Concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso [dir. pen.]

Diritto on line (2014)

Concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso [dir. pen.]

Elvira Dinacci

Abstract

Viene esaminata la ricostruzione “necessitata” da esigenze reali indifferibili, operata in sede applicativa dal massimo organo nomofilattico, di formulare in termini astratti e generali la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa. La centralità della ricostruzione si ancora all’effettiva rilevanza causale da attribuire al contributo punibile nella fattispecie plurisoggettiva eventuale ex art. 110 c.p. in relazione alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione criminale.

Premessa

La tematica dell’ammissibilità del concorso eventuale in un’associazione a delinquere investe, da un lato, esigenze di tutela rispetto al sostegno offerto alle organizzazioni criminali da chi è intraneo al sodalizio e, da un altro lato, esigenze di inquadramento sistematico sulla rilevanza di tale sostegno.

Per un’analisi degli indirizzi contrapposti, favorevoli e contrari, sia della dottrina che della giurisprudenza, si rimanda alla voce .

La frattura esegetica emersa nella giurisprudenza di legittimità ha provocato l’intervento delle Sezioni Unite attraverso quattro successive pronunce ricche di argomentazioni e basate soprattutto sull’applicazione al reato associativo delle regole generali sul concorso di persone e in tema di causalità.

I principali arresti giurisprudenziali

La sentenza “Demitry” e la prima sentenza “Mannino”

Nel 1994, con l’ormai celebre sentenza “Demitry”, il massimo organo nomofilattico ha accolto la tesi favorevole alla configurabilità del concorso “esterno” in associazione per delinquere di stampo mafioso (cfr. Cass. pen., S.U., 5.10.1994, n. 16). In tale prospettiva, le Sezioni Unite hanno tentato di elaborare un criterio sicuro ed affidabile per differenziare la figura del partecipe – concorrente necessario – da quella del concorrente eventuale, nonché di precisare e delimitare l’ambito di operatività del concorso esterno punibile.

In particolare la Corte, dopo aver preso atto della sostanziale convergenza giurisprudenziale in ordine alla configurabilità del concorso eventuale “esterno” nei reati associativi, nonché del concorso morale nel delitto di associazione mafiosa, ha passato in rassegna, al fine di confutarne la sostenibilità, la tesi volta ad escludere la figura del concorso eventuale “materiale”. Più precisamente, la Cassazione ha ritenuto di non aderire all’impostazione secondo la quale condotta e atteggiamento psicologico del partecipe sarebbero perfettamente sovrapponibili alla condotta e all’atteggiamento psicologico del concorrente esterno eventuale; si è viceversa sostenuto come sia materialmente che soggettivamente le due condotte si atteggino in modo differente.

Sotto il primo profilo, si è infatti rilevato come l’elemento materiale del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, così come delineato dal comma 1 dell’art. 416 bis c.p., sia costituito dalla condotta di “partecipazione”, intesa come «stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori», con la conseguenza che la condotta debba sostanziarsi in un “far parte” di un’associazione dotata delle caratteristiche indicate nella norma incriminatrice, ovvero «rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso, vi sia stabilmente incardinato con determinati, continui compiti anche per settori di competenza». A differenza del concorrente “necessario”, quello “eventuale” è colui che, non essendo “parte” del sodalizio, pone in essere una condotta “atipica”; «condotta che, per essere rilevante, deve contribuire – atipicamente – alla realizzazione della condotta tipica posta in essere da altri». In altre parole, quest’ultimo apporta un “contributo” che consente agli altri associati di realizzare la condotta tipica che, a sua volta, postula il mantenimento in vita o, addirittura, il consolidamento dell’organizzazione criminale. Siffatto «contributo» che «per definizione non è caratterizzato dalla stabilità, non può non essere circoscritto nel tempo e, comunque, deve consentire agli altri di continuare a dar vita alla condotta tipica, alla stabile permanenza del vincolo. Questo contributo atipico, dunque, non è sovrapponibile alla condotta tipica del partecipe, sicchè, per concludere che in questo reato non v’è spazio per il concorso eventuale, si dovrebbe dimostrare che non è possibile una condotta atipica, un contributo alla realizzazione della condotta tipica …; contributo che, non essendo realizzazione di quella condotta, non può essere altro che contributo alla realizzazione, cioè qualcosa di esterno rispetto alla realizzazione».

Anche dal punto di vista psicologico, la Cassazione ha colto la distinzione tra l’atteggiamento interiore del partecipe e quello del concorrente esterno, affermando che «il partecipe … non può non muoversi con la volontà di far parte dell’associazione e con la volontà di voler contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa», mentre il concorrente esterno, ovvero colui che vuole dare un contributo senza far parte del sodalizio, «vorrà la sua condotta e non la condotta di far parte dell’associazione che è la condotta tipica del partecipe». In tal modo viene destituito di fondamento l’assunto, sostenuto da una parte della giurisprudenza negazionista, secondo il quale, essendo il reato di cui all’art. 416 bis c.p. punibile a titolo di dolo specifico, siffatto atteggiamento psicologico dovrebbe necessariamente connotare sia l’agire del partecipe che del concorrente eventuale. Invero la Corte rammenta come sia un dato pacificamente acquisito in dottrina la possibilità di concorrere con dolo generico in un reato a dolo specifico a condizione che almeno uno dei concorrenti abbia agito con la finalità richiesta dalla legge, così che il concorrente esterno «pur consapevole di agevolare, con quel suo contributo, l’associazione, può disinteressarsi della strategia complessiva di quest’ultima, degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire».

