CONDOTTIERI

Enciclopedia Italiana (1931)

CONDOTTIERI

Giovanni Battista Picotti

Si ebbero condottieri da quando si raccolsero le compagnie di ventura (v.): si suole tuttavia dare questo nome particolarmente ai capi delle compagnie di ventura italiane; poiché nelle compagnie straniere la persona del capo non era mai perfettamente distinta dalla compagnia, di cui quegli era piuttosto l'agente per gl'interessi comuni che il dominatore nell'interesse proprio; mentre in quelle italiane l'individualità del condottiero si afferma più esplicita, sicché egli raccoglie intorno a sé le soldatesche per un suo fine di guadagno, o di potenza, o di gloria.

Egli è talvolta un signore di feudi o di città, col quale gli stati che lo chiamano devono conchiudere un vero trattato, garantendogli lo stato suo presente e gli acquisti futuri e lasciandogli, dentro certi lim¡ti, libertà d'azione; il nucleo primo delle soldatesche è allora composto di familiari, di vassalli, di sudditi. Così Alberigo da Barbiano conte di Cunio, Federico da Montefeltro, i Malatesta di Rimini, i Gonzaga di Mantova, il marchese Guglielmo del Monferrato, Ercole d'Este, Cesare Borgia, Francesco Maria della Rovere, i Colonna, gli Orsini, i Baglioni, i Caldora furono tra i condottieri più insigni. Ma altre volte il condottiero è un antico soldato, che ha mutato nelle armi gli umili arnesi dell'arte paterna, o si è volto ad esse dopo che le vicende politiche o la sua irrequietezza l'hanno cacciato a ramingare fuor della sua terra. Braccio da Montone è un fuoruscito perugino, Attendolo Sforza è di una famiglia di agricoltori di Cotignola, il Carmagnola è nato da contadini, il Piccinino da un beccaio, da un fornaio il Gattamelata. La fama del guerriero basta a raccogliere i venturieri intorno alle sue bandiere.

Nell'uno e nell'altro caso la milizia è scelta, disciplinata, pagata dal condottiero, il quale solo conchiude i patti con lo stato che richiede l'opera sua, e solo è responsabile della buona condizione delle truppe e delle azioni di guerra, e ne ha i premî o le pene. Su queste milizie egli esercita potere illimitato; per loro ha, d'altra parte, cure quasi paterne. E i soldati si legano ai condottieri con un vincolo, che talvolta la morte stessa non riesce a spezzare.

Si formano così vere scuole di guerra, ciascuna delle quali si distingue per caratteristiche proprie. Era celebrata, nei primi decennî del Quattrocento, la scuola braccesca per l'impeto dell'assalto; la sforzesca per la sapienza nei movimenti strategici e tattici; Bartolomeo Colleoni fu maestro insieme di arditezza e di prudenza. Sulla fine del secolo, fu celebre per calcolata lentezza la scuola di Gentile Virginio Orsini; e l'Alviano e il Pitigliano si distinguevano, nei primi decennî del seguente, quello per l'ardore nell'assalto, questo per la fermezza nella difesa.

Come le attitudini militari, così sono varie nei condottieri le qualità dello spirito. Cavalleresco insieme e feroce, amante del fasto, dispregiatore di religione Braccio; semplice nei modi e nelle vesti, valoroso e pio, e tuttavia freddo calcolatore dell'interesse personale e familiare Attendolo Sforza; astuto e fermo il Gattamelata; fiero, risoluto, protervo il Colleoni; rozzamente violento e signorilmente elegante Sigismondo. E assai diversa la cultura. Ad alcuno, come ad Attendolo, la vita tumultuosa del condottiero non consente di far suoi i tesori delle lettere, ch'egli va faticosamente accattando. Ma Federico da Montefeltro legge i poeti e gli storici antichi e i padri della Chiesa e raccoglie in Urbino la biblioteca famosa; Pandolfo Malatesta scrive in latino elegante, conosce il francese e il provenzale, compone sonetti in italiano; Sigismondo Pandolfo è dotto nella scienza dell'antichità e nella filosofia, sceglie per il suo tempio di Rimini l'Alberti, traccia col Valturio il disegno delle scarpate del castello.

Ma in tutti vi è la sete di lasciare ai posteri memoria imperitura di geste celebrate, di mecenatismo, di opere d'arte immortali. Per questo essi chiamano intorno a sé umanisti e poeti, che illustrano con fittizie genealogie un immaginario passato di gloria, o celebrano col canto le imprese del novissimo eroe. Per questo s'innalzano palazzi magnifici e templi e cappelle, nei quali una pietà cristiana, forse non mentita, si unisce con una pagana ostentazione di gloria: il ricordo di Federico da Montefeltro è glorioso per il palazzo e la cattedrale di Urbino, per i palazzi di Gubbio, di Cagli, di Casteldurante; quello di Sigismondo Malatesta per il tempio e il castello di Rimini; e Bartolomeo Colleoni lascia col santuario della Basella e con la cappella di Bergamo gioielli d'arte e riduce la "solitaria terretta" di Malpaga a residenza principesca.

