. 134, co. 1, lett. c, c.p.a.). Si tratta di un sindacato penetrante, svolto anche sulla ragionevolezza tecnica delle scelte (Cons. St., sez. VI, 26.2.2002, n. 2199 in Foro amm. – Cons. St., 2002, 1007), ma mai di carattere sostitutivo della decisione dell’amministrazione (Cass., Sez. Un., 20.1.2014, n. 1013); sulle sanzioni, invece, al giudice amministrativo è stato conferito potere di merito. D’altro canto, si è ulteriormente rilevato che vari sono i modelli organizzativi previsti in Costituzione: oltre a quello tradizionale di stampo ministeriale, delineato all’art. 95, esiste, infatti, anche un modello di amministrazione imparziale o ad alto tasso di imparzialità, che trova legittimazione nell’art. 97 della Costituzione.

Ad ogni modo, l’Autorità garante della concorrenza (coeva all’istituzione della Commisione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, l. 12.6.1990, n. 146) ha costituito un modello di riferimento anche per le successive autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (Predieri, A., L'erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze, 1997), come l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas (l. 14.11.1995, n. 481), l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (l. 31.7.1997, n. 249), l’Autorità di regolazione dei trasporti (art. 37, d.l. 6.12.2011, n. 201 e art. 37 d.l. 24.1.2012, n. 1). Anche se la posizione di indipendenza di queste ultime è simile a quella del garante della concorrenza, esse hanno però una funzione diversa. Si caratterizzano, infatti, per avere obiettivi specifici che non consistono nel mero accertamento di illeciti.. Esse, infatti, adottano atti di valore sostanzialmente normativo volti a realizzare l’apertura dei vari mercati alla concorrenza (ad esempio imponendo regole asimmettriche a sfavore dell’ impresa dominante e a beneficio della concorrenza; definendo le specifiche modalità attraverso le quali la competizione deve svolgersi; fissando, in alcuni casi, le tariffe dei beni e dei servizi, ove richiesto dall’esigenza di proteggere i consumatori o le imprese dal potere di mercato di quelle più forti) e per definire e, quindi, garantire la prestazione del servizio pubblico nel contesto concorrenziale. Si tratta di amministrazioni il cui compito essenziale è, appunto, quello di stabilire le regole ex ante dell’agire degli operatori sul mercato allo scopo di realizzare un contesto pienamente concorrenziale, di garantire l’adempimento degli obblighi di servizio pubblico eventualmente imposti e, spesso, anche di salvaguardare direttamente i diritti degli utenti dei servizi stessi. La legge definisce i loro poteri in relazione ai fini da realizzare, senza però specificare i mezzi lasciati alla loro discrezionalità (Cerulli Irelli, V., I poteri normativi delle autorità indipendenti, in Arbitri dei mercati, a cura di M. D’Alberti e A. Pajno, Bologna, 2010, 75 ss.). Neanche queste funzioni cc.dd. di regolazione, svolte da tali organismi pubblici, costituiscono un ritorno al diritto pubblico dell’economia vecchia maniera, ovvero alla gestione amministrativa dei mercati (D’Alberti, M., La vigilanza economica esercitata da pubblici poteri, in Bani, E.-Giusti M., a cura di, Vigilanze economiche. Le regole e gli effetti, Padova, 2004, 75 ss.). Infatti, la regolazione posta in essere da tali soggetti ha come inclinazione finalistica la piena affermazione del principio di concorrenza e, una volta raggiunto l’obiettivo, dovrebbe cessare; sotto altro profilo, la regolazione ha a oggetto, come detto, anche la disciplina delle modalità di erogazione dei servizi pubblici, nell’ambito e nel rispetto delle regole del mercato concorrenziale e, per questo aspetto, la funzione tende ad essere stabile. Le ragioni dell’indipendenza che si presentano massime per l’Autorità antitrust, in quanto organo che accerta obiettivamente illeciti la cui fattispecie è prevista dalla legge (e dai Trattati europei), sussistono anche per le altre autorità di regolazione, in quanto il buon funzionamento dei mercati esige regolatori pubblici insensibili alle pressioni politiche, tecnicamente attrezzati e in grado di operare nel lungo periodo senza essere soggetti ai mutamenti di indirizzo spesso dettati dalle pressioni elettoralistiche. La differenza di funzioni svolte tra l’Autorità garante della concorrenza e le altre autorità di regolazione, tuttavia, può richiedere che, dovendo svolgere attività di normazione vera e propria che spesso presuppone la ponderazione tra diversi interessi pubblici e privati in gioco, e non avendo previamente la legge definito l’equilibrio tra i vari interessi in gioco (pubblici e privati), quelle possano essere destinatarie del tutto legittimamente di atti di indirizzo da parte degli organi politici. Ad esempio, si consideri la questione se si debbano incentivare o meno le energie da fonti rinnovabili e se il costo di questi interventi debba essere distribuito tra tutti gli operatori e gli utenti del servizio di fornitura di energia elettrica oppure solo tra alcune categorie specifiche: si tratta, ad evidenza, di decisioni che implicano scelte di natura politica e, perciò, è legittimo che siano le autorità politiche a definire, almeno in linea generale, i bilanciamenti di valori che le autorità sono tenute a considerare come specifici fini della loro azione (Amato, G., Autorità semindipendenti e autorità di garanzia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, 645). All’autorità tecnica di regolazione spetterà stabilire come realizzare in concreto quelle politiche, senza alterare, oltre la misura del necessario, il corretto funzionamento dei mercati (Clarich, M., Autorità indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello, Bologna, 2005).