Tenendo conto dei segnalati profili, oggettivi e soggettivi, che caratterizzano le due figure, le Sezioni Unite giungono a tracciare un vero e proprio identikit del partecipe e del concorrente eventuale materiale. E precisamente, il primo è colui che «fa parte dell’associazione», nel senso che «entra nell’associazione e ne diventa parte»; in altri termini «è colui senza il cui apporto quotidiano o, comunque, assiduo, l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza, il che apre la strada ad una vasta gamma di possibili partecipi, che vanno da coloro che si sono assunti o ai quali sono stati affidati compiti di maggiore responsabilità – i promotori, gli organizzatori, i dirigenti – a quelli con responsabilità minori o minime, ma il cui compito è o è pure necessario per le fortune dell’associazione». Si tratta di soggetti che agiscono nella fisiologia dell’associazione, a differenza del concorrente eventuale che non fa parte del sodalizio e del quale egli non vuole far parte, ma al quale l’associazione «si rivolge sia, ad esempio, per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia soprattutto … nel momento in cui la “fisiologia” dell’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per essere superata, esige il contributo temporaneo, limitato, di un esterno».

Pertanto, lo spazio di intervento delle due figure in analisi risulta assolutamente differenziato: se il partecipe riveste ed esercita il proprio ruolo nella “normalità” della vita associativa, il concorrente extraneus, invece, interviene in una fase di “fibrillazione patologica”, ovvero di emergenza della vita dell’organismo criminale, ossia in una fase il cui superamento si rende necessario, mancando o risultando inadeguate le risorse interne al sodalizio. Secondo il massimo consesso nomofilattico, «lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell’emergenza nella vita dell’associazione o, quanto meno, non lo spazio della “normalità”, occupabile da uno degli associati. L’anormalità, la patologia, poi, può esigere anche un solo contributo il quale, dunque, può … essere anche episodico, estrinsecandosi, appunto, in un unico intervento, che ciò che conta, ciò che rileva è che quell’unico contributo serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter perseguire i propri scopi».

Il riferimento alla fase “patologica” risponde all’esigenza, avvertita dalla Corte, di fissare una delimitazione delle condotte concorsuali punibili, ancorando l’operatività del concorso eventuale all’esistenza di una situazione emergenziale.

Tale ritenuta riconducibilità della ragion d’essere del concorrente esterno al paradigma della “fibrillazione” associativa ha, tuttavia, formato oggetto di reazioni critiche da parte di ampi settori della dottrina, comprendenti sia i fautori che gli avversari del concorso esterno.

Taluni autori hanno infatti rilevato come il riferimento ad una fase patologica della vita associativa non fosse ricavabile, in via ermeneutica, dal combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p., qualificando l’approdo delle Sezioni Unite un’invenzione giurisprudenziale (sul punto, si veda Iacoviello, F.M., Concorso esterno in associazione mafiosa: il fatto non è previsto dalla giurisprudenza come reato, in Cass. pen., 2001, 2081, laddove si è rilevato che la distinzione tra “fisiologia” e “patologia” nella vita dell’associazione mafiosa «non è nella legge e non [la] si può ricavare neppure con la più anarchica delle interpretazioni»).

Si è inoltre posto l’accento sulla qualificazione giuridica della “fibrillazione”, non chiaramente desumibile dalle argomentazioni della sentenza (sul punto, cfr. Papa, M., Un baco del sistema? Il concorso esterno nell’associazione mafiosa tra prospettive di quarantena e terapie palliative, in Leg. pen., 2003, 703). È stata altresì messa in dubbio la ricostruzione operata dalla Cassazione e ci si è interrogati sulla ragione per la quale il contributo dell’extraneus, per essere funzionale agli scopi dell’organismo criminale e giustificare la relativa punibilità a titolo di concorso, debba necessariamente presupporre l’eccezionalità dell’ausilio in rapporto all’eccezionalità delle condizioni che il sodalizio attraversi in un momento specifico: «ad ammetter una siffatta configurazione, infatti, se ne dovrebbe dedurre che l’art. 110 c.p. è assoggettato (o assoggettabile) ad un regime di operatività “intermittente” o a fasi alterne; il che, evidentemente, ci pare difficilmente sostenibile» (in questi termini, v. Macchia, A., “Concorso esterno. Storia di una creazione giurisprudenziale, in Dir. e giust., 2003, 22, 39).

Ulteriore rilievo che si muove alla soluzione giurisprudenziale adottata dalle Sezioni Unite, e forse il più interessante, fa leva sulla ritenuta infondatezza del paradigma della “fibrillazione” sul piano criminologico, posto che l’organizzazione mafiosa possiede una caratteristica che la differenzia sensibilmente dalle altre organizzazioni criminali ed è tale da renderla particolarmente insidiosa: tende ad intrecciare relazioni stabili con esponenti del mondo della politica, dell’economia e delle professioni, così insinuandosi nel tessuto economico-sociale ed ampliando la propria sfera d’influenza in settori chiave della vita pubblica. Di qui, l’esigenza e la ricerca di forme di sostegno provenienti dall’esterno «lungi dal rispecchiare una dimensione ‘patologica’ sembra piuttosto corrispondere al fisiologico funzionamento dell’attività mafiosa» (così, Fiandaca, G., La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, in Leg. pen., 2003, 693).

Si è peraltro lamentata l’estrema difficoltà di un accertamento giudiziario della sussistenza della “fibrillazione”, all’uopo difettando criteri sicuri e predeterminati con conseguente necessità di doversi affidare ad indici sintomatici suscettibili di un apprezzamento connotato da forti margini di discrezionalità (in tale direzione v. Fiandaca, G., La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, cit., 693).

Tuttavia, non sono mancati indirizzi secondo i quali la “metafora clinica” cui si allude in sentenza fosse, probabilmente, destinata ad una mera esemplificazione della scala sulla quale misurare l’azione del concorrente esterno (cfr., al riguardo, Leo, G., Un altro passo in avanti delle Sezioni Unite verso la definizione dell’istituto, in Guida dir., 2003, 30, 71) e come la sua rilevanza sia stata eccessivamente sopravvalutata anche dalla successiva giurisprudenza, giungendosi, in alcuni casi, ad esigere il carattere “salvifico” del contributo ed a considerare lo stato di fibrillazione quale elemento costitutivo della fattispecie.

In ultima analisi, altri autori hanno indirizzato le proprie obiezioni sui criteri discretivi enucleati dalle Sezioni Unite al fine di contestarne la correttezza giuridica e le relative difficoltà di accertamento probatorio, soprattutto avuto riguardo alla problematica ricostruzione del dolo del concorrente (su tali temi si rinvia a Insolera, G., Il concorso esterno in delitti associativi: la ragione di stato e gli inganni della dogmatica, in Foro it., 1995, II, 426; Adami, V., Il concorso eventuale nei reati plurisoggettivi e in particolare nei reati associativi, in Cass. pen., 1997, 2299).