Ma, oltre che alla gloria futura lo sguardo dei condottieri mira alla potenza presente. Quanti di essi posseggono un dominio si studiano di ampliarlo, quanti sono sorti dal nulla vogliono avere almeno una terra fortificata. E lo sguardo si leva più in alto: i più ambiziosi e arditi sognano uno stato, a spese del nemico, o del signore stesso o del comune a cui servono: talvolta il condottiero si muterà improvvisamente in padrone. E, più in alto ancora, al predominio, se non al dominio sull'Italia. Per quest'ambizione i condottieri attizzano guerre senza posa, prolungano quelle che sono iniziate, si frappongono nelle lotte cittadine per volgerle a loro profitto, passano dall'uno all'altro padrone, con quasi universale slealtà. Il gioco è rischioso: può riservare non solo insuccessi momentanei, ma perdite irnparabili; il Carmagnola e molti altri pagarono con la vita una defezione vera o temuta. Ma esso promette anche altissimi onori. I più abili e fortunati raggiungono in tutto la meta. Sorgono numerose signorie di condottieri, alcune delle quali per vero si dissolvono con la rapidità stessa con cui si sono formate, ma altre perdurano: Braccio da Montone può rientrare nella nativa Perugia (1416) e dominarvi fino alla morte (1424); Bartolomeo Colleoni governa parecchie terre del Bergamasco (1465-75); più felice d'ogni altro, Francesco Sforza ascende al seggio ducale di Milano (1450). Più d'uno di questi uomini, induriti nelle armi, spiega un'insospettata abilità di governo: lo Sforza è il maggiore uomo politico dell'Italia del'400.

Così la storia d'Italia è, per tutto un secolo, strettamente legata alle ambizioni, alle lotte, alle fortune dei condottieri.

La vittoria di Alberigo da Barbiano a Marino (1379) apre l'età dei grandi condottieri italiani; la fortuna militare di Gian Galeazzo Visconti è dovuta ad Alberigo stesso, a Iacopo dal Verme, Ottobono Terzi, Pandolfo Malatesta, Facino Cane; alla morte del Visconti, l'ambizione dei suoi condottieri per poco non fa scomparire il ducato di Milano e la potenza viscontea.

Poi Braccio da Montone e Attendolo Sforza, ambedue usciti dalla scuola di Alberigo, si contendono il terreno nel Patrimonio e nel Regno e decidono delle sorti politiche dei pontefici e della vicenda fra l'Aragonese e l'Angioino; il Carmagnola, il Gattamelata, Niccolò Piccinino, Francesco Sforza combattono, or dall'una or dall'altra parte, la lunga guerra tra Filippo Maria Visconti e le repubbliche di Venezia e di Firenze; e intorno alla successione dei Visconti si affaticano Carlo e Ludovico Gonzaga, Astorre Mannedi, Micheletto Attendolo, Iacopo Piccinino, il Colleoni, lo Sforza. Ma, col giungere di questo al dominio di Milano, con la pace di Lodi e la Lega Italica (1454-55), l'età dei condottieri volge alla fine; l'esempio dello Sforza ammonisce gli altri e lui stesso del pericolo delle loro ambizioni, sicché egli, e dietro a lui principi e repubbliche, tendono a fare che i soldati siano sudditi o, se occorra, ad assoldare mercenarî separatamente; l'equilibrio politico italiano, per quanto malfermo, offre minor campo alle lotte e alle cupidige dei condottieri. Combattono ancora, alleati fra loro o nemici, sigismondo Malatesta e Federigo da Montefeltro, Iacopo Piccinino e il Colleoni, Roberto Malatesta; ma nessuno riesce a risultati cospicui e durevoli. Sulla fine del secolo e all'inizio del XVI, hanno grande fama i Sanseverino, Gian Giacomo Trivulzio, Virginio Orsini, Prospero e Fabrizio Colonna, i Vitelli e i Baglioni, l'Alviano, il Pitigliano, Renzo da Ceri; ma ormai non essi decidono delle sorti d'Italia, bensì gli stranieri calati nella penisola, anche se questi si servano di condottieri e di soldati italiani. E già la discesa e la ritirata di Carlo VIII hanno dimostrato l'inferiorità dell'arte di guerra dei condottieri italiani di fronte alle disciplinate fanterie e alle potenti artiglierie straniere. Il prestigio di Giovanni de'Medici riesce ancora a creare le Bande Nere, i resti delle quali, morto Giovanni, combattono onoratamente nel Regno, a difesa di Firenze e, con Pietro Strozzi, in Francia, a Parma e a Siena. Ma Giovanni è l'ultimo dei grandi condottieri italiani.

I condottieri avevano suscitato energie guerresche talvolta mirabili, sollevato l'animo a non dispregevoli ambizioni politiche; avevano fatto compiere alla milizia grandi progressi, per la maggiore disciplina e le azioni più ordinate, e condotto la guerra a una vera opera d'arte; avevano diffuso l'impiego delle artiglierie da campagna, combattuto battaglie talora aspre e tutt'altro che incruente, diretto marce e ritirate che nella strategia militare rimasero famose. Avevano anche ottenuto belle vittorie sugli stranieri e portato fuori d'Italia la fama delle armi italiane. Tuttavia il giudizio sfavorevole del Machiavelli sulle milizie mercenarie e sui loro capitani merita ancora di essere ripetuto, perché ai condottieri, o certo alla maggior parte di loro, mancò il senso della misura e della disciplina, mancò la visione di un interesse più alto che non fosse la soddisfazione di cupidige personali: le ambizioni loro, la slealtà, la febbre del combattere, lo sconvolgimento che avevano recato alla vita politica italiana contribuirono troppo largamente a quell'esaurirsi delle forze militari e politiche italiane, che fu tra le cause principalissime delle vittorie e del dominio straniero.

Bibl.: Si vedano le opere citate alla voce compagnie di ventura; inoltre A. Fabretti, Biografie dei capitani venturieri dell'Umbria, Montepulciano 1842-51, e i lavori speciali citati sotto le voci dei singoli condottieri.

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