La concorrenza come criterio di regolazione: la peculiarità dei mercati finanziari

Si è accennato alla circostanza che la concorrenza è divenuta, in virtù della sempre maggiore effettività dei principi posti dai Trattati sull’Unione europea e del diritto da essi derivato in materia di disciplina dell’economia, un vero e proprio criterio della regolazione delle attività economiche in genere (D’Alberti, M., Poteri pubblici, mercati e globalizzazione, Bologna, 2008, 75 ss.). I valori di apertura dei mercati, della necessità di giustificazione degli interventi pubblici, anche di regolazione, e del conseguente controllo di stretta proporzionalità sulle misure amministrative che possono interferire con il funzionamento della concorrenza hanno trovato una piena accoglienza anche presso la nostra giurisprudenza amministrativa, per la quale il principio di concorrenza è divenuto un vero e proprio principio generale del diritto amministrativo (D’Alberti, M., Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2013, 50 ss.).

Molti istituti del diritto amministrativo hanno subito una mutazione della loro ratio di fondo e la loro disciplina è stata essenzialmente condizionata dai principi della concorrenza. Per fare solo qualche esempio, si pensi alla disciplina della contrattualistica pubblica (recepita nel d.lgs. 12.4.2006, n.163, recante il cd. “Codice dei contratti pubblici”) per la quale la logica della concorrenza costituisce oggi l’obiettivo di garanzia fondamentale. Anzi, l’assolutizzazione di tale valore ha favorito una normativa caratterizzata da un accentuato formalismo che comprime, a volte in modo incongruo, la pur necessaria discrezionalità amministrativa funzionale a massimazzare gli interessi pubblici di cui l’amministrazione attiva è titolare. Si pensi, ancora, alla disciplina delle concessioni dei beni e servizi pubblici, che sono state incisivamente condizionate dai principi di concorrenza: sia al momento del loro rilascio, che deve seguire il criterio della gara pubblica, ad eccezione dei casi di affidamenti a soggetti che possano essere qualificati come organi della stessa pubblica amministrazione, secondo le condizioni poste dalla giurisprudenza europea; sia nel momento dello svolgimento dell’attività del concessionario, le cui regole di comportamento non sono più soltanto quelle previste nel disciplinare o nel contratto accessivo, ma in primo luogo sono proprio le regole di concorrenza ed in particolare le regole in materia di divieto di abuso di posizione dominante (si v. ad esempio il caso in cui l’Autorità garante della concorrenza ha sanzionato un gestore aeroportuale concessionario dell’infrastruttura per abuso di posizione dominante, caso A474, Provvedimento del 25 marzo 2015, su www.agcm.it).

In conclusione, la concorrenza, come regola tendenzialmente generale propria di tutti i mercati e come vincolo sulle attività del pubblico potere che incidono sull’economia, ha portato importanti novità nel diritto amministrativo, segnando un nuovo rapporto tra autonomie private e pubblici poteri, con netta prevalenza delle prime e con conseguente riconfigurazione delle funzioni dei secondi. Nuovi modelli organizzativi sono entrati nel nostro ordinamento e nuove funzioni come il «potere neutrale» e la regolazione tecnica indipendente si sono affermate. I parametri, e conseguentemente il controllo giurisdizionale, sull’attività amministrativa si sono arricchiti ed ampliati. Fomalismi eccessivi, tuttavia, imbrigliano l’attività contrattuale della pubblica amministrazione e non è detto che siano necessaria conseguenza del carattere generale e non derogabile delle regole di concorrenza.

Va segnalato che il principio di concorrenza trova un limite rilevante nei mercati finanziari (Rossi, G., Concorrenza, mercati finanziari e diritto societario, in Riv. Soc., 1999, 1305). In questi settori, il meccanismo del mercato, che funziona in quanto è in grado di selezionare le imprese più efficienti facendo soccombere quelle meno capaci, trova temperamenti nell’esigenza di prevenire i rischi sistemici che il fallimento di un’istituzione finanziaria può determinare, come una sorta di reazione a catena. Ecco allora che in tali settori, la concorrenza subisce un ridimensionamento nella misura in cui, di fronte al rischio sistemico, si attivano spesso interventi pubblici anche diretti, volti a sostenere le aziende in crisi. È quanto è accaduto all’indomani della crisi del 2008 (Cerrina Feroni, G.-Ferrari G.F, a cura di, Crisi economico finanziaria e intervento dello Stato, Torino, 2012). La regolamentazione nazionale e internazionale sul punto non ha raggiunto ancora un soddisfacente equilibrio tra la necessaria sanzione che dovrebbe colpire anche le aziende finanziarie (e i loro responsabili) con il fallimento e la altrettanto necessaria tutela degli equilibri di sistema.

Fonti normative

Artt. 101, 102 e 106 TFUE; l. n. 10.8.1990, n. 287; Regolamento CE n. 139/2004 del Consiglio del 20.1.2004

Bibliografia essenziale

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