L'elaborazione della sentenza Demitry in tema di dolo del concorrente eventuale, non avendo formato oggetto di massima è stata ripresa da un’altra pronuncia delle Sezioni Unite, nota come «la prima sentenza Mannino» (Cass. pen., S.U. 27.9.1995, in CED Cass. 202904), dove si ribadisce che, in tema di dolo, per il concorrente esterno è sufficiente il dolo generico «consistente nelle coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione».

La giurisprudenza successiva e la dissonante sentenza “Villecco”

La giurisprudenza successiva alla decisione delle Sezioni Unite del 1994, si è pressoché uniformata ai contenuti ed ai principi ivi espressi, senza particolari rielaborazioni.

Sorprendente è apparsa, perciò, la dissonante sentenza “Villecco” (Cass. pen., 21.9.2000) con la quale la VI Sezione penale della Cassazione ha sottoposto a revisione l’impianto teorico che sorreggeva la precedente decisione delle Sezioni Unite, soprattutto nei suoi due punti nodali relativi alla distinzione concettuale, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, tra la figura del partecipe e quella del concorrente esterno, approdando ad una conclusione esplicitamente negazionista anche avuto riguardo alla configurabilità di un concorso eventuale morale. Singolarmente, tuttavia, l’attacco demolitorio sferrato alla sentenza “Demitry” non è stato condotto sino alla logica conseguenza di una remissione della controversa questione all’esame del massimo consesso giurisprudenziale, essendo stato formulato nei termini di un obiter dictum, irrilevante ai fini della decisione poi assunta dalla Corte nel caso concreto: nella specie, dopo avere lungamente discettato dell’infondatezza logico-giuridica dell’istituto, i giudici di legittimità ne hanno poi ammesso l’astratta configurabilità, annullando l’ordinanza cautelare per un vizio che, a loro avviso, non imponeva l’applicazione dell’art. 618 c.p.p. (non rilevando il tema della “fibrillazione” della vita associativa). Nella motivazione («difficile, estesa, di consecutio logica non sempre percepibile con immediatezza», così, Leo, G., Un altro passo in avanti delle Sezioni Unite verso la definizione dell’istituto, cit., 71), la Corte sottopone ad analisi l’istituto del concorso eventuale nel delitto di associazione mafiosa nella configurazione datane, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, dalle Sezioni Unite, facendone emergere una pluralità di interrogativi per i quali lascia intravedere una soluzione negativa. La decisione sembra prestare «ossequio alla pronuncia delle Sezioni Unite ma, intanto, la lavor[a] ai fianchi screditandone le tesi. E così prepara il terreno per quella che dovrebbe essere la “resa dei conti” sul concorso esterno» (cfr., in questi termini, Iacoviello, F.M., Concorso esterno in associazione mafiosa: il fatto non è previsto dalla giurisprudenza come reato, cit., 2073). Ad avviso della Corte sarebbe “impropria” la definizione della condotta di partecipazione, ritenendo che anche la condotta concorsuale dovrebbe considerarsi “tipica” in quanto «risultante dal contributo apprestato dall’art. 110 c.p.»; viene poi giudicato «alquanto approssimativo» il contenuto obiettivo individuato dalle Sezioni Unite per dare sostanza alla vaga espressione legislativa «far parte», senza tuttavia prospettare una più appagante soluzione alternativa.

Sotto il profilo soggettivo, inoltre, la pronuncia in esame giudica incoerente la ricostruzione, operata dalla “Demitry”, del dolo del concorrente eventuale; secondo la VI Sezione, infatti, si dovrebbe parlare non di dolo di concorso, ma di «dolo di agevolazione», che sorregge una condotta obiettiva di agevolazione dell’associazione mafiosa, la quale, tuttavia, per essere penalmente rilevante dovrebbe ricevere una specifica tipizzazione legislativa.

Secondo i giudici di legittimità, peraltro, concorso morale e concorso materiale non sarebbero assimilabili, (come sembrano, viceversa presupporre le Sezioni Unite), posto che nel primo caso non si pone alcun problema di sovrapponibilità tra la condotta del partecipe e quella del concorrente; né si pone il problema dell’incongruenza del dolo del concorrente rispetto a quello del partecipe, stante l’identità dell’elemento psicologico che connota le due figure. Viceversa, i due problemi si pongono nell’ipotesi di concorso materiale, laddove, a dire della Corte, è difficile non sovrapporre le due condotte sul piano materiale e, al tempo stesso, sotto il profilo psicologico, è parimenti difficile non ravvisare una diversità di dolo nell’uno e nell’altro.

Anche avuto riguardo al presupposto della “fibrillazione”, la pronuncia in parola critica le Sezioni Unite nella parte in cui non hanno provveduto ad ancorare anche la configurabilità del concorso morale ad una situazione emergenziale.

In altri termini, il vaglio critico si è appuntato su ogni aspetto nodale della sentenza “Demitry”, attingendo, in alcuni casi, a questioni realmente problematiche senza però che fossero adombrate soluzioni alternative realmente convincenti.

Tuttavia, come si è anticipato, il ragionamento è stato spinto all’estremo di rimettere ufficialmente in discussione l’istituto, sottoponendo la questione ad un nuovo esame delle Sezioni Unite.

La giurisprudenza successiva alla sentenza “Villecco” è tornata sui tradizionali binari tracciati dalla “Demitry”, anche se oramai erano state gettate le basi per un nuovo contrasto che ha suggerito, nel 2002, un ulteriore intervento del massimo organo di legittimità.

La sentenza “Carnevale”

Con tale decisione (Cass. pen., S.U., 30.10.2002, n. 22327) si è compiuta un’ampia rivisitazione dell’istituto del concorso esterno, attraverso la verifica dell’eventuale sussistenza di «motivi idonei a giustificare una decisione diversa rispetto a quella già assunta dalle Sezioni Unite con la sentenza Demitry», definita come «la prima grande elaborazione della materia, sia per la mole di trattazione che per completezza di argomenti», rispetto alla quale la sentenza “Carnevale” si pone in rapporto di sostanziale continuità, pur modificando in modo significativo alcuni principi di diritto ivi affermati.

La prima parte della decisione è tesa a confermare la configurabilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ribadendo la distinzione, sotto il profilo sia oggettivo che soggettivo, tra la figura del “partecipe” e quella del “concorrente esterno”, quest’ultimo definito come «persona che, priva dell’affectio societatis e non essendo inserita nella struttura organizzativa dell’associazione fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purchè questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima». Nel rimarcare la necessità che l’apporto del concorrente ridondi a vantaggio dell’associazione, la Corte respinge espressamente quell’orientamento dottrinale (Iacoviello, F.M., Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, in Cass. pen., 1995, 858; Lattanzi, G., Partecipazione all’associazione e concorso esterno, in I reati associativi, Centro naz. di prev. e difesa sociale, Milano, 1998, 71; Bertorotta, F., Concorso eventuale di persone e reati associativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 1273; Muscatiello, V., Sul concorso esterno nei reati associativi, in Indice pen., 1996, 75) che assume a punto di riferimento nel concorso nel reato associativo non l’associazione come tale, bensì la condotta di partecipazione del singolo soggetto. Rileva infatti la Cassazione come «la configurazione del concorso esterno alla stregua di un contributo al singolo partecipante e non al complesso dell’organizzazione dell’associazione, rischia di condurre ad una surrettizia assimilazione fra associazione e mero “accordo” criminoso e fa venir meno il discrimine … rispetto alla condotta di favoreggiamento o di assistenza agli associati (come pure ai casi di concorso nei c.d. reati-scopo), finendo così per dare ragione a coloro che escludono l’ammissibilità di un concorso ex art. 110 c.p. nell’associazione proprio in virtù della capacità ‘assorbente’ che svolgerebbero le anzidette fattispecie di assistenza agli associati e favoreggiamento personale».

La definizione di “partecipazione” ricalca sostanzialmente lo schema della sentenza “Demitry” atteso che viene posto ancora una volta l’accento sulla «concreta assunzione di un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa, manifestato da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla struttura ed all’attività dell’organizzazione criminosa: il che è espressione di un inserimento strutturale a tutti gli effetti in tale organizzazione nella quale si finisce per essere stabilmente incardinati». In altre parole si è al cospetto della prestazione di un contributo al sodalizio criminale da parte di un soggetto qualificato, sotto il profilo obiettivo, dal fatto di essere «stabilmente incardinato nella struttura associativa con determinati, continui compiti anche per settori di competenza» e, sotto quello soggettivo, dall’affectio societatis.

La sentenza tende poi a superare un primo rilievo dottrinale (Adami, V., Il concorso eventuale nei reati plurisoggettivi e in particolare nei reati associativi, cit., 2299, secondo il quale sarebbe impossibile configurare un forma di partecipazione esterna in un reato permanente), affermando che l’art. 110 c.p. «si affianca, nel caso di specie, ad un reato la cui consumazione è legata non solo all’esistenza dell’associazione, ma anche al sorgere e al permanere dell’offesa dell’ordine pubblico, e nulla impedisce di considerare che il permanere di questa offesa possa essere determinato anche dall’aiuto portato da un soggetto estraneo al sodalizio, in determinati momenti della vita dell’organizzazione. Né risulta necessario che l’apporto stesso perduri per l’intera permanenza dell’associazione, non dovendosi, infatti, confondere l’aspetto del potenziale riconoscimento del contributo esterno in un qualunque momento della vita dell’associazione con quello della sua durata», soprattutto in considerazione del fatto che, secondo i giudici di legittimità, possono ben ipotizzarsi anche forme di vera e propria partecipazione «destinate, ab origine, ad una durata limitata nel tempo».

Con riferimento all’obiezione fondata sulla «dinamica di tipizzazione causale» che accomunerebbe partecipazione e concorso esterno rendendo le due figure sovrapponibili (cfr. al riguardo, Insolera, G., Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di stato e gli inganni della dogmatica, cit., 426), il massimo organo nomofilattico contesta l’inesattezza della sua premessa, secondo la quale condotte descritte unicamente in relazione al loro orientamento causale non sarebbero tra loro distinguibili, sul rilievo che in tal modo si perverrebbe «all’insostenibile esito» di negare la configurabilità del concorso eventuale in tutte le fattispecie causalmente orientate, a cominciare dall’omicidio.

Quanto alla configurabilità del concorso eventuale nel delitto di associazione mafiosa, si è ribadita la confutazione della tesi secondo la quale la previsione di specifiche fattispecie incriminanti, condotte agevolatrici e fiancheggiatrici poste in essere da soggetti esterni all’associazione sarebbe incompatibile con l’istituto generale del concorso eventuale in un’associazione criminale. Al riguardo è sufficiente rammentare il passaggio nel quale la Cassazione nega che la previsione dell’art. 416 ter c.p. (scambio elettorale politico-mafioso) valga a scalfire l’operatività del concorso eventuale nel reato associativo, dovendosi leggere la norma «come strumento di estensione della punibilità oltre il concorso esterno, e cioè anche ai casi in cui il patto preso in considerazione, non risolvendosi in un contributo al mantenimento o rafforzamento dell’organizzazione, resterebbe irrilevante quanto al combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p.».

Sebbene sostanzialmente in linea con l’orientamento della sentenza “Demitry”, occorre segnalare come la decisione del 2002 evidenzi altresì significative innovazioni, superando, in particolare, il controverso paradigma della “fibrillazione” statuendo che la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita dell’associazione; principio che, per taluni, ha costituito «il contributo più prezioso della nuova sentenza» (così Leo, G., Un altro passo in avanti delle Sezioni Unite verso la definizione dell’istituto, cit., 74).

Altro tema di fondamentale importanza affrontato dalle Sezioni Unite attiene all’«individuazione del livello di intensità o di qualità idoneo a considerare il contributo dell’agente come concorso nel reato di associazione per delinquere», ritenendo che «il contributo richiesto al concorrente esterno deve poter essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento dell’associazione», essendo indifferente che all’extraneus sia contestata un’attività continuativa o un intervento occasionale perché in entrambi i casi «dovrà valutarsi esclusivamente se la pluralità o l’unica attività posta in essere, per il grado di concretezza e specificità che la distingue e per la rilevanza causale che esprime, possa ritenersi idonea a conseguire il risultato sopra menzionato».

Tale passaggio ha tuttavia sollevato le critiche della dottrina, laddove si è rilevata la poca chiarezza del requisito dell’“idoneità”, non comprendendosi se il relativo accertamento debba avvenire ex ante ovvero ex post (in tale direzione cfr. Fiandaca, G., La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, cit., 695).

Peraltro, secondo la Corte, «ciò che conta … non è la mera disponibilità dell’esterno a conferire il contributo rischiestogli dall’associazione, bensì l’effettività di tale contributo, e cioè che a seguito di un impulso proveniente dall’ente criminale il soggetto si è di fatto attivato nel senso indicatogli».

Con riferimento al caso del cd. «aggiustamento di un processo penale che rischia di disarticolare l’ente», specificamente al vaglio delle Sezioni Unite, si è operata una differenziazione dei presupposti di rilevanza causale della condotta a seconda che l’obiettivo venga conseguito con un’attività episodica ovvero reiterata. Nel primo caso, dovrebbe infatti essere accertato l’effettivo conseguimento dell’esito favorevole «posto che il conseguito ‘aggiustamento’ anche di un solo processo penale a favore di un’associazione mafiosa costituisce pur sempre un contributo di estrema rilevanza alle strategie del sodalizio, volte a salvaguardare la sua sopravvivenza», con conseguente punibilità a titolo di concorso esterno anche di una condotta isolata. Viceversa, nell’ipotesi di «un’attività reiterata e costante di intervento nell’ambito di una serie di procedimenti, specie se tutti dotati di caratteristiche di particolare rilevanza per il sodalizio criminale», a dire della Corte «può risultare non essenziale» l’effettivo “aggiustamento” di ogni procedimento, «dal momento che è proprio nella reiterata e costante attività di ingerenza … che va ravvisata l’idoneità del contributo apportato dall’extraneus: non potendosi dubitare che la condotta posta in essere da quest’ultimo determina negli esponenti del sodalizio la consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto di un soggetto, qualificato, operante in istituzioni giudiziarie e un tale effetto costituisce, di per sé solo, un indiscutibile rafforzamento della struttura associativa» (per le critiche dottrinarie sul tema, si rinvia a De Francesco, G.A., I poliedrici risvolti di un istituto senza pace, in Leg. pen., 2003, 707; Fiandaca, G., La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, cit., 695; Leo, G., Un altro passo in avanti delle Sezioni Unite verso la definizione dell’istituto, cit., 75).

Avuto riguardo all’elemento soggettivo, in linea con l’elaborazione giurisprudenziale precedente, la Corte afferma che diversamente dal partecipe, il quale agisce con la volontà di far stabilmente parte del sodalizio criminale, il concorrente eventuale agisce con la consapevolezza e volontà di fornire un contributo vantaggioso per l’associazione, senza tuttavia voler far parte di essa e, dunque, essendo ad esso estranea l’affectio societatis.

Il punto oggetto di rimeditazione concerne, invece, il rapporto tra il concorrente “esterno” e gli scopi del sodalizio, così come delineato, in precedenza, dalla sentenza “Demitry”, la quale aveva escluso la necessità che l’extraneus agisse con la volontà di realizzare i fini propri dell’associazione.

Ad avviso della sentenza “Carnevale”, invero, «non può postularsi la figura di un concorrente esterno nel cui agire sia presente soltanto la consapevolezza che altri agisca con la volontà di realizzare il programma criminoso dell’associazione»; al contrario, il dolo dell’extraneus, oltre ad essere caratterizzato, in negativo, dall’inesistenza dell’affectio societatis, deve essere connotato in positivo non più soltanto dalla consapevolezza ma anche dalla volontà di apportare un contributo «diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio», qualificando l’atteggiamento psicologico del concorrente esterno in termini di «dolo diretto». Ne deriva che «quanto al profilo soggettivo della fattispecie concorsuale … il discrimine tra concorso e partecipazione risiede essenzialmente nel segmento dell’atteggiamento psicologico che riguarda la volontà di far parte dell’associazione», ossia nella sussistenza o meno dell’affectio societatis.

Secondo una parte della dottrina, la Cassazione avrebbe inteso delimitare l’area di configurabilità del concorso esterno (cfr. De Vero, G., Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, in Dir. pen. e proc., 2003, 1326, secondo il quale si sarebbe al cospetto di «una precisazione con effetti tendenzialmente restrittivi, in quanto si richiede una più pregnante (intima?) adesione da parte del concorrente eventuale alle finalità istituzionali del sodalizio»). Si è altresì rilevato che l’esplicito riferimento al «dolo diretto» potrebbe semplicemente significare che il soggetto debba agire «con la sicura consapevolezza dell’efficienza del contributo» prestato (in questi termini, Leo, G., Un altro passo in avanti delle Sezioni Unite verso la definizione dell’istituto, cit., 75). In quest’ottica, la portata innovativa della pronuncia potrebbe essere ridimensionata, richiedendosi non già la condivisione, sia pur parziale, del programma criminoso da parte dell’extraneus, bensì la rappresentazione piena e sicura dell’evento, costituito dal rafforzamento dell’associazione e, dunque, dall’attitudine di quest’ultima a realizzare il proprio programma. La stessa dottrina ha inoltre osservato che, diversamente opinando, si finirebbe col «devitalizzare la figura del concorso esterno proprio sul terreno di elezione. Quello, cioè, dei soggetti la cui estraneità all’organizzazione delinquenziale è spesso proprio il frutto dell’indifferenza (culturale, etnica, etica, religiosa, ecc.) rispetto agli obiettivi (o al cemento ideologico) del programma, e che comunque sono mossi da intenti ‘non sociali’, cionondimeno esprimendo una pericolosità tipica, e spesso ben più intensa (almeno in termini di danno provocato) di quella degli appartenenti di minor rilievo dell’associazione: la pericolosità di coloro che agiscono, quale che sia il fine individualmente perseguito, con la coscienza e volontà della lesione derivante dalla conservazione o dal rafforzamento di una organizzazione criminale». Siffatta interpretazione, per quanto suggestiva, sembrerebbe tuttavia porsi in contrasto con le argomentazioni della sentenza, la quale sembra postulare la necessità di un dolo specifico anche per il concorrente esterno; un dolo, cioè, che ricomprenda nel suo orizzonte volitivo la realizzazione (anche parziale) del programma criminoso del sodalizio e non semplicemente la consapevolezza che ciò certamente si verificherà, in questo unicamente differenziandosi rispetto al dolo del partecipe “interno” che viceversa deve possedere la volontà «di far parte dell’associazione».

La sentenza “Mannino”

Alla fine del 2004, la seconda sezione penale della Cassazione emetteva un’ulteriore pronuncia (Cass. pen., 28.12.2004, n. 49691, cd. sentenza “Andreotti”), secondo la quale «la partecipazione all’associazione criminosa si sostanzia nella volontà dei suoi vertici di includervi il soggetto e nell’impegno assunto da costui di contribuirne alla vita attraverso una condotta a forma libera, ma in ogni caso tale da costituire un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all’esistenza o al rafforzamento del sodalizio». Pertanto, a dire della Corte «non è … sufficiente una condivisione meramente psicologica o ideale di programmi e finalità della struttura criminosa, ma occorre la concreta assunzione di un ruolo materiale al suo interno, poiché la partecipazione implica l’apporto di un contributo nella consapevolezza e volontà di collaborare alla realizzazione del programma societario. D’altra parte, in mancanza dell’inserimento formale nel sodalizio, è soltanto la prestazione di contributi reali che rende concreta ed effettiva, e non meramente teorica, la disponibilità e nel contempo ne materializza la prova». Con la conseguenza che «in definitiva, la Corte di Appello non si è discostata da questa impostazione, perché ha ancorato l’asserita disponibilità dell’imputato ad una serie di fatti e di considerazioni che ha ritenuti tali da rafforzare il sodalizio criminoso, anche per effetto dell’apprezzamento e della collaborazione manifestati nei confronti di alcuni dei suoi vertici». Insomma, la Corte, con riferimento ad un periodo temporale precedente all’entrata in vigore dell’art. 416 bis c.p. ha riconosciuto che la posizione di rilievo nazionale dell’imputato, che aveva manifestato la “propria disponibilità” nei confronti di “Cosa Nostra”, fosse sufficiente, in assenza di una affiliazione formale, ad integrare la condotta di partecipazione (interna) al sodalizio.

Siffatta decisione ha reso necessario un successivo intervento delle Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 12.7.2005, n. 33748), le quali hanno ulteriormente definito e precisato i presupposti, i contorni della rilevanza penale del concorso eventuale nel reato associativo, soffermandosi, segnatamente, su margini e condizioni di applicabilità dell’istituto al caso del cd. «patto di scambio politico-mafioso».

Il punto nodale afferisce il requisito della rilevanza causale della condotta posta in essere dall’extraneus in relazione al rafforzamento del sodalizio criminoso, considerato come condizione indefettibile ai fini della punibilità, nonché il modo di determinare la predetta rilevanza.

In tale sede, la Suprema Corte ha evidenziato che il contributo del soggetto estraneo deve dispiegare una efficacia causale reale, da accertare ex post sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, non essendo sufficiente la mera idoneità dell’apporto a raggiungere tale obiettivo, ossia l’astratta e potenziale proficuità per la consorteria criminale, secondo i canoni della sentenza “Franzese” (Cass. pen., S.U., 10.7.2002, n. 30328).

In particolare, si è ritenuto che il paradigma causale ed il criterio condizionalistico meglio rispondano all’esigenza di garantire il rispetto dei principi di offensività e tipicità, nella delicata operazione di selezione e delimitazione delle condotte concorsuali punibili, non potendosi ricorrere a criteri alternativi, di tipo prognostico, ove non espressamente autorizzati dal legislatore (per es., ex art. 56 c.p.).

L’affermazione necessita nondimeno di alcune precisazioni.

L’evento, da imputare eziologicamente al concorrente, è un illecito di tipo associativo; la compartecipazione criminosa, pertanto, si atteggia in modo peculiare, atteso che la condotta del concorrente accede ad un reato a concorso necessario già consumato. Si tratta, dunque, «di un contributo prestato dall’esterno nei confronti di un’entità associativa già costituita e che perdura nel tempo, secondo lo schema del reato permanente: … la condotta di sostegno dell’estraneo deve assumere a secondo polo del nesso causale un quid che ha a che fare con la struttura di un organismo criminoso già operante» (Fiandaca, G.-Visconti, C., Il patto di scambio politico-mafioso al vaglio delle Sezioni Unite, in Foro it., 2006, II, 88).

Sotto tale profilo, la pronuncia in esame perviene ad una affermazione suscettibile di generale applicazione: per «conservazione» e «rafforzamento» deve intendersi l’obiettivo potenziamento della struttura organizzativa e delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di una sua specifica articolazione settoriale; si è pertanto respinta una concezione socio-psicologica del contributo, quale incremento del credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento.

La necessità del nesso eziologico tra condotta dell’estraneo e rafforzamento dell’associazione impone all’accusa, sul piano probatorio, un onere più intenso e gravoso rispetto a quello relativo alla mera partecipazione al sodalizio mafioso.

Infatti, mentre a quest’ultimo fine è sufficiente accertare lo stabile incardinamento del soggetto all’interno dell’associazione, nella diversa ipotesi del concorso esterno si dovrà pervenire alla prova dei singoli contributi e della loro efficienza causale rispetto alla sopravvivenza o al rafforzamento del sodalizio.

Tale nesso dovrà essere accertato, conformemente all’insegnamento della sentenza “Franzese”, sulla base di «massime di esperienza» dotate di empirica plausibilità.

Tale riferimento sembra presupporre il riconoscimento, sul terreno della prova della contiguità penalmente rilevante, della difficoltà di rinvenire riscontri empirico-fattuali sussumibili sotto «leggi scientifiche di copertura» dotate di sicura affidabilità.

Si dovrà pertanto fare ricorso «a parametri di tipo valutativo che, inevitabilmente, involgono margini di discrezionalità da contenersi attraverso il riferimento al limite della ‘empirica plausibilità’ delle massime adottate». Detto sapere empirico, peraltro, «difficilmente potrà … raggiungere un livello di rigore e completezza tali da fornire sicuri parametri di giudizio utili per la prova processuale del nesso causale: tanto meno quando oggetto di vaglio siano meri atti di scambio non ancora produttivi di vantaggi materialmente tangibili per l’associazione destinataria, e perciò come tali di valenza ambigua e dunque insuscettibili di certa e univoca diagnosi circa la loro potenziale efficacia rafforzatrice dell’associazione medesima. Se questa è la situazione, allora si può incorrere nel rischio, più volte segnalato, che il persistente uso del paradigma causale … si riduca in una metafora concettuale o linguistica» (Fiandaca, G.-Visconti, C., Il patto di scambio politico-mafioso al vaglio delle Sezioni Unite, cit., 93).

Quanto all’elemento psicologico, la decisione in esame si pone in linea di sostanziale continuità con la sentenza carnevale del 2002, ritenendo necessaria la forma del dolo diretto ed escludendo la possibile rilevanza del dolo eventuale.

Il dolo dell’extraneus, dunque, è qualificato, in negativo, dall’assenza dell’affectio societatis (da intendersi quale volontà di far parte dell’associazione) e, in positivo, dalla consapevolezza dei metodi e dei fini dell’organizzazione, nonché della efficacia causale della propria attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione.

Anche sotto tale profilo, peraltro, la decisione non ha trovato il consenso della dottrina, la quale ha evidenziato la carenza di un fondamento normativo e di riscontri teorico-dogmatici (Maiello, V., Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge, in Cass. pen., 2009, 1352).

Si è rilevato, in particolare, che «una tale ricostruzione dell’atteggiamento psicologico dell’extraneus finisce con inserire, nell’area rappresentativo-volitiva riservata al concorrente esterno, elementi che sono stati invece tradizionalmente considerati peculiari della sfera psichica dell’intraneo» (Fiandaca, G., La tormentosa vicenda giurisprudenziale del concorso esterno, cit., 698).

La sentenza “Dell’Utri”

Con la sentenza della V Sezione penale del 9.3.2012 (ric. “Dell’Utri”), la Cassazione è nuovamente tornata sul tema, confermando l’orientamento della «giurisprudenza consolidata» in ordine alla configurabilità del concorso esterno in associazione anche mafiosa «sulla base dei requisiti che, nel tempo, sono stati via via sempre più dettagliatamente rimarcati». La sentenza riprende i principi elaborati dalle Sezioni Unite del 2005, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo. In particolare, la Corte ha ribadito la natura permanente del reato in questione, che si ravvisa nella «condotta di chi favorisca un accordo … di cui sa e vuole che produca effetti di conservazione e/o di rafforzamento per il sodalizio mafioso», soffermandosi soprattutto sull’elemento psicologico ed affermando che «ai fini della configurabilità del concorso esterno, occorre che il dolo investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, agendo il soggetto, nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio». La Corte ha altresì precisato che «non rileva … accertare perché l’agente abbia agito nel modo ritenuto rilevante ex artt. 110, 416 o 416 bis c.p., mentre è sufficiente e decisivo dimostrare, con ragionamento completo e logico, quello che le sezioni unite hanno definito ‘doppio coefficiente psicologico’, ossia quello che deve investire, perché possa dirsi sussistente il reato, il comportamento dell’agente e la natura di esso come contributo causale al rafforzamento dell’associazione», oltre alla prova della «coscienza e volontà che l’apporto risulti diretto alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio»: una prova quest’ultima che, ad avviso della Corte, non risulta attribuita all’area del dolo specifico, bensì in quella del dolo diretto «nel senso della coscienza e volontà, che l’agente deve avere, di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell’associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato». La Corte esclude dunque la figura del concorso eventuale, rilevando che «la mera accettazione, da parte del concorrente esterno, del rischio di verificazione dell’evento (rafforzamento del sodalizio, connotato dal suo programma delinquenziale), ritenuto probabile o possibile, non basta a configurare il reato. Occorre … che la realizzazione del fatto tipico mediante l’evento di rafforzamento o conservazione sia rappresentata e voluta dal concorrente esterno, nel senso che egli abbia ‘accettato e perseguito’ il detto obiettivo, anche a prescindere dagli ulteriori scopi avuti di mira».

In dottrina, l’analisi si è soprattutto appuntata sulla requisitoria del Procuratore Generale, Francesco Iacoviello, della quale si è sostanzialmente condivisa l’invocata necessità di formulare capi di imputazione nella maniera più precisa e dettagliata possibile non solo per consentire il diritto di difesa, «ma anche per promuovere l’ottimale implementazione delle garanzie del giusto processo conforme a Costituzione» (così, Maiello, V., Luci ed ombre nella cultura giudiziaria del concorso esterno. Ancora sulla requisitoria del p.g. Iacoviello nel processo Dell’Utri, in Dir. pen. contemp., I, 2012, 265).

Si è altresì mostrata adesione all’impostazione della requisitoria nella parte in cui ha escluso la possibilità di attribuire natura permanente al concorso esterno, in quanto «se così fosse, non riuscirebbe possibile differenziare in concreto un concorso ‘permanente’ da una vera e propria partecipazione (interna) all’associazione» (in tal senso cfr. Fiandaca, G., Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica. Considerazioni sollecitate dalla requisitoria del p.g. Francesco Iacoviello nel processo Dell’Utri, in Dir. pen. contemp., I, 2012, 251).

La necessità di un intervento legislativo

Da quanto precede sembrerebbero maturi i tempi per una presa di coscienza, da parte del legislatore, ad assumere su di sé, «senza tacite deleghe alla giurisprudenza, la responsabilità politico-criminale della disciplina normativa della ‘contiguità’ mafiosa» (cfr. sul punto, De Vero, G., Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, cit., 1327, nonché Maiello, V., Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge, cit., 1364).

In una prospettiva di riforma, si sono adombrate da parte della dottrina tre possibili soluzioni: una prima, potrebbe essere quella di affiancare, nella fattispecie di base, alla partecipazione in senso stretto, una più ampia e generica condotta di “sostegno” nei confronti dell’associazione mafiosa; soluzione questa che, «tuttavia, recherebbe il solo vantaggio di legittimare “dall’interno” della norma incriminatrice l’espansione della condotta di partecipazione, ma resterebbero pressochè immutati i problemi sostanziali relativi ai profili di determinatezza soprattutto con riferimento alla cruciale questione del potenziale conflitto tra agevolazione penalmente rilevante ed attività di per sé lecite o addirittura costituenti espressione di attività legittime o esercizio di doveri» (così De Vero, G., Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, cit., 1327).

Seguendo un secondo percorso si potrebbero prevedere, sulla scorta di dati empirico-criminosi di consolidato riferimento, specifiche fattispecie incriminatrici destinate a colpire, in sintonia con il carattere “frammentario” della reazione penalistica, situazioni tipiche di significativa “contiguità” con le organizzazioni mafiose (in tal senso, De Vero, G., Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, cit., 1327; De Francesco, G.A., I poliedrici risvolti di un istituto senza pace, 706). Tale soluzione, però, implica il rischio di non rispondere adeguatamente alle variegate forme di “contiguità” proposte dal preoccupante percorso evolutivo del fenomeno mafioso.

Secondo una terza via il legislatore potrebbe optare per la configurazione di un’ipotesi generalissima di agevolazione dolosa, tale da ricomprendere una totalità di comportamenti che contribuiscono alla crescita dei sodalizi mafiosi (percorso scelto dalla proposta di legge Pisapia, presentata l’8.4.1998, con la quale si è tentato di introdurre l’art. 379 bis c.p. «Favoreggiamento o agevolazione di associazione di tipo mafioso»; cfr. altresì la proposta di Visconti, C., Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003, 494, nonché la proposta di Patalano, V., Riflessioni e spunti sulla contiguità alla mafia, in Riv. pen., 2004, 933). Questa scelta, sebbene non riesca certamente a bloccare l’“appetito estensivo” dell’art. 110 c.p., ha sicuramente il pregio di sottrarre all’interpretazione giurisprudenziale l’obbligo di pronunciarsi in via di principio sulla rilevanza penale di condotte esterne all’associazione, trovando tali condotte la loro tipizzazione ad opera del legislatore (sull’argomento, v. Maiello, V., Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge, cit., 1366). Bisogna ribadire come questa opzione legislativa appaia più rispettosa della personalità della responsabilità penale, essendo auspicabile che il legislatore «sottoponga le condotte agevolatorie a regimi sanzionatori affievoliti rispetto a quelli sanciti per le condotte di partecipazione al sodalizio, con possibilità di equiparazione nelle sole ipotesi, qualificabili in termini circostanziali, in cui l’intervento dell’agente produca, effettivamente, un rafforzamento rilevante dell’associazione» (così, Maiello, V., Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge, cit., 1367). Anche in questo caso sarebbe necessario che la previsione normativa fosse accompagnata da un’apposita clausola di inapplicabilità delle norme in materia di concorso di persone nel reato. Ove così non fosse, continuerebbero a rimanere aperti i dubbi di una residua applicabilità delle norme sul concorso eventuale di persone (sul punto cfr. De Vero, G., Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, cit., 1328; Patalano, V., Riflessioni e spunti sulla contiguità alla mafia, cit., 933).

Ad ogni modo, dato l’inestricabile nesso tra tipicità del delitto associativo e problema del concorso esterno, si rende necessario che qualsivoglia riforma investa anche la questione del sistema dei delitti associativi. Al riguardo, si è auspicato di tenere conto anche di quell’orientamento che ne evidenzia la struttura “mista” imposta dalla definizione del metodo, come «necessità di riscontrare una serie ripetuta di attuali fatti di minaccia e di violenza personale e reale» (così, De Vero, G., I reati associativi nell’odierno sistema penale, in I reati associativi, Centro naz. di prev. e difesa sociale, 1998, 32).

Va infine segnalata la posizione di chi (Vassalli, G., Note in margine alla riforma del concorso di persone nel reato, in Studi in onore di G. Marinucci, 2005, 1939), ha rilevato che «le riforme per determinati reati associativi, anche se lodevolmente ispirate dal desiderio di maggiore determinatezza, sono, fin quando possibile, da evitarsi, in quanto la proliferazione di fattispecie diverse nella stessa materia rischia di essere fonte di una confusione ancora maggiore. La soluzione andrebbe piuttosto cercata nella modifica della parte generale del codice ed, in particolare, nella riforma dell’istituto del concorso di persone nel reato, attraverso clausole generali adattabili ad ogni tipo di reato, ivi compresi i reati plurisoggettivi, procedendo ad una tipizzazione differenziata delle varie forme e tipologie concorsuali, soddisfacendo così una maggiore esigenza di tipicità e determinatezza».

Per un maggior approfondimento in ordine ad i Progetti di riforma del codice penale in materia, si rinvia alla voce .

In ogni caso, a prescindere dalla via che si intenderà seguire, è opportuno che il legislatore si assuma al più presto la responsabilità di disciplinare normativamente l’area della “contiguità” mafiosa, ponendo in tal modo fine all’incessante travaglio giurisprudenziale del concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso.

Fonti normative

Artt. 110, 378, 416, 416 bis, 416 ter, 418 c.p.; art. 7 d.l. 13.5.1991, n. 152, convertito con l. 12.7.1991, n. 201; artt. 3, 24 Cost.

Bibliografia essenziale